Un europeo distinto tra italiani grossolani

La politica è fatta anche di mediazione fra idee e interessi diversi, l’importante è che questa avvenga ai più alti livelli possibili. Non sembra il caso della trattativa in atto fra il governo italiano e la commissione europea alla ricerca di un onorevole compromesso, che consenta un certo qual rientro della manovra economica nei parametri di bilancio fissati a livello comunitario.

Da entrambe le parti si gioca a fare i furbi in un tira e molla davvero poco edificante. Il governo italiano fa molta fatica a ingoiare il rospo: si è spinto elettoralisticamente troppo avanti e la marcia indietro risulta assai problematica. Anche la Commissione ha i suoi componenti cattivi e buoni. Sembra che il presidente Jean Claude Juncker svolga un ruolo di “colomba” contro tutti: Dombrovskis e gli altri sarebbero sostenitori di una linea dura con l’italia.

Non l’avrei mai detto. Tutti ricordano gli insulti, assai poco velati e molto minacciosi, rivolti da Matteo Salvini a Juncker: per dirla senza eufemismi si andava dall’ubriacone al ladro.  Ebbene pensavo che prima o poi ce l’avrebbe fatta pagare. Per ora sembra proprio di no, addirittura Juncker ci sta dando una mano, dimostrando un’eleganza notevole e impartendo una lezione di stile ai buzzurri nostrani. Meno male che c’è Juncker…e la Francia con i suoi strappi alle regole, che trasforma in mezzo gaudio i nostri mali finanziari.

Giovanni Tria è tenuto “ostaggio” a Bruxelles finché non si troverà la quadra: il ministro dell’economia non ha un compito facile e sinceramente non lo invidio. Da una parte si può dire come abbia voluto una bicicletta e si sia accontentato addirittura di un monopattino duro da spingere e quindi ora non gli resti che rischiare un’ernia politica più o meno strozzata; dall’altra parte, complice, come pare, il presidente della Repubblica, sembra stia svolgendo il difficile ruolo di difensore dell’Europa in un coro di antieuropeisti ed euroscettici. Anche il premier Giuseppe Conte è venuto a miti consigli e sembra più in difficoltà con i suoi goliardici vice-presidenti che con gli austeri commissari europei. Sullo sfondo l’Italia di cui forse non interessa veramente niente a nessuno, salvo a Sergio Mattarella, che imperterrito svolge egregiamente il suo compito istituzionale rappresentando al meglio l’unità nazionale.

Come finirà? Uno straccio di accordo lo troveranno. “Si vis pacem, para bellum” (se vuoi la pace, prepara la guerra), dice una locuzione latina di autore ignoto. Il problema è che il governo italiano, soprattutto ad opera dei sedicenti leader dei partiti di maggioranza investiti di alti incarichi ministeriali (la riprova dell’opportunità di distinguere gli incarichi di partito dalle funzioni di governo), non ha preparato la guerra (una gara troppo dura aprire un conflitto vero e proprio con la Ue), ma ha perso la testa confezionando un gran casino in cui lui stesso non riesce a districarsi, premessa di una finta pace, che rinvia tutto alle prossime scadenze.

Non ho mai amato il dilettantismo nello sport, figuriamoci nella politica. Sì, perché siamo veramente, a livello italiano, in mano ad una squadra di dilettanti allo sbaraglio presentati da Co…nte. Meglio i professionisti-burocrati di Bruxelles dei dilettanti-politici di Roma.

La riforma del perdono

A Napoli, quartiere Pignasecca, il salumiere Antonio Ferrara dopo una giornata di lavoro sta abbassando la saracinesca per far ritorno a casa. Avviene tutto all’improvviso: un uomo gli punta la pistola al volto, vuole i soldi, è una rapina. Antonio, cardiopatico, dallo spavento si accascia a terra e muore. Aveva 64 anni, era conosciuto e benvoluto da tutti. Nel quartiere al dolore si unisce la rabbia con il solito contorno di richieste di riforme: più sicurezza, più telecamere, più vigili urbani, più lavoro.

Il giovane parroco celebra i funerali e durante l’omelia rivela un fatto: il figlio del rapinatore, un ragazzo che fa un cammino di fede, scioccato e addolorato per quanto accaduto, ha chiesto di incontrare Pietro il figlio della vittima, per chiedergli perdono. Pietro ha accolto la richiesta e in sagrestia, al riparo da qualsiasi inopportuna intrusione, i due giovani, piangendo, si sono abbracciati.

Un fatto che merita molta attenzione sul piano religioso, ma anche qualche riflessione laica. Il discorso legato alla fede lo lascio alla coscienza delle persone e delle comunità cristiane. In questo caso però bisogna ammettere che la fede ha molto da dire alla società. Qualcuno si pone la questione se valga la pena esporre il crocifisso nei locali pubblici e, in periodo natalizio, se sia opportuno allestire il presepe nelle aule scolastiche. Il problema lo hanno radicalmente risolto i due giovani con la loro testimonianza, che ci grida in faccia di smetterla di strumentalizzare il dolore per creare un clima di paura e di sfiducia.

Non si può pretendere che tutti i cittadini abbiano lo stesso coraggio dimostrato da questi giovani, ma che tutti capiscano come non bastino un decreto, un divieto, un’arma per difendersi dalla delinquenza e dal male che alberga nella nostra società. Se non vogliamo recuperare il senso religioso, riprendiamo almeno quello civico, fatto di reciproco rispetto fra cittadini e istituzioni, ripuliamo la nostra coscienza democratica, guardiamo anche oltre le leggi per puntare ad una coesistenza fatta di giustizia, solidarietà e pace.

“La politica è la forma più alta di carità” hanno detto autorevolissimi esponenti religiosi. Mi permetto di aggiungere che la carità, pur in versione laica, è il presupposto fondamentale della politica. Conversando con un caro amico impegnato in politica, a proposito del problema dell’accoglienza agli immigrati, mi sono sentito dire che “lo Stato italiano non è la Caritas”. Giustissimo! Però tutti i componenti dello Stato, a qualsiasi livello e a seconda delle proprie responsabilità, devono tenere in debito conto quanto dice san Paolo a proposito: la carità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità.

Alla luce di questo mastodontico valore proviamo ad esaminare il comportamento dei politici e dei cittadini di fronte alla politica. Un disastro! L’esatto contrario rispetto all’invito paolino. Se è vero che il perdono, come dice la stessa etimologia della parola (donare completamente), è un dono, pur non essendo un integralista cattolico, sono convinto come, per dirla con le appropriate parole pronunciate dal parroco di San Liborio alla Carità durante le esequie della vittima della drammatica rapina di cui sopra, perdonare sia l’unica possibilità che abbiamo per far morire il male, per non permettergli di continuare a farci e fare male.

Alcuni sostengono che ci sia il rischio di cadere nel perdonismo, vale a dire in una sorta di deriva deresponsabilizzante in cui tutto alla fine viene permesso, o nel sociologismo in cui tutto viene giustificato dalle contraddizioni della società. Rispondo con una frase dell’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, Nobel per la pace nel 1984, un uomo sempre in prima linea nella lotta all’apartheid in Sudafrica: “Senza perdono non ci può essere futuro per un rapporto tra individui, all’interno di una nazione o tra le nazioni”.

La lingua batte dove il dente islamico duole

Del terrorismo di matrice islamica ce ne dimentichiamo, tutti presi e distratti dall’inconcludente dibattito politico interno, salvo accorgercene quando capita qualche attentato con tanto di morti e feriti. Come spesso accade, l’autore dell’azione svoltasi a Strasburgo, piena di riferimenti storici (il solito odio contro i francesi), politici (un attacco alla sede del Parlamento europeo), religiosi (sangue sul Natale cristiano), è un soggetto radicalizzato, vale a dire un elemento che ha fatto la scelta della violenza quale testimonianza religiosa e lotta politica. Tornano a galla i soliti nodi concettuali.

Qualcuno giudica fuorviante la distinzione tra Islam moderato e Islam radicale: una schematizzazione meramente strumentale per tentare di devitalizzare la carica esplosiva del dente islamico, un dente che duole assai e sul quale la nostra lingua batterebbe solo per evitare la definitiva e risolutiva estrazione. Effettivamente di fronte al travolgente istinto fanatico dei cosiddetti radicali, si registra qualche (?) incertezza e qualche (?) balbettio, da questo punto di vista fin troppo moderato: qualcuno potrebbe pensare infatti che la moderazione non sia indirizzata tanto verso l’applicazione dottrinale della fede islamica, ma nei giudizi interlocutori e prudenti sul fanatismo dei correligionari estremisti. Credo tuttavia che non ci sia scelta religiosa, culturale, sociale e politica che possa prescindere da un rapporto costruttivo con i musulmani, orientati al dialogo e/o almeno alla coesistenza pacifica (per non chiamarli moderati, se il termine può essere equivoco o sconveniente).

Poi c’è il discorso della caccia al terrorista, che si dimostra sempre piuttosto debole: gli autori degli attentati risultano quasi sempre essere iscritti negli elenchi in possesso delle polizie. A Strasburgo sembra che addirittura l’autore della strage, già incarcerato in passato, dovesse essere arrestato il mattino stesso per reati comuni: sono andati al suo domicilio e non l’hanno trovato. Aveva preso il volo e probabilmente, sentendosi braccato, ha buttato, come si suol dire, l’imam nella merda e ha anticipato l’attentato al mercatino. Ho l’impressione che sia come cercare l’ago nel pagliaio: si riesce a individuare il pagliaio, ma l’ago sfugge. Tutto ciò sta a significare che le ricette facili a livello poliziesco non possono risolvere un problema così complesso e difficile.

Speriamo si tratti di code impazzite di un fenomeno quasi sconfitto nella sua sede geopolitica, ma nutro seri dubbi: la sconfitta sul campo potrebbe rinfocolare desideri mai sopiti di vendetta e di rivalsa. Noi giustamente continuiamo a sostenere che questi fatti traumatici non devono comunque condizionare o frenare il corso democratico del nostro sistema, né tanto meno scombussolare la nostra scala valoriale ed il nostro modo di vivere. Sono e non sono d’accordo: se intendiamo non deflettere dai principi che caratterizzano la nostra società, penso sia giusto e indiscutibile; se invece pensiamo di vivere nella società perfetta, ci illudiamo e sarà bene fare qualche esamino di coscienza prima di chiuderci presuntuosamente nel nostro guscio.

Occorre allontanare la tentazione di cercare scorciatoie nell’intolleranza razzista, nella generalizzata squalifica degli immigrati e dei musulmani (considerati tutti potenziali terroristi e quindi esorcizzati a tappeto, prima, durante e dopo il loro arrivo), nella contrapposizione identitaria a livello religioso (lasceremo costruire moschee in occidente solo il giorno in cui nei paesi musulmani si potranno costruire chiese cristiane), nella bagarre di un anti-terrorismo di stampo meramente poliziesco (schedature: non servono o quanto meno non risolvono; carcere: è il luogo di radicamento ideale; rimpatri: sono una pia illusione). Non si tratta di fare del buonismo, anzi sarà bene cominciare, sul piano culturale e sociale, a fare i conti con le incertezze del moderatismo islamico e gli equivoci di una religiosità musulmana fasulla e strumentale. Tuttavia al dialogo, al confronto, all’integrazione pacifica non esistono alternative. Riprendo la metafora dentale: la nostra lingua batte dove il dente islamico duole, un dente che non può essere estratto, ma da curare, otturare e devitalizzare.

 

 

 

Governo buono-governo cattivo

La tecnica del “poliziotto buono-poliziotto cattivo” è una tattica psicologica utilizzata negli interrogatori. Il poliziotto cattivo adotta un atteggiamento aggressivo con commenti sprezzanti, giochetti e suscitando un senso di antipatia. Il poliziotto buono, che interviene generalmente in seconda battuta, ma comunque più o meno contemporaneamente, è amichevole, comprensivo in modo da alleggerire i toni e suscitare simpatia. Il soggetto interlocutore è dunque spinto a collaborare dal senso di gratitudine verso il poliziotto buono e dalla paura di una reazione negativa del poliziotto cattivo.

Questa tecnica è utilizzata anche in politica: quando i governi fanno azioni da molti non condivise o contraddistinte da poca umanità, viene data risonanza alla voce di altri membri appartenenti ai partiti della medesima coalizione governativa per contentare gli elettori non concordi nel merito delle azioni dure e aggressive. L’attuale compagine governativa si caratterizza per le notevoli divergenze di comportamento e di programma al proprio interno: molti ci vedono una precarietà politica destinata quanto prima a deflagrare in una crisi, io sono propenso a intravedervi più (almeno anche) la suddetta tecnica del “poliziotto buono-poliziotto cattivo”.

Gli esempi non mancano, sono all’ordine del giorno. Se il M5S propone una schifosa gabella, chiamandola enfaticamente ecotassa ed ammantandola di ambientalismo spinto, subito interviene la Lega a frenare ed a rassicurare gli automobilisti vecchi e nuovi, messi in allarme dall’uscita (di testa) grillina. Se li M5S continua a minacciare l’interruzione della Tav, nascondendosi dietro un impossibile e inattendibile calcolo costi-benefici, facendo andare su tutte le furie le categorie economiche convinte di ottenere grossi vantaggi dalla realizzazione di questa infrastruttura, la Lega è pronta a sposare la causa dei sì-tav e ad incontrare le associazioni imprenditoriale per rassicurarle sugli aspetti più espansivi della manovra economica, salvo la replica del ministro grillino allo sviluppo economico, che rivendica la primazia in materia e la controreplica del leghista Salvini, che non tarderà a farsi sentire. Se la Lega prende atteggiamenti durissimi contro gli immigrati in arrivo, i cinquestelle, almeno con qualche loro esponente, si dimostrano molto più ragionevoli ed accoglienti. Si potrebbe continuare, perché la solfa è interminabile e stucchevole.

Il bello è che questo atteggiamento altalenante viene adottato anche in sede Ue, in generale e in particolare sullo scontro inerente alla manovra economica ed al suo superamento dei parametri di bilancio fissati in sede comunitaria. Da una parte si tende a forzare il discorso, ritenendo irrinunciabili gli obiettivi e le promesse elettorali, arrivando persino ad offendere i commissari europei o comunque a trattarli a pesci in faccia; dall’altra entrano in campo i governanti buoni, Conte e Tria, i quali regalano sorrisi e ostentano speranza in una costruttiva trattativa, che arrivi alla quadratura del cerchio. Se gli elettori italiani sono ingenui al punto da accettare il giochino di cui sopra (non so fino a quando…), i commissari europei e l’establishment comunitario non credo gradiscano molto questa recita insistita e inconcludente. Prima o poi si arriverà al nocciolo della questione e, se ci salteremo fuori, non sarà per merito del doppiogiochismo pentaleghista, ma grazie alle iniezioni di ragionevolezza e senso di responsabilità fatte da Mario Draghi e Sergio Mattarella: se non ci fossero loro a condizionare il confronto con abilità, discrezione, coerenza e credibilità, saremmo in un mare di guai. Speriamo che basti.

 

A colpi di piazza

Un mio amico, anomalo comunista, non poteva soffrire il linguaggio e la prassi, fatti di “lotta e massa”, un miscuglio demagogico ed inconcludente capace soltanto di indebolire le istituzioni democratiche. Chissà cosa direbbe oggi con la politica ridotta a piazzaiola contrapposizione sui temi di più forte impatto.

In questi giorni abbiamo avuto una manifestazione “Sì Tav” a cui ha fatto ben presto seguito un’adunata “No Tav”, in mezzo una piazzata leghista a sostegno dell’azione governativa di Salvini, desideroso di un largo e popolare mandato a trattare con la Ue sulla manovra economica. Il M5S deve rendere conto alle migliaia di manifestanti che gli chiedono di tener fede agli impegni elettorali inerenti la brusca interruzione dei lavori sulla Torino- Lione. La Lega, tramite il suo indiscusso leader, sarebbe invece propensa a concludere positivamente il grosso progetto infrastrutturale, anche su richiesta del mondo imprenditoriale del quale sente il fiato sul collo. Le due piazze sono state pesate: molto più rilevante quella dei contrari. In mezzo il ministro Toninelli pateticamente appeso al calcolo costi-benefici, che non arriva a conclusione.

Questa rissa a colpi di piazza è democrazia? No!  È un pericoloso scontro extra-istituzionale, che porta soltanto confusione ed illusione. Dietro queste pericolose adunate oceaniche si cela un profondo contrasto politico fra le due forze di governo: si stanno invertendo i colori, la lega sta diventando gialla come i gilet francesi, il M5S sta diventando verde in nome della difesa oltranzistica dell’ambiente. Da una parte c’è il discorso grillino, che torna ad un bagno ambientale rigenerante con tanto di ecotasse e benzina a quattro euro al litro; dall’altra parte la spinta salviniana al “liberi tutti” contro l’Europa e contro gli establishment interni ed esteri. Il collante comincia a scarseggiare: non ho capito se le piazze Tav siano benvenute o subite. Beppe Grillo sta capendo il pericolo dello snaturamento doroteo del suo movimento e quindi lo sta aizzando e riportando su temi originari, ma di chiaro impatto anti-leghista. Matteo Salvini finge di non sentire il freno a mano tirato pentastellato, non può rinunciare all’onda consensuale che lo conforta e fa il diavolo a quattro per proporsi quale vero leader della politica italiana sempre più collocata a destra.

Le istituzioni stanno a guardare. Il Parlamento frigge sulla graticola della camaleontica manovra economica; il governo cuoce a fuoco lento nella pentola europea. Si salva e speriamo ci salvi il Presidente della Repubblica, che tenta disperatamente di spegnere il gas e di riportare tutti alla ragionevolezza (il suo exploit alla Scala di Milano vale molto di più delle piazze suddette). Una confusione simile è meno violenta, ma ancor più pesante di quella francese: cinicamente si può dire che la nostra non si sfoga e ci blocca ancor di più. Si fa presto ad essere anti-politici, a cavalcare gli umori del popolo, a scendere in piazza. Finito il clamore, restano i problemi. Oltre tutto bisogna essere capaci di “piazzare” i colpi vincenti.

Silvio Berlusconi sta interpretando epidermicamente la situazione, cercando simpaticamente di recuperare qualche briciola di credibilità: la gag dei cessi continua e fotografa nitidamente e plasticamente l’inconsistenza grillina. Peccato che non abbia una gag su misura per il suo recalcitrante alleato (?) leghista. Per caso non starà mica pensando al PD? In una confusione di idee, ruoli e programmi, come quella attuale, tutto è possibile. D’altra parte un pensierino ce l’aveva già fatto prima delle elezioni, salvo uscirne talmente ridimensionato da non avere più carte da giocare.  Non gli resta che continuare con i cessi, sperando che il confronto, fra i gabinetti governativi attuali e le sue eleganti toilette a latere dei bunga-bunga, finisca col premiarlo. Chiudo col PD: fa casa per conto suo. Vuoi vedere che in un casino del genere, alla fine verrà premiata la sua triste e “ombelicosa” diversità?

 

La ripresa è fuggita, moriamo disperati

Non c’è più speranza di migliorare: siamo passati dal miracolo all’incubo. Abbiamo paura degli immigrati: perché ci sottrarrebbero posti di lavoro e perché aumenterebbero il tasso di criminalità. Abbiamo timore di spendere: non spendiamo nemmeno quello che abbiamo a disposizione, non spendiamo in istruzione. I laureati calano e i giovani vanno alla ricerca della celebrità anche e soprattutto attraverso i social network. Gli occupati giovani calano, in particolare quelli laureati, aumentano i giovani sottoccupati e quelli con part-time involontario. Cresce lo squilibrio fra Nord e Sud. Quasi un terzo degli italiani non vota, scarsa la fiducia nell’Europa, solo i giovani apprezzano l’Unione, soprattutto per la libertà di viaggiare, studiare e lavorare ovunque all’interno dei Paesi membri.

Sono i dati piuttosto sconfortanti e preoccupanti emergenti dal 52° Rapporto Censis, che parla appunto di “sovranismo psichico” e delinea il ritratto di Paese in declino, in cerca di sicurezze che non trova, sempre più diviso tra un Sud che si spopola e un Centro-Nord che fa sempre più fatica a mantenere le promesse di lavoro, stabilità, crescita, soprattutto futuro. Un’Italia sempre più disgregata, impaurita, incattivita, impoverita e anagraficamente vecchia. Il direttore generale del Censis, Massimiliano Valerii afferma: “Gli italiani sono profondamente delusi. Una prima forte delusione è quella di aver visto sfiorire la ripresa che l’anno scorso e fino all’inizio di quest’anno era stata vigorosa, e che è invece svanita sotto i nostri occhi, con un Pil negativo nel terzo trimestre di quest’anno dopo 14 mesi di crescita consecutiva. L’altra delusione è che l’atteso cambiamento miracoloso promesso dalla politica non c’è stato, oltre la metà degli italiani afferma che non è vero che le cose siano cambiate sul serio. E adesso è scattata la caccia al capro espiatorio: dopo il rancore, è la cattiveria che diventa la leva cinica di un presunto riscatto”.

Il Censis è un autorevole istituto italiano di ricerca socio-economica fondato nel 1964: la descrizione che fa del Paese credo sia impietosamente attendibile, ma in buona parte inspiegabile. Solo in parte infatti risponde a quelli che io chiamo i misteri dell’economia: gli italiani non spendono mentre nei week end il traffico va in tilt per la gran quantità di gente che si sposta e non mi si verrà a raccontare che mangiano un panino con la mortadella seduti su una panchina e dormono su duri materassi di crine nelle foresterie di conventi e collegi. I giovani sono disoccupati, sottoccupati o precariamente e parzialmente occupati, ma i bar traboccano di giovani per gli “apericena” e le discoteche sono autentici formicai giovanili, dove si mangia, si beve (anche troppo), si fuma (non certo sigarini alla menta), se ne combinano di tutti i colori e al ritorno si sfida la morte sfrecciando su automobili di lusso. Un mio carissimo e simpatico amico sosteneva che chi non ha soldi da spendere o non vuole comunque spendere deve andarsene a letto presto, perché il solo mettere un piede fuori casa è premessa di spesa inevitabile. Quindi vorrei capire come il Censis riesca a combinare i suoi dati (l’incubo, lo scoraggiamento e la sfiducia di giovani e meno giovani) con la realtà effettiva ed indiscutibile di cui sopra. Ma lasciamo perdere: non voglio (s)cadere nelle solite lamentazioni da vecchio barbogio, dal sapore vagamente berlusconiano.

Probabilmente il rapporto del Censis risente della debolezza scientifica delle due discipline in cui è fortemente impegnato: l’economia e la sociologia. Come scritto più volte e senza voler offendere con la mia ignoranza la competenza altrui, nutro poca stima nei confronti di sociologi ed economisti. I sociologi, come detto anche da autorevoli ed altolocati critici, si dedicano, più o meno abilmente, alla elaborazione sistematica dell’ovvio, fanno una fotografia, più o meno nitida, della situazione. Gli economisti elaborano teorie, che si rivelano sempre e sistematicamente sbagliate: in parole povere non ci pigliano mai.

Mi incuriosisce in particolare quanto afferma il direttore generale del Censis. Gli italiani si aspettavano una tenuta della crescita faticosamente avviata negli ultimi tempi ed un cambiamento della politica e con ogni probabilità hanno votato in base a questi desideri, banalmente espressi soprattutto dalla promessa di un pensionamento più facile e di un sostegno per individui e famiglie viventi in povertà. Prima delle ultime elezioni i dati che esprimevano una certa ripresa economica erano snobbati come falsi e strumentali indicatori: erano le “balle” che raccontava Matteo Renzi. Ora sembra invece che la ripresa ci fosse e che grande sia la delusione per il suo svaporamento attuale e repentino. Quanto alla politica del cambiamento bisognava essere molto ingenui per credere che bastassero un ignorante alla Di Maio e un demagogo alla Salvini per innovare il modo di governare e capovolgere le situazioni.

Visto che queste attese si rivelano fasulle, gli elettori si starebbero incattivendo ulteriormente alla ricerca di un ipotetico quanto improbabile riscatto. E allora, come mai i sondaggi di opinione danno in sensibile crescita la Lega e in solo lieve calo il M5S? Dove sta la delusione? Solo nelle astensioni? Non mi pare emerga un’inversione di tendenza nei consensi e quindi evidentemente gli italiani continuano a credere che niente Europa, niente politica, niente studio, niente sacrifici siano ricette miracolose. Non so quale possa essere il Santo capace di aiutare gli italiani: tutto sommato, seppure sempre più rancorosi, cattivi ed inaciditi, continueranno ad accendere lumi e candele ai Santi pentaleghisti attualmente sugli altari. Tutto rinviato al prossimo rapporto Censis.

 

Mattarella all’opera

L’Attila, con il quale la Scala di Milano ha inaugurato la sua stagione operistica (spettacolo bello pur nella sua pesantezza scenografica, registica e financo musicale), passerà alla storia non per gli interpreti vocalmente prestanti (Verdi era ancora legato più ai ruoli che ai personaggi), non per la direzione di Riccardo Chailly esageratamente propenso a spremere l’impossibile da un’opera che ha la sua bellezza nella stringata alternanza tra momenti banali e puntate sentimentali, non per la messa in scena colossale e ridondante di ammiccamenti (a quando la fine delle ormai logore e stucchevoli trasposizione storiche?), non per la solita sarabanda alla milanese di elegantone con generosi seni in precaria e provocatoria visibilità, di personalità in impettita permanente esibizione e di media attenti solo al lussuoso guscio dell’evento, non per il successo generosamente e genericamente tributato dal pubblico, ma per il più lungo applauso che un presidente della Repubblica  potesse incassare al netto del solito vuoto cerimoniale.

Il folto pubblico della Scala ha tributato un’accoglienza strepitosa a Sergio Mattarella con un interminabile e partecipato applauso. Tutti hanno colto la particolarità del fatto, forse pochi hanno cercato di capirne il poliedrico e profondo significato.  Quando Riccardo Chailly, sorpreso dall’intensità e dalla lunghezza dell’applauso, si è girato verso il palco reale con la bacchetta alta e con un chiaro cenno di adesione alla festa, si è capito che tutta l’Italia voleva dare un segnale di apertura a tutto il mondo tributando un chiaro elogio ed un solidale invito al Presidente: l’elogio per come viene interpretato il suo massimo ruolo istituzionale, per lo stile con cui viene svolta la sua funzione, per la sobrietà dei suoi modi, per la credibilità della sua storia personale, per la sua capacità di rappresentare le migliori istanze e caratteristiche del Paese. Fin qui la strameritata deferenza a livello istituzionale e costituzionale.

Ma c’era dell’altro: la franca e cordiale richiesta al presidente affinché ci liberi dal cialtronismo dilagante e prevaricante, ci restituisca la politica nella sua più alta accezione, ci riapra dignitosamente le porte dell’Europa e del mondo, ci riconsegni un Paese, come lui spesso afferma, unito e solidale nella ricchezza delle diversità, lontano dalla povertà delle lacerazioni. Siamo alla riproposizione della cultura democratica contenuta nella Costituzione.

Ma come non vedere in quei frenetici battimani, in quei “bravo presidente”, una sintonia politica: la voglia di uscire dal tunnel governativo del nulla per tornare ad essere governati e non strumentalmente aizzati contro tutto e tutti. Così come Mattarella ha correttamente preso atto della volontà espressa dagli elettori, non esitando a rinfoderare le sue sacrosante armi di fronte allo sconfortante balletto dei vincitori, emerge la speranza che ora faccia un altrettanto corretto pressing istituzionale su chi sta predicando male e razzolando ancor peggio. Non so cosa sia passato nel cervello e nel cuore del Presidente durante quell’interminabile applauso, sfociato in un inno nazionale coinvolgente come non mai. Avrà rivisto il corpo esanime del fratello ucciso dalla mafia e si sarà detto: allora non tutto era ed è perduto. Avrà rivisto tutta la sua lunga testimonianza politica ed istituzionale ed avrà pensato: allora la politica esiste ancora. Immerso in una città come Milano, in un teatro come La Scala, in un evento seguito in tutto il mondo avrà riflettuto: allora l’Italia è una grande nazione, che sa guardare oltre i propri confini. Forse si sarà commosso. Io, davanti alla televisione, lo ero veramente e sinceramente.

 

Il coraggio della rinuncia

“Mi ritiro dalla corsa”. Marco Minniti in una intervista a Repubblica spiega di avere preso questa decisione “per salvare il PD”. Infatti, dice “c’è il rischio che nessuno dei candidati raggiunga il 50% e arrivare al congresso così “sarebbe un disastro”. “Con Renzi non ci siamo sentiti – dice – ma spero che nessuno pensi a scissioni perché indebolire il PD oggi significa indebolire la democrazia italiana (…) e una scissione sarebbe un regalo ai nazional populisti”. Poi punta il dito contro Lega e M5S: “Abbiamo un governo che in 6 mesi ci ha portato a un passo dalla recessione”.

Peccato! Una persona seria e capace fatta fuori sbrigativamente o meglio, un esponente politico, che capisce la delicatezza del momento e si fa da parte per tentare di semplificare la bagarre all’interno del PD. Ritirandosi dalla corsa, Minniti fa tre inviti che mi sento, nel mio piccolo, di condividere pienamente. Innanzitutto mettere ordine nel pollaio dove troppi galli si contendono le galline, mentre le galline andrebbero rispettate, capite e aiutate. In secondo luogo non pensare e lavorare per allestire un altro pollaio: la volpe e la faina non aspetterebbero altro. In terzo luogo fare opposizione ad un allevatore di polli, che ci sta costringendo ad essere vegetariani.

Chiedo scusa della similitudine animalesca, che tuttavia penso renda l’idea. Perché in politica, ma non solo in politica, le persone serie non riescono ad incidere sulle situazioni e sono costrette a farsi da parte? Viviamo l’epoca del trionfo dei cialtroni, favorito dalla insulsa bagarre mediatica e dalla superficialità ai limiti del menefreghismo. Guardavo con una certa attenzione a Marco Minniti: lo ritenevo adatto a guidare il PD nella fedeltà ai principi, ma anche nella concretezza delle soluzioni. Lo ritenevo un politico serio, capace di sintetizzare la storia della sinistra italiana e di trasferirla dal campo delle velleità a quello delle volontà risolute ed efficaci. Evidentemente sono diventato una sorta di Re Mida a rovescio: tutto quello che politicamente mi piace svanisce in breve tempo. I casi sono tre: o non capisco niente di politica o la politica non fa per me oppure il mondo è talmente cambiato che non riesco a tenergli dietro. Magari di tutto un po’.

Ammetto di essere rinunciatario per natura e quindi di ammirare coloro che hanno il coraggio di rinunciare. Qualcuno pensa che questo atteggiamento dipenda da presunzione e da pigrizia. Per me può anche darsi. Per Minniti non credo. Mio padre rispettava ed ammirava i veri maestri ma non sopportava i finti maestri, supponenti e chiusi nella loro presunta superiorità accademica. Riporto in merito un piccolo episodio che raccontava con un po’ di dispetto e di astio verso chi sa darsi dell’importanza, verso chi si fa dare del lei dal garzone, ma alla fine mostra la sua grassa ignoranza.

Al termine dei lavori di costruzione di una moderna chiesa periferica di Parma, così essenziale da essere definita da mio padre “l’amàs dal gràn”, gli architetti si accorsero con sorpresa che il soffitto a capanna sembrava piatto, perché la pendenza dei due lati era insufficiente (la terminologia non è precisa e chiedo scusa agli architetti, a quei due in particolare). Mio padre si scandalizzò ma non disse nulla e tra sé pensò che “l’amàs dal gràn” stava emergendo inequivocabilmente ed irrimediabilmente. Era tardi e non si poteva ovviare, pena rifare completamente il tetto (rimedio inattuabile). La pensata per uscire dalla clamorosa impasse fu di dipingere il soffitto a due tonalità diverse di colore in modo da prendere lucciole per lanterne. Mio padre eseguì e tacque, ma non digerì la questione che divenne paradigmatica per bollare l’atteggiamento dei progettisti supponenti.

Se da una parte simpatizzava per l’umiltà dell’impegno, dall’altra finiva per cedere amaramente, peraltro solo a parole, alle convenzioni di un mondo sbagliato: “S’at spét che l’importansa a t’la daga chiètor…bisogna lavorär ‘d gommod”. Evidentemente Marco Minniti ha preferito risparmiare i propri gomiti, puntare l’indice della propria mano per poi mettersi le gambe in spalla.

 

Il Fico fruttuoso

Rispondendo ai cronisti a margine di un evento ai Lincei, il presidente della Camera Fico ritiene che il Global Compact sulle migrazioni vada “assolutamente firmato”. “Invito tutti a leggere bene il testo”, dice, “perché se si legge bene il testo” si vede che “è una gestione globale fatta con gli altri Paesi e quindi un’affermazione del multilateralismo sull’immigrazione. Serve all’Italia per non isolarsi sulla questione”. Fico si esprime indirettamente anche sul dl sicurezza: “La mia assenza al voto finale interpretata come presa di distanza? È stata interpretata bene”.

È quasi fisiologico che un politico investito di una della più alte cariche dello Stato prenda le distanze dal suo partito per mettersi, entro certi limiti, al di sopra delle parti. Roberto Fico proviene dal M5S e, pur essendo stato eletto alla presidenza di Montecitorio in base ad un accordo tra i pentastellati e il centro-destra, riesce a svolgere il suo ruolo in modo corretto, obiettivo ed imparziale: mosca bianchissima in un momento politico in cui la faziosità tende a trasformarsi in rissa continua.

Le esternazioni di Roberto Fico vanno però oltre la mera correttezza istituzionale, intesa in senso burocratico, per tentare di andare direttamente al cuore dei problemi del Paese ed esprimere un pensiero, libero dagli stretti vincoli di partito ed attento alla vita del Paese ed ai suoi primari interessi. Non ha paura quindi di smarcarsi dalla rigida disciplina del suo movimento per ragionare ad alta voce con la sua testa, in base soprattutto al buon senso prima ancora che a considerazioni di carattere politico. Forse è stato collocato su quell’alto scranno proprio in quanto “grillino anomalo”, probabilmente per neutralizzarne l’eventuale atteggiamento critico verso le scelte pentastellate. Anche il suo pedigree lo colloca ad un livello nettamente superiore ai colleghi di partito, per preparazione, esperienza e carriera politica. Aggiungiamo pure che evidenzia, anche umanamente parlando, un atteggiamento ragionevole e dialogante.

Non intendo dare significati eccessivi e fuorvianti al comportamento di Fico, ma non mi dispiace il suo modo di ricoprire l’alto incarico assegnatogli ed aggiungo che i suoi interventi sono sempre molto pertinenti e obiettivi, quasi a richiamare i colleghi deputati a mettere innanzi a tutto gli interessi dei cittadini rappresentati. Non credo si tratti del grillino buono che stempera le cattiverie dei grillini cattivi, nemmeno del contraltare moderato e simpatizzante al rigido e antipatizzante Luigi Di Maio, men che meno di una riserva di lusso del M5S da mettere in campo nei tempi duri che verranno.

Fatto sta che osa distinguersi continuamente, anche se discretamente, dalle scelte del governo e della maggioranza parlamentare, in particolare rispetto a quelle condizionate e caratterizzate dalla Lega. Non è un caso che il vice-presidente Salvini lo abbia ripetutamente invitato a stare al suo posto, a rispettare i patti, in poche parole a starsene zitto e buono. In merito al decreto sicurezza il ministro degli Interni, contro le perplessità espresse da Fico in modo piuttosto clamoroso, ha ribattuto: “Chi contrasta il dl sicurezza non ho capito se lo ha letto”, lasciando intendere un’accusa di ignoranza e/o di faziosità preconcetta. Il presidente della Camera non fa neanche una piega, va per la sua strada e fa benissimo. Spero che la sua lezione sia recepita a livello di cultura istituzionale, ma anche di opportunità politica e serietà strategica. Se poi metterà in crisi il M5S o almeno aprirà una crepa all’interno dello stesso è affare soprattutto del grillismo attivo e passivo, di cui non faccio parte.

Il caos rovinoso del PD

Notizia del giorno: il grande freddo cala come una coltre di neve tra Marco Minniti e Matteo Renzi. Il primo intende candidarsi alla guida del Pd, il secondo sembrava orientato ad appoggiarlo, ma ultimamente snobba vistosamente il congresso, in ben altre faccende affaccendato. Robe che avevano poco senso quando i partiti erano all’apice della loro credibilità, immaginiamoci oggi in una contingenza politica che li vede come il fumo negli occhi.

Se “non” si vuole risolvere un problema si fa una commissione; è il caso di aggiungere malinconicamente che se “non” si vuole fare politica si fa un congresso. Siamo arrivati a questo punto. Devo nostalgicamente riandare con la mente al congresso democristiano a cui, giovanissimo componente degli organi di partito a livello provinciale (si badi bene non del movimento giovanile, ma del partito vero e proprio), partecipai, seppur come uditore, a Roma nel 1969. Un assise vera e palpitante, con scontri al limite delle seggiolate: Aldo Moro fece uno storico intervento, col quale divenne il leader della sinistra interna e durante il quale si scatenò un putiferio tale da far temere il peggio. Solo l’astuzia e l’abilità dei due cavalli di razza evitò una rissa clamorosa: Fanfani, che presiedeva il congresso, si scambiò alcune battute ironiche con Moro, il clima si stemperò e ritornò la calma, anche se le idee forti continuarono a caratterizzare lo scontro. Quelli sì che erano congressi…

Il partito democratico ha avviato in questi giorni la fase congressuale: emergono parecchie candidature alla segreteria e fin qui niente di scandaloso, anzi. Fra i tira e molla del “mi candido-non mi candido” si colloca il posizionamento strumentale dell’ex segretario Matteo Renzi: non si capisce se vuol partecipare al dibattito congressuale o se sta pensando a fare l’ennesimo partito della sinistra oppure una nuova ed anacronistica Democrazia Cristiana oppure un partito nuovo di zecca a sua immagine e somiglianza. La malattia del protagonismo a tutti i costi è entrata nel PD e non c’è calo di consensi che tenga: si rischia di impostare un congresso a prescindere dal Paese, andando alla spasmodica ricerca di un posto al sole in tempo di eclissi.

Il PD è nato dalla combinazione tra i valori della sinistra progressista cattolico-democratica e quelli dei post-comunisti riveduti e corretti: finalmente le due correnti politiche fondamentali del dopoguerra, imprigionate dalla guerra fredda, contrapposte sul campo dei principi della democrazia, condizionate dall’interruzione del percorso compromissorio che avrebbe dovuto portare alla terza fase ideata da Aldo Moro, trovavano una sintesi per arrivare a costituire il partito di centro sinistra nel contesto del bipartitismo nascente. Purtroppo il concepimento di questa nuova creatura politica era più frutto del sacrosanto tatticismo antiberlusconiano che non del lancio di una sinistra democratica e riformista capace di coniugare i valori storici, vale a dire libertà ed uguaglianza, sviluppo economico e giustizia sociale, capitalismo e riformismo, collocazione occidentale ed europeismo. Questa fusione, che molti hanno definito “a freddo”, non ha funzionato ed è rimasta impigliata nel groviglio fra un nuovismo pragmatico e choccante e un burocratismo conservatore, retrogrado e schematico. Dei valori di partenza si è perso il profumo e la spinta.

Si sente la mancanza di una forza politica che sappia interpretare in modo moderno il socialismo democratico e riformista. Almeno io sento questa mancanza. Mio padre si considerava ed in effetti era un socialista senza socialismo (almeno a livello nazionale) e lo si deduceva da come spesso sintetizzava la storia della sinistra in Italia, recriminando nostalgicamente sulla mancanza di un convinto ed autonomo movimento socialista, che avrebbe beneficamente influenzato e semplificato la vita politica del nostro paese. Siamo ancora lì, al palo. Nel frattempo contro il berlusconismo, bene o male, abbiamo fatto diga, ma adesso ci sono da fare i conti con una destra reazionaria ed estremista paradossalmente alleata con un movimento dell’antipolitica populista: una fusione a caldo da cui rischiamo di essere seriamente scottati.

In questo scenario preoccupante il Pd è nel caos, non un caos calmo, ma un casino pazzesco. Possibile che non si riesca a trovare la quadra per rilanciare un partito credibile di sinistra? Le schermaglie e le scaramucce congressuali non servono a nulla, i personalismi sono deleteri e fuorvianti. La smettano per favore di litigare sui tatticismi del niente (allearsi o meno col M5S) e comincino a confrontarsi seriamente sui contenuti e sulla strategia (i problemi visti in una speranza costruttiva della loro soluzione). La gente, pur confusa e imbarazzata, aspetta questo. Non faccio nomi di esponenti del PD, chiedo solo che riprendano a fare politica con la dovuta serietà. La gente capirà…