Chi non muore si rivede: Massimiliano Cencelli

Ho seguito, seppur distrattamente e con scarso interesse e molto fastidio, la vicenda del rinnovo delle presidenze delle commissioni parlamentari, che, a quanto pare, ha scatenato un putiferio polemico di “cencelliana” memoria.

L’articolo 72 della Costituzione italiana stabilisce che le commissioni parlamentari siano composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi politici. Le 14 commissioni di Camera e Senato quindi sono una fotocopia in piccolo degli equilibri dell’aula. In esse risiede Il cuore del processo legislativo: è in questi organi che si svolge la maggior parte del lavoro sugli emendamenti, in cui si cercano convergenze politiche e in cui il dibattito entra realmente nel merito delle questioni. La nomina delle presidenze di tali organi non è quindi di secondaria importanza.

Manuale Cencelli è un’espressione giornalistica con cui si allude all’assegnazione di ruoli politici e governativi ad esponenti di vari partiti politici o correnti in proporzione al loro peso elettorale. L’espressione viene spesso usata in senso ironico o dispregiativo, per alludere a nomine effettuate in una mera logica di spartizione in assenza di meritocrazia. Il modo di dire trae origine dal cognome di Massimiliano Cencelli, un funzionario della Democrazia Cristiana, che si esercitò nell’arte di trovare difficili equilibri tra le correnti democristiane.

Da una parte quindi il peso politico dell’appuntamento di cui sopra, dall’altra il rischio di svilirlo a livello di mero mercanteggiamento fra partiti e correnti. Mi sembra sia successo un po’ così. Non me ne scandalizzo, ma mi permetto di non esserne entusiasta.  Probabilmente su questa vicenda si sono scatenati i latenti contrasti fra le diverse componenti della maggioranza parlamentare e di governo.

Purtroppo non è stato decisivo il criterio di scelta della competenza, si è preferito ripiegare sulla mera appartenenza: mai come in questo momento storico occorrerebbe prestare la massima attenzione alla preparazione ed all’esperienza dei candidati a svolgere un ruolo politico. Si tratta di qualità che scarseggiano nell’attuale classe politica, se poi di esse addirittura ce ne freghiamo e premiamo gli equilibrismi partitici e le rappresentanze in senso fideistico, la frittata è fatta.

Da bambino ho chiesto ripetutamente a mio padre di darmi alcuni ragguagli su cosa fosse stato il fascismo. Tra i tanti me ne diede uno molto semplice e colorito. Se c’era da scegliere una persona per ricoprire un importante incarico pubblico, prendevano anche il più analfabeta e tonto dei bottegai (con tutto il rispetto per la categoria), purché avesse in tasca la tessera del fascio e ubbidisse agli ordini del federale di turno. «N’ éra basta ch’al gaviss la tésra in sacòsa, po’ al podäva ésor ànca un stupidd, ansi s’ l’éra un stuppid, ancòrra méj…». A quel punto chiesi: «E tu papa, ce l’avevi quella tessera lì?». «Ah no po’!» mi rispose seccamente.

Forse la nostra giovane e debole democrazia non ha perso questo brutto vizio? Nella mia esperienza politica ho spesso assistito ad episodi di mera e clientelare spartizione di potere a scapito della competenza con danni incalcolabili a carico delle istituzioni e dell’intera società. Non so come sia finita la questione delle presidenze delle commissioni per la maggioranza parlamentare: una dimostrazione di debolezza. Per l’opposizione l’infantile e strumentale soddisfazione di scompigliare i giochi. Per il Parlamento l’ulteriore indebolimento della sua importante e fondamentale funzione. Per la politica un regalo ai qualunquisti sempre in agguato. Per la società un messaggio di sfiducia in un momento in cui ci sarebbe bisogno di iniezioni di fiducia. Per tutti un altro episodio da dimenticare

Alla domenica sera mio padre chiudeva drasticamente e precipitosamente l’avventura calcistica in modo da non lasciare spazio a code pericolose ed alienanti, a rimasticature assurde e penose. L’unica eccezione era la lettura dell’opinione di Curti, pubblicata sul quotidiano locale del lunedì, un commento essenziale ed equilibrato che finiva, quasi sempre, con la solita sconsolata espressione “un’altra partita da dimenticare”. E mio padre chiosava: “Pri tifóz dal Pärma a gh vól la memoria curta”. Purtroppo è così anche per chi tiene in qualche considerazione la politica.

 

 

 

 

Negare è comodo, criticare è serio

Nel settore accademico della storiografia, il revisionismo è il riesame critico di fatti storici sulla base di nuove evidenze o di una diversa interpretazione delle informazioni esistenti, considerando tutte le parti politiche e sociali in causa come testimoni importanti. L’uso negativo del termine revisionismo si riferisce invece alla manipolazione della storia per scopi politici. Inoltre occorre non confondere il revisionismo a tutti gli effetti con la pseudostoria, il revisionismo politico, il negazionismo e le teorie del complotto.

Con queste correnti di pensiero bisogna andarci molto cauti. Il negazionismo è infatti un termine con cui viene indicata polemicamente una forma estrema di revisionismo storico, la quale, mossa da intenti di carattere ideologico o politico, non si limita a reinterpretare determinati fenomeni della storia moderna ma, specialmente con riferimento ad alcuni avvenimenti connessi al fascismo e al nazismo (per es., l’istituzione dei campi di sterminio nella Germania nazista), si spinge fino a negarne l’esistenza o la storicità.

Sembra pertanto poco appropriato e molto esagerato usare il termine negazionismo per esprimere un certo scetticismo su come è stata individuata, analizzata, vissuta e combattuta la pandemia da covid 19. Tutto è relativo anche il coronavirus – Pirandello docet – e non è sbagliato del tutto interrogarsi sulla realtà come ci viene descritta e somministrata: la scienza non era e non è univoca su questo fenomeno, i media hanno inscenato una indegna gazzarra, la politica ha brancolato nel buio, la gente era ed è frastornata e sballottata tra la disperazione psicologica e sociale e l’evasione totale.

Nella sala della biblioteca del Senato si è tenuto un convegno, organizzato dal critico e senatore Vittorio Sgarbi e dall’esponente del Carroccio, Armando Siri, con la partecipazione di medici, scienziati, esperti e ricercatori “negazionisti” per testimoniare e convincere cittadini e governo che in Italia il coronavirus non esiste più. Non esiste più o non è mai esistito? Il vero negazionismo sarebbe il secondo, mentre il primo sarebbe soltanto un’opinione sull’evoluzione della pandemia.

Tra i vari interventi, alcuni dei quali fortemente esibizionistici al limite del pagliaccesco, altri spudoratamente strumentali dal punto di vista politico, ho scelto il più neutrale e in buona fede. “Ho accolto questo invito ma sono lontano dalla politica”. Ha esordito così il tenore Andrea Bocelli, invitato al suddetto convegno. “Quando siamo entrati in pieno lockdown ho anche cercato di immedesimarmi in chi doveva prendere decisioni così delicate. Poi ho cercato di analizzare la realtà e ho visto che le cose non erano così come ci venivano raccontate”, ha ammesso. “Io conosco un sacco di gente, ma non ho mai conosciuto nessuno che fosse andato in terapia intensiva, quindi perché questa gravità? C’è stato un momento in cui mi sono sentito umiliato e offeso per la privazione della libertà di uscire di casa senza aver commesso un crimine e devo confessare pubblicamente di aver disobbedito a questo divieto che non mi sembrava giusto e salutare”», confessa Bocelli. Per lanciare poi un appello sul ritorno dei bambini a scuola: “Bisogna riaprire le scuole e riprendere i libri. Spero – ha concluso il celebre tenore – che tutti insieme usciremo da questa situazione terribile”.

Purtroppo, a differenza di Bocelli, ho conosciuto alcune persone decedute a causa del coronavirus, ho toccato con mano il dramma dei loro famigliari. Ho cercato anch’io di analizzare la realtà e mi sono ribellato alle stucchevoli diatribe fra scienziati e alla valanga di notizie da cui ero sommerso. Ho cercato anch’io di immedesimarmi in chi doveva prendere decisioni delicatissime e le ho, seppure criticamente, accettate e rispettate. Ho notato anch’io una certa qual esagerazione rigorista a cui malauguratamente ha fatto riscontro una scriteriata vena trasgressiva. Sono anch’io convinto che occorra riaprire le scuole e tornare a studiare coi metodi tradizionali. Non per questo intendo iscrivermi al movimento negazionista. Non so se e come ce la faremo ad uscire dalla tremenda situazione che continuiamo a vivere. Se essere negazionisti vuol dire non rassegnarsi ed appiattirsi su di essa, sono d’accordo. Se invece vuol dire far finta di niente, passare un colpo di spugna su tutto e ricominciare come se niente fosse, mi iscrivo immediatamente al partito degli “accettazionisti”.

Ecco la grande vera emergenza

Giuseppe Conte a Palazzo Madama ha chiarito che durante il Consiglio dei ministri è emersa la necessità di allungare lo stato di emergenza sino a ottobre.  «La proroga – ha spiegato Conte nell’aula del Senato – è una facoltà espressamente prevista dalla legge e attivabile ogni qual volta, anche a distanza di tempo dell’evento, si rende necessaria. Questa esigenza si verifica quasi sempre. Lo dimostrano diversi precedenti». Del resto, argomenta il capo del governo, lo stato di proroga si rende necessario per contrastare la pandemia «che non si è risolta. C’è una imprevedibile evoluzione, e la pandemia non ha esaurito i suoi effetti. Se decidessimo diversamente cesserebbero di avere effetto le ordinanze», osserva il presidente del Consiglio ricordando che sono state adottate 38 ordinanze in questi mesi. «Pur in assenza», quindi, spiega il presidente del Consiglio, «del vincolo normativo» ritengo doveroso condividere «con il Parlamento la decisione della proroga dello stato di emergenza».

Il senato ha approvato la proroga con la netta contrarietà dell’opposizione di Lega e Fratelli d’Italia. Secondo loro il provvedimento è inutile, sostanzialmente illegittimo e forzatamente volto a dare pieni poteri al premier.  Salvini ha citato al riguardo l’autorevole opinione del costituzionalista Sabino Cassese, il quale è critico sulla proroga dello stato di emergenza: “Abbiamo reagito bene all’emergenza anche se tutte le norme sono state impostate, secondo me, in maniera sbagliata. La società è stata migliore del proprio governo”. Se viene prorogato lo stato di emergenza si adotta “un provvedimento sia illegittimo che inopportuno”. “Si dichiara lo stato di emergenza ma la domanda è: siamo in uno stato di emergenza in questo momento? Inoltre – aggiunge Cassese – viene data la spiegazione che bisogna comprare i banchi monoposto per le scuole e le mascherine. Lo stato è in condizioni tali che ha bisogno di dichiarare lo stato di emergenza per acquistare banchi e mascherine?”

Che la situazione emergenziale dal punto di vista sanitario non sia superata è innegabile e purtroppo lo dimostrano i dati dell’andamento della pandemia nel nostro Paese, ma soprattutto nel mondo. Non sono giuridicamente attrezzato per valutare la legittimità della proroga e per analizzare il cortocircuito costituzionale e legislativo, anche se forse non è il momento di sottilizzare più di tanto. Faccio fatica a capire se si stiano facendo questioni di lana caprina o se il problema abbia effettiva pregnanza. Mi pare che la domanda sia: il governo ci sta marciando? Intende affrontare i problemi con mano pesante e accentratrice? Sta esagerando e intende coprire con l’eccesso di potere la scarsità di capacità di incidenza sulla realtà? Probabilmente ci sarebbe materia più che sufficiente per impostare una tesi di laurea in diritto costituzionale e/o amministrativo.

Sull’opportunità di prorogare per qualche mese lo stato di emergenza è difficile fare una valutazione: se da una parte si rischia di prolungare l’ansia della gente (peraltro inspiegabilmente molto più preoccupata di fare le vacanze), dall’altra si punta a mantenere alta l’attenzione generale su una situazione ancora molto difficile e preoccupante. Certamente il governo non sta brillando per chiarezza di linea e per efficacia di azione, ma bisogna ammettere che la situazione è talmente complessa da non sapere da che parte prenderla. All’enormità dei problemi dovrebbe corrispondere un’eccellente qualità nella classe politica e di governo.

Fin dall’inizio della pandemia ho fatto un parallelo tra il secondo dopoguerra e il dopocovid 19. Molte le analogie nella drammaticità dei problemi del Paese, troppe diversità nel livello qualitativo dei governanti. Ci sarebbe bisogno di un Alcide De Gasperi e di un Palmiro Togliatti, mentre ci troviamo alle prese con un Giuseppe Conte e un Matteo Salvini. Gli Usa, anziché sostenere un secondo piano Marshall, ci possono dare solo una mano ad andare nel fosso: confidare nel riscatto di Biden rispetto al disastro di Trump, è “la sperànsa di malvestìi ca faga un bón invèron”, anche se è vero che “putost che niént è mej putost”. L’Europa, che dovrebbe essere la bella novità rispetto agli anni quaranta e cinquanta del secolo scorso, non è in grado di farsi carico della situazione e preferisce limitarsi a fare di conto. Vedo solo due personaggi che potrebbero guidare adeguatamente l’Unione Europea: Angela Merkel e Mario Draghi, entrambi ormai fuori dai giochi salvo miracolosi recuperi. La vera emergenza è questa! Non c’è decreto che la possa risolvere, non c’è dibattito che la possa affrontare!

 

Le ragioni del cuore

Quando ho letto che Marco Cappato e Mina Welby rischiavano la galera, sono andato in ansia. Nell’aula della Corte d’Assise di Massa Carrara, il pm Marco Mandi aveva chiesto infatti per loro una condanna a 3 anni e 4 mesi. Ma l’aveva fatto, codice alla mano, pronunciando queste parole: «Chiedo la condanna con tutte le attenuanti generiche e ai minimi di legge. Il reato di aiuto al suicidio sussiste, ma credo ai loro nobili intenti. È stato compiuto un atto nell’interesse di Davide Trentini, a cui mancano i presupposti che lo rendano lecito. Colpevoli sì, ma meritevoli di alcune attenuanti che in coscienza non mi sento di negare».

Ho tirato un sospiro di sollievo quando è uscita la sentenza: «Il fatto non costituisce reato». Non è stato «aiuto al suicidio». È stato qualcos’altro, che in Italia ancora non trova un nome e una via legale. Ma il gesto compiuto da Mina Welby e Marco Cappato, che il 13 luglio 2017 accompagnarono Davide Trentini, 53 anni, malato di Sla, a morire in una clinica Svizzera, è stato ritenuto degno di assoluzione. Così come era già successo per Dj Fabo, è arrivata un’altra sentenza storica.

Su questa sentenza incide il pronunciamento della Corte Costituzionale del 2019, che così ha stabilito: «Non è punibile chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Cappato fa notare che la sentenza di ieri rafforza questo principio: «Davide Trentini non aveva sostegni vitali, cioè macchine. Ma probabilmente i giudici hanno interpretato in senso più ampio l’idea di sostegno vitale includendovi, come dicevamo noi, anche terapie farmacologiche e pratiche manuali necessarie alla sopravvivenza». Resta inevasa l’indicazione della Consulta: «In attesa di un indispensabile intervento del legislatore…».

Nell’ultimo atto di Bohème, la famosa e stupenda opera di Giacomo Puccini, di fronte all’agonia dell’amica Mimì, il filosofo Colline decide di vendere la sua vecchia zimarra per ricavare un po’ di denaro con cui affrontare l’emergenza e consiglia a Schaunard di fare anche lui un atto di pietà: accennando a Rodolfo chino su Mimì addormentata, gli suggerisce di allontanarsi con umana discrezione per lasciarli soli. Schaunard, musicista, si alza in piedi e commosso si rivolge a Colline: «Filosofo ragioni! È ver! … Vo via!». In quella soffitta tacciono i rigori dell’arte per fare spazio alle delicatezze del cuore.

Meno male che i giudici della Corte d’Assise di Massa Carrara hanno ragionato più col cuore che col codice penale. Ora bisognerebbe che altrettanta disponibilità a ragionare di cuore la dimostrassero i legislatori e gli uomini di Chiesa. I primi devono sforzarsi di trovare una regolamentazione ragionevole relativamente ai casi di suicidio assistito, evitando di confondere questo discorso con quello dell’eutanasia vera e propria (discorso diverso, che tuttavia non va sbrigativamente esorcizzato): non si può continuare a relegare questi drammi umani nel dimenticatoio per delegarli a pochi, coraggiosi e ammirevoli kamikaze dell’etica.

I secondi, mi riferisco alle gerarchie cattoliche, devono uscire dalla tortura del dogmatismo, optando evangelicamente per l’umana pietà, per la carità che non può e non deve imporre sofferenze assurde a nessuno in nome di astratte regole religiose. Il discorso è delicato, ma proprio per questo deve essere affrontato col cuore e non col catechismo.

 

Il casinista Fontana ispira tenerezza

Se non ho capito male, il presidente della regione Lombardia Attilio Fontana, durante il periodo dell’emergenza Covid, avrebbe assegnato con una certa leggerezza una fornitura di camici e set sanitari ad un’azienda di proprietà del cognato. Una volta accortosi dell’errore avrebbe suggerito al cognato di trasformare la fornitura effettuata in una donazione. Poi, accortosi di avere danneggiato significativamente il cognato, ha tentato di ristorarlo dal danno facendogli un bonifico, che però non è andato a buon fine, in quanto, come scrive il Corriere della sera, la milanese «Unione fiduciaria» lo ha bloccato  “perché la somma, l’assenza di una coerente causale, le parti correlate, la qualifica «pep» del cliente (persona esposta politicamente), e la provvista da un conto svizzero dove nel 2015 Fontana dopo la morte della madre aveva «scudato» 5,3 milioni detenuti dal 2005 da «trust» alle Bahamas, erano tutti indici fatti apposta per far «suonare» i protocolli antiriciclaggio della fiduciaria e indurla a inviare una «Sos-segnalazione di operazione sospetta» a Banca d’Italia. Quella che – come ha spiegato il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli – ha messo in moto l’inchiesta dei pm Furno-Scalas-Filippini.

Andando al sodo, mi sembra che il governatore Fontana abbia combinato un gran casino, ma non abbia rubato un bel niente e che quindi si stia facendo un gran polverone intorno al nulla. Addirittura lo stanno accusando di aver danneggiato la regione Lombardia, perché la fornitura in questione si sarebbe trasformata in donazione, con esclusione di 25.000 camici residui che non sarebbero stati forniti.

Dal punto di vista generale mi sembra che sia troppo difficile non avere conflitti di interesse al punto che, paradossalmente, sarebbe opportuno non accettare incarichi pubblici per non incorrere in rischi quasi inevitabili (a meno che non si abbia famiglia, non si sia mai svolta alcuna professione, non si abbia alcun patrimonio e si abbia una laurea in diritto amministrativo con tanto di master sul conflitto di interessi). Nel ginepraio della pubblica amministrazione ci si muove con molte difficoltà: da una parte si chiede immediatezza e snellezza nelle procedure, dall’altra si passa al microscopio il comportamento senza badare alle situazioni emergenziali in cui viene adottato. Non mi sento quindi di buttare la croce addosso a Fontana. Non mi interessa la sua collocazione politica: userei lo stesso atteggiamento anche con amministratori di opposta tendenza.  Oltre tutto, sposando un criterio piuttosto popolaresco, peraltro usato anche da Indro Montanelli, non ha la faccia del disonesto, ma della brava persona. Certo ha fatto un errore e per rimediare all’errore ha commesso altri errori: alla fine ne esce legalmente male, politicamente malissimo ed eticamente maluccio.

A mio avviso i giudici, a cui non voglio togliere il sacrosanto mestiere, stanno esagerando: c’è tanto marcio da cui ripulire il Paese, senza bisogno di vederlo a tutti i costi o di trasformare le pagliuzze in travi. La lotta politica è diventata cannibalesca e l’avversario viene attaccato e distrutto a prescindere. La Lega si strappa le vesti e grida al complotto, senza pensare che la prima gallina che canta ha fatto l’uovo. I politici stanno dimostrando di non avere competenza, esperienza, rigore e credibilità e quindi, in buona sostanza, non sono capaci di governare e amministrare. I media, lasciamo perdere…

 

Berlusconi bifronte

Come ben sintetizza Alessandro Trocino sul Corriere della sera, il problema sembra essere ora lo strumento per gestire i fondi europei: task force ministeriale o commissione bicamerale. Finito il rapido brindisi per il successo nella trattativa europea sul Recovery Fund, comincia una trattativa complicata per la gestione dei 209 miliardi di euro in arrivo dall’Europa, mentre resta sempre inesplosa, ma innescata, la miccia dei 36 miliardi del Mes, il fondo salva Stati che il Pd chiede di usare per le spese sanitarie e il M5S continua a ritenere non necessario e pericoloso. Tanto che al Parlamento europeo Lega, M5S e FdI hanno votato un emendamento che chiedeva di escludere il ricorso al Mes come strumento anti-crisi, bocciato anche grazie ai voti di Pd, Forza Italia e Italia Viva.

Sui miliardi che arriveranno con il Recovery l’idea di Palazzo Chigi era una cabina di regia formata da ministri e funzionari ministeriali, presieduta dal premier. Poi si è pensato di allargare ad altri ministri e tecnici. Ma diversi partiti temono un ulteriore accentramento di poteri a Palazzo Chigi, dopo l’epoca dei dpcm firmati dal solo premier. Renzi ha invitato Conte a portare il dibattito in Parlamento ad agosto. FI propone, con una mozione al Senato, una commissione bicamerale, ma anche nel Pd si spinge per una parlamentarizzazione della gestione dei fondi.

Mi sembra giusto e opportuno che, data l’importanza strategica e gestionale dell’utilizzo dei fondi europei, la primaria responsabilità venga affidata ad uno strumento di emanazione parlamentare. Devo quindi dare atto a Silvio Berlusconi ed a quanto rimane del suo partito di stare giocando benino, finalmente con senso delle istituzioni e spirito collaborativo, la grossa partita politica inerente al “gruzzolo” di provenienza europea. Mi è venuto però spontaneo, a livello di gossip, osservare come il lupo berlusconiano stia perdendo i vizi politici e mantenga invece quelli “sessuali”.

Quando si seppe che Berlusconi aveva una relazione stabile con Francesca Pascale, me ne rallegrai, sperando che gli servisse a rinsavire umanamente, abbandonando il vezzo di collezionare amanti più o meno occasionali e più o meno sincere. Non avevo e non ho alcun particolare interesse per le avventure erotiche del cavaliere, ma il vedere un uomo di una certa età in balia delle pulsioni libidinose fino al punto da cadere nel baratro della prostituzione di lusso mi suscitava pena e non certo invidia. Purtroppo “l’avventura pascaliana” è scaduta e finita nel solito squallido rituale delle buone uscite. Appena quattro mesi fa un comunicato di Forza Italia confermava la fine della relazione tra Silvio Berlusconi (84 anni a settembre) e Francesca Pascale: «Continua a sussistere un rapporto di affetto e di vera e profonda amicizia fra il presidente e la signora, ma non vi è fra loro alcuna relazione sentimentale o di coppia».

Non capisco il perché simili notizie debbano essere politicizzate al punto da formare oggetto di comunicati di un partito politico: la vedo come la riprova della paradossale personalizzazione di Forza Italia, costretta ad occuparsi persino delle battaglie di letto del suo storico leader, ma soprattutto come la conferma dell’assurdo intreccio tra politica e sesso portato avanti dal cavaliere, salvo poi pretendere discrezione e neutralità dai giudici.

La politica non è una partita umana a se stante, ma è mescolata con le vicende delle persone che la incarnano: tutto però dovrebbe avere un limite. Mi auguro che l’attempato personaggio non voglia tornare in sella esibendo nuove fidanzate, di cui abbiamo effettivamente fatto il pieno. Torno alla domanda da cui sono partito: come mai il lupo berlusconiano sta perdendo i vizi politici e rischia invece di mantenere quelli “sessuali”? La risposta consiste nel protagonismo a tutti i costi: per essere protagonista in politica gli è necessario fare la parte del moderato, assennato ed europeista uomo di centro, mentre per mantenere intatta l’immagine di macho ha bisogno di tenere in bella vista il letto a due piazze. Mentre prima mischiava con un certo successo machismo sessuale e leaderismo politico, ultimamente ha ripiegato su una sorta di Berlusconi bifronte: mentre Giano con una faccia guardava il passato e con l’altra il futuro, il cavaliere, con tante macchie e con tanta sfrontatezza, da una parte guarda alla politica peraltro mescolata ai suoi affari imprenditoriali e dall’altra alle donne, meglio dire spudoratamente al ciarpame femminile. Un po’ di garbato gossip, seppure politicamente condito e insaporito, ogni tanto me lo posso concedere? Me lo sono concesso!

 

I misteri del lavoro

«Sono oltre centomila gli stagionali agricoli che arrivano ogni anno dalla Romania in Italia ai quali si aggiungono più di diecimila cittadini bulgari». È quanto afferma la Coldiretti in riferimento all’ordinanza che dispone la quarantena per i cittadini che negli ultimi giorni abbiano soggiornato in Romania e Bulgaria, firmata dal ministro della Salute, Roberto Speranza, a seguito dell’aumento dei contagi nei due Paesi. «Si tratta spesso – sottolinea la Coldiretti – delle medesime persone che ogni anno attraversano il confine per un lavoro stagionale per poi tornare nel proprio Paese. Una possibilità che consente di garantire professionalità ed esperienza alle imprese agricole italiane con le quali si è creato un rapporto di fiducia. Molti di questi lavoratori si trovano già in Italia anche se permane una preoccupazione che il vincolo della quarantena limiti gli arrivi per la vendemmia che tradizionalmente inizia in Italia ad agosto e continua in un percorso che prosegue a settembre ed ottobre con la raccolta delle grandi uve rosse autoctone Sangiovese, Montepulciano, Nebbiolo e che si conclude addirittura a novembre con le uve di Aglianico e Nerello».

In questo contesto, per l’associazione «per favorire le campagne di raccolta sarebbe importante un intervento urgente con una radicale semplificazione del voucher ‘agricolo’ che possa ridurre la burocrazia e consentire anche a percettori di ammortizzatori sociali, studenti e pensionati italiani lo svolgimento dei lavori nelle campagne in un momento in cui tanti lavoratori sono in cassa integrazione e le fasce più deboli della popolazione sono in difficoltà. I voucher sono stati per la prima volta introdotti in Italia proprio solo per la vendemmia il 19 agosto 2008, con circolare Inps con l’obiettivo di ridurre burocrazia nei vigneti e dare una possibilità di integrazione del reddito a studenti e pensionati che sono andate perdute in seguito all’abrogazione dovuta ai casi di abuso favorito ad un eccessivo allargamento ad altri settori e che in realtà non hanno riguardato il settore agricolo».

Sono perfettamente d’accordo con la Coldiretti, ma vorrei andare oltre per pormi qualche inquietante domanda. Innanzitutto come mai da una parte continuiamo a esorcizzare gli immigrati, sostenendo magari che vengono a rubarci il lavoro e il pane, e dall’altra parte ammettiamo candidamente di avere urgente bisogno di questi lavoratori stranieri, affermando che “garantiscono professionalità ed esperienza alle imprese agricole italiane con le quali si è creato un rapporto di fiducia”. I casi sono due: o la Coldiretti fa parte della categoria dei “buonisti ad oltranza”, capeggiata da papa Francesco, oppure molta gente dietro la difesa delle possibilità di lavoro per gli italiani nasconde sentimenti discriminatori e razzisti.

Seconda domanda: è possibile che nella enorme schiera dei disoccupati e dei poveri italiani non si trovino soggetti disponibili a lavori stagionali in agricoltura? Ho l’impressine che non sia tanto una questione di voucher, di complicazioni burocratiche, di flessibilità nelle procedure lavorative, ma di carente disponibilità a “farsi su le maniche” da parte di chi giustamente chiede lavoro e non prende però in considerazione quello che, pur precariamente e faticosamente, il mercato gli offre.

Terza domanda: non è che dietro il lavoro agricolo degli immigrati si nasconda molto lavoro nero e sottopagato, che i disperati stranieri accettano e i disperati italiani rifiutano? Una guerra fra poveri in cui vincerebbero gli speculatori dei campi?

Quarta e ultima domanda provocatoria: siamo proprio sicuri che in Italia esista tutta la disoccupazione e la povertà di cui giustamente si parla in continuazione? Ci sono i misteri della fede, ma anche quelli dell’economia italiana e non solo italiana. Mi pongo due ulteriori quesiti, uno sul lato della domanda, l’altro sul lato dell’offerta. Ben vengano le file in autostrada nei fine-settimana (non tanto per assolvere i casini nella gestione delle autostrade, ma perché il turismo dovrebbe trarne indubbi vantaggi), ma tutta questa gente non sarà poi così povera e non mi venga a piangere miseria: chi è veramente povero non si azzarda nemmeno a mettere fuori il naso e non ha tempo e possibilità di pensare alla ricreazione e alle vacanze. E tutti i negozi che si apprestano a chiudere per ferie non erano quelli che chiedevano a gran voce la possibilità di riaprire i battenti per non morire di lockdown. Ai misteri della fede si risponde con la fede, ai misteri dell’economia si risponde coi sacrosanti dubbi.

 

 

 

La rassicurante trasgressione in divisa

Non sono un tipo facile a scandalizzarsi: il tempo e la conseguente esperienza mi hanno insegnato a non stupirmi di niente, anche se questo atteggiamento piuttosto disincantato non significa indifferenza e insensibilità verso quanto succede intorno a me. In questi giorni emergono tuttavia realtà piuttosto sconvolgenti: dopo le torture in carcere su cui ho già scritto le mie riflessioni, dopo il carcere degli orrori è infatti la volta della caserma degli orrori.

Non si deve generalizzare, ma stupisce naturalmente il fatto che protagonisti di queste squallide vicende siano guardie carcerarie e carabinieri, che, evidentemente, si sentono al coperto per il fatto di indossare una divisa e legittimati ad approdare nel mondo della violenza, della droga, dei soldi sporchi, del sesso sfrenato, etc. etc. Rimane poi il dubbio che queste realtà siano direttamente o indirettamente tollerate dai loro superiori, che forse fanno finta di non vedere per carità (?) di arma. Ma probabilmente l’aspetto più grave riguarda i rapporti con la criminalità organizzata, la stretta interconnessione fra “guardie e ladri”.

Ne esce un quadro inquietante, una sorta di ordine pubblico abbandonato a se stesso, che rischia di avvalorare ulteriormente l’andazzo generale dell’inosservanza delle regole, del menefreghismo sociale, del “tana libera tutti”. Se l’ultimo giocatore nascosto riesce a raggiungere e a toccare la “tana”, potrà esclamare “tana libera-tutti”! o semplicemente “liberi tutti” (o “salvi tutti”), liberando così tutti i giocatori già catturati.

Non è più questione di mele bacate, ma dell’orto malato e fuori controllo. Ho la netta sensazione che la nostra società stia precipitando in una brutta china, dove non c’è limite al peggio. Non diamo tutta la colpa alla politica, anche se naturalmente essa ha le sue colpe. È la società che va alla deriva, spinta dalla mancanza di valori, dal venir meno del senso del dovere e della responsabilità. Non voglio esagerare, ma la situazione è questa e le caserme degli orrori non sono che la punta dell’iceberg, la istituzionalizzazione in divisa della trasgressione.

Scrive Roberto Saviano su La repubblica: “È una delle vicende più gravi della storia della Repubblica quella che riguarda la caserma “Levante” di via Caccialupo a Piacenza. Guardo le foto di questi carabinieri coinvolti nell’inchiesta, si atteggiano come rapper con cartamoneta in mano, vedo le immagini dei torturati. Leggo le accuse gravissime, le violenze e i pestaggi che hanno perpetrato certi dell’impunità (momentanea) data dalla divisa; leggo dei ricatti, delle estorsioni, dello spaccio di hashish ed erba. Leggendo in fila le carte delle inchieste degli ultimi anni l’Italia ne esce come un Narco-Stato”.

Nel mio piccolo sono d’accordo con Saviano, ma mi permetto di essere ancora più catastrofico e mi chiedo: se succede il finimondo in una caserma dei carabinieri, cosa potrà succedere e cosa sta succedendo nella società? Non so se la caserma “Levante” sia lo specchio deformato di una deriva etica in atto da tempo o sia una delle scintille che provocano o possono provocare l’etica dei “cazzi miei”. Certo che quando le guardie si confondono coi ladri vuol dire che il mondo è grigio e non è affatto blu, che stiamo vivendo una lunga progressiva notte in cui “ tutti i gatti sono bigi… È come se la notte, considerata solo come sottrazione (della luce), mancanza (del sole), sospensione (tra due giorni) si appropriasse di tutti i colori e stendesse un velo di uniformità anonima, livellante su tutto”.

Voglio però in conclusione fare un tuffo politico, non per rimangiarmi quanto sopra detto, ma per cercare una via d’uscita. Il nostro Paese sta vivendo, e non è la prima volta, un periodo difficilissimo, e i Partiti e la Politica hanno perso quel ruolo e quella credibilità che furono affidati loro dai fondatori della democrazia e della nostra Costituzione: una crisi che sembra senza ritorno. “Sl’è nota us farà dé” ripeteva spesso Benigno Zaccagnini in dialetto romagnolo, negli anni del terrorismo, ricordando un motto della Resistenza. Impegnarsi perché “si faccia presto giorno” è il modo migliore per reagire positivamente ad un andazzo clamorosamente devastante. Il settimanale Parmasette, con cui ho l’orgoglio di avere collaborato, nel buio degli anni settanta del secolo scorso, uscì con un editoriale dal titolo “Il male c’è ma Benigno”, alludendo alla innovativa e progressista segreteria democristiana di Benigno Zaccagnini. Purtroppo di Zaccagnini in giro non ne vedo, anche se mi ostino a cercarli. Resta il fatto che il male c’è e qualcosa bisogna pur fare.

 

 

 

Gli orrori del tragico tran-tran carcerario

Riporto la notizia prendendola da La stampa: “Torture in carcere, choc a Torino: “Detenuti picchiati tra le risate”. L’inchiesta della procura: 21 agenti accusati dei pestaggi. Indagato anche il direttore: «Sapeva ma nascose tutto». L’inchiesta scuote il carcere «Lo Russo e Cutugno» di Torino e racconta gli orrori che tra marzo 2017 e settembre 2019 si sarebbero consumati nei corridoi, nelle celle e negli spazi comuni dell’istituto. Con 21 agenti della polizia penitenziaria indagati per il reato di tortura. Con un direttore (anche lui indagato) che aveva ricevuto le denunce e avrebbe taciuto, consapevolmente. E – infine – con un comandante del personale che avrebbe addirittura fabbricato dossier falsi per «coprire» le condotte inumane dei suoi sottoposti.

Questa inchiesta scuote il travagliato mondo carcerario, ma dovrebbe scuotere anche la politica e soprattutto le coscienze dei cittadini. La vicenda si inquadra nel triste, paradossale e drammatico tran-tran delle nostre prigioni, dove si muore in continuazione e si soffre ben al di là della pena subita, con più o meno equa sentenza, e in barba al dettato costituzionale che, all’articolo 27, fissa il principio che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

La Costituzione ha cambiato il volto e la finalità della pena, ma non ha cambiato il carcere. Tutti lo sanno e, se escludiamo il partito radicale, la politica si volta dall’altra parte anche perché l’argomento non attira simpatie e voti elettorali. La cosa oltre modo grave emergente dall’inchiesta di cui sopra è che un’intera scala gerarchica avrebbe cercato di tacitare le precise segnalazioni che Monica Gallo, il garante dei diritti dei detenuti di Torino, aveva fatto dopo aver visitato i carcerati. «Numerose volte», scrive il pm Francesco Pelosi, titolare dell’inchiesta, si era rivolta al direttore per chiedere un intervento. Quest’ultimo invece «aiutava gli agenti a eludere le indagini dell’autorità omettendo di denunciare i fatti di cui era venuto a conoscenza». Che per i magistrati rappresentano «trattamenti inumani e degradanti». Torture. Gli investigatori hanno ricostruito più di venti episodi di violenze inaudite e inaccettabili.

Una lista nera che mi sento in dovere di riportare pari pari da quanto scrive il quotidiano La stampa, omettendo i nomi dei protagonisti. «Picchiavano e ridevano” scrive la procura nel capo di imputazione di alcuni agenti. Calci, pugni sputi. Come nel caso di un detenuto, pestato dentro la cella da tre agenti mentre due secondini facevano il palo sull’uscio per accertarsi che nessuno vedesse. Ad un altro detenuto «cagionavano acute sofferenze fisiche e un trauma psichico». Lo hanno costretto a rimanere in piedi nel corridoio della sezione a cui era assegnato per 40 lunghissimi minuti. Insultato e costretto a ripetere: «Sono un pezzo di merda». Sono entrati diverse volte nella sua cella «eseguendo perquisizioni arbitrarie, gettandogli i vestiti per terra, strappandogli le mensole dal muro, spruzzando detersivo per piatti sul suo materasso». Poi di nuovo pugni sulla schiena e schiaffi «indossando rigorosamente i guanti» annota il pm. Altri agenti, dopo aver accompagnato un detenuto in infermeria, gli urlavano: «Figlio di puttana, ti devi impiccare». Gli hanno rotto il naso, rischiato di sfondare l’orbita di un occhio, spezzato di netto un incisivo superiore. È capitato che dopo un pestaggio due secondini abbiano avvicinato la vittima minacciandola: «Se ti visiteranno per le lesioni – questo il senso del messaggio – devi dire che ti ha picchiato un altro detenuto». Altrimenti – chiosa la procura – «avrebbero usato nuovamente violenza su di lui di fatto costringendolo, il giorno dopo, a rendere dichiarazioni false ai sanitari». Ad un altro detenuto è andata peggio: «dopo averlo ammanettato e bloccato a terra in attesa che venisse eseguito nei suoi confronti un Tso, lo colpivano ripetutamente con violenti pugni al costato e, mentre lui urlava per il dolore, loro ridevano». Due sindacalisti dell’Osapp sono indagati per rivelazione di segreto d’ufficio. Grazie alle loro «soffiate» il comandante della polizia penitenziaria del carcere, aveva saputo di avere il cellulare sotto controllo nell’ambito di un’inchiesta sui pestaggi in carcere. Lui stesso «aiutava gli agenti ad eludere le investigazioni dell’Autorità, omettendo di denunciare i pestaggi e le altre vessazioni e conducendo un’istruttoria interna dolosamente volta a smentire quanto accaduto».

Si tratta di una inchiesta e non di una sentenza, ma comunque ce n’è abbastanza per inorridire e per rendersi conto, se mai ce ne fosse ancora bisogno, del clima esistente all’interno delle carceri. “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. Le parole di Voltaire oggi suonano come condanna senz’appello della “civiltà” italiana: detenuti ben oltre il numero massimo ospitabile; agenti di custodia sotto il livello minimo; medici, psicologi e operatori sanitari che sono un miraggio dietro le sbarre. I Radicali con Rita Bernardini propongono con la nonviolenza di affrontare una realtà che sempre più si trasforma in tragedia. L’enorme quantità di suicidi e varie inchieste provano inequivocabilmente l’insostenibilità della situazione carceraria: un vero e proprio museo degli orrori. Mi si dirà che esistono problemi più gravi, non credo proprio… anche perché rifiuto una simile graduatoria di inciviltà.

 

I medici (im)pietosi del PD e la piaga libica

Sono parecchi i temi impegnativi e qualificanti su cui il partito democratico si dovrebbe coraggiosamente cimentare: la sicurezza, l’immigrazione, i diritti civili, etc. L’emergenza covid ha indubbiamente comportato un quadro complessivo in cui risulta particolarmente difficile riuscire a fare politica, ma i temi di cui sopra esistono e attendono un’impronta più chiaramente di sinistra.

Il ministro Marco Minniti, agli Interni nel governo Gentiloni, sul problema migratorio si cimentò nel coniugare il discorso sicurezza con quello dell’accoglienza, stipulando accordi con i paesi d’origine dei migranti e soprattutto scommettendo sulla Libia quale argine al flusso diversamente incontrollabile ed inarrestabile. A distanza di qualche tempo occorre avere l’onestà di ammettere che questa politica, pur intelligente e pragmatica, non ha funzionato e la Libia, aiutata e sostenuta anche da noi, si è trasformata in un immenso e vergognoso lager in cui vengono parcheggiati i potenziali migranti.

Roberto Saviano continua a chiedere chiarimenti sul decreto missioni, che prevede il rifinanziamento della Guardia Costiera libica votato dal Pd, e si rivolge al segretario Nicola Zingaretti: “I militanti del Pd chiedono conto del voto favorevole dei gruppi parlamentari al rifinanziamento degli aguzzini libici che qualcuno, per lavarsi la coscienza, ancora chiama Guardia costiera libica”. E aggiunge: “Ma il segretario del Pd non risponde. Non risponde a me e, peggio, non risponde alla sua base. Ma è normale: lui è lui e per la nomenclatura del Pd i migranti in Libia sono meno di niente”. E conclude: “Il silenzio del segretario del Pd sul rifinanziamento della Guardia costiera libica può essere interpretato solo come il silenzio dei complici”.

Ventitre deputati, tra cui i dem Laura Boldrini e Matteo Orfini, avevano infatti firmato una risoluzione contraria agli accordi con Tripoli. Lo scrittore, sulle pagine di Repubblica in un editoriale aveva accusato il segretario Zingaretti di aver tradito lo spirito dell’Assemblea nazionale del partito che in febbraio aveva votato all’unanimità contro lo stanziamento di fondi ai libici. Al di là delle provocazioni di Saviano e delle iniziative di alcuni parlamentari mi sembra che il problema sia politicamente e umanitariamente ineludibile.

Mi rendo perfettamente conto che la questione è enorme e coinvolge l’Europa ed il mondo intero, ma non si può girarsi dall’altra parte e non vedere lo scempio che in Libia si sta perpetrando sulla pelle di migliaia di persone in cerca di vita e salvezza. Almeno si riprenda il discorso e si faccia una verifica sulla situazione completamente sfuggita di mano. E chi lo può e lo deve fare se non il partito democratico, i suoi parlamentari ed i suoi ministri. Non esiste una politica dell’immigrazione, i tentativi fatti hanno dato esito negativo: non si può certamente accogliere “buonisticamente” tutti, ma nemmeno bloccare l’emorragia col cotone emostatico dei lager libici.

La risoluzione trasversale di 22 deputati della maggioranza contrari agli accordi con Tripoli chiede che l’Italia la smetta di non vedere quello che accade nel Mediterraneo. Che non faccia finta di non sapere quel che sono i centri di detenzione gestiti dalla cosiddetta Guardia Costiera libica. Un insieme di milizie mal coordinate accusate dalle stesse agenzie delle Nazioni Unite di una sistematica violazione dei diritti umani. “Non possiamo continuare a far finta di non vedere quel che accade nel Mediterraeo, è il momento di cercare nuove soluzioni, non protrarre quelle che si sono rivelate fallimentari”.

Nel documento, si ricorda come in Libia sia in corso una guerra civile e che “la condizione di decine di migliaia di rifugiati, richiedenti asilo e migranti rimane drammatica: esposti ad arresti arbitrari e rapimenti per mano delle milizie e regolarmente vittime di trafficanti di esseri umani e di abusi di potere da parte di gruppi criminali collusi con le autorità. Il deteriorarsi del conflitto li ha esposti a rischi sempre maggiori; le autorità libiche continuano a detenere illegalmente migliaia di persone nei centri amministrati dal Direttorato generale per la lotta alla migrazione illegale, dove vengono sottoposte a sfruttamento, lavoro forzato, tortura e altre violenze, inclusi stupri, spesso allo scopo di estorcere denaro alle famiglie in cambio del loro rilascio; i detenuti nei centri vivono in condizioni disumane, di sovraffollamento e mancanza di cibo, acqua e cure mediche; i centri vengono regolarmente ripopolati. Solo nel 2019, le autorità marittime libiche, in particolare la Guardia costiera libica, hanno intercettato almeno 9.225 rifugiati e migranti che attraversavano il Mediterraneo centrale, riportandoli quasi tutti indietro nei centri di detenzione libici”. E ancora: “Con oltre 480 contagi da coronavirus registrati ufficialmente nel Paese, e molti altri che potrebbero non essere stati rilevati, in questo momento a preoccupare è anche la situazione sanitaria nei centri di detenzione dove si vive ammassati, in condizione di vera disumanità. Un allarme rilanciato ripetutamente anche da Papa Francesco”.

Fin qui la sacrosanta denuncia di una situazione insostenibile da tutti i punti di vista. Cosa fare non è tuttavia semplice. Però bisogna provarci, senza pensare troppo ai consensi immediati della gente, perché la gente non siamo solo noi, ma anche milioni di persone che hanno, come noi, diritto di vivere e perché l’immigrazione non è non va trattata come infinita emergenza, ma come problema strutturale che riguarda tutti.