Paradisi fiscali e finanziamenti infernali

Fiat Chrysler Automobile N.V. (FCA), azienda italo-statunitense di diritto olandese, è un produttore multinazionale di autoveicoli, ottavo gruppo automobilistico al mondo per numero di veicoli prodotti. Nata nel 2014 dalla fusione tra l’italiana Fiat S.P.A. e lo statunitense Chrysler Group, fanno parte di FCA parecchi e importanti marchi. La società è quotata sia alla borsa di New York che a quella di Milano.

Prendo la notizia pari-pari dall’Agenzia “QuiFinanza”. Ebbene c’è anche FCA Italy tra le aziende che potrebbero godere della garanzia statale sui prestiti bancari (tramite SACE) per far fronte alla crisi economica scaturita dall’emergenza sanitaria. La notizia è stata anticipata da Milano Finanza e poi ripresa dalle principali agenzie di stampa nazionali e internazionali. E, anche se non ci sono conferme dirette da parte di SACE o della stessa FCA, pare che la pratica sia in una fase avanzata di valutazione.

E, viste le cifre che girano attorno a questa presunta richiesta, la notizia ha destato parecchio scalpore. Secondo le anticipazioni fornite dal quotidiano economico milanese, FCA Italy avrebbe chiesto il massimo consentito dal Dl Liquidità: il 25% del fatturato fatto registrare dalla società lo scorso anno. Tradotto in soldoni, 6.3 miliardi di euro di finanziamenti concessi da Intesa Sanpaolo e un pool di altre banche con lo Stato (attraverso il “braccio operativo” di SACE) che farebbe da garante per l’80% dell’ammontare. Ossia, nel caso in cui FCA Italy non fosse in grado di ripagare il debito, le casse dell’erario potrebbero essere costrette a restituire 5 miliardi di euro alle banche creditrici.

Come detto, sulla faccenda vige il più assoluto riserbo dalle parti in causa (ossia, FCA Italy, Intesa Sanpaolo e SACE), ma, stando alle fonti di Milano Finanza, la richiesta di prestito dalla società del gruppo Exor sarebbe stata avanzata già alcune settimane fa e tutto farebbe supporre che potrebbe ricevere il nulla osta di SACE e del governo. Inoltre, FCA otterrebbe anche una garanzia sull’80% del capitale richiesto anziché sul 70% in considerazione del suo carattere di interesse nazionale.

Nel caso il prestito venisse garantito, però, FCA Italy dovrebbe sottostare ad alcune condizioni imposte dall’Esecutivo. Prima di tutto, non dovrebbe erogare dividendi agli azionisti né per il prossimo anno (previsto da 1,1 miliardi) né per i prossimi anni. Inoltre, non potrebbe effettuare riacquisto di azioni proprie in un momento di andamento ribassista del mercato.

Secondo alcuni analisti, poi, la concessione del prestito con garanzia statale potrebbe avere ricadute anche sul progetto di fusione con i francesi di PSA, la cui definizione dovrebbe arrivare tra circa 12 mesi. Dagli accordi pre-pandemia, agli azionisti FCA sarebbe toccato un maxi-dividendo da 5,5 miliardi straordinario. Che, probabilmente, non potrebbe essere più erogato in caso di accesso al prestito da 6,3 miliardi. La richiesta della branca italiana di Fiat Chrysler Automobiles ha immediatamente provocato una ridda di reazioni non esattamente positive, a livello politico ed economico.

Ho volutamente abbondato nel riferimento testuale alle notizie sull’argomento per capire meglio e per meglio esprimere un mio personale giudizio, provando a non scadere nel moralismo e nel pauperismo. La crisi economica indotta dalla pandemia tocca in modo sensibile il mercato automobilistico e quindi non stupisce più di tanto che una grande azienda protagonista di questo mercato possa soffrire di grosse difficoltà. Per dirla con una battuta velenosa, col coronavirus anche i ricchi piangono. Bisogna poi considerare gli enormi effetti economici e sociali, a livello di indotto e di occupazione, che ha la crisi di un simile colosso, il quale evidentemente sta evidenziando di avere i piedi finanziari d’argilla, anche se la situazione è talmente straordinaria da prescindere da ogni e qualsiasi valutazione sulla sua robusta costituzione, che evidentemente però non è a prova di bomba-coronavirus.

La prima spontanea riflessione è di carattere etico: se nel periodo di vacche grasse uno scappa di casa per andare alla ricerca di migliori condizioni fiscali (per pagare meno tasse, insomma), se recita cioè la parte del “figlio speculatore” (il contrario del figliol prodigo), non è credibile, quando arrivano le vacche magre, e ritorna alla magione per chiedere aiuto, oltre tutto alla sua famiglia d’origine in grosse difficoltà con i restanti figli. Non si può approdare ai cosiddetti paradisi fiscali (l’Olanda nel caso specifico) per poi tornare nel purgatorio nei momenti in cui c’è il rischio di sprofondare nell’inferno. Il discorso dei paradisi fiscali andrebbe una buona volta eliminato a livello Ue, armonizzando seriamente i sistemi tributari nazionali, ma è clamorosamente evidente come vi sia chi salta da una nazione all’altra a seconda delle convenienze del momento: non è giusto e non è accettabile.

La seconda riflessione è di carattere finanziario e riguarda la destinazione degli utili della Fca: si parla di distribuzione di rilevanti dividendi ai soci pur finalizzati ad una certa strategia aziendale. Ebbene, in questo momento mi pare che dovrebbe essere doveroso rivedere questi discorsi: il governo italiano, a cui si chiede di prestare garanzie consistenti e rischiose, ha tutti i motivi per chiedere prioritariamente un impegno a livello di autofinanziamento. Per le società cooperative, dal momento che godono di trattamenti fiscali e finanziari agevolati da parte dello Stato, vige il pesante divieto della distribuzione degli utili ai soci, imponendo l’accantonamento a fondo riserva indivisibile. La Fca non è una cooperativa, ma ha goduto e gode di favori pubblici e se li deve meritare: i soci facciano la loro parte, rinuncino ai dividendi e poi semmai si potrà parlare di prestiti garantiti dallo Stato.

La terza riflessione è di ordine macroeconomico: attenzione a non sopravvalutare il ruolo della grande impresa nello sviluppo socio-economico del nostro sistema, a non appiattirsi sugli interessi confindustriali, a non correre dietro ai poteri forti che vogliono ritrovare forza a spese del governo. Il boom nel secondo dopoguerra, sui cui allori stiamo ancora cullandoci, non lo hanno fatto le grandi imprese, ma lo ha determinato la miriade di piccole imprese, quel tessuto che oggi è messo sempre più a rischio. Nel commercio vige il regime imposto dalla grande distribuzione; nell’artigianato sembra non esserci più spazio per la cultura dei prodotti e servizi tipici; nell’agricoltura dettano le condizioni i mercati dominati dalla grande industria e dalla grande distribuzione; nei consumi vige la più totale delle irrazionalità.

Riaffacciandomi nelle strade, nelle piazze e nei negozi, mi sono accorto di quanta buona volontà, di quanto gusto, di quanto stile, di quanta serietà rimanga nell’operosità di tanta gente appartenete al tessuto connettivo della nostra società. Gli aiuti pubblici devono privilegiare questi canali virtuosi. Sì, piccolo è bello! Grande è molto spesso fuorviante.

 

 

Non basta la buona fede al ministro Bonafede

Ho seguito in modo parziale e frammentario il dibattito al Senato al termine del quale sono state respinte le due mozioni di sfiducia contro il ministro della giustizia Alfonso Bonafede, conseguenti, almeno dal punto di vista temporale, ai contrasti emersi  nei rapporti con i vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e con la scopertura di un altarino di vecchia data, ma tornato d’attualità su impulso di un giudice che si era sentito malamente accantonato dal ministro dopo che gli era stata chiesta la disponibilità a dirigere quel delicato ufficio. Sono venuti a galla dubbi e sospetti sui quali ha marciato l’opposizione, sovrapponendo la tentata e strumentale sputtanata finale ad un percorso di errori e manchevolezze del ministro in questione. Vicenda peraltro molto strana, che non si chiarirà mai, che non era conosciuta e che è tornata improvvisamente d’attualità, rovesciando addosso ad Alfonso Bonafede il pesantissimo sospetto di essere stato “sensibile” o non sufficientemente “insensibile” o comunque condizionato o condizionabile da parte di ambienti e da poteri riconducibili alla mafia o giù di lì.

Credo che il ministro non abbia alcun contatto con il mondo malavitoso, ritengo sia un galantuomo, mi sento di affermare, utilizzando un banale gioco di parole, che il ministro Bonafede sia in totale buona fede. Giudico tardiva, esagerata e per certi versi inspiegabile l’iniziativa del giudice Di Matteo, un impeachment sui generis, volto a portare a galla una vicenda molto probabilmente dovuta ad equivoci ed errori procedurali, ma non a marce indietro causate da condizionamenti malavitosi.

Discorso diverso è il giudizio sull’operato complessivo di questo ministro, piuttosto impreparato, obiettivamente confusionario, pressapochista e inconcludente sui gravi problemi che attanagliano da tempo la giustizia nel nostro Paese. Alfonso Bonafede in questo è figlio più che legittimo del movimento cinque stelle e non a caso è stato eletto per acclamazione a capo delegazione pentastellata e guida quindi la pattuglia ministeriale del M5S all’interno del secondo governo Conte: mostra tutta la corda della sua incompetenza e della sua inesperienza. Non basta velleitariamente sventolare alcune bandiere di lotta alla criminalità per fare la battaglia per la giustizia giusta: si finisce infatti per fare del giustizialismo che fa rima con populismo.

Da questo punto di vista il ministro è poco difendibile, infatti lo hanno dovuto nascondere dietro la lavagna dell’intero governo, facendo balenare il rischio che, se fossero passate le mozioni di sfiducia tutto il governo sarebbe andato in crisi con effetti devastanti sull’attuale situazione politica. E Bonafede si è salvato in corner, incassando una “non sfiducia” assai poco onorevole e soddisfacente. La pentola di diffuso e articolato malcontento, che bolle da parecchio tempo sotto il suo mandato ministeriale, è stata spenta per carità di governo, ma è pronta a ricominciare la bollitura alla prima occasione.

Mi chiedo se sia giusto difendere l’azione di un ministro a prescindere dai suoi meriti e dalle sue manchevolezze, ma mi chiedo anche se sia corretto attaccare di petto l’azione di un ministro prendendo spunto da una vicenda tutta da chiarire e circoscritta nell’area dei sospetti. Anche la nobile e brava Emma Bonino si è lasciata coinvolgere in questa vicenda, pur avendo preso spunto e abilmente affondato il colpo nel merito delle questioni irrisolte e/o mal risolte dal ministro in questione (soprattutto e innanzitutto la vergognosa situazione carceraria).

Una breve sottolineatura merita anche il fatto che chi ha sostenuto in passato la linea delle dimissioni in sede politica sulla base anche del semplice sospetto, quando è venuto il suo turno abbia respinto sdegnosamente i sospetti senza rassegnare le dimissioni. Se il giustizialismo non è giusto, ancor meno lo è se applicato in modo fazioso solo agli avversari politici.

 

I catafalchi alla riscossa

Ad accusare l’esecutivo stavolta non sono i governatori del centrodestra ma il Democratico Vincenzo De Luca. “La Campania non è d’accordo e non ha sottoscritto l’intesa Stato-Regioni che alcuni media presentano come condivisa all’unanimità – dice il governatore -. Su alcune norme di sicurezza generale deve pronunciarsi il ministero della Salute, non è possibile che il Governo scarichi opportunisticamente tutte le decisioni sulle Regioni. Non è accettabile”.

Mettiamoci d’accordo: da una parte si spinge sull’acceleratore dell’autonomia regionale, dall’altra si tira il freno a mano della responsabilità del governo centrale. Non so dar torto agli uni e agli altri. Il discorso del regionalismo è molto delicato: dimenticato per decenni, varato con eccessive speranze ed entusiasmi, cavalcato dai leghisti, frettolosamente pompato dalla sinistra, tuttora forse più vetrina per governatori locali che mostra reale di buongoverno. Massimo Cacciari definisce in modo impietosamente colorito le regioni: catafalchi burocratici.

L’emergenza coronavirus è diventata l’occasione infausta per verificare sul campo la capacità governativa delle regioni: la prova è troppo straordinaria per essere attendibile. Indubbiamente una certa concorrenzialità fra le istituzioni può essere anche positiva se avviene in un quadro chiaro di competenze, altrimenti diventa l’occasione per creare confusione e disorientamento. Non è facile andare d’accordo quando incalzano problemi enormi e, tutto sommato, bisogna riconoscere che c’è stata una certa collaborazione fra governo e regioni, pur con tutti i limiti e i difetti di un sistema alquanto contraddittorio, pur con tutti i rischi di strumentalizzazione politica da parte delle regioni disomogenee rispetto all’attuale governo centrale, pur con tutte le spinte corporative a cui le regioni sono territorialmente più sensibili, pur con tutte le solite contrapposizioni tra il nord propenso a sentirsi primo della classe e il sud tentato dal fare le boccacce da dietro la lavagna in cui si sente relegato.

Occorre rimettere mano all’asseto costituzionale regionale per chiarirlo, razionalizzarlo e definirlo meglio: su molti settori ci sono sovrapposizioni e conflitti latenti a livello di competenze. Il discorso di fondo deve senz’altro essere quello della valorizzazione delle autonomie, garantendo tuttavia equilibrio e solidarietà nei rapporti fra le diverse regioni.

Siamo sempre pronti a criticare giustamente e aspramente l’impostazione egoistica dei rapporti fra gli Stati dell’Unione europea e poi ci pestiamo i piedi fra italiani? Gli Stati del nord-Europa stanno tagliandoci fuori dai circuiti turistici, stipulando accordi con partner appetibili dal punto di vista turistico e meno colpiti dal coronavirus. Una penosa dimostrazione di egoismo nazionale, che porta acqua al mulino dei sovranisti dovunque annidati. Manca più che, a livello itaiano, apriamo un contenzioso delle regioni tra di loro e un conflitto con il governo centrale.

Mio padre diceva con molta gustosa acutezza: «Se du i s’ dan dil plati par rìddor, a n’è basta che vón ch’a guarda al digga “che patonón” par färia tacagnär dabón». Speriamo non succeda, anche perché non c’è proprio niente da ridere e men che meno c’è da litigare veramente. Vincenzo De Luca mi sta molto simpatico per la schiettezza del suo pensiero e del suo parlare: non le manda a dire a nessuno e, tutto sommato, fa bene. Stia però attento a non fare di questa sua qualità una sorta di habitus, buono per tutte le occasioni. A volte è necessario ingoiare qualche rospo sull’altare della collaborazione, anche nell’interesse della sua regione, che non può permettersi il lusso di esibire un primadonnismo tanto provocatorio quanto stucchevole.

A Giuseppe Conte rimproverano di avere velleità autoritarie: mi sembra eccessivo e ingeneroso. Così come mi sembrerebbe assurdo temere che i governatori regionali abbiano la vocazione di fare i dittatori di tanti staterelli liberi di Bananas. Un po’ di ironia non fa male: vediamo che sia solo ironia e non una fotografia dei rapporti istituzionali italiani.

 

 

Gli affetti della mozione

Ogni giorno esce una novità che rende sempre più incerta e inquietante la situazione che stiamo vivendo. Emerge purtroppo che i risultati delle analisi effettuate sui tamponi sono assai discutibili e in molti casi si sono rivelati inattendibili e in netto contrasto con l’evidenza della malattia.

Ciò che preoccupa è l’idea che il tampone possa non essere uno strumento efficace a individuare chi ha il Covid. Un uomo di 41 anni di Chiavari è per esempio deceduto in Liguria lo scorso 27 aprile per Covid anche se il tampone non aveva segnalato alcun contagio. A Taranto 45 pazienti su 100 sono risultati negativi a due tamponi nonostante avessero contratto la malattia.

Nell’ultimo mese e mezzo la Covid-19 Station del 118 di Taranto ha trattato 283 casi sospetti, di cui il 74,2% con sintomi compatibili con la malattia ma negativi sia al tampone che alla Tac, il 13% era positivo sia a tampone che Tac, mentre il 12% è stato positivo alla Tac ma non al tampone. «È evidente che i tamponi possono non rilevare la positività, questo dato emerge dalla nostra esperienza e il numero è decisamente alto – dice Mario Balzanelli, presidente nazionale della Sis, Società Italiana Sistemi, vale a dire la consulta dei dirigenti responsabili delle centrali operative 118, – il che ci induce a ritenere che il numero attuale di positivi alla malattia sia di molto sottostimato. E se circa 50 pazienti su 100 (positivi) sono risultati negativi a due tamponi nonostante avessero la malattia, vuol dire che sfugge alla contabilità dei contagi praticamente la metà degli infetti».

C’è da perderci la testa e da farsi ulteriormente tremare le vene ai polsi. La conclusione che da tempo si era intuita e che, giorno dopo giorno, viene accreditata è che della malattia si conosca ben poco, non esistano certezze sulla diagnosi, dalla cura siamo lontani mille miglia, di vaccino meglio non parlarne. E pensare che la politica si basa sulla scienza: andiamo bene. Siccome la politica è l’arte del possibile sarà meglio relativizzare i mutevoli responsi degli addetti ai lavori, non per svaccarli, ma per utilizzarli con equilibrio.

Non ne faccio una colpa a scienziati, virologi e medici, ma un po’ più di sobrietà e di umiltà non guasterebbe: è inutile dire e disdire con una certa facilità davanti ad un dramma simile. Nel momento in cui finalmente i pubblici poteri sembrano avviare uno screening largo, mirato e monitorato, emergono seri dubbi sull’attendibilità dei test. Così si torna in modo sconfortante, se non disperante, al buio degli inizi. Dobbiamo sicuramente convincerci che la medicina non è una scienza esatta e che bisogna fare i conti con l’incertezza a trecentosessanta gradi.

Più si procede e più si coglie il dramma di una pandemia, che non si sa da che parte prendere. Credo che la relativa e provvisoria conclusione sia quella di farsi guidare tutti, ripeto tutti, dal buon senso e dalla buona volontà, parlando il minimo necessario e remando tutti nella stessa direzione. È poco, ma al momento credo sia tutto. Evitiamo cioè di collocare la pandemia coronavirus a livello di U.c.a.s., ufficio complicazione affari semplici, con l’enorme aggravante che la realtà che stiamo vivendo non è affatto semplice: siamo maestri nel complicare le cose semplici, immaginiamoci quelle difficili. Calma e gesso! Proviamo tutti, ripeto tutti, ad essere seri e a vivere con la testa sulle spalle e il cuore aperto a chi soffre. Non è la mozione degli affetti, ma l’affetto dell’unica mozione possibile.

Fasciarsi la testa di regole prima di cadere nel virus

Come scrive molto acutamente Mauro Barberis su MicroMega “alla pandemia da coronavirus si è aggiunta l’infodemia, l’epidemia d’informazioni allarmistiche, fuorvianti o semplicemente false. In Italia, alla pandemia e all’infodemia s’è aggiunto un terzo flagello. Potremmo chiamarlo burodemia: l’epidemia di burocrazia”. Non voglio girare il coltello nella piaga, ma soltanto prendere atto che esiste una quarta piaga, che chiamerò “regodemia”, vale a dire l’epidemia o bulimia delle regole a cui dovremo sottostare chissà per quanto tempo.

Alla cosiddetta riapertura siamo costretti a pagare il prezzo di una jungla di prescrizioni. Ancor prima di uscire di casa bisogna indossare mascherina e guanti (non ho ancora capito se sia ancora necessaria la dichiarazione d’intenti) e portarsi dietro un flacone di disinfettante e guanti di riserva. Poi viene il bello: tenere comunque le distanze nei confronti di chi si incontra (quanti metri? Non l’ho ancora capito!), per salire in autobus bisogna porre la massima attenzione a dove si mettono i piedi e le mani, per entrare in un negozio bisogna fare la fila tenendosi a debita distanza dagli altri potenziali avventori, una volta dentro il negozio non so cosa succederà, il gestore ci dirà le regole a seconda dei casi. I guanti nel frattempo si saranno sporcati di virus e quindi sarà bene cambiarli previa disinfezione delle mani. Per accedere a certi locali, negozi o uffici occorrerà la prenotazione per poi, in certi casi, sottoporsi alla prova della febbre e ad altre prove del fuoco.

Mi chiedo: si può vivere in questo modo? Stiamo esagerando? Forse si stava meglio quando ci sembrava di stare male, ossia rintanati in casa senza vedere alcuno. Non invidio chi è al lavoro, in fabbrica, in ufficio, in negozio, in laboratorio: altre regole da osservare scrupolosamente. Persino per andare a messa ci saranno norme precise da rispettare. Ci abitueremo, si fa l’abitudine a tutto. Andare in vacanza sarà un problema serio: mancheranno magari i soldi, ma poi cosa succederà in albergo, in spiaggia, in campeggio? Forse sarà meglio stare a casa. Si potrà accendere il condizionatore? Chissà chi lo sa.

Torna di estrema attualità l’approccio di mio padre alle regole esagerate. Entravamo finalmente in una casa nuova dopo tanti anni di vita in una catapecchia. C’era però il rovescio della medaglia: si trattava di un condominio con ben tredici unità immobiliari, mentre eravamo abituati a vivere con un solo coinquilino, peraltro legato a noi da vecchia e consolidata amicizia. Era il prezzo accettabile da pagare alla conquistata modernità. L’approccio alla vita in condominio fu morbido, all’insegna del battutistico buonumore paterno. Alla prima assemblea condominiale mio padre partecipò con ovvia curiosità mista a tradizionale disponibilità al dialogo e alla collaborazione. Si trovò alle prese con un regolamento rigido al limite del carcerario. Ne fu impressionato, ma non si scoraggiò, affrontò la situazione a modo suo, dando subito l’idea a tutti della propria indole. Tra i vari ed articolati divieti esisteva anche quello inerente agli animali domestici: non si potevano tenere cani, gatti, canarini, etc. La mia famiglia non aveva simili abitudini: eravamo stati purtroppo alle prese solo con i topi, che viaggiavano nell’androne delle scale di una casa piuttosto malsana, attirati oltretutto da un confinante magazzino di farina e che, con la loro immanente e invadente presenza, ossessionavano ogni rientro in casa, soprattutto serale.  Mio padre colse al volo l’occasione e chiese, con piglio provocatorio anche se bonario: «A s’ polol tgnir un can ‘d stòppa chi àn regalè a mè fjóla?». Per chi non ha dimestichezza col dialetto parmigiano, preciso che si trattava di un animaletto di pelouche.

Non so se mio padre avrebbe la stessa verve ironica di fronte al diluvio regolamentare anti-coronavirus. Il divertimento, il riposo, le soddisfazioni per lui erano modeste nelle pretese e consistevano in piccole cose. Ricordo le esclamazioni che uscivano dal bagno di casa quando si immergeva nella vasca piena d’acqua calda: “Mo chi gh’é pu siòr che mi? “. Tutto viaggiava all’insegna della semplicità e della spontaneità: “Bizzògna saväros contintär”. Se tanto mi dà tanto, dovrebbe chiedere: «Par via dal virus, a s’ polol far al bagn o ag vol al parmès dal càp dal guèron?».

Io, che sono molto più incontentabile e pessimista di mio padre, totalmente incapace di sdrammatizzare le situazioni, in questi giorni mi sto chiedendo: vale la pena (non) vivere in queste condizioni? Non è che per non morire di coronavirus finiamo col morire asfissiati dalle regole…Non è che per stare distanziati finiamo col restare isolati…Non è che faremo la fine di quel marito che, per schivare gli improperi e le bastonate della moglie, si rifugia sotto il letto. Al reiterato e autoritario invito della moglie ad uscire dal penoso nascondiglio, egli, con un rigurgito di machismo, risponde: «Mi fagh cme no vôja e stag chi!».

 

 

Vincoli o sparpagliati

L’avvio della fase due della battaglia contro il coronavirus ha cominciato a scoprire gli altarini, che durante la prima fase erano coperti dall’emergenza sanitaria ed ospedaliera. Il governo centrale all’inizio è intervenuto pesantemente, al limite della legalità costituzionale, e, in un certo senso, ha unificato drammaticamente le cose che non andavano per affrontarle e rimuovere il clima del “si salvi chi può” trasformandolo in “si salva chi sta in casa”.

Quando si è cominciato a ragionare di riapertura sono venuti a galla i limiti statali. consistenti nello storico, oserei dire ancestrale, vizio burocratico e nella debolezza di una compagine governativa piuttosto raffazzonata e litigiosa, anche se, purtroppo, senza alternativa politicamente seria.

A quel punto le regioni hanno cominciato a scalpitare rivendicando la loro pur confusa autonomia e chiedendo di poter autogestire la riapertura: da una parte il governo centrale ha mostrato la corda rivelandosi incapace di finalizzare e concretizzare i necessari sostegni al sistema economico piegato sulle ginocchia e dall’altra ha dovuto riconoscere che la situazione è a macchia di leopardo e non può essere affrontata con “le grida” di manzoniana memoria.

In questo cambio di marcia sono venute in primo piano le enormi differenze tra le regioni nei loro rapporti tra pubblico e privato, tra politica e società, tra struttura amministrativa e assetto economico. Sono sostanzialmente venuti a confronto due modelli profondamente diversi di società regionale: la Lombardia e l’Emilia-Romagna.

La Lombardia ricalca dal punto di vista ideologico, storico e politico un’impostazione di tipo squisitamente liberista: una sorta di moderno laissez-faire laissez-passer, un principio proprio del liberalismo economico, favorevole al non intervento dello Stato nel sistema economico; secondo questa teoria, l’azione egoistica del singolo cittadino, nella ricerca del proprio benessere, sarebbe infatti sufficiente a garantire la prosperità economica dell’intera società.

L’Emilia-Romagna ha preso invece la piega di una società molto strutturata, governata e controllata di stampo riformista in cui il cittadino è accompagnato nel suo incedere da una sorta di patto tra la rappresentanza dei pubblici poteri e quella delle categorie socio-economiche.

Entrambi i modelli hanno loro pregi e difetti: la Lombardia scantona nella confusione, l’Emilia rischia la paralisi. In un momento come quello attuale l’Emilia, tutto sommato, dimostra di avere una marcia in più. Riesce molto meglio a pilotare la società da una situazione di blocco ad una fase di ripartenza graduale e controllata. Basti pensare ai protocolli stipulati per tempo fra regione e categorie economiche sulla base dei quali ci si avvia a riprendere una certa normalità di vita con l’osservanza di sensate norme di sicurezza.

La Lombardia vuole invece velleitariamente ripartire a tutti i costi senza un quadro di riferimento attendibile e garantista. Nelle due regioni hanno giocato e giocano anche le capacità politiche dei governanti, perché, come sempre, le idee camminano sulle gambe degli uomini. Tuttavia è normale che le situazioni più difficili vengano meglio affrontate in una società strutturata.

Un tempo si diceva che la destra va bene per governare in periodi di floridezza economica, mentre alla sinistra ci si deve affidare nei periodi di ristrettezza economica. Oggi potremmo dire che la destra va bene per lasciar fare alla gente ciò che vuole, fallisce clamorosamente quando alla gente bisogna imporre certi comportamenti virtuosi in senso collettivo. E allora, perché le cose sembrano andar molto meglio in Emilia che in Lombardia, ma anche il destrorso Veneto si sta rivelando all’altezza della situazione? Quando mi è sporadicamente capitato di bazzicare la società veneta, mi sono trovato totalmente in un altro mondo rispetto alla regione in cui vivo da sempre.

Sembra quasi che Luca Zaia, governatore veneto, sottoposto alla mia inquisizione di cui sopra, e da me “torturato” per essere parte della destra leghista, alzando lo sguardo al cielo e giù verso terra e battendo il piede, con animo contemplativo dica: eppur si move; ossia, ancora si muove, intendendo il Veneto del dopo coronavirus.  Rispondo che mi fa molto piacere essere smentito nelle mie banali analisi, anche se l’eccezione conferma la regola e forse le nostre regioni sono tutte un’eccezione: ecco (un altro) perché è così difficile governare l’Italia.

Un fiume di aiuti, ma il mare è lontano

L’ultimo decreto del governo in materia di coronavirus, intitolato al “rilancio”, soffre, come del resto anche i precedenti, di due angustianti e vecchi limiti metodologici: la demenziale farraginosità dello stile legislativo e la scoraggiante rigidità burocratica. Per dirla in modo brutale, non ci si capisce dentro un tubo e, se si capisce qualcosa, sorge immediatamente il dubbio che possa concretizzarsi in tempi e modi ragionevoli ed efficaci. Non si può pretendere di togliere miracolosamente queste barriere, ma la situazione emergenziale imporrebbe comunque uno sforzo notevole a livello di semplificazione e di concretezza. Sarebbe come se a un malato grave il medico imponesse di leggere un trattato sulla sua malattia e gli prescrivesse una terapia complessa e difficile da assorbire e da applicare: il malato nel frattempo potrebbe rischiare anche di morire.

Vorrei però spostarmi dai pur preoccupanti limiti metodologici a considerazioni, seppur di carattere generale, sul merito del provvedimento fiume adottato in questi ultimi giorni. Gira e rigira le critiche più serie e motivate sono riconducibili ad un discorso e ad un interrogativo: siamo in una logica di “rilancio” o di “sostegno”. In teoria i due concetti non sono in contrasto, ma rappresentano comunque due logiche diverse di intervento legislativo. Per continuare nella similitudine sanitaria, siamo ancora nella fase in cui bisogna togliere la febbre rimuovendo l’infezione che la provoca o siamo già nella cura ricostituente che dovrebbe portare il malato sulla via della ripresa?

Non sottovaluterei i numerosi e corposi interventi a sollievo finanziario delle imprese e delle famiglie, che soffrono le ristrettezze conseguenti alla pandemia in modo tale da barcollare nel presente e rischiare grosso nel futuro. Un brodo caldo non può essere l’alimentazione duratura e definitiva per chi vuole recuperare energie, ma può essere comunque di qualche aiuto, soprattutto se il brodo è sostanzioso, come lo sembrano le misure adottate seppure in una logica di pioggia benefica che cade un po’ su tutti.

Basterà? Certamente no, anche se le risorse messe in campo sembrano molto consistenti e dovranno prima o poi trovare copertura di bilancio, pena una bancarotta facilmente intuibile. Molti chiedono maggiori interventi a fondo perduto: sarebbe oltre modo utile, ma alla fine chi pagherà il conto. Non è giusto bloccarsi su questi problemi di copertura finanziaria, ma chi governa dovrà pure pensarci e programmare un certo rientro, seppur graduale, nei canoni di bilancio.

Cosa significa “rilancio”?   Nel gioco del poker è l’atto di chi aumenta, in una delle due fasi fondamentali del gioco, la somma puntata da uno qualsiasi dei giocatori che lo precedono, dopo che si sia pronunciato chi aveva dato inizio al gioco. Nelle aste si tratta di nuova offerta, aumentata rispetto a quella precedente.  Nel linguaggio economico e politico si intende la riproposizione di linee programmatiche e di iniziative accompagnata da modificazioni e miglioramenti intesi a rivalutarle e ad assicurarne l’attuazione. Potremmo immaginare che nel rilancio post-coronavirus ci sia un po’ di tutte queste tre interpretazioni: il rischio che si deve prendere chi vuole giocare fino in fondo, la convinzione di chi vuole raggiungere il risultato, la consapevolezza di dover mettere in campo qualcosa di molto innovativo ed impegnativo.

Molti commentatori fanno riferimento alla fantasia e allo spirito di intrapresa di cui sono dotati gli italiani: basterà aiutarli lasciandoli lavorare? Temo proprio di no. L’esempio del dopo-guerra è significativo, ma non è perfettamente calzante. È infatti relativamente più facile costruire dal nulla che ristrutturare partendo dalle fondamenta. Soprattutto non potremo avvalerci dell’euforia del nuovo boom economico, perché dovranno cambiare molte cose a livello di sistema. Forse dovremo partire dai sacrifici per creare i presupposti della ripartenza. Nel calcio l’azione riparte nella misura in cui si riesce a togliere la palla dai piedi dell’avversario, altrimenti si gioca in difesa e ci si accontenta di non prendere gol. Nel nostro caso stiamo purtroppo perdendo già due a zero e quindi…Per ora siamo nella fase di contenimento, non illudiamoci di poter buttare palla in tribuna e tanto meno di poter sperare nella partita di ritorno che potrebbe non esserci.

L’amore insensato per un fanfarone

Se la Lega, stando agli ultimi sondaggi, non avesse il 26% dei voti e, seppure con un certo calo di consensi, non si posizionasse come primo partito in Italia, le “boiate” salviniane non meriterebbero alcuna attenzione e ancor meno di essere commentate. L’aria destrorsa, che continua a tirare, impone invece di considerare con spietato spirito critico le prese di posizione leghiste.

Le scomposte e inaccettabili reazioni alla conclusione della vicenda di Silvia Romano, che, come dice Mara Carfagna, sono posizioni di una destra che insegue i leoni della tastiera, lisciano il pelo ai patiti dell’identità religiosa del popolo italiano e tendono a ricuperare consensi sulla base di battaglie a dir poco di retroguardia fascisteggiante. E, quando Salvini si sposta dal terreno umorale a quello politico è ancor più goffo e ridicolo: i riscatti non si devono pagare. A votare Lega occorre avere la memoria corta: infatti i governi di centro-destra non si fecero scrupoli in passato di pagare riscatti ai terroristi pur di ottenere la liberazione degli ostaggi con tanto di passerella trionfale al cui confronto quella di Conte e Di Maio sembra una dimostrazione di estrema sobrietà.

L’altra questione vergognosamente cavalcata riguarda la regolarizzazione dei lavoratori immigrati sfruttati e fatti lavorare in nero.  «Mentre milioni di italiani sono chiusi in casa e hanno paura di perdere lavoro e risparmi di cosa si sta occupando il governo? Di una maxi-sanatoria per i clandestini. Non è rispettoso nei confronti degli italiani perbene e degli immigrati regolari. Il solo annuncio sta moltiplicando gli sbarchi. La Lega farà le barricate». Ora bisognerebbe verificare, se questo Matteo Salvini è lo stesso Matteo Salvini che durante la campagna elettorale del 2018 prometteva di rimpatriare 600mila “clandestini” e ci si dovrebbe ricordare che non se ne fece nulla. Ma la memoria in politica è diventata un optional. Ancor più clamoroso è rammentare che la Lega di “irregolari” ne ha regolarizzati quasi un milione. Lo ha fatto votando i provvedimenti dei governi Berlusconi a cui ha partecipato sia nel 2002 che nel 2009. Il primo, accompagnato alla Bossi-Fini, ne ha regolarizzati 700mila; il secondo, con Roberto Maroni ministro degli Interni, 294mila.

Indipendentemente dal merito delle suddette questioni, quale credibilità può avere un politico che dimentica o fa finta di dimenticare la storia del suo partito, assumendo posizioni nettamente contrastanti rispetto a quelle sostenute quando la Lega era al governo e non certamente in posizione defilata.

Qualcuno sostiene che solo gli stolti non cambiano mai idea! Winston Churchill diceva che fanatico è colui che non può cambiare idea e non intende cambiare argomento. Altri che il saggio dubita spesso e cambia idea. Lo stupido è ostinato, non ha dubbi, conosce tutto fuorché la sua ignoranza.

Posso essere d’accordo, purché il cambio di opinione non venga sciorinato in modo apodittico e ingiustificato e purché a monte ci siano mutamenti oggettivi di situazione tali da motivare seriamente una modifica del proprio pensiero. Non mi sembra proprio il caso di Matteo Salvini e del suo partito, che oltretutto si pongono in continuità con un discorso di centro-destra, seppure riveduto ed assai scorretto: basti pensare che al posto di Bossi abbiamo appunto Salvini, al posto di Gianfranco Fini c’è Giorgia Meloni (al peggio non c’è mai limite…), solo Berlusconi tiene botta, anche se ormai conta meno del due di coppe e non riesce certo a condizionare gli alleati di coalizione (?).

Qualsiasi persona, che in passato si fosse comportata come Salvini, sarebbe stata giudicata come un demagogo da strapazzo, ora invece vanno di moda i populisti, cioè coloro che, a prescindere dal merito dei problemi, dicono quanto la gente vuol sentirsi dire sul momento: poi ci si dimentica di tutto e si può tranquillamente disdire tutto e magari non farne niente o fare esattamente l’opposto.

Non so di quale repubblica (ho perso il conto…) faccia parte come tratto distintivo questo modo barbaro di fare politica. Bisogna spararle grosse per rincorrere gli sfoghi antisociali dei social, per dare i più irrazionali contentini agli scontenti di vocazione, per alzare la voce e coprire le proprie evidenti cavolate. E questo sarebbe fare opposizione? Opposizione a se stessi ed al buon senso! E questo sarebbe un modo serio di governare? Il malgoverno fatto realtà!

I populisti rischiano purtroppo di avere il controllo della politica. Tra di essi c’è posto anche e soprattutto per i fanfaroni e per i galoppini. Sarei imbarazzato a collocare Matteo Salvini. Dal momento che è un opportunista qualsiasi, propenderei per la categoria dei galoppini, se però considerassi i consensi che riesce inopinatamente a mietere, dovrei metterlo tra i fanfaroni. Come diceva papa Wojtyla, se mi sbaglio mi “coriggerete”.

Il pallone medicinale

Parecchi giorni fa, il ministro della Salute, Roberto Speranza, intervistato a Radio Capital ha detto che la ripartenza del calcio «non è una delle priorità del Paese. Ci sono 400 morti al giorno». «Lo dico con il massimo rispetto – ha spiegato – e da grande appassionato di calcio però viene prima la vita delle persone. Le priorità del Paese oggi sono altre. Lavoreremo perché a un certo punto si possa riprendere la vita normale ma la priorità in questo momento deve essere ancora salvare la vita delle persone». Sottoscrivo a due mani, anche se, politicamente parlando, non ho particolari simpatie per l’attuale ministro.

La palla medica è uno strumento per sviluppare abilità, bruciare calorie e rinforzare i muscoli. Si può ottenere forza, tonicità e un maggior benessere, ma occorre apprendere le tecniche di esecuzione corrette per evitare infortuni. Includere alcuni degli esercizi con la palla medica nell’allenamento, può aiutare a variare l’attività fisica e a raggiungere facilmente il risultato desiderato. La palla medica è simile a al pallone da basket, ma esistono anche modelli di diversa grandezza e molto più pesanti. Si può sollevare, far oscillare, lanciare e afferrare, e per questo è utilissima per realizzare svariati esercizi. Se non erro questo strumento veniva e viene utilizzato anche nella preparazione atletica del calcio, così come mi sembra di aver visto che i calciatori si allenano a giocare con una palla di piccole dimensioni in quanto, paradossalmente, dove ci sta il meno ci sta anche il più.

In questo periodo il pallone potrebbe diventare medicinale per la gente, svolgere cioè una benefica azione psicologica, sollevare il morale, dando un incoraggiamento per il ritorno alla cosiddetta normalità. Il calcio ha sempre funzionato come distrazione rispetto ai problemi seri e, per questo motivo, mio padre pur seguendo il fenomeno con passione, era attentissimo a contenerne l’invasione. Il concetto, che aveva del fenomeno calcio, tagliava alla radice il marcio; viveva con il setaccio in mano e buttava via le scorie, era un “talebano” del pallone. Per evitarle accuratamente pretendeva che il dopo partita durasse i pochi minuti utili per uscire dallo stadio, scambiare le ultime impressioni, sgranocchiare le noccioline, guadagnare la strada di casa e poi…. Poi basta. “Adésa n’in parlèmma pu fìnna a domenica ch’ vén”. Si chiudeva drasticamente e precipitosamente l’avventura domenicale calcistica in modo da non lasciare spazio a code pericolose ed alienanti, a rimasticature assurde e penose.

Avrebbe pertanto applaudito convintamente al ministro Speranza e avrebbe liquidato in poche sferzanti battute tutto il cancan che si sta facendo per ripescare il campionato di calcio dal limbo in cui è finito assieme a tutta la società. Resta però il discorso psicologico di cui sopra. Un mio carissimo zio sosteneva che la vita fosse fatta soprattutto di soddisfazioni: alludeva non a risultati economici, ma a elementi di umana gratificazione. Se riprendessero le competizioni calcistiche non avremmo grandi soddisfazioni, ma almeno ci potremmo illudere di essere in convalescenza, vale a dire di cominciare a fare qualche passettino avanti verso una pur lontana guarigione. In fin dei conti tutto può servire: an gh’è gram cavagn, ch’an vena bòn ‘na volta a ‘l an. Il tanto bistrattato e “baracconato” calcio, dopo essere stato strumento di alienazione di massa, potrebbe diventare un veicolo benefico di fiducioso incoraggiamento per le persone stressate. Purché il tutto non avvenga con insopportabili privilegi sanitari, con l’unico scopo di salvare il carrozzone su cui molti viaggiano scriteriatamente e con eccezioni che non confermino ma mettano in discussione le regole.

“Il vago avvenir” della coraggiosa Silvia

Silvia Romano nasce a Milano 25 anni fa. Laureata nel febbraio 2018 in una scuola per mediatori linguistici per la sicurezza e la difesa sociale con una tesi sulla tratta di esseri umani, era alla sua seconda missione da volontaria in Africa. Silvia è stata rapita alle 20 di martedì 20 novembre 2018 nel villaggio di Chacama, a circa ottanta chilometri dalla capitale Nairobi, in Kenya ed è stata liberata in Somalia il 9 maggio, dopo 18 mesi di prigionia. Volontaria dell’associazione Africa Milele Onlus, una piccola organizzazione con sede a Fano che si occupa di progetti di sostegno all’infanzia, aveva creato nel villaggio una “Ludoteca nella Savana”. Il progetto principale che l’associazione sta portando avanti è la costruzione di una casa orfanotrofio in grado di ospitare 24 bambini orfani di entrambi i genitori. Appassionata di fitness, Silvia aveva anche lavorato in un paio di palestre a Milano. La 25enne era alla sua seconda missione da volontaria in Africa, sempre nella zona di Malindi, in passato già teatro di attacchi contro stranieri.

Sono volutamente partito dalla storia di Silvia e non dalla cronaca, che la vede libera dopo 18 mesi di prigionia. La sua liberazione suscita grande sollievo anche se pone qualche interrogativo, sulle modalità del rilascio e sulla conversione all’Islam, immediatamente dichiarata dall’interessata con molta franchezza e semplicità. Per quanto concerne il percorso seguito per ottenere la liberazione si deve avere ritegno e rispetto: sono cose che non si fanno e non si ottengono alla luce del sole e quindi, come sosteneva Guglielmo Zucconi, non bisogna pretendere di avere i servizi segreti pubblici. Si sarà sicuramente operato al di fuori della legalità, forse sarà stato pagato un riscatto, forse ci si sarà avvalsi della mediazione di gente senza scrupoli, forse si saranno fatti i salti mortali a livello internazionale e malavitoso: non mi interessa perché, mai come in questi casi, il fine, la salvezza di una persona, giustifica i mezzi.

Ho voluto riferirmi alle scelte di vita di Silvia Romano: a quanto è dato capire non era una irresponsabile kamikaze del volontariato terzomondiale. Aveva fatto scelte di vita coraggiose e ammirevoli che, come sempre accade, sono state pagate a caro prezzo. È rimasta vittima del terrorismo. Ora emerge un eventuale certo pressapochismo a livello della onlus in cui era inserita: forse era stata mandata allo sbaraglio e lasciata sola. Cose difficili da stabilire, perché è nella natura stessa di queste organizzazioni una spinta coraggiosa al limite della irresponsabilità. Non si può pretendere di operare nella massima sicurezza in ambienti caratterizzati da disordine, ingiustizia, sfruttamento e chi più ne ha più ne metta. Se uno non vuol rischiare se ne sta a casa, allineato e coperto, salvo morire in Italia di coronavirus.

La sua conversione suscita dubbi e perplessità: non è il caso di perdersi nei meandri delle analisi psicologiche e di ipotizzare forzature e violenze subite. Non mi sento di esprimere giudizi e valutazioni: Silvia Romano avrà tempo e modo di verificare le sue scelte religiose comunque rispettabili.

Mi sembra che da tutta la vicenda, che non è una favola anche se per certi versi può assomigliarle, si possa ricavare una morale: agire per il bene altrui è molto difficile e rischioso, non si tratta di fare passeggiate benefiche. Certo, il bene, come diceva l’ex vescovo di Parma, Benito Cocchi, oltre che volere farlo, bisogna essere capaci di farlo. Discorso molto delicato e, per certi versi, paralizzante. Meglio sbagliare a fin di bene, che non sbagliare non facendo niente. La conquista della propria libertà si dovrebbe basare eticamente proprio sulla spontanea decisione di dedicarsi agli altri: meglio semmai scivolare dopo piuttosto che prima ancora di partire. Sono scivolate cruente, che peraltro coinvolgono direttamente o indirettamente il contesto sociale di provenienza. Però meglio soffrire per liberare una volontaria in prima linea, che soffrire per l’egoismo di chi sta nelle retrovie.