Il fiatone trumpiano

Grandi e diffuse manifestazioni negli Usa e in tutto il mondo per chiedere giustizia per George Floyd e per tutti gli afroamericani morti per le violenze della polizia. È comunque un fatto estremamente positivo che migliaia di persone, soprattutto giovani, protestino contro il razzismo. Non riesco però a valutare se e fino a qual punto siano anche proteste che sommergono la presidenza di Donald Trump e che possano influenzare le prossime elezioni americane. Mi augurerei tanto di sì!

La candidatura di Trump può essere combattuta su due piani: quello politicamente pragmatico in base ai risultati ottenuti nel quadriennio e quello ideale in base ai principi democratici ed ai diritti civili. La destra populista riesce a trionfare nella misura in cui fa prevalere gli interessi della pancia sulle idee del cervello e quindi a buttare all’aria gli schemi politici (destra e sinistra) in nome dell’egoismo e dell’individualismo. Finora a Trump è riuscito questo squallido gioco: ha ottenuto consenso dai deboli illusi di farsi forti nella guerra contro gli altri deboli.

Se ci si riesce a spostare sul piano più elevato delle idealità il meccanismo si inceppa e ci si rende conto che le ingiustizie non si combattono con le guerre fra poveri, ma tentando di rimuovere le discriminazioni verso i poveri. Il razzismo è proprio la prova del nove fatta al populismo e forse sta funzionando come tale, risvegliando la popolazione dal torbido sonno egoista in cui era piombata.

Non c’è da farsi soverchie illusioni: la pancia è sempre pronta a prevalere sul cervello, anche perché sono tanti gli strumenti persuasivi che vengono messi in campo, riconducibili sostanzialmente al discorso del “meglio un uovo oggi che una gallina domani”. Le ingiustizie e le violenze ci saranno sempre, tanto vale dimenticarle e tirare a campare. La criminalizzazione del sistema funziona da deterrente per le battaglie all’interno del sistema. In molte parti del mondo sta funzionando.

Il pontefice ha recentemente parlato con schiettezza del sovranismo, che considera “un atteggiamento di isolamento. Sono preoccupato perché si sentono discorsi che assomigliano a quelli di Hitler nel 1934. “Prima noi. Noi… noi…”: sono pensieri che fanno paura. Il sovranismo è chiusura. Un Paese deve essere sovrano, ma non chiuso. La sovranità va difesa, ma vanno protetti e promossi anche i rapporti con gli altri paesi, con la Comunità europea. Il sovranismo è un’esagerazione che finisce male sempre: porta alle guerre”. Lo “stesso discorso” vale anche per i populismi. “All’inizio faticavo a comprenderlo – spiega – perché studiando Teologia ho approfondito il popolarismo, cioè la cultura del popolo: ma una cosa è che il popolo si esprima, un’altra è imporre al popolo l’atteggiamento populista. Il popolo è sovrano (ha un modo di pensare, di esprimersi e di sentire, di valutare), invece i populismi ci portano a sovranismi: quel suffisso, ‘ismi’, non fa mai bene”.

Riuscirà l’ondata di proteste a mettere in discussione il populismo di Trump facendone vedere, fra le tante degenerazioni, quella più drammatica, la degenerazione razzista? Qualcosa si sta muovendo. Il discorso razzista è sempre stato un punto politicamente dirimente: potrebbe tornare ad esserlo.  Al grido di “Black Live Matter” (Le vite dei neri contano) e “I can’t breathe” (Non posso respirare), manifesta tutta America contro il razzismo e le brutalità della polizia. Ovunque, in grandi metropoli e piccole città, va in scena il rito di inginocchiarsi per 8 minuti e 46 secondi, esattamente il tempo durante il quale un poliziotto di Minneapolis ha tenuto il suo ginocchio premuto sul collo di George Floyd uccidendolo.  Per il momento mi godo questo bagno di idealità e aspetto con speranza che le urne americane ne escano pulite dalle scorze accumulate negli ultimi anni.

 

 

E se la smettessimo di giocare a soldatini?

Mio padre era estraneo alla mentalità militare, ne rifiutava la rigida disciplina, era allergico a tutte le divise, non sopportava le sfilate, le parate etc., era visceralmente contrario ai conflitti armati.  Quando gli capitava di ascoltare qualche notizia riguardante provocazioni fra nazioni, incidenti diplomatici, contrasti internazionali era solito commentare: “S’ag fis  Mussolini, al faris n’a guera subita. Al cominciaris subit a bombardar”.  Era una lezione di politica estera (sempre molto valida, più che mai in clima di unilateralismo, di guerra preventiva, etc.) e di antifascismo (bollando il regime per quello che era e non revisionandolo strumentalmente). Ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante: “Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guèri?”.

Ricordo i rari colloqui tra i miei genitori in materia politica: tra mio padre, antifascista a livello culturale prima e più che a livello politico, e mia madre, donna pragmatica, generosa all’inverosimile, tollerante con tutti. «Al Duce, diceva mia madre con una certa simpatica superficialità, l’à fat anca dil cozi giusti…». «Lasemma stär, rispondeva mio padre dall’alto del suo antifascismo, quand la pianta l’é maläda in-t-il ravizi a ghé pòch da fär…». Poi si lasciava andare a sintetizzare la parabola storica di Benito Mussolini, usando questa colorita immagine: «L’ à pisè cóntra vént…».

Non so perché, ma quando rifletto sul fascismo, mi viene spontaneo “almanaccarlo” con l’aiuto degli insegnamenti paterni. Ed è così anche nell’ottantesimo anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno 1940. Vengo preso dallo sconcerto di fronte a quella piazza stracolma di gente osannante e mi chiedo: possibile che fossero tutti impazziti? che non capissero il dramma a cui comunque si stava andando incontro? che non si rendessero conto di cosa voleva dire fare una guerra? che le donne non pensassero alla prospettiva tragica che toccava ai loro figli?

Il regime evidentemente aveva funzionato molto bene, anche se la storia insegna come sia comodo, per allontanare la gente dai problemi reali, solleticare ed esasperare lo spirito nazionalistico, prospettando guerre, che distraggono ed illudono tragicamente.  È un meccanismo che purtroppo funziona anche nei sistemi democratici portati a chiudersi nel guscio nazionalistico e a coltivare populisticamente le pulsioni irrazionali dei cittadini.

Non funziona forse così l’anti europeismo, che tende a scaricare sull’Unione europea la colpa di tanti mali economici e sociali? Non è forse così per il sovranismo, che vuole illudere la popolazione sulla possibilità di risolvere i problemi del proprio orticello a prescindere da quelli del mondo intero? Non operano forse secondo questa logica le tre superpotenze attuali, vale a dire Usa, Russia e Cina?

Papa Francesco ha idee molto chiare al riguardo, quando sostiene che «Respingere i migranti è un atto di guerra»; quando afferma che «Noi stiamo vivendo la tragedia più grande dopo la seconda Guerra mondiale. C’è gente buona, ci sono cose buone, ma il mondo è in guerra. Mi sono vergognato del nome di una bomba: “la madre di tutte le bombe”. Ma guarda, la mamma dà vita! E questa dà morte!” E diciamo “mamma” a quell’apparecchio. Che cosa sta succedendo?».

Il duro monito del Papa contro la guerra è il seguente: “Oggi si può parlare di una terza guerra mondiale combattuta a pezzi, con crimini, massacri e distruzioni”. Queste le parole forti di Bergoglio pronunciate nell’omelia della messa a Redipuglia, dove si trova il più grande sacrario militare italiano. «La guerra è folle, ha aggiunto il Papa, il suo piano è solo la distruzione”. La cupidigia, l’intolleranza, l’ambizione del potere, sono i motivi che spingono la guerra, e questi motivi sono spesso giustificati da un’ideologia; ma prima c’è la passione, c’è l’impulso distorto». «L’ideologia è una giustificazione, e quando non c’è un’ideologia – ha specificato papa Francesco – c’è la risposta di Caino: ‘A me che importa? Sono forse io il custode di mio fratello?’».

Ho aperto con mio padre e chiudo con lui: di ritorno dalla toccante visita al sacrario di Redipuglia, si illudeva di convertire tutti al pacifismo, portando in quel luogo soprattutto quanti osavano scherzare con nuovi impulsi bellicosi. «A chi gh’à vója ‘d fär dil guéri, bizògnariss portärol a Redipuglia: agh va via la vója sùbbit…». Pensava che ne sarebbero usciti purificati per sempre.

 

 

 

 

I notabili in mutande

Secondo il linguaggio della politica, almeno quando io la bazzicavo dal di dentro, si definisce “notabile” un personaggio che ha rivestito notevoli incarichi e, in base all’esperienza acquisita, assume atteggiamenti e svolge ruoli da grillo parlante. Non ho mai avuto eccessiva simpatia per questi esponenti che intendono fare da coscienza critica ex post: è facile, comodo e, spesso, irritante. Il significato del termine non è infatti del tutto positivo, anzi è pieno di ironia e di compatimento.

Se la vogliamo buttare un po’ in ridere, durante l’ultima fase politica della vita di Francesco Cossiga, quella di “picconatore”, improntata alla disinibita, simpatica, acuta, ma sconclusionata e logorroica, denuncia dei mali della politica, Marcello Dell’Utri, con una delle sue celebri frasi, diede una definizione folgorante dell’ex presidente della Repubblica: «Ormai Cossiga può dire quello che vuole. È come il nonno di casa: fai finta di niente anche se esce in mutande». Ebbene i “notabili” sono i nonni, più o meno giovani, che si possono permettere di girare in mutande in mezzo alla politica.

Potrei fare tanti nomi, ma ne prendo in considerazione solo uno, che non ha ancora metabolizzato la improvvisa e ingiusta uscita di scena ad opera di un concorrente piuttosto spregiudicato e insofferente. Mi riferisco a Enrico Letta, il quale sbalzato fuori da palazzo Chigi, si è ritagliato uno spazio professorale e prepolitico, ma che non rinuncia di quando in quando a fare il saputello. Quale migliore occasione della gestione della pandemia, per la quale si può sostenere tutto e il contrario di tutto. Letta sta snocciolando una serie di critiche e suggerimenti scontati, a livello nazionale ed europeo.

Ultima: “La Ue metta direttamente i soldi nelle tasche di imprese e cittadini. I fondi che si stanno negoziando in Europa non vengano distribuiti dai singoli Stati. Servirebbe a cambiare la percezione dell’Unione nell’opinione pubblica: c’è ancora troppo euroscetticismo in giro”. Posso essere d’accordo, ma non ci voleva la malcelata prosopopea di Letta per arrivare a tanto e soprattutto mi sembra un discorso troppo semplicistico, che banalizza il vero problema se si debbano finanziare e a quale titolo certi progetti qualificanti e riformatori.

Un altro grillo parlante molto gettonato a sinistra è Valter Veltroni: è indubbiamente bravissimo a chiacchierare nei salotti, a scrivere libri, a fare film, etc. etc. Quando uno si cimenta in troppe attività, gatta ci cova, perché rischia di non andare fino in fondo in niente e di girare un po’ a vuoto. La politica attualmente è così scarsamente e malamente interpretata che viene spontaneo rimpiangere gli ex, rivalutandone l’operato e il pensiero. Forse erano effettivamente migliori, anche se di false lapidi sono pieni i cimiteri.

In questi giorni di confusa vita politica ed istituzionale viene oltremodo spontaneo tornare ai grandi personaggi che hanno fatto la storia italiana: i De Gasperi, i Moro, i Dossetti, i La Pira, i Togliatti, i Fanfani, i Berlinguer, etc. etc. Durante il dibattito parlamentare sulla fiducia al primo governo Berlusconi nell’ormai lontano 1994, un esponente di Forza Italia (non ricordo il nome) polemizzò con l’opposizione di allora, costituita da forze di centro-sinistra non ancora riunificate nel partito democratico: “Rimpiangiamo il partito comunista”, disse polemicamente. Rispose altrettanto polemicamente Massimo D’Alema: “E noi rimpiangiamo la Democrazia Cristiana”. Chiuso nel mio piccolo guscio democratico a prova di bomba pentastellata, leghista, nazionalista, populista e sovranista, aggiungo: “E io rimpiango la democrazia cristiana e il partito comunista!”. A volte, ed è tutto dire, arrivo persino a rimpiangere Silvio Berlusconi: bisogna proprio dire che siamo caduti in basso.

 

 

 

Ucci ucci sento odor di affarucci

L’Obolo di San Pietro è un’offerta che i fedeli fanno alla Chiesa cattolica, in particolare al Papa, perché abbia i mezzi per provvedere alle necessità materiali della Chiesa. Sono questi soldi, donati dai credenti di tutto il mondo al Papa per finanziare opere di bene, che sono finiti nell’affare del palazzo di Sloane Avenue, a Londra. Sono in via di accertamento le responsabilità penali dei protagonisti di questa manovra, è partito un arresto, forse siamo lontani dalla conclusione di questa triste vicenda, che dà l’ennesimo segno di una finanza vaticana piuttosto discutibile e invischiata in operazioni speculative.

Non entro nel merito e mi limito a due riflessioni. Gesù guardava con molto scetticismo al tesoro del tempio in cui finirono persino i trenta denari del tradimento di Giuda. Esaltò il piccolo obolo della povera vedova e ridimensionò le grosse offerte dei ricconi, che oltre tutto ostentavano la loro stucchevole generosità. Scacciò i mercanti dal Tempio con una insolita violenza. Ai nostri tempi non sono i trafficanti ad invadere la Chiesa, ma è quest’ultima a introdursi nel mercato tramite trafficanti interni ed esterni ad essa. Sarò un ingenuo o un illuso, ma vedere il denaro delle offerte fatte al Papa finire in operazioni finanziarie di stampo speculativo, mi fa letteralmente schifo. Anche la Chiesa, mi si dirà, ha le sue esigenze materiali e quindi non può demonizzare il denaro, ma deve cercare di ottenerlo e farlo fruttificare per meglio svolgere i suoi compiti istituzionali e comunitari. Questo ragionamento non mi convince affatto.

“Pecunia non olet” è una frase attribuita a Vespasiano, a cui il figlio Tito aveva rimproverato di avere messo una tassa, la centesima venalium, sull’urina raccolta nelle latrine gestite dai privati, popolarmente denominati da allora “vespasiani”, tassazione dalla quale provenivano cospicue entrate per l’erario. Dall’urina veniva ricavata l’ammoniaca necessaria alla concia delle pelli. L’episodio completo vorrebbe che Tito avesse tirato alcune monete in uno dei bagni, in segno di sfida al padre: quest’ultimo le avrebbe raccolte e, avvicinatele al naso, avrebbe pronunciato le fatidiche parole. È una frase che viene cinicamente usata per indicare che, qualunque sia la sua provenienza, “il denaro è sempre denaro” o “il denaro è solo denaro”; nel senso che il mezzo non determina l’intenzione: la provenienza non darebbe alcuna connotazione positiva o negativa al mezzo/strumento che è il denaro e il nuovo uso del denaro potrebbe essere positivo o non disdicevole.

“La corruzione spuzza, la società corrotta spuzza e un cristiano che fa entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano, spuzza”. Lo ha detto Papa Francesco nel discorso a Scampia, nella sua ottava visita pastorale in Italia. “Tutti noi abbiamo la possibilità di essere corrotti. Nessuno di noi può dire ‘io mai sarò corrotto’. No, è una tentazione, è uno scivolare verso gli affari facili, verso la delinquenza dei reati, verso la corruzione”. “Quanta corruzione c’è nel mondo – ha aggiunto il Pontefice -: è una parola brutta, perché una cosa corrotta è una cosa sporca. Se noi troviamo un animale che è corrotto è brutto, e puzza (il Papa ha usato il termine ‘spuzza’), la corruzione puzza e la società corrotta puzza”. Il Papa sostiene quindi che il denaro ha odore e facilmente puzza. E vale anche per il Vaticano!

La seconda riflessione riguarda l’esagerata attenzione ispettiva che il Vaticano riserva ai comportamenti pastorali innovativi e finanche conciliari di diverse entità operanti nel mondo cattolico: ultima e non ultima la comunità di Bose. E non si fa scrupolo di entrare a gamba tesa per correggere e bacchettare pesantemente. Se usasse la stessa pignoleria nel giudicare i comportamenti economici dei suoi incaricati d’affari, forse le cose andrebbero un po’ meglio e si sentirebbe meno la “spuzza” proveniente da certi ambienti e uffici vaticani.

Mia sorella aveva una sua paradossale e intrigante versione della morte di papa Luciani. Diceva: “Gli hanno fatto conoscere Paul Marcinkus e gli è dato un colpo…”. Probabilmente Giovanni Paolo I aveva sentito la puzza proveniente dallo Ior e ne era rimasto stomacato e sconvolto. Il discorso però purtroppo non è ancora finito. La scia dell’odore dei soldi continua a impestare la vita “di una certa Chiesa” nonostante le più buone intenzioni di papa Francesco.

 

Laicismo e integralismo fanno il male della scuola

Don Raffaele Dagnino, lo storico, spigoloso, originale e stupendo prete della nostra città e dell’Oltretorrente in particolare, aveva uno spiccato senso laico della religione, meglio dire della fede.  Era contrario alla scuola privata, anche quella cattolica. “Sarebbe comodo, diceva, avere una scuola a propria misura ideologica. Nossignori, bisogna avere il coraggio di mettersi a confronto con i non credenti, testimoniare la fede in campo aperto. E poi chi ha detto che i cattolici siano migliori degli altri ed abbiano qualcosa di meglio da insegnare”, ma lasciamo perdere…

Aveva perfettamente ragione se consideriamo la scuola cattolica, a livello individuale come la fuga integralistica e benpensante verso un’educazione di stampo religioso, a livello di famiglia cristiana come la delega concessa ad una istituzione superiore per assolvere agli obblighi battesimali di educazione alla fede, a livello comunitario cattolico come un distintivo eclatante della propria identità, a livello societario come uno dei segni irrinunciabili della presenza politica dei cattolici nella società civile.

Il tempo ha trasformato la scuola cattolica in un progetto educativo ammesso e riconosciuto dalla Costituzione italiana, diventando un vero e proprio patrimonio culturale per tutta la società, per i credenti e i non credenti. Anche la tentazione elitaria si è via via stemperata assieme alla sussiegosa pretesa di essere non “una” ma “la” scuola per i cattolici e per i laici più o meno devoti.

Il discorso è tornato d’attualità in questo travagliato periodo: la crisi pandemica ha posto in gravi difficoltà tutto il sistema scolastico, ma, in modo ancor più drammatico, la scuola privata, di cui quella cattolica è parte preponderante. Il sostegno delle famiglie si sta facendo difficile per il loro impoverimento; i fondi erariali hanno insufficienze ed inefficienze spaventose; la tentazione di effettuare uno smembramento scolastico sulle ali della digitalizzazione imperante è grande e fuorviante; il rischio di un ritorno, nei momenti difficili, a schematismi culturali e ad ideologismi datati è dietro l’angolo, se non addirittura sul vialone del traguardo. C’è da preoccuparsi, perché se scarichiamo sulla scuola dubbi, incertezze, diatribe e conflitti, troviamo il modo di farci del male ben al di là di quello già fatto dal coronavirus.

I rigurgiti di un becero laicismo, che peraltro fanno da contrappeso all’istinto, conservativo o conservatore come dir si voglia, della Chiesa nelle sue istituzioni (senza contare che la scuola cattolica non è una proprietà privata del Vaticano, ma una ricchezza per tutto il Paese), mettono a repentaglio un patrimonio di idealità, risorse umane, esperienze storiche, ricchezze materiali e immateriali. Il ragionamento classico del laicismo è quello di nascondersi dietro il riconoscimento costituzionale, condizionato però alla mancanza di oneri aggiunti per lo Stato. Se ci si ferma alla lettera del dettato costituzionale si prende però un granchio: bisogna fare un bilancio economico e culturale dei rapporti fra scuola statale o comunque pubblica e scuola paritaria privata, cattolica e non. Come in tutti i bilanci esistono costi e ricavi e il giudizio si dà sul saldo fra di essi.

Il sostegno alla scuola privata, in qualsiasi forma, come erogazioni dirette, come aiuti alle famiglie, come agevolazioni fiscali,  comporta indubbiamente un onere per le casse dello Stato, ma dall’altra parte del conto c’è una copertura educativa che lo Stato non sarebbe in grado di garantire senza ulteriori e forse maggiori spese, c’è un apporto economico dei privati che ben venga a sostenere un servizio squisitamente pubblico, c’è un virtuoso e concorrenziale rapporto  tra pubblico e privato che raccoglie tutte le risorse disponibili per impostare un sistema scolastico integrato e adeguato alla crescita della società.

In questo momento lo Stato, come qualche testa politica assai poco realistica e lungimirante e molto calda e faziosa sta perseguendo, non deve chiudersi in scelte ideologiche, ma aprire lo sguardo sulla necessità di difendere e sviluppare la scuola vista nel suo complesso e nel suo pluralismo progettuale e gestionale. D’altra parte lo Stato ha da tempo adottato le necessarie precauzioni per garantire nella scuola privata gli standard qualitativi, che sfociano nel riconoscimento del titolo di scuola paritaria.  Smettiamola quindi di litigare pretestuosamente in base al concetto di laicità, che è un discorso che dovrebbe superare queste sterili contrapposizioni, per andare al sodo della scuola scritta non con la “q” di quisquilia, ma con la “c” di coinvolgimento, a cui, vista come servizio pubblico, possono contribuire e lavorare anche i privati.

Sta andando tutto male ?!

I cercoteri sono un gruppo di animali fantastici e demoniaci dalle proporzioni gigantesche dotati di un’enorme quantità di chakra e di un numero di code che varia da uno a nove. Il coronavirus forse lo possiamo aggiungere al gruppo anche se non è fantastico, ma demoniaco sì, ha effetti giganteschi ed ha un numero notevole di code. È su quest’ultimo aspetto che voglio soffermarmi.

Di code ne stanno venendo fuori parecchie, al momento ne vedo tre. Innanzitutto ci stiamo ricordando che per curare il coronavirus ci siamo distratti dalle altre malattie, anche quelle molto gravi, e abbiamo trascurato i relativi controlli, interventi e terapie. Lo stiamo un po’ verificando tutti sulla nostra pelle, mettendoci in coda per effettuare visiti, analisi, controlli, operazioni chirurgiche messe provvisoriamente da parte. A parte i tempi biblici che occorreranno per recuperare questi ritardi, si pensa che nel frattempo questa forzata latitanza sanitaria possa procurare più vittime del covid 19. Non lo sapremo mai con precisione, ma si può facilmente immaginare: persino la sanità privata a pagamento è andata in tilt e non riesce a colmare le lacune del sistema pubblico.

Poi stanno uscendo le guarigioni condizionate dai danni eventualmente provocati dal virus e dalle pesanti terapie adottate: si fa presto a dire guariti e dimessi dall’ospedale, ma poi bisogna vedere se e come si è guariti veramente. Ed ecco un ulteriore sovraccarico per il sistema sanitario costretto a sopportare enormi ondate di ritorno. Il prossimo autunno, se non ci sarà un ritorno del covid 19, avremo sicuramente un nuovo virus influenzale in agguato col relativo problema della vaccinazione capillare e dei rischi di una sovrapposizione sintomatica tra virus con cui dovremo fare i conti.

A fronte di questa catena emergenziale la prospettiva di un vaccino rimane piuttosto incerta e soprattutto incute terrore il fatto che la ricerca sia nelle grinfie di una spietata speculazione privata e di una macabra concorrenza tra i big dell’industria farmaceutica.

A valle dei nostri clamorosi guai abbiamo cioè una sanità in evidente e crescente difficoltà, a monte abbiamo una scienza che vive nelle mani piuttosto sporche del mercato e che si vende al miglior offerente. Sarò egoista, ma mi preoccupano molto più questi aspetti con ricaduta immediata sulla salute che i risvolti di un’economia in crisi. Non saprei sinceramente dire se venga prima la gallina dei problemi sanitari o l’uovo della disoccupazione e della povertà.

Sulla crisi economica mi corre l’obbligo di spezzare la lancia del dubbio e della perplessità. I giorni scorsi ho notato che parecchi esercizi commerciali hanno abbassato le saracinesche per il ponte della Festa della Repubblica. Ne sono rimasto sinceramente colpito e mi sono chiesto: tutti chiedevano di poter aprire i negozi ed ora che si possono aprire dopo mesi di chiusura forzata li chiudono per allungare la festa? Forse lo avrà fatto chi se lo poteva permettere. Probabilmente la crisi colpirà in modo divisivo e sarà ancor più difficile intervenire a sostegno delle fasce disastrate, senza contare che regalare soldi (ammesso e non concesso che se ne abbia la disponibilità) non risolverà il problema di fondo della mancanza di domanda, che potrà essere affrontato solo con dei mega piani ad effetto troppo allungato nel tempo.

Tutti aspetti più o meno misteriosi del coronavirus, che non finisce e non finirà di stupirci, condizionarci e danneggiarci.

Cassandra è una figura della mitologia greca. Fu sacerdotessa nel tempio di Apollo da cui ebbe la facoltà della preveggenza, prevedeva terribili sventure ed era pertanto invisa a molti. È frequente l’attribuzione dell’appellativo “Cassandra” alle persone che, pur annunciando eventi sfavorevoli giustamente previsti, non vengono credute. Nell’uso comune viene detta “sindrome di Cassandra” la condizione di chi formula ipotesi pessimistiche ed è convinto di non poter fare nulla per evitare che si realizzino. Nell’attuale situazione è facile cadere in tale sindrome. Ma attenzione a non cadere nella sindrome opposta, quella dello sgangherato ed irresponsabile ottimismo per il quale ci siamo inventati lo slogan: “andrà tutto bene!”.

Berlusconi vecchio non fa buon brodo

«L’avevo detto che bisognava evitare di andare in piazza… Ora è il momento di stare uniti e di stringersi attorno alle istituzioni». Il giorno dopo la manifestazione del centrodestra contro il governo Conte divampa la polemica sugli assembramenti e i toni della protesta. Silvio Berlusconi non nasconde con i suoi di aver previsto tutto. E non nasconde il suo rammarico per un’iniziativa che rischia di diventare un boomerang, in termini di consensi, specialmente per Fi, la forza più moderata ed europeista della coalizione a trazione sovranista. Consapevole di questo, il Cav, raccontano, ne approfitta per smarcarsi ancora una volta dagli alleati e lanciare un messaggio al capo dello Stato, Sergio Mattarella, accogliendo l’appello al dialogo tra maggioranza e opposizione lanciato dal Colle per la ricostruzione post-Covid. «Serve un grande scatto, un’assunzione di responsabilità», attraverso «un dialogo costruttivo», come «quello che consentì all’Italia di risollevarsi nel dopoguerra», scrive il leader azzurro, che invoca un clima di unità nazionale («Il Paese deve essere unito, bisogna mettere insieme le migliori energie per sedersi intorno a un tavolo e costruire un progetto comune che guardi al futuro, alla rinascita»), che suona come preludio di future larghe intese.

Ho ripreso testualmente l’incipit di un lungo articolo de “La stampa” a commento dell’indegna e dissennata gazzarra scatenata a Roma durante un’assurda manifestazione popolare, promossa da una destra sempre più a trazione Lega-FdI. Basta avere un minimo di buonsenso per essere portati a distinguersi da una manica di irresponsabili allo sbaraglio: non è il caso quindi di gridare al miracolo se Berlusconi prende le distanze, oltre che dal coronavirus, dagli scomodi ed improbabili alleati. Mi sembra un atto dovuto e scontato sul quale non mi sento di imbastire prospettive politiche di alcun tipo.

Mi rimane una curiosità: il cavaliere vuole veramente rientrare nel gioco politico o sta soltanto difendendo il suo impero economico oppure vuole soltanto lasciare di sé un ricordo accettabile in netta discontinuità col suo triste e disgraziato ventennio? Forse nella sua attuale cucina c’è un po’ di tutte queste ricette molto strumentali e poco credibili. Il tempo passa e probabilmente lui intende passare di categoria: da leader logoro e impresentabile per un centro-destra estremista a notabile e padre (poco) nobile di una futura destra rassegnata e moderata.

A volte non bisogna stare troppo a sottilizzare e quindi ben venga, in una situazione drammatica come quella attuale, anche la ragionata tattica filo-istituzionale di un Berlusconi riveduto e corretto: in un certo senso tutto fa brodo, forse persino una  spennacchiata gallina vecchia. A Berlusconi rinnovato (?) non si guarda in bocca. I casi sono due: o siamo talmente messi male da accontentarci a sinistra (si fa per dire) del doroteismo di Giuseppe Conte e a destra di un redivivo Dino Grandi che vuol far cadere…Salvini, oppure stiamo facendo un bagno di realpolitik, talmente reale da toglierci ogni velleità, come si diceva un tempo, democratica e antifascista.

Quando ascolto Giuseppe Conte nelle sue stucchevoli conferenze stampa, parto con scetticismo (non dice niente, ma lo dice bene), poi ascolto con crescente interesse (non è un “coglione”, ha in mano la situazione più di quanto si possa pensare), per arrivare a definirlo un democristiano (penso di intendermene: con tutti i pregi e i difetti di un cliché che non morirà mai). Certo Aldo Moro era un altro film, qui siamo sì e no ad una pellicola da sala parrocchiale.

Quando osservo le mosse claudicanti di Silvio Berlusconi mi illudo che sia finalmente archiviata una stagione politica (la vogliamo chiamare seconda repubblica o anti-repubblica?) negativa, rivaluto le poche cose buone che diceva quando era in auge (la povertà con le pizzerie piene, la politica in balia dei mestieranti: anche Mussolini peraltro diceva cose giuste poi…), finisco col giudicarlo un furbacchione capace di restare a galla nonostante tutto.

Alla fine, come i bambini spaventati, vado a nascondermi sotto la gonna di Sergio Mattarella (l’ultimo dei giusti) e spero che bastino il suo carisma e la sua credibilità umana, storica e politica per difenderci dalle derive che tendono a trascinarci in un gran brutto vortice, tra la voglia mai sopita di un socialismo aperto e moderno e l’orrore per un salto indietro nel buio dei peggiori precipizi. Prima o poi dovrò uscire dal dolce nascondiglio mattarelliano e sarà una gara dura. A destra mai e poi mai, con o senza Berlusconi, a sinistra sì, ma con una classe dirigente vera e non con gli avvocati prestati alla politica e con gli incompetenti prestati al Parlamento.

L’orrenda pace di Donald Trump

Secondo quanto riferito dal New York Times il presidente americano Donald Trump avrebbe dichiarato in una video conferenza, che i governatori degli Stati che non ordinano di arrestare chi manifesta per la morte di George Floyd e di incarcerarli «per lunghi periodi di tempo» fanno la figura dei «cretini». «Dovete dominare – avrebbe detto Trump –, se non lo fate sprecate il vostro tempo e vi travolgeranno facendovi apparire come degli idioti». Nel corso della videoconferenza avrebbe anche detto ad alcuni dei governatori che sono dei deboli.

Come volevasi dimostrare: questa è la logica del potere adottata da Trump e da chi lo sta scimmiottando in tutto il mondo. La criminalizzazione della protesta è un presupposto dei regimi autoritari e dittatoriali: assumere le degenerazioni violente di una parte dei manifestanti come pretesto per soffocare sul nascere le ragioni profonde del malcontento. Nel caso specifico non si deve ammettere quanto gli stessi poliziotti stanno ammettendo, vale a dire che nella società americana i rigurgiti di razzismo sono la regola, ma si deve soffocare ogni protesta per garantire l’ordine a tutti i costi.

Mi sembra opportuno al riguardo riportare il fitto dialogo tra il re di Spagna Filippo II e Rodrigo, un suo nobile contestatore, contenuto nell’opera lirica “Don Carlo” di Giuseppe Verdi: il libretto è di François-Joseph Mèry e Camille Du Locle dal poema drammatico Don Carlos, Infant von Spanien di Friedrich Schiller. La vicenda è ambientata in Francia e Spagna nel 1568. Il dialogo che segue riguarda storicamente l’indipendenza e la libertà per le Fiandre, ma è culturalmente uno scontro “ideologico” sull’esercizio del potere.

FILIPPO
Col sangue sol potei la pace aver del mondo, il brando mio calcò l’orgoglio ai novator che illudono le genti con sogni mentitor… La morte in questa man ha un avvenir fecondo.

RODRIGO
Che! voi pensate, seminando morte, piantar per gli anni eterni?

FILIPPO
Volgi in guardo alla Spagna! L’artigian cittadin, la plebe alle campagne. A Dio fedel e al Re un lamento non ha! La pace istessa io dono alle mie Fiandre!

RODRIGO
Orrenda, orrenda pace! La pace dei sepolcri. O Re, non abbia mai di voi l’istoria a dir: Ei fu Neron! Quest’e la pace che voi date al mondo? Desta tal don terror, orror profondo!
È un carnefice il prete, un bandito ogni armier! Il popol geme e si spegne tacendo. È il vostro imper deserto, immenso, orrendo, s’ode ognun a Filippo maledir! Come un Dio Redentor, l’orbe inter rinnovate. V’ergete a voi sublime, sovra d’ogn’altro re!
Per voi si allieti il mondo! Date la libertà!

FILIPPO
O strano sognator! Tu muterai pensier, se il cor dell’uom conoscerai, qual Filippo il conosce! Ed or… non più! Ha nulla inteso il Re…

Non ho niente da aggiungere a Schiller e Verdi: solo consiglierei a Donald Trump di ascoltare questa opera lirica anche se so già che la bollerebbe come un frettoloso e illusorio sogno d’altri tempi. Sì, purtroppo i sogni svaniscono e la realtà è sempre la stessa. Io, nel mio piccolo, preferisco sognare. Ma sarò certamente classificato un cretino ideologico: meglio essere cretini coi dubbi e le titubanze dei governatori Usa che furbi con le certezze di Trump.

 

 

L’offensivo modo di allontanare don Enzo Bianchi

Alla fine, dopo alcuni giorni di confronto interno, Enzo Bianchi, Goffredo Boselli e Antonella Casiraghi hanno dichiarato di accettare, “seppure in spirito di sofferta obbedienza”, tutte le disposizioni contenute nel Decreto della Santa Sede del 13 maggio 2020. Lino Breda, invece, la quarta persona della comunità monastica di Bose a cui era stato chiesto l’allontanamento, aveva dichiarato di accettare il Decreto immediatamente, al momento stesso della notifica. Lo rende noto una breve nota pubblicata sul sito web della stessa comunità. Bianchi e gli altri tre “vivranno come fratelli e sorella della Comunità in luoghi distinti da Bose e dalle sue Fraternità”. L’allontanamento, quindi, non rappresenta un’uscita dalla comunità e, come aveva detto lo stesso Bianchi in un recente comunicato, è “temporaneo”.

Certo, al momento non si conoscono i dettagli del Decreto, ma stando al comunicato pubblicato dalla comunità sembra che così stiano le cose. Scrive la comunità: “Ai nostri amici e ospiti che ci hanno accompagnato con la preghiera e l’affetto in questi giorni difficili chiediamo di non cessare di intercedere intensamente per tutti noi monaci e monache di Bose ovunque ci troviamo a vivere”. E ancora: “Pregate per ciascuno di noi, e per la Comunità nel suo insieme, perché possa proseguire nel solco del suo carisma fondativo: fedele alla sua vocazione di comunità monastica ecumenica di fratelli e sorelle di diverse confessioni cristiane, continui a testimoniare quotidianamente l’evangelo in mezzo agli uomini e alle donne del nostro tempo”.

In queste ore Enzo Bianchi ha fatto ancora sentire la sua voce via Twitter: “Giunge l’ora in cui solo il silenzio può esprimere la verità, perché la verità va ascoltata nella sua nudità e sulla croce che è il suo trono.  Gesù per dire la verità di fronte a Erode ha fatto silenzio. “Jesus autem tacebat!” sta scritto nel Vangelo”.

La mia pessimistica visione dei rapporti all’interno della Chiesa mi diceva che, purtroppo, avrebbe dovuto finire così, non per le nobili e alte motivazioni che Enzo Bianchi dà alla sua accettazione, ma per la realpolitik che caratterizza ancora il clima vaticano. Tutte le dotte dissertazioni sull’obbedienza lasciano il tempo che trovano.

Nei giorni scorsi tra chi aveva consigliato a Bianchi di assecondare la volontà del Vaticano c’era il gesuita padre Bartolomeo Sorge: resistere e ribellarsi alla decisione del Pontefice sarebbe «un errore fatale», ha dichiarato. A questo punto Enzo Bianchi «deve accettare con amore la sofferenza della prova. La ribellione e la resistenza sarebbero un errore fatale perché in questi casi si accetta la croce anche senza capirne le ragioni. Bianchi deve fare le valigie». Padre Sorge, pur non conoscendo il caso in tutte le sue pieghe e implicazioni, vede la firma di Dio: «Quando la Chiesa interviene, si bacia la mano della Chiesa che è nostra madre e non ha nessun interesse di massacrare un figlio. Poi si vedranno i frutti, le botte prese sono l’autenticazione dell’opera di Dio. Ecco perché a padre Bianchi consiglio di fare le valigie subito e di andare dove lo mandano, e di farlo con gioia».

Con grande rispetto per padre Sorge mi permetto di non essere affatto d’accordo. La storia insegna che la Chiesa ha spesso, come matrigna e non come madre, massacrato i propri figli e che l’obbedienza non è una virtù in assoluto, a prescindere dai contenuti e dalle motivazioni dell’ordine ricevuto.  Questa è l’obbedienza delle caserme e non delle comunità cristiane. Sorge ipotizza, giustifica e addirittura esalta una sorta di presuntuoso e paradossale masochismo cristiano. Credere, obbedire e combattere non è la regola evangelica, ma quella del fascismo. Ma forse tutto dipende dal fatto che Sorge è un gesuita e che la Compagnia di Gesù è un ordine religioso di chierici regolari, fondato nel sec. XVI da S. Ignazio di Loyola e il titolo di “compagnia” deriva dall’ordinamento che il genio militare dello stesso fondatore impresse al suo ordine.

Si chiude una bruttissima pagina ecclesiale per cui vedo sgorgare solo frutti cattivi da un albero che, se si giudica dai frutti che dà, dovrebbe essere considerato cattivo… Non intendo fare santo subito don Enzo Bianchi e demonizzare le gerarchie che hanno adottate la decisione: avrà sicuramente commesso errori, ma almeno consideriamo come ci sia modo e modo di riprendere chi sbaglia (ammesso e non concesso che sbagli). Come dice Dante Alighieri, mettendo queste parole in bocca a Francesca, “’l modo ancor m’offende”.

 

La sfida alla sfiga

Nelle piccole uscite che ho azzardato ho potuto verificare che commercianti, artigiani e operatori in genere col pubblico si stanno comportando molto bene, con scrupolo, serietà. stile e buongusto: mi è venuto spontaneo rendere omaggio a Maria Luigia, colei che ha saputo farci scuola, dando un’impronta di bellezza alla nostra città, che rimane anche nei momenti difficili e ci è di notevole aiuto. La storia è importante e dobbiamo riscoprirla.

A prima vista ho avuto l’impressione che, tutto sommato, la gente si stia comportando bene, anche se ero e sono consapevole di fasce, soprattutto giovanili, che tribolano a rendersi conto del momento difficile e ad adeguarsi. Gli sciocchi esistono: la madre degli stupidi, come si suole dire, è sempre incinta. E sembra infatti ne stia partorendo parecchi, che rischiano di compromettere l’immagine, che, forse un po’ troppo benignamente, mi ero fatta.

D’altra parte raccogliamo quanto abbiamo scriteriatamente seminato: siamo riusciti ad inculcare nella mentalità della gente, soprattutto dei soggetti più giovani, che vivere consista negli apericena e negli schiamazzi. In questo momento poi mancano due sfogatoi fondamentali: le discoteche e gli stadi. Da qualche parte dovremo pur andare a sbattere. E allora sotto con le movide a tutto spiano, alla faccia del coronavirus, che si dovrà rassegnare. Movida, di per sé, dovrebbe significare vita notturna, culturale e artistica particolarmente ricca e vivace.  In questo drammatico frangente assume invece il significato di triste e disperata sfida alla sfiga.

Come facilmente prevedibile, il covid 19 non ha apparentemente cambiato un bel niente: chi è sciocco rimane tale e oltre tutto rischia di compromettere l’incolumità e la salute di chi tiene, per senso civico o anche solo per paura, un comportamento rispondente alle regole, ma soprattutto al buonsenso.

Così ho provocatoriamente e spietatamente scritto nel saggio contenuto alla sezione libri di questo sito, a cui rinvio chi volesse approfondire, tra il serio e il faceto, le stranezze della nostra gioventù: «Non saprei, ma i nostri giovani non hanno gli anticorpi e mi fanno paura… Interpretano la vita come un gioco, i problemi tendono a rimuoverli. Pensano di scaricarli sul groppone di nonni e genitori, i quali si sono fatti carico delle difficoltà dei figli e dei nipoti, ma il loro aiuto si va riducendo: prima (non) studiano alle loro spalle, poi, se si sposano, scaricano loro addosso i figli; se non si sposano. si fanno mantenere a vita. Sono dei penosi furbacchioni». Non si deve generalizzare, ma tremare sì.

La politica, come al solito e come del resto tutta la società, tenta di chiudere la stalla quando i buoi sono scappati: mi sembra catalogabile in tal senso la retorica idea di sguinzagliare sessantamila assistenti civici per riportare a più miti consigli chi si sta comportando dissennatamente in piena emergenza covid. Inoccupati, cassintegrati o percettori del reddito di emergenza o di cittadinanza potranno partecipare al reclutamento di 60mila volontari a cui i sindaci potranno assegnare il patentino di «assistenti civici». Ad annunciare l’arrivo del nuovo bando della protezione civile sono stati il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, Francesco Boccia, e il presidente dell’Anci, Antonio Decaro, sindaco di Bari. La proposta ha scatenato contrasti e polemiche.

Di per sé potrebbe anche servire ad occupare persone assistite e senza lavoro, ma non illudiamoci di affrontare così il problema della gente che non ha senso civico: certo dare qualche buon consiglio, qualche utile suggerimento, cercare di sopire i bollenti spiriti, di fare ragionare, sono tutte cose apprezzabili. Ma non ci sono già le forze dell’ordine? Cosa vogliamo fare l’edizione riveduta e corretta delle “guardie padane”?

Capirai se i trasgressori si lasceranno convincere da un assistente civico messo alle loro calcagna dallo Stato. Sarà probabilmente un ulteriore incentivo alla trasgressione. E allora? Allora non resta che piangere amaramente sul latte versato, smettendo di pensare che qualcuno possa andare a raccoglierlo col cucchiaino.