La puzza della pentola berlusconiana

«Berlusconi deve essere condannato a priori perché è un mascalzone! Questa è la realtà, a mio parere è stato trattato ingiustamente e ha subito una grave ingiustizia. L’impressione che tutta questa vicenda sia stata guidata dall’alto. In effetti hanno fatto una porcheria perché che senso ha mandarla alla sezione feriale? Voglio per sgravarmi la coscienza, perché mi porto questo peso del… ci continuo a pensare. Non mi libero… Io gli stavo dicendo che la sentenza faceva schifo». È la registrazione, avvenuta a sua insaputa, delle esternazioni di un giudice della Cassazione, Amedeo Franco, poi deceduto, dopo aver partecipato alla stesura della sentenza che sarebbe costato il posto in Senato a Silvio Berlusconi.

“Sussiste una malafede del presidente del Collegio, sicuramente”, dichiarò Franco riferendo voci secondo le quali il magistrato Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione che emise la sentenza di condanna nell’agosto 2013, sarebbe stato “pressato” per il fatto che il figlio, anch’egli magistrato, era indagato dalla Procura di Milano per “essere stato beccato con droga a casa di…”. Sempre secondo Franco, “i pregiudizi per forza che ci stavano… si potesse fare… si potesse scegliere… si potesse… si poteva cercare di evitare che andasse a finire in mano a questo plotone di esecuzione, come è capitato, perché di peggio non poteva capitare”.

Ho letto e riletto più volte con una certa curiosità queste sconclusionate parole dette in libertà da un giudice, che comunque aveva partecipato senza formalizzare alcun dissenso alla sentenza della Cassazione che condannò definitivamente Berlusconi per frode fiscale. Credo fotografino con una certa attendibilità, a livello psicologico, lo stato dei rapporti tra Berlusconi e la magistratura. Il cavaliere decise fin dall’inizio di difendersi politicamente dai processi: la buttò in politica, screditando i giudici che lo indagavano e lo giudicavano, dipingendoli come un branco di lupi assetati del suo sangue.

Ho sempre banalmente pensato: questi, prima o poi, gliela faranno pagare caramente e, in effetti, non si sono fatti scappare nemmeno una delle occasioni continuamente offerte loro su un piatto d’argento da un personaggio che faceva della trasgressione in tutti i campi una delle componenti fondamentali del suo appeal politico.

Non credo che Berlusconi sia stato vittima di complotti né politici né tanto meno giudiziari: l’unico complotto è stato da lui ordito, velleitariamente ma pericolosamente, contro la democrazia, costruendo un vero e proprio regime, per il quale mi permisi di affrontare il triste quesito se si trattasse di fascismo riveduto e aggiornato. Il potere giudiziario è stato per lui l’ostacolo insormontabile contro il quale è andato a sbattere.

Può darsi che a Silvio Berlusconi sia capitato come ad Al Capone (mi si perdonerà il paragone paradossale, spropositato e impossibile forse tanto quanto quello con il caso Dreyfus azzardato da altri), di essere incastrato su questioni fiscali, dopo essersi destreggiato in mezzo a tanti procedimenti giudiziari con l’aiuto anche di leggi ad personam. Quando non sapeva più come saltarci fuori, si attaccava al vittimismo ed è quello che continua a fare, lui e i pochi ma carissimi amici che gli sono rimasti.

Le reazioni all’emersione fuori tempo massimo delle succitate registrazioni, peraltro divulgate a babbo morto, sono tutte stucchevoli. L’occasione è ghiotta per tentare di riabilitare la memoria di una penosa esperienza politica della quale c’è poco o niente da salvare: i mestatori nel torbido di questa pentola finiscono col provocare solo un’ulteriore puzza berlusconiana. La reazione più curiosa però è quella di pretendere per Berlusconi una riparatoria nomina a senatore a vita. Ma fatemi il piacere. Nei prossimi giorni, se avrete la pazienza di farlo, potrete leggere nella sezione libri di questo sito una ricostruzione fatta a suo tempo del regime berlusconiano, poi semmai, tra i commenti ai fatti del giorno, potrete tirarvi su il morale con una mia odierna, personale, malinconica, paradossale, sarcastica riabilitazione berlusconiana: una sorta di “aridateci er puzzone” alla disperata ricerca di rimedi peggiori del male.

Vitaliz…zare la politica

Il trattamento economico dei parlamentari e dei consiglieri regionali viene sempre discusso e normato con demagogia, vale a dire non all’interno di un dibattito politico democratico, ma a livello di mera propaganda allo scopo di lisciare il pelo al lupo qualunquistico sempre in agguato.

Da una parte abbiamo chi sventola la bandiera della sobrietà per le remunerazioni di quanti svolgono funzioni elettive di alto livello, uno sventolio che rasenta la pretesa della gratuità del servizio; dall’altra l’annosa tendenza a spillare privilegi a carico dei soldi pubblici, volta ad enfatizzare una sorta di status symbol per i membri del parlamento e per i componenti dei consigli regionali. La soluzione starebbe invece nel pretendere il massimo dell’impegno qualitativo e quantitativo a fronte del quale garantire un’equa remunerazione. Cosa ottengo se pago poco i parlamentari? Che molti, probabilmente i più qualificati, cittadini rinunceranno in partenza a dedicarsi all’attività politica per non abbassare il proprio tenore di vita. Oppure faranno politica a tempo perso e in aggiunta alle loro ben più remunerative attività professionali. Oppure interpreteranno il mandato parlamentare come un trampolino di lancio per ben altre attività di contorno. Oppure arrotonderanno il basso stipendio con molta attenzione al lobbismo e con la tentazione di cedere alla potenziale concussione. Oppure, per dirla in modo brutalmente classista e semplicista, faranno politica solo i ricchi che se lo potranno permettere o i buoni a nulla che si accontenteranno o i capaci di tutto che si arrangeranno.

La Costituzione all’articolo 54 prevede che i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche abbiano il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, nel senso che bisognerebbe comunque mettere questi cittadini nelle migliori condizioni, anche economiche, per adempiere al meglio le loro funzioni. Non mi interessa un parlamento di serie b, poco costoso, ma anche poco produttivo: sarebbe la vittoria di Pirro da sbattere in faccia a chi considera la politica un male necessario e non la più alta forma di carità, intesa come servizio alla collettività. A volte vengono pubblicate le pagelle di deputati e senatori: emergono purtroppo assenteisti, fancazzisti, incompetenti, personaggi in tutt’altre faccende affaccendati. Questo è il vero guaio che va oltre il numero eccessivo degli eletti e la loro remunerazione considerata esagerata. Anche per il parlamentare vale il discorso della produttività, cioè il confronto fra il costo e i risultati ottenuti, anche se questi ultimi sono spesso difficilmente calcolabili e valutabili.

Mi scandalizzo e mi irrito non quando leggo le cifre dei cedolini paga dei parlamentari, ma quando vedo le aule parlamentari deserte o quando assisto a certe pagliacciate. Non è giusto adeguarsi al basso livello della classe politica, generalizzarla nei difetti e trattarla a pesci in faccia. Preferisco chiedere ai partiti di selezionare le candidature, ai candidati di presentare le loro credenziali, agli elettori di essere attenti a chi votano, badando molto alle garanzie fornite sul piano della correttezza, dell’esperienza, della preparazione e della competenza.

Discutendo recentemente sul basso livello qualitativo della nostra classe politica in rapporto alle enormi difficoltà del momento che stiamo attraversando, ho individuato diversi fattori responsabili di questo degrado: assieme alle ideologie se ne sono andati anche le idealità e i valori; sono finite le due scuole di pensiero e di cultura a cui per decenni abbiamo attinto, vale a dire il cattolicesimo e il comunismo; la degenerazione del sistema in senso di gestione affaristica del potere per il potere, che si è sostituita alla cosiddetta “terza fase” ipotizzata da Aldo Moro, facendo crollare i pilastri su cui  era basata la nostra democrazia tuttora alla ricerca di una nuova classe politica degna di questo nome; il nascere ed il proliferare di un leaderismo improvvisato e falso, dal craxismo al berlusconismo, dal grillismo al salvinismo, etc. etc.;  l’idea di una politica scorciatoia verso facili e illusorie soluzioni di tipo populistico. Quando alla fine degli anni ottanta del secolo scorso andò in crisi la prima repubblica, Gianni Agnelli previde in un ventennio il tempo necessario per rifare una classe politica: di anni ne sono già passati trenta e siamo ancora qui a fare certi sconsolati discorsi.

Un’ultima riflessione sui vitalizi, vale a dire sulle “pensioni” dei parlamentari: ammetto che si sia esagerato. Al fine di garantire un’uscita dignitosa si è prefigurato un percorso assurdamente privilegiato. Giusto quindi rivedere i meccanismi previdenziali per deputati, senatori e consiglieri regionali, cercando però di non dare delle sforbiciate a vanvera, peraltro facilmente impugnabili dal punto di vista legale, ma puntando ad una revisione equa e ragionata del sistema che possa recuperare le ingiustizie del passato non con una gogna censoria, ma con la sistemazione seria di un’eredità ingombrante e imbarazzante per tutti.

I brodini per la politica europea

È utile mettere il naso nella politica degli altri Stati per sentire l’aria che tira in Europa. Siamo in un periodo in cui le tendenze sembrano fatte apposte per essere rapidamente smentite: la corsa al sovranismo sembra uscire assai ridimensionata dalle elezioni amministrative francesi e dal primo turno di quelle politiche in Polonia.

Per quanto concerne la Polonia faccio riferimento di seguito a quanto scrive Monica Perosino su “La Stampa”. Quella che solo due mesi fa sembrava una formalità da pagare alla democrazia – il voto – si è trasformata in una battaglia all’ultimo sangue tra il campione dei sovranisti e la sua nemesi, il sindaco di Varsavia, Rafał Trzaskowski, che ha costretto il presidente conservatore al secondo turno. A urne chiuse, gli exit poll confermano le speranze del partito d’opposizione Piattaforma Civica (epigono di Solidarnosc): il presidente uscente Duda, con il 41,8% dei voti non avrebbe raggiunto la maggioranza del 50%, frantumata dall’impresa di Trzaskowski, che, in una campagna elettorale lampo messa in piedi in un mese, sarebbe riuscito a portarsi a casa il 30,4% dei consensi. E ora, con altri candidati che già hanno promesso il loro sostegno al sindaco di Varsavia, l’esito del secondo turno, il 12 luglio, potrebbe determinare la svolta europeista e liberale della Polonia, anche se la strada è tutta in salita.

Ai seggi, tra due settimane, non si scontreranno «solo» due candidati presidente, ma due visioni opposte della Polonia. Da una parte quella degli ultraconservatori di Duda, euroscettica, rurale, tradizionalista e nazionalista, dall’altra quella rappresentata da Trzaskowski, a fianco delle donne, dei diritti civili, della comunità Lgbt, in difesa di un Paese europeo, democratico e moderno. La Polonia è a un bivio anche secondo l’ex presidente del consiglio europeo Donald Tusk, è una scelta «tra la verità o la menzogna, il rispetto o il disprezzo, l’orgoglio o la vergogna».

Con Duda presidente, il governo di Morawiecki, insediatosi nel 2017, non incontrerebbe ostacoli sulla via delle riforme che allarmano i giuristi nazionali e internazionali, perché sempre più restrittive nei confronti dell’autonomia del potere giudiziario e dei diritti civili. Con Trzaskowski, che da tempo cerca di creare un’asse europeista tra le capitali dei quattro Stati Visegrad e vuole indebolire «i governi della tensione», fare pace con l’Europa sarebbe più facile. Qualsiasi sia il verdetto del 12 luglio, Trzaskowski, pare comunque destinato a guidare, finalmente, la rinascita dell’opposizione liberale polacca.

Forse finalmente la Polonia esce dal tunnel post-comunista e dopo la padella del regime filo-sovietico riesce a scansare il pericolo di precipitare nella brace nazional populisti-sovranista. Sarebbe una gran bella notizia per tutta l’Europa, che ha frettolosamente aperto le proprie frontiere agli Stati dell’impero comunista per ritrovarseli a succhiare la ruota finanziaria (e fin qui niente di male) per poi segare i legami europei con la peggiore delle reazioni (e qui invece sta il male). Se i polacchi si stanno dando una mossa per rinsavire non può che fare immenso piacere, anche se forse è un po’ presto per cantare vittoria. Se poi si trattasse di avvisaglie valide per l’intera Europa, sarebbe ancor meglio.

La Lega a livello di sondaggi ha perso circa un 10 per cento rispetto ad un anno fa ed attualmente si attesterebbe su un 24% che le consentirebbe comunque di essere il primo partito. Se ai voti di Salvini sommiamo quelli, per certi versi ancor più inquietanti, di Giorgia Meloni, arriviamo a un triste 40% circa di italiani che puntano su una destra estrema populista e sovranista. Non siamo lontani dal 41,8% del presidente polacco uscente Duda. Non c’è da brindare, ma nemmeno da disperarsi. Allo stato di necessità del post-coronavirus si potrebbero aggiungere gli effetti di una eventuale sconfitta di Donald Trump, che sembra un pugile suonato, ma che farà il diavolo a quattro pur di rimanere in sella.

Se ci spostiamo in casa dei cugini francesi i risultati delle Elezioni Comunali nei 4820 comuni al ballottaggio dicono che non c’è una predominanza ma una netta “ondata” ecologista che si abbatte su Macron (e anche su Repubblicani e Socialisti). I Verdi trionfano a Marsiglia, Lione, Bordeaux, Besancon, Poitiers e in moltissimi altri Comuni dove erano dati per sfavoriti (e sfiorano l’impresa contro Aubry a Lille, con la candidata socialista che vince 40% contro 39% nelle urne). Parigi viene mantenuta sotto l’egida di Anne Hidalgo, rieletta sindaca della Capitale di Francia con il 50% delle preferenze ma con una decisa “spinta” data anche qui dall’onda green. Ben venga questa ondata che porta una boccata d’aria fresca e pulita nella politica transalpina. I verdi in Italia non sono riusciti ad esprimere politicamente una cultura ecologista presente anche nel nostro Paese. Il partito democratico la doveva assorbire in sé, ma non è riuscito nell’intento. Un vero peccato perché lo spazio ci sarebbe eccome.

In conclusione discrete notizie! La politica molto ammalata prende qualche brodino e prova ad uscire dal letto. Lasciamoci illudere da queste notizie molto provvisorie e frammentarie. A squarciare le tenebre possono bastare anche piccole fiammelle a condizione che non si spengano nel giro di poco tempo.

Il rifiuto della carota per paura del bastone

“Non abbiamo messo a disposizione tutte queste risorse perché restino inutilizzate” ha detto la cancelliera tedesca Angela Merkel. E si riferiva, in particolare anche se non solo, al famoso Mes. A quel fondo, per l’Italia pari a circa 36 miliardi, che potrebbe essere utilizzato, ad un tasso di interesse pressoché nullo, per interventi sul sistema sanitario, ma che a molti non piace perché teme che accettandolo si finisca dritti nelle braccia della cosiddetta Troika. La cancelliera ha rotto un po’ gli schemi ed ha parlato così poco diplomaticamente da indurre il presidente del Consiglio Giuseppe Conte a risponderle in maniera altrettanto chiara e netta: “Sul Mes non è cambiato nulla, rispetto le opinioni di Angela Merkel, ma a fare i conti sono io, con il ministro Gualtieri, i ragionieri dello Stato e i ministri”.

Così viene fotografato il dibattito sul Mes da Cesare Zapperi sul Corriere della Sera. È vero che bisogna sempre stare attenti, quando si contrae un prestito, alle condizioni  poste dal soggetto erogante, che a volte nascondono qualche spiacevole trappola, è altrettanto vero che purtroppo dell’Unione europea non ci si può fidare a scatola chiusa, è ancor più vero che i rapporti tra i partner europei sono improntati più alla diffidenza che alla solidarietà, ma comunque la questione dell’utilizzo o meno del Mes è e sta diventando sempre più una questione di carattere ideologico, uno scontro tra europeisti ed euroscettici di casa nostra.

Le ideologie, a quanto pare, non sono mai finite, e rispuntano ciclicamente a condizionare le scelte politiche che dovrebbero tendere al bene comune e non alla difesa pregiudiziale “delle idee e delle mentalità proprie di una società o di un gruppo sociale in un determinato periodo storico”. Il Mes viene considerato il termometro con cui misurare la temperatura della convinzione europeistica e non lo strumento per attingere a importanti risorse finanziarie con cui affrontare la nostra situazione sanitaria.

Detta in altri termini non mi sembra assolutamente il caso di sottilizzare sui timori delle conseguenze che potrebbe avere il prestito qualora la situazione italiana dovesse ulteriormente peggiorare e richiedere una sorta di commissariamento da parte delle autorità monetarie europee ed internazionali. Non si può ragionare in questo modo: di queste risorse noi abbiamo bisogno come del pane, le dobbiamo bene utilizzare e, se mai dovesse andare tutto a catafascio, non sarà l’utilizzo dei fondi del Mes il motivo fondamentale e scatenante dei gravi provvedimenti nei nostri confronti. Non si può governare andando avanti alla cieca, ma non si può nemmeno governare con la paura di essere puniti qualora le cose non andassero bene.

Arrivo a pensare che, tutto sommato, il profilarsi di una (eventuale) certa qual severità nei nostri confronti ci dovrebbe aiutare a comportarci seriamente ed a muoverci con grande impegno e senso di responsabilità. Non bisogna rifiutare aprioristicamente la carota per paura del bastone.  Prendiamoci la carota, utilizziamola al meglio e il bastone lo dovranno comunque riporre nei magazzini di Bruxelles o di Strasburgo. Non si può rinunciare alla politica, rinchiudendosi nel proprio guscio sovranista per paura che qualcuno ci possa “fare l’uomo addosso”. Accogliamo umilmente i fondi del Mes, ringraziamo, usiamoli bene, senza timore che ce li prestino per venire un domani a comandare in casa nostra.

Azzardo di seguito una similitudine calcistica. Mio padre, nella sua generosa e ostentata ingenuità, teorizzava che il tifoso, se si comporta correttamente o almeno evita certi eccessi e certe intemperanze, può recarsi in qualsiasi stadio del mondo senza correre rischio alcuno e senza rinunciare a sostenere la propria squadra. In effetti diverse volte eravamo andati in trasferta, avevamo seguito il Parma in altri stadi, senza soffrire spiacevoli inconvenienti. Mio padre era così sicuro della sua teoria che una volta mi consentì di portare la bandiera crociata artigianalmente confezionata con un manico da scopa. Era lo stadio Braglia di Modena, derby di serie B: non riuscii neanche a spiegare la bandiera ed a sventolarla, che il Parma era già sotto di un goal e mio padre, un po’ “grilloparlantescamente”, mi disse: “A t’ äva ditt äd lasärla a ca’, ch’ l’era méj”. Ne prendemmo altri due: un secco, inequivocabile tre a zero dai cugini modenesi.

Cosa voglio dire? Di non far finta di avere coraggio, ma di averlo veramente. Tutti ricorderanno la barzelletta del marito che, per schivare gli improperi e le bastonate della moglie, si rifugia sotto il letto. Al reiterato e autoritario invito della moglie ad uscire dal penoso nascondiglio, egli, con un rigurgito di machismo, risponde: «Mi fagh cme no vôja e stag chi!». I sovranisti in modo sbracato e gli euroscettici in modo subdolo si ficcano sotto il letto dell’orgoglio nazionale e ci rimangono a costo di rinunciare aprioristicamente a praticare quel letto, a dormirci sopra ma soprattutto a …

 

 

Proviamo a parlare coi fatti

Generalmente chi accusa il premier ed il suo governo di evanescenza (qualcuno sostiene che gli Stati Generali si siano rivelati Stati generici), chiede il passaggio ai fatti, ma finisce spesso col sommergere di parole le già troppe parole governative. Forse Giuseppe Conte farebbe bene a parlare quando avesse veramente qualcosa di preciso e concreto da proporre (ancor meglio se quel qualcosa fosse già stato concordato tra i ministri e tra le forze di maggioranza). Però chi lo massacra di critiche non brilla per concretezza: la stessa accusa di mancanza di fatti, se non è accompagnata dai fatti, rischia di essere un mero supplemento di parole al vento.

Ecco perché ho ascoltato con sorpresa e interesse le proposte formulate dal noto e brillante giornalista Beppe Severgnini: ha individuato le priorità nella scuola e nella sanità. Si tratterebbe a suo dire di sistemare, mettere a norma e potenziare gli edifici per le scuole di ogni ordine e grado; di allargare e attrezzare al meglio i reparti di pronto soccorso degli ospedali; di inquadrare correttamente ed opportunamente dal punto di vista economico e funzionale gli operatori sanitari. Sarebbe un modo inattaccabile ed indiscutibile per impiegare al meglio le risorse finanziare in arrivo (almeno si spera) dalla Ue. Nessuno potrebbe obiettare sull’utilizzo dei fondi europei, per il quale, bisogna pur ammetterlo, non siamo purtroppo esenti da critiche per il passato remoto e recente (spesso non abbiamo attinto ai fondi pur stanziati e spesso siamo stati trovati in castagna per quanto concerne la correttezza nelle destinazioni).

Non ho idea a quanto potrebbe ammontare il fabbisogno per realizzare quanto propone Severgnini, immagino che comunque occorrerebbe parecchio tempo per intervenire concretamente ed in modo esauriente, ma abbiamo a portata di mano un’occasione che non possiamo permetterci il lusso di perdere. Sulla scuola si sta scatenando una bagarre notevole che sta letteralmente mettendo in croce prima del tempo la ministra Azzolina (non un mostro di autorevolezza e competenza, bisogna pur dirlo). Ho leggiucchiato le proposte, peraltro ancora in divenire, del governo: non mi sembrano così scriteriate e inadeguate. C’è sicuramente molto da discutere e da perfezionare (in fretta perché settembre è dopo domani), ma nemmeno da stracciarsi le vesti cominciando il solito rito piazzaiolo delle proteste coinvolgenti tutte le categorie di cittadini interessate.

Se in Italia non si può parlar male della mamma e di Garibaldi, ci si deve sfogare a parlar male della scuola. Tutti i ministri che si sono cimentati nella riforma scolastica hanno fatto cilecca. Ci sarà pure un perché. Probabilmente ci sono molti perché: dal corporativismo sindacale alla burocratizzazione strutturale, dallo scaricabarile delle famiglie al sociologismo datato degli studenti, dalla scarsità di risorse all’utopismo fragile degli esperti in materia.

La intervenuta necessità di ripensare il Paese daccapo impone di ripartire dai bisogni essenziali e indubbiamente la scuola e la sanità sono i primi fra questi. La politica accorci il più possibile i tempi decisionali, gli operatori si rendano disponibili alla gradualità, ai cambiamenti e ai sacrifici necessari, la gente abbia la pazienza di aspettare un po’ (non troppo) prima di giocare a mosca cieca con le proposte governative. Le piste suggerite da Beppe Severgnini meritano attenzione e risposte. Con esse si dovrebbe andare sul sicuro, anche se molti metteranno sul tappeto altri problemi importanti ed urgenti, che non credo però possono stare alla pari con quelli suddetti.

 

Il corto circuito delle paure

Non sono uno zoologo e, per la verità, non ho alcuna simpatia per gli animali, che tuttavia rispetto anche se non ammetto certe esagerazioni affettuose nei loro confronti, che spesso finiscono col diventare torture precipitose. Mi dicono che i cani abbaino soprattutto quando hanno paura e contro le persone di cui hanno paura: un modo istintivo per sfogare le loro tensioni rabbiose. Me lo aspettavo e sta succedendo: si sta creando un pericoloso corto circuito tra paura del coronavirus e insofferenza verso gli immigrati. Prendo e riporto la notizia dall’Ansa.

Alta tensione nella cittadina casertana di Mondragone dopo l’esplosione di un focolaio Covid.  Un gruppo di bulgari, residenti ai palazzi Ex Cirio, ha protestato uscendo fuori dalla zona rossa istituita nell’area per la presenza di quasi 50 casi di positività al Covid. Le forze dell’ordine che presidiano i varchi sono riuscite a riportare dentro gli stranieri. Sono arrivati a quota 49 i casi di positività nel complesso residenziale.

Si tratta in massima parte di cittadini bulgari residenti in quattro dei cinque palazzoni divenuti off limits da lunedì 22 giugno, dopo che è entrata in vigore l’ordinanza della Regione. Vanno inoltre avanti, anche se a rilento, le operazioni di trasferimento delle persone positive, peraltro tutte asintomatiche, al Covid Hospital di Maddaloni, dove sono diciannove quelli attualmente ricoverati; ieri sono stati trasferiti sei contagiati, ne mancano all’appello altri tredici, cui si aggiungono i nuovi positivi. Qualcuno tra i positivi, però, non si riesce a rintracciare; molti inquilini, specie tra gli stranieri, non risultano censiti, e si ipotizza che abbiano fatto perdere le tracce, anche per timore di perdere il lavoro; molti sono braccianti agricoli, spesso sfruttati dai caporali di nazionalità bulgara, alcuni dei quali vivono anche agli ex Palazzi Cirio.

Un altro momento di tensione c’è stato successivamente tra i manifestanti italiani che presidiano il varco d’accesso e i bulgari che abitano all’interno della zona rossa. Un bulgaro ha lanciato una sedia dal balcone, gli italiani hanno risposto lanciando pietre e sfondando i finestrini delle auto dei bulgari parcheggiate. Poi hanno mostrato le targhe delle vetture a mo’ di trofeo. Sotto al palazzo si è radunata una folla che accusa anche la polizia di “essere stata troppo permissiva coi bulgari”.

Il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, ha annunciato l’arrivo dell’esercito: “Questa mattina ho avuto un colloquio con il Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese in relazione alla zona rossa istituita negli ex palazzi Cirio di Mondragone. Ho chiesto l’invio urgente di un centinaio di uomini delle forze dell’ordine per garantire il controllo rigoroso del territorio. Il Ministro ha annunciato l’arrivo di un contingente dell’Esercito”.

Di questa gente finora nessuno si è curato più di tanto, vuoi per verificare le loro condizioni di lavoro, vuoi quelle abitative ed igienico sanitarie. Ora che questo ghetto è diventato un focolaio di possibile diffusione del coronavirus, tutti contro gli immigrati che diventano gli untori del caso. Dal punto di vista psicologico è un classico il ribaltamento delle proprie paure sui soggetti deboli. Eloquente al riguardo la favola del lupo e dell’agnello, forse vale la pena ricordarla. Un agnello era giunto a un ruscello per bere; più in alto, stava un lupo che lo vide e, ingolositosi, decise di mangiarlo; pertanto cercò un pretesto per litigare. Lo accusò di stargli sporcando l’acqua, impedendogli di bere. L’agnello gli disse che stava bevendo a fior di labbra, e poi non poteva intorbidare, da sotto, l’acqua a lui che stava sopra. Il lupo, respinto da questa ragione, incalzò che l’anno prima l’agnello lo aveva insultato. Ma quello ribatté che non era ancora nato. Allora il lupo esclamò che se non era stato lui, di certo era stato suo padre. E subito gli saltò addosso e lo sbranò fino a ucciderlo ingiustamente.

Socialmente parlando, se si consente l’emarginazione di certe categorie di soggetti, diventa automatica la creazione di ghetti e prima o poi la situazione esplode con scontri violenti e vere e proprie ribellioni. Sul piano politico ci ostiniamo a non gestire seriamente il fenomeno migratorio, se non per esorcizzarlo e/o cavalcarlo dal punto di vista strumentale quale esca per l’ottenimento di facili consensi. Le mine vaganti prima o poi esplodono e l’esplosione può avere effetti a catena.

Adesso partirà il gioco allo scarico delle responsabilità tra governo centrale e governi locali, l’immigrato diventerà il portatore di virus da isolare e combattere, qualcuno diventerà razzista anche se fino ad ora magari non lo era. Perché si dice chiodo scaccia chiodo? L’espressione ha un significato intuitivo piuttosto semplice: per cacciar via un chiodo piantato male bisogna spingerlo via battendolo dall’altra parte con un altro chiodo. Nel nostro caso qualcuno vorrebbe far funzionare questo proverbio, rimuovendo il problema coronavirus con l’aiuto di quello dell’immigrazione. Ma è vero proprio il contrario.

 

Corsa ad ostacoli

Se è vero che la politica è l’arte del governare, in democrazia però per governare ci vogliono i numeri. L’attuale governo italiano, come prescrive la Costituzione, deve avere la fiducia delle Camere e, dal punto di vista numerico, tale fiducia, al Senato, viaggia sul filo del rasoio. Onestamente è un problema che ho sottovalutato partendo dall’assunto che il governo giallo-rosso presieduto da Giuseppe Conte non abbia alternative né sul piano politico né dal punto di vista numerico. Il centro-destra infatti non è in grado di esprimere una maggioranza parlamentare, mentre le maggioranze trasversali si è già visto che non possono reggere seriamente e i governi di unità nazionale rappresentano una chimera. Aggiungiamo che solo il pensare ad elezioni politiche anticipate in un clima emergenziale come quello che stiamo vivendo ha il sapore di una idea pazzesca.

Tuttavia si può governare con soli 162 voti sui 321 senatori presenti a Palazzo Madama? In teoria sì. Dopo le ultime defezioni in casa pentastellata la dotazione governativa è infatti di 162 voti, che sono la somma di 95 senatori M5S, 35 del Pd, 17 di Italia viva, 5 di Leu, 7 del gruppo Misto e 3 delle Autonomie. Come scrive Cesare Zapperi sul Corriere della sera, qualcuno sostiene che si possa raggiungere quota 165. Ma come? Ci si può arrivare se i tre senatori della Svp si schierano con la maggioranza senza se e senza ma. Una scelta che finora non hanno fatto. Il loro comportamento è cambiato. All’inizio, alla prima fiducia, i tre esponenti altoatesini si sono astenuti. Nelle ultime occasioni, invece, hanno votato a favore. Va ricordato che la SVP a Bolzano è alleata al centrodestra. E quindi su questi voti non si può dare nulla per scontato.

Un altro capitolo è quello dei senatori a vita che già in passato con il loro sostegno sono riuscita a tenere in piedi qualche governo. Attualmente, i senatori a vita sono 6: Giorgio Napolitano, Mario Monti, Elena Cattaneo, Carlo Rubbia, Renzo Piano e Liliana Segre. Gli unici due che partecipano abbastanza assiduamente alle sedute del Senato sono Monti e Cattaneo. E in qualche circostanza, più il primo della seconda, hanno espresso il loro voto per il governo. Piano e Rubbia, invece, non sono quasi mai presenti e anche Napolitano e Segre, per ragioni diverse, partecipano raramente. Quindi, al tirar delle somme, la maggioranza può arrivare fino a 167 solo con il sostegno, non garantito né continuo, di Monti e Cattaneo.

È vero che si sta parlando di maggioranza assoluta degli aventi diritto al voto, che peraltro non è quasi mai richiesta dalle votazioni parlamentari, ma resta una notevole precarietà, che certamente non aiuta il già difficilissimo percorso governativo, caratterizzato da problemi oggettivamente drammatici e da contrasti politici piuttosto rilevanti. Sono parecchi i temi su cui M5S e PD non la pensano allo stesso modo e ciò ritarda e intralcia l’azione del governo, che, mai come in questo periodo, avrebbe bisogno di viaggiare speditamente.

Un governo politicamente claudicante, con parecchi ministri piuttosto deboli, con una maggioranza parlamentare che si sta assottigliando e potrebbe addirittura dover fare i conti con una “scissioncina” in casa grillina, che deve misurarsi con polemichette di giornata in casa piddina, che deve scansare il fucile sempre spianato dei renziani in cerca di freddo per il letto, che si deve confrontare con una opposizione distruttiva e indisponibile al dialogo, che non va d’accordo con i sondaggi, i quali danno i partiti di maggioranza in notevole calo di consensi rispetto ai numeri parlamentari, con la prospettiva di dover affrontare una situazione sociale esplosiva, con la necessità di varare un progetto di rinascita da far tremare le vene ai polsi, con rapporti comunque piuttosto problematici a livello delle istituzioni europee e soprattutto di certi Paesi che non mancano di buttarci la croce addosso, senza poter contare sulla sponda statunitense che ci ha sempre aiutato molto.

Il governo Conte, nonostante tutto, stando alle opinioni degli italiani emergenti dalle indagini demoscopiche, non dispiace alla gente, che, probabilmente, ne capisce le difficoltà e ne apprezza la buona volontà soprattutto per quanto concerne il senso di responsabilità del premier, fin troppo intento a curare la propria immagine sul piano mediatico. Giuseppe Conte gode più di buona considerazione popolare che di buona stampa. Personalmente non ne sono entusiasta anche se, ogni qualvolta lo sento parlare, mi viene spontaneo usare un’espressione paterna assai colorita: “Al n’é miga un gabbian”. La traduco perché non è di immediata comprensione: credo che il gabbiano venga considerato un uccello poco furbo dal momento che si ciba di quello che gli offrono le discariche dei rifiuti a cielo aperto. Purtroppo in politica di rifiuti in giro ce ne sono parecchi e se Giuseppe Conte riesce ad evitarli è già qualcosa.

 

 

Giocare a vedo vedo con Giuseppe Conte

Ho letto e ascoltato due autorevoli pareri sulla situazione socio-economica che stiamo vivendo: Maurizio Landini, segretario confederale della CGIL e Carlo De Benedetti, imprenditore, dirigente d’azienda ed editore, due personaggi rappresentativi del mondo sindacale e di quello imprenditoriale.

Mi è sembrato di cogliere una certa assonanza su un punto molto importante a cui si possono far risalire i principali difetti della nostra realtà: la disuguaglianza. De Benedetti la vede come causa scatenante del malcontento destinato ad esplodere nel prossimo autunno, che, a suo dire, verrà calmato con mance e polizia, vale a dire con un po’ di ordine pubblico e un po’ di regali. Landini la vuole combattere affrontando, secondo lui, la vera urgenza, cioè la detassazione del lavoro.

Tutto ciò mentre si fa un gran parlare, che probabilmente sfocerà in un silenzio tombale, di alleggerimento dell’Iva. Lo scopo sarebbe quello di rilanciare i consumi dal momento che la crisi economica dipende proprio dalla domanda che sta scendendo a picco. Non sarebbe certamente un modo per riformare il nostro sistema fiscale e per aumentare veramente il potere d’acquisto della gente. De Benedetti teme che sia un autogol pazzesco nei confronti della UE: i fondi europei sciupati con misure di piccolo cabotaggio e di dubbia efficacia. Landini vorrebbe diminuire le tasse con criterio, vale a dire alleggerendo coloro che le pagano e le hanno sempre pagate, cioè i lavoratori dipendenti.

I due personaggi non si trovano d’accordo nel giudizio sugli stati generali dell’economia: una perdita di tempo per De Benedetti; per Landini invece la maratona presidenziale di Villa Pamphili è stata positiva e il messaggio è stato importante perché ha ribadito che c’è bisogno di tutti per progettare un futuro e un nuovo modello di sviluppo, anche se poi arriva la mazzata critica, cioè l’appello a passare dalle parole ai fatti ed a finirla con gli annunci tematici.

Secondo me è interessante il discorso della disuguaglianza, che dovrebbe essere il leitmotiv di una politica di sinistra. Come si possa riuscire a coniugare questo obiettivo con la necessità di una veloce ripresa economica rischia di rappresentare una sorta di quadratura del cerchio. Ci sta provando il premier Conte con i suoi tre obiettivi fondamentali per il recupero del Belpaese: modernizzazione, transizione energetica, Italia più inclusiva.

La modernizzazione prevede il miglioramento delle infrastrutture, soprattutto quelle ferroviarie, e la realizzazione della rete unica in fibra ottica; la transizione energetica dovrebbe consistere nel sostegno alle imprese impegnate nella digitalizzazione, nella creazione di intelligenze artificiali e nelle energie rinnovabili; arrivare ad una maggiore inclusività vuol dire infine ridurre il cuneo fiscale e puntare su formazione, scuola, università e ricerca.

Qualcuno insiste a vedere il premier assorbito da una stucchevole e continua passerella mediatica. Di per sé la cosa non sarebbe grave. Giovanni Paolo II amava le adunate oceaniche e non per questo poteva essere tacciato di populismo clericale. Tutto dipende dal fine che dovrebbe giustificare i mezzi. Forse varrebbe la pena di smetterla con la disquisizione sulle capacità di governo di Giuseppe Conte per andargli a vedere in mano. Il partito democratico dovrebbe essere in grado di perseguire l’obiettivo di creare e detassare il lavoro abbandonando i sogni di gloria del reddito di cittadinanza e le illusioni della diminuzione dell’iva seppure mirata e ragionata. In fin dei conti si tratta di tornare all’articolo uno della nostra Carta Costituzionale: “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”.

Se mi è concessa una battutina finale un po’ velenosa, guardando in giro e sentendo tante voci preoccupate, sembrerebbe quasi che l’Italia sia fondata sui bar e sui ristoranti, con tutto il rispetto per chi lavora in questi settori. Provolino diceva “boccaccia mia statte zitta”. Vuoi vedere che il tanto temuto scontento sociale si sfogherà in una serrata degli esercizi pubblici, calmato, per dirla con Carlo De Benedetti, con qualche bonus- caffè e con la polizia a protezione delle vetrine prese a sassate dai cittadini infuriati. Semplici battute di alleggerimento!

Il gerovital per il sistema paese

Era il 07 gennaio 1973. Iniziavo con una certa trepidazione la mia vita professionale: una pila di registri da vidimare finalizzati alla tenuta della contabilità iva, la nuova imposta sul valore aggiunto, che doveva rivoluzionare il nostro sistema fiscale. E di Iva mi occupai per tutta la mia “carriera” in mezzo a bolle, fatture ed autofatture.

Quando entrò in vigore l’iva, fece un certo scalpore l’introduzione di un documento strano, la cosiddetta autofattura, che in certi casi il compratore si vedeva costretto ad emettere al posto del venditore. Un mio simpatico interlocutore, impressionato da questa novità legislativa, quando mi poneva un problema in materia di imposta sul valore aggiunto, finiva col chiedermi in ogni caso: «Co’ disol dotôr, ag fämmiä n’autofatura?». Oggi, al termine degli stati generali dell’economia, si dice che sia giunto il momento per «reinventare l’Italia» perché sia «moderna, sostenibile, inclusiva, verde», ma anche di pensare a misure concrete per far fronte all’emergenza come l’ipotesi di «abbassare un po’ l’Iva». La novità, assai costosa per le casse dello Stato dovrebbe servire a rilanciare i consumi con un occhio particolare ai settori del turismo, della ristorazione, dell’abbigliamento e dell’automobile.

È curioso come l’introduzione dell’iva abbia tenuto, in un certo senso, a battesimo il mio inserimento nel mondo del lavoro ed ora la sua diminuzione diventi un modo per cambiare il mondo dei consumi e segni, anche per me, un cambiamento di vita, se è vero, come è vero, che mi sento una persona diversa in un mondo diverso. Una combinazione, uno scherzo del destino o un segno epocale?

Durante le mie battaglie etiche c’era nel mirino “il consumismo”, un diabolico e perverso meccanismo di distrazione personale e di massa. Oggi me lo ritrovo tra i toccasana per riavviare il motore dell’economia, che ha grippato col coronavirus. Come cambia il mondo! E poi, servirà veramente a ridare fiato alle trombe economiche o saranno solo campane a morto. C’è indubbiamente una forte discrasia tra l’esigenza di rivoltare l’Italia come un calzino e la decisione di mettere una toppa sul vestito vecchio. Prima che l’abito nuovo possa essere confezionato e pronto per l’uso bisogna pure coprirsi in qualche modo, quindi proviamo a ripartire dai consumi, poi si vedrà.

Giuseppe Conte al termine dei tanto chiacchierati stati generali dell’economia ha affermato che l’Italia va rifatta nelle sue infrastrutture, nella burocrazia, nel fisco. Il premier ha riassunto in «tre grandi direttrici» la bozza di idee partorite da 150 incontri in nove giorni. Tre imperativi categorici: modernizzare l’Italia, renderla più inclusiva, compiere una robusta transizione energetica. Non si può certo dire che il premier voli basso. Non si accontenta di un lifting qualsiasi, vuole sottoporre il Paese a una cura di ringiovanimento. Un tempo si parlava di “gerovital” una preparazione farmaceutica sviluppata durante gli anni ’50 e dichiarata a suo tempo come capace di effetti antietà sull’uomo. Durante la sua massima notorietà il Gerovital venne usato da persone del jet set, come John F. Kennedy, Marlene Dietrich, Kirk Douglas e Salvador Dalì.

Speriamo che dalle definizioni roboanti si scenda a programmi concreti. Mio padre non poteva soffrire coloro che le vogliono raccontare grosse, i mistificatori della realtà a tutti i livelli, dalla politica alla più bassa quotidianità. Basti dire che prima di salire su un’automobile guidata da un’altra persona era solito, soprattutto se non la conosceva bene, chiedere provocatoriamente: «Sit bon äd guidär?». L’altro ci rimaneva male e chiedeva il perché di una tale domanda. Al che lui rispondeva candidamente: «Acsí se par cäz sucéda quel a t’podrò dar dal bagolón». Forse porrebbe la stessa domanda, bonariamente provocatoria, a Giuseppe Conte. Speriamo sia in grado di rispondere coi fatti e non a parole.  Perché dei parolai mio padre non voleva saperne: “I pàron coi che all’ostaria con un pcon ad gess in sima la tavla i metton a post tutt; po set ve a vedor a ca’ sova i n’en gnan bon ed far un o con un bicer…”.

 

 

La fretta genera l’errore in ogni cosa

O non capisco niente di politica (cosa piuttosto probabile) oppure c’è qualcuno che ne capisce ancor meno di me. Il partito democratico, se vuole risalire nei consensi e recuperare una identità a livello di sinistra riformista ed europeista, deve avere la pazienza di stare al governo con dignità e serietà, assumendosi la responsabilità di guidare il Paese in un momento drammatico, esprimendo il meglio di sé senza voler strafare, tenendo il dibattito interno a livello costruttivo ed evitando accuratamente polemiche interne ed esterne. Credo sia la faccia del PD che la gente gradisce e preferisce.

Sembrava che la suddetta strada fosse stata imboccata e in via di percorrenza, quando improvvisamente da un personaggio peraltro molto equilibrato e serio come il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, arriva la richiesta di una nuova leadership per il Partito Democratico con tanto di sfida a Nicola Zingaretti, indicando negli amministratori del Pd la riserva in cui andare a cercare il prossimo segretario.

Considerazioni che assomigliano ad una auto-candidatura, se non fosse che lo stesso Gori nega di nutrire ambizioni nazionali e afferma di voler rimanere a Bergamo, o ad un endorsement a favore di Stefano Bonaccini, che però da parte sua ribadisce la sua ferma volontà di collaborare con Zingaretti.

“Se vogliamo incidere e aiutare questo Paese a tirarsi fuori da pasticci serve un altro Pd e forse dagli amministratori arriverà una nuova leadership, ma non sarò io. Da qui ai prossimi quattro anni non sarò io. Però posso dare una mano”. Lo ha detto il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, a un evento organizzato dallo studio Berta, Nembrini, Colombini e Associati e trasmesso in streaming. “Credo che i sindaci e gli amministratori del Pd siano un pezzo di possibile nuova classe dirigente del Paese. Poi chi fa il sindaco – ha continuato – fa il sindaco, non c’è molto tempo per fare altro. Credo ai grandi partiti e credo che i cambiamenti di cui questo Paese ha bisogno non li producano le piccole formazioni politiche con carattere personalistico, ma che servano i grandi partiti popolari. Il Pd ancora lo è, ma vedo molti limiti nella conduzione dell’attuale Pd e per questo mi piacerebbe più concreto, più coinvolto a promuovere le riforme che servirebbero al Paese. E questa cosa deve anche trovare una nuova leadership e lo dico avendo molta simpatia e lealtà nei confronti dell’attuale segretario del Pd”.

Non entro nel merito delle critiche di Gori, peraltro piuttosto condivisibili. Chi non vede una certa qual debolezza nell’attuale leadership piddina? Chi non auspica un Pd più impegnato nelle grandi riforme? Chi non vede la debolezza dell’attuale equilibrio di governo? Chi non vede nei legami con gli amministratori locali la giusta sponda per incardinare territorialmente e concretamente la politica del partito democratico? Cose abbastanza scontate. Non mi sembra però il momento di sollevare simili questioni in modo drastico arrivando a chiedere un congresso straordinario. Oltre tutto, la gente in genere ed anche il potenziale elettorato del PD non capirebbero l’apertura di tale diaspora, mentre il Paese rischia di andare a picco. C’è già chi sta facendo confusione sufficiente e non è il caso che il partito democratico ne aggiunga, magari in buona fede.

Si legge nella Bibbia, nel libro del Qoelet o Ecclesiaste:

“ Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace”.