Dall’indecifrabile libro del piccolo profeta Gioele

É stato Pino Lo Bello, carabiniere in pensione che stava partecipando alle ricerche, a trovare i resti del piccolo Gioele, il bambino di 4 anni scomparso il 3 agosto insieme con la madre Viviana Parisi, poi trovata morta. Le squadre che partecipano alle operazioni si sono dirette sul posto per un sopralluogo, insieme al Procuratore di Patti Angelo Cavallo che coordina le indagini. Il luogo si trova a circa 200 metri dall’autostrada Messina-Palermo dove la mamma e il figlioletto sono stati visti per l’ultima da un testimone, dopo un lieve incidente.  Il carabiniere protagonista del ritrovamento ha dichiarato: “Mi sono infilato in posti dove altri non arrivavano”.

A questa ammirevole persona che si è volontariamente impegnata, dopo essermi doverosamente complimentato per l’esito del suo lavoro, vorrei raccontare un piccolo episodio tratto dal libro dei miei ricordi paterni: davanti al video, vale a dire una delle solite vuote interviste propinate ai fanatici del pallone. Parla il nuovo allenatore di una squadra, non ricordo e non ha importanza quale, che ottiene subito una vittoria ribaltando i risultati fin lì raggiunti. L’intervistatore chiede il segreto di questo repentino e positivo cambiamento e l’allenatore risponde: “Sa, negli spogliatoi ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che dovevamo vincere”. Non ci voleva altro per scatenare la furia ironica di mio padre che, scoppiando a ridere, soggiunse: “A s’ capìssa, l’alenadór äd prìmma, inveci, ai zugadór al ghe dzäva äd perdor”. A buon intenditor poche parole: il pizzico di esibizionismo presente nel volontariato rischia di togliere genuinità al pur meraviglioso fenomeno.

“Cinque ore di lavoro di un volontario rispetto a 15 giorni di 70 uomini esperti mi fanno sorgere dei dubbi oggettivi sui metodi adottati per le ricerche. La mia non vuole essere una polemica, ma la semplice considerazione di un marito e padre distrutto per la perdita della propria famiglia”. Lo afferma Daniele Mondello, papà di Gioele e marito di Viviana Parisi, sul proprio profilo Facebook. “Nonostante il dramma che mi ha travolto – scrive – trovo doveroso ringraziare quanti mi hanno aiutato. Dedico un ringraziamento particolare al Signore che ha trovato mio figlio. Se non ci foste stati voi, chissà se e quando lo avremmo ritrovato”. “Viviana e Gioele – conclude Daniele Mondello – vi ringraziano ed io vi mando un abbraccio enorme, siete stati grandi!”.

Con tutto il rispetto possibile e immaginabile per una persona così tragicamente colpita nei suoi affetti, forse non sarebbe male se Daniele Mondello ai dubbi sui metodi adottati per le ricerche (sinceramente non saprei cosa altro avrebbero dovuto fare) ne aggiungesse qualcuno sulla sua vita di coppia e di famiglia: comunque siano andate le cose (infatti forse non si saprà mai), qualcosa non è andato per il verso giusto e, senza volere colpevolizzare alcuno, maggiori affiatamento e interessamento preventivi non avrebbero guastato. Sono vicende impossibili da capire e da valutare dal punto di vista umano e giudiziario, ma chi ne è stato direttamente o indirettamente protagonista dovrebbe farsi un po’ di esame di coscienza, anziché scaricare immediatamente le colpe sugli altri, magari proprio su coloro che si son dati da fare nel compimento delle loro funzioni istituzionali e professionali.

Anche la società, anziché rifugiarsi nell’evento, vivendone con sadica curiosità i vari aspetti, dovrebbe interrogarsi sul come e perché questi drammi possano succedere nel disinteresse e nell’indifferenza generale. È inutile commuoversi, piangere, imprecare, analizzare l’accaduto, cercare spiegazioni pseudo-scientifiche. Quando un dramma si verifica al di là della porta accanto, forse qualcuno poteva rendersene conto e fare qualcosa prima che succedesse il fattaccio. “Chi l’ha visto” è il titolo di una trasmissione televisiva, che mantiene, nonostante gli anni, tutta la sua verve mediatica. Si cerca chi ha visto i buoi dopo che sono scappati dalla stalla. Sarebbe molto meglio provare a vedere cosa succede nelle nostre stalle, nel rispetto della privacy, ma anche in ossequio a quel minimo di solidarietà che dovrebbe connotare i nostri rapporti.

 

L’unico fuoriclasse in panchina

Non mi sono accontentato dei soliti sbrigativi resoconti giornalistici, né dei commentatori a caccia di argomenti appetitosi, né delle esercitazioni dietrologiche più o meno strumentali. Ho voluto ascoltare integralmente e con molta attenzione l’intervento che Mario Draghi ha svolto al meeting di Rimini.

Non è stata una lezione e nemmeno una provocazione: si è trattato di una completa ricognizione sulla situazione socio-economica con la lucida individuazione di linee di intervento per il breve, medio e lungo termine. Consiglio a tutti di riascoltarla, ne vale la pena.

Non credo che dietro ci sia una candidatura o una disponibilità a ricoprire qualche ruolo politico: qualcuno ha cominciato a lavorare di fantasia per auspicarla o per esorcizzarla.    C’è molto di più. La dimostrazione, se mai ce ne fosse stata ulteriore necessità, che Mario Draghi rappresenta una risorsa per il Paese. Non è sempre detto che le risorse vadano immediatamente impiegate col rischio di sprecarle. Bisogna però riflettere: in un momento così grave e difficile diventa superficiale tenere nel cassetto una carta simile, aspettando tempi più adatti per paura di rovinare questa opportunità.

L’ammalato è grave, abbiamo un potenziale medico in grado di diagnosticare il male in tutte le sue componenti e di impostare un’adeguate terapia. Lo teniamo in panchina, facendo la fine di Ferruccio Valcareggi ai mondiali del 1970 quando non mise in campo Gianni Rivera nella partita di finale contro il Brasile? Avremmo forse comunque perso, ma perché non provare. Il problema è che Draghi è indubbiamente un fuoriclasse, ma non esisterebbe la possibilità di schierare attorno a lui una squadra di governo adeguata.

Nel famoso fiasco di Traviata al teatro Regio non bastò l’intervento del baritono Renato Bruson a salvare lo spettacolo: il soprano steccava, il tenore stonava, il direttore batteva la solfa. Anche Bruson, suo malgrado, venne coinvolto in una disfatta perniciosa. Le similitudini reggono fino a mezzogiorno, ma le ho introdotte per rendere l’idea della necessità di utilizzare al meglio certe notevolissime competenze, esperienze e sensibilità. Si potrebbe dire: ora o mai più. Sarebbe un’iniezione di fiducia efficacissima per tutto il sistema a livello nazionale, europeo ed internazionale. I leader scarseggiano, sono quasi inesistenti, ne abbiamo uno da spendere e non ce la sentiamo di metterlo in campo?

Certo non possiamo pretendere da lui che faccia il kamikaze, rimanendo prigioniero delle asfittiche logiche politiche e dei calcoli di bassa lega (il termine ha volutamente un doppio senso). Non voglio insegnare il mestiere al presidente della Repubblica, ma un serio e seppur cauto tentativo di costruire un governo attorno a Draghi varrebbe la pena di essere effettuato, pur con tutta la riservatezza e la diplomazia di cui Mattarella è capacissimo.

“Se non ora quando” è il titolo di un libro di Primo Levi: vuole significare che è inutile aspettare che le cose si sistemino da sole, e rinviare l’inevitabile. Le cose non si risistemano da sole: la vita è una sola, ed è tua, e bisogna ricostruirsela ora e solo ora, nonostante tutto. Sono arciconvinto che i due personaggi in grado di guidare l’Italia in questa drammatica fase storica siano due: Sergio Mattarella e Mario Draghi. Il primo deve rimanere a fare il capo dello Stato per molti anni ancora, il secondo dovrebbe impegnarsi in prima persona assumendo l’incarico di presidente del Consiglio. Gli si dia carta bianca per la scelta dei componenti del governo, da concordare e nominare con il presidente della Repubblica e poi…voglio proprio vedere chi in Parlamento avrà il coraggio di votare contro, anche perché sono sicuro che una simile coraggiosa iniziativa avrebbe l’appoggio dei cittadini mettendoli di fronte alle proprie responsabilità.

La competenza è la ricetta giusta in questo momento.  Nella mia modesta carriera (?) mi capitò di avere l’incarico di sindaco in un importante ente politico: esordii sfoderando tutta la competenza professionale su cui potevo contare. Il direttore, personaggio politico di primo piano, si alzò è venne a stringermi la mano soddisfatto di avere finalmente un interlocutore competente nel delicato ruolo che ero chiamato a svolgere. Iniziai e continuai così e ottenni grosse soddisfazioni e diedi il mio contributo alla vita di quell’ente. Chiedo scusa per avere fatto questo riferimento personale: solo per fare un esempio di vita vissuta. La competenza e la professionalità dovrebbero pagare sempre, figuriamoci in frangenti come quelli attuali in cui regnano sovrane la confusione e l’incertezza.

Toccare la Chiesa nel portafoglio

Ci sono anche sette laici, tra i quali sei donne, tra i tredici nuovi membri del Consiglio per l’Economia, l’organismo istituito da Papa Francesco nel 2014 con il compito di sorvegliare la gestione economica e vigilare sulle strutture e sulle attività amministrative e finanziarie dei Dicasteri della Curia Romana, delle Istituzioni collegate con la Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano. In questo organismo ci sono anche sei cardinali, che sono in minoranza numerica. Alla Chiesa non si possono applicare, tout court, i criteri democratici, anche se un po’ di democrazia non farebbe male.

Ho da sempre sostenuto come sia più facile che un laico passi per la cruna dell’ago del celebrare la messa piuttosto che avere potere nelle questioni economiche e affaristiche della Chiesa. Forse sono stato un po’ rafforzato nella mia idea e un po’ smentito nel mio pessimismo, anche se è molto presto per cantare vittoria, se l’irlandese Ruth Kelly, ex ministro Labour, fra le sei esperte chiamate da Francesco, ha dichiarato che “Nelle finanze vaticane servono più laici e donne”.

Mi permetto di allargare il discorso a tutta la vita della Chiesa: la partenza, seppure lenta e in salita, mi pare quella giusta. Mio padre, da grande saggio qual era, sosteneva che per giudicare e fare i raggi etici a una persona o a una istituzione bisognasse guardarne e toccarne il portafoglio. È lì che casca l’asino, è lì la prova del nove di certa generosità a parole, di certa disponibilità teorica. «Tochia in-t-al portafój…».

Intendiamoci bene la Chiesa è bella perché è varia: ci sono laici ben più clericali dei preti, ci sono donne che anche nella vita ecclesiale puntano alla parità dei difetti con gli uomini, ci sono preti che vanno a donne (non mi scandalizzo, anzi gradirei che potessero farlo apertamente e seriamente come lo dovrebbe fare qualsiasi laico) e ci sono donne che vanno a preti (il fascino del proibito funziona sempre), ci sono leccapreti di vocazione e/o di convenienza, ci sono atei devoti che la danno su alle gerarchie ecclesiastiche e le sostengono politicamente, ci sono cattolici maturi e adulti che se ne sbattono le balle dei diktat papali, cardinalizi, episcopali e clericali in genere, ci sono vescovi commissari implacabili e vescovi padri aperti e misericordiosi. Ce n’è per tutti i gusti…

Non illudiamoci quindi che basti mettere sette laici, di cui sei donne, su tredici nel Consiglio per l’Economia per risolvere il problema dell’intrigo affaristico che aggroviglia le finanze vaticane, tuttavia accontentiamoci di un passettino in avanti.  Si leggono ricostruzioni faraoniche del patrimonio della Chiesa istituzione: tutto compreso arriviamo a 2 mila miliardi, un milione di immobili sparsi in tutto il mondo, 115 mila soltanto in Italia, con appartamenti di lusso spesso affittati a prezzi di favore (non certo ai poveracci di turno). Sono cifre da capogiro: indubbiamente vanno interpretate alla luce delle complesse esigenze ecclesiali, ma lasciano molti dubbi e molto amaro in bocca. Come lascia più di un dubbio l’istituto dell’otto per mille ed il suo utilizzo. Possibile che per certe iniziative non salti fuori neanche un granellino di tutto questo bendiddio? Mi auguro che i componenti del Consiglio di cui sopra abbiano il coraggio di mettere il naso in questa realtà a costo di lasciare un dito negli ingranaggi.

Ma c’è o ci dovrebbe essere, come scrive Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, l’altra Chiesa, quella dei preti scalzi: «Può sembrare strano che papa Francesco parli a vescovi e cardinali e additi loro un prete scalzo, un povero prete animato e purificato dal fuoco della Pentecoste, un ministro che serve, che – secondo l’etimologia – si preoccupa della “minestra”, della razione di cibo quotidiano per ciascuno, un servitore fedele che sa come l’anelito più profondo deposto nel cuore degli umani si esprime attraverso un corpo che prova fame, sete, freddo, dolore. Eppure è questo il pastore esemplare: un prete scalzo che sa farsi prossimo con la povertà del suo essere e del suo agire». Lasciamo perdere gli scandaletti (?) emergenti qua e là: anche se ce ne sono un po’ troppi, questo potrebbe rientrare nella disonestà fisiologica dei pochi avverso la virtù dei molti. Ma non è proprio così. Alla base di tutto ci sta l’attaccamento al denaro dei chierici. Mi sono sempre chiesto, in senso puramente razionale, di fronte al più altolocato dei cardinali e/o al più umile fraticello che tirano ai soldi, che arrivano addirittura a trattare male i poveri e gli accattoni (ho visto con i miei occhi): ma chi glielo ha fatto fare di abbracciare una vocazione religiosa? Se proprio volevano puntare a mammona non lo potevano fare meglio standosene nell’anonimato degli ignavi?

Qualcuno mi obietterà che la tentazione è sempre forte e poi che forse questi preti accumulano ricchezze, a volte rubano, a fin di bene, per sostenere le loro diocesi, le loro congregazioni, in poche parole per aiutare la Chiesa, arrivando magari a defraudare i poveri per poi elargire loro un obolo riparatore: la giustizia che fa a pugni con l’elemosina e viceversa. Sinceramente non capisco!

Qualcuno mi butterà in faccia l’esigenza che i laici, prima di criticare i preti, dimostrino concretamente di seguire gli insegnamenti evangelici e abbiano il coraggio di togliere le travi dai loro occhi per poi riuscire ad eliminare quelle dei porporati e del clero tutto. È vero! Faccio quindi un discorso generale e globale. Non è accettabile che l’accoglienza ai poveri non sia prassi quotidiana di tutti i preti, di tutti i frati, di tutti i credenti, di tutte le parrocchie, di tutte le comunità religiose, di tutte le associazioni cattoliche. Probabilmente il difetto sta nel manico. È l’impostazione della Chiesa Istituzione a dare i brividi: troppe le commistioni col potere, troppi i privilegi, troppe le concessioni, troppi i vantaggi impropri. È giunta l’ora di reagire con una certa decisione (si badi bene, non cattiveria). Intransigenti coi poveri e comprensivi coi ricchi, rigorosi in materia sessuale ma permissivi nelle ingiustizie sociali. Basta! Signori Cardinali e Signori Preti o cambiate musica o cambiate religione. E voi, signori laici componenti del Consiglio per l’Economia cattolica saprete entrare a gamba tesa a costo di rischiare l’espulsione? La gara è durissima, ma a proposito di gare dure abbiamo degli illustri precedenti di chi ha accettato di andare in croce pur di rompere certi equilibri di potere e certe gerarchie di valori.

 

 

 

 

 

Si è ristretto lo stretto

È un atteggiamento classico, di fronte a problematiche complesse e impegnative, quello di deviare su un aspetto particolare, meglio se riconducibile e riducibile ad un sì o un no. Sta puntualmente succedendo per lo stretto di Messina, dando per scontato quello che scontato non è, vale a dire la necessità, l’utilità e la fattibilità di una infrastruttura che bypassi lo stretto. Finora si era parlato di un ponte, ma in questi ultimi giorni è rispuntato anche il progetto di un tunnel sottomarino.

Temo che tutto il discorso progettuale intorno agli investimenti per le infrastrutture finalizzati alla ripresa dello sviluppo socio-economico con l’utilizzo anche e soprattutto dei fondi europei possa finire in una mega bolla di sapone così come storicamente si è rivelata l’idea di un collegamento tra la Sicilia e il continente. Stando alle ricostruzioni giornalistiche, del tunnel dello stretto si cominciò a parlare nel 1969 e si arrivò al 1980 col parere favorevole dell’allora presidente del Consiglio Francesco Cossiga. Poi una lunga pausa di silenzio fino ai giorni nostri.

Più insistente e reiterato il discorso del ponte sullo stretto di Messina: consiglio di andare a rileggerne la storia, per ricavarne a contrariis un’utile lezione anti-demagogica e anti-sperpero.  Sarebbe interessante riprendere anche la storia ben più piccola, ma ugualmente emblematica, della metropolitana parmense, progetto che finì con il coraggioso e tardivo alt del sindaco Vignali ad un progetto frutto di megalomania e affarismo.

Tutto finirà nel nulla dopo aver sollevato un polverone dibattimentale in cui tutti si eserciteranno ad esprimere pareri e formulare analisi. Forse sarà meglio portare a compimento i progetti già varati e in stand by totale o parziale e dedicarsi a nuovi progetti a sicura ed immediata efficacia, senza rincorrere pazze e fuorvianti idee. C’è già naturalmente chi si schiera a favore del tunnel e chi preferisce il ponte.

Ho un debole per Luigi Pirandello e per la sua opera teatrale “Così è (se vi pare)”, incentrata su un tema molto caro a Pirandello: l’inconoscibilità del reale, di cui ognuno può dare una propria interpretazione che può non coincidere con quella degli altri. Si genera così un relativismo delle forme, delle convenzioni e dell’esteriorità, un’impossibilità a conoscere la verità assoluta.

Che la Verità assoluta esista o meno è cosa tantomeno irrilevante: è questo il messaggio finale di lettura dell’opera dove Pirandello mette lo spettatore di fronte ad una sorta di ‘barriera sul palcoscenico’ costringendolo ad interrogarsi sul significato stesso di ciò che ha appena visto e l’assenza stessa di significato. Protagonista assoluto di scena, il dramma esistenziale della vita umana nella sua infinita complessità, ed in virtù del teorema, il fatto che la Verità assoluta, quella imprescindibile non esiste. A seguito dell’acceso dibattito tra i personaggi di un piccolo ambiente provincial-borghese infatti, la Verità è per ciascuno ‘come pare’.

Ho richiamato per l’ennesima volta questo affascinante tema pirandelliano, perché ben si attaglia alla problematica relativa allo stretto di Messina. Da una parte, se non erro, Dante Alighieri ci mette autorevolmente in guardia dal rischio di semplificare la realtà mistificandola con comode e marginali semplificazioni; dall’altra Luigi Pirandello ci scoraggia portandoci relativisticamente, provocatoriamente ma seriamente, con i piedi per terra. In mezzo Giuseppe Conte, tentato dalla grandeur, un M5S in vena di revisionismo politico-programmatico, un Pd, come al solito, a ruota libera nel promettere troppo e mantenere poco, un centro-destra in cerca di scoop magari facendo credere agli italiani che si farà prima e meglio a rimpatriare gli immigrati.

Mio padre, amante della vita, scandiva scherzosamente le tappe future della sua esistenza sui fatti che gli stavano a cuore, del tipo: riuscirò a vedere le prossime olimpiadi? E io riuscirò a vedere il ponte o il tunnel sullo stretto di Messina?   Scherzi a parte, non me ne frega niente! Vorrei vedere finalmente qualche progetto serio, fattibile, utile, lasciando stare le fughe in avanti e all’indietro (sì, perché il ponte sullo stretto è acqua passata che non macina più). Non vorrei esagerare parafrasando la storica fantozziana battuta: “il ponte (o il tunnel) sullo (o sotto lo) stretto di Messina è una cagata pazzesca!”.

 

 

 

Le ciabatte “grillate”

«Loro fanno due legislature e vanno a casa. Questa è una guerra: o vinciamo noi o andiamo a casa, questo è il mio parere». Era il febbraio del 2014 quando Beppe Grillo diceva queste parole durante una conferenza stampa alla Camera dei Deputati dopo le brevi consultazioni con Renzi. Sempre nella stessa sede aveva detto: «Non c’è la mediazione o la transizione, fare le coalizioni. È finito questo mondo». Nel 2014 Beppe Grillo si esprimeva pubblicamente e categoricamente così. Sembra passato un secolo, invece è passata di moda l’antipolitica.

Con la recente consultazione on line gli iscritti al M5S hanno infatti rivisto le regole per la reiterazione dei mandati elettivi, dando sostanzialmente il via libera alla ricandidatura di Virginia Raggi a sindaco di Roma, e si sono dichiarati possibilisti sull’eventualità di alleanze con gli altri partiti. Il massimalismo grillino è andato a farsi benedire e i cinque stelle sono rientrati nella normalità della politica. Da una parte mi fa piacere, dall’altra resto piuttosto sconcertato di fronte a questi continui giri di valzer concettuali e progettuali.

Non sono uno storico, ma credo che piroette come quella di passare nel giro di pochi mesi dal contratto con la Lega all’accordo col Pd non abbiano precedenti altrettanto clamorosi e radicali. È vero che i grillini hanno sempre sostenuto come destra e sinistra siano ormai categorie politiche superate ed equivoche e che quindi destra e sinistra vadano trattate come era solito fare il duca di Mantova con le donne (“questa o quella per me pari sono”), ma cerchiamo di essere seri…

Enrico Mattei è stato un grande imprenditore, partigiano, politico e dirigente pubblico, che ha segnato indelebilmente e positivamente la vita del nostro Paese. Diceva in modo spregiudicato: «Uso i partiti allo stesso modo di come uso i taxi: salgo, pago la corsa e scendo». Se Grillo intendesse mai emularlo non esiterei a dirgli: “Cala Tèlo”. Cioè vola basso, perché a certi personaggi non sei degno nemmeno di sciogliere i legacci delle scarpe, in dialetto “net ghe port adrè gnanca il savati”. Mio padre, in merito alle somiglianze, di me diceva: «Al m’ somilia da chi in zo!» segnando la cintola dei pantaloni. Credo si possa tranquillamente applicare questa piccante similitudine a Beppe Grillo, ed ancor più ai suoi delfini, rispetto alla caratura etica, culturale e politica di un Enrico Mattei.

Quindi è cambiato tutto rispetto alle velleità iniziali movimentiste del grillismo: niente più limiti rigidi alle candidature, niente più pregiudiziali per le alleanze. D’altra parte hanno preso atto che improvvisare continuamente i propri rappresentanti è un rischio grosso: incallirsi nella improvvisazione e nella impreparazione è semplicemente irrazionale. Partire dalla presunzione assoluta di fare da soli è l’anticamera della “idiozia” o, come in parte è successo, della “farfanteria” (termine usato da Andrea Camilleri, che sta più o meno per menzogna). “Chi fa da sé fa per tre” e poi “l’unione fa la forza”. Mio padre non si rassegnava e si chiedeva con insistenza: «E alóra cme la mètemia?».

E allora caro Grillo come la mettiamo? Stai diventando un politico a tutto tondo o un opportunista a tutto spiano? Forse da tempo ti è sfuggita di mano la situazione, forse vedi che il tuo movimento è alla frutta e cerchi disperatamente un pezzo di torta per finire dignitosamente l’avventura. Non credo però che la torta ideale sia quella di Virginia Raggi, ma, come si dice a Parma, “la bòtta la dà al vén c’la ga”.

 

 

 

Geppetto in discoteca

Ma che razza di società abbiamo costruito? Il problema fondamentale all’ordine del giorno è costituito dalle discoteche, dove i giovani scommettono sulla loro e altrui vita. Quali mascherine, quale distanziamento? Tutti in pista a ballare, a fare casino, a far finta di divertirsi. Ci sarebbero tutti i presupposti per chiudere questi potenziali focolai di covid, ma guai a chi tocca le discoteche.

Sono anziano e non posso pretendere una società a misura di anziano. Mi rendo perfettamente conto che i giovani hanno le loro esigenze (?), che le vacanze sono diventate un rito irrinunciabile, che i rapporti interpersonali si giocano anche e soprattutto nelle movide, le quali hanno ben poco da spartire col movimento sociale ed artistico diffuso in Spagna dalla fine degli anni settanta con la caduta della dittatura franchista. Il termine movida ha infatti via via perso tale connotazione culturale e socio-artistica ed è stato, ed è tuttora, utilizzato per indicare l’animazione, il “divertimento” e la vita notturni.

Sono stato giovane anch’io, mi piacevano lo svago e il divertimento, ma non ho mai vissuto per divertirmi e non ho mai pensato al divertimento come la base irrinunciabile della mia esistenza. Il problema quindi non è il rapporto tra divertimento e lotta al coronavirus, ma il ruolo e il posto che il divertimento può avere nella vita. Di conseguenza lo stretto nodo socio-economico consiste nel fatto di avere costruito una società che sta in bilico sul filo del rasoio dei consumi di evasione. Sembrano quindi fuori dal mondo le opinioni che riporto di seguito, anche se hanno di per sé motivazioni razionali e in parte condivisibili: è inutile però partire dalla fine facendo finta che la società sia diversa, interpretando il ruolo di grilli parlanti, di pedagoghi fallimentari, di politici del giorno dopo.

“Se i numeri non cambiano sarà inevitabile; la prossima settimana si cercherà di condividere una scelta rigorosa con tutte le regioni”. Così il ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia in un colloquio con La Stampa incentrato su una nuova possibile stretta sui locali della movida, discoteche (che – dice – non si sarebbero dovute riaprire) e stabilimenti balneari.  “Si è avuta molta più attenzione ad aprire le discoteche a giugno che ad altro. Questa per noi è una scelta non accettabile. Non abbiamo nulla contro le discoteche, ma se hai chiesto a un Paese di stare chiuso in casa, se hai chiuso le aziende, speso miliardi e miliardi per pagare la cassa integrazione alle persone per non lavorare, poi non puoi per pura propaganda, per rispondere a qualche lobby che ti sta vicina, riaprire le discoteche e infischiartene delle ricadute che avrà questa scelta”. Lo ha detto la ministra Teresa Bellanova a Lecce, presentando la lista di Italia Viva a sostegno del candidato presidente della Regione Puglia, Ivan Scalfarotto.

In Emilia-Romagna per evitare un rialzo dei contagi di Sars-Cov2, una nuova ordinanza firmata dal presidente Stefano Bonaccini prevede di dimezzare la capienza per gli ingressi alle discoteche (sarà ridotta del 50%) e stabilisce l’obbligo di indossare sempre la mascherina. Disposta anche la eventuale chiusura immediata del locale non appena accertate le infrazioni. Il provvedimento è in vigore dalle 13 di Ferragosto e vale per quelle all’aperto ora in esercizio in regione. Quelle al chiuso infatti non hanno mai riaperto dopo il lockdown. La stessa cosa in Veneto.

Ai grilli parlanti rispondono i “Lucignolo” di turno con i loro sacrosanti Paesi dei balocchi: i gestori delle discoteche. “Ancora una volta si colpisce un settore che viene identificato come un luogo in cui tutti mali della società convivono. Adesso ci è stato affibbiato il ruolo degli untori, ci è stato affibbiato anche quello. Prima drogavamo i ragazzi, li ubriacavamo, adesso li contagiamo nonostante non ci sia un solo caso di ragazzo o ragazza che si sia contagiato nei nostri locali”. Così il presidente del Silb-Sindacato Italiano Locali da Ballo Emilia-Romagna, Gianni Indino, commenta l’ordinanza con cui la Regione prevede di dimezzare la capienza per gli ingressi in discoteca e stabilisce l’obbligo di indossare sempre la mascherina. “Non siamo il capro espiatorio per niente e per nessuno. C’è qualcuno che ci porta come fossimo uno scalpo e ci dà in pasto all’opinione pubblica”.

In mezzo i “Pinocchio” moderni che tendono però a rimanere burattini vita natural durante e i “Geppetto”, come me, che non si rendono conto di avere contribuito a “burattinizzare” le persone e la società. Ci vorrebbe proprio una fata dai capelli turchini, invece è arrivato mangiafuoco.

 

 

La minestra bossiana e la finestra salviniana

È veramente cosa cattiva e ingiusta delineare il quadro politico italiano tenendo conto delle strategie (?) di Matteo Salvini: mi sento quasi umiliato, ma è perfettamente inutile e dannoso negare l’evidenza, salendo su una sorta di Aventino più culturale che politico. In Italia bisogna fare i conti con Salvini! E proviamo a farli.

In questo momento fortunatamente sembra che i conti non quadrino: i consensi sono in calo, i processi incombono, il sorpasso della Meloni è dietro l’angolo, i contrasti interni sono crescenti, le tattiche si aggrovigliano. L’ultima uscita di Salvini sembra effettivamente poco azzeccata: sta regalando le tessere del vecchio partito “Lega Nord Padania” o meglio sta tentando di scambiarle con quelle del suo nuovo partito “Lega Salvini”. Nel 2018 infatti è nata la “Lega per Salvini premier” e a fine 2019 è partito il doppio tesseramento, senonché quella che doveva essere una sorta di riserva a cui attingere per dare l’idea di una certa continuità di linea politica si sta rivelando una spina nel fianco di Salvini da parte dei nordisti irriducibili che vorrebbero scompigliare i giochi usando il vecchio logo alle elezioni amministrative a Mantova e nei comuni emiliani. E allora è partito un tentativo di svuotare la scatola impolverata trasferendone il contenuto in un’altra pronta all’uso.

Il capofila dei nordisti, Gianni Fava, attualmente defilato, prende le distanze in modo piuttosto netto e si fa portavoce del sospetto che Salvini vogli utilizzare la Lega Nord come semplice deposito per poi trasferire nome e simbolo al suo nuovo partito Lega per Salvini. Di fronte a queste menate quelle della cosiddetta prima repubblica impallidiscono. Può darsi finisca tutto in tribunale a suon di carte bollate. Al di là di questa guerricciola fratricida ci sta però un vero e proprio contrasto a livello di linea politica. Dice Fava in una intervista rilasciata a le Repubblica: «Se competi con Meloni sullo stesso campo, la gente preferisce la destra populista originale, non la tua imitazione. Detto questo, quelli sono voti che noi leghisti del Nord non avremmo mai voluto. Eravamo e restiamo post ideologici, aperti, democratici, di certo antifascisti. L’appiattimento sulla destra europea populista è errore gravissimo che Salvini pagherà».

La Lega ha due punti di forza: il forte radicamento territoriale e una dignitosa classe dirigente impegnata a livello amministrativo. Sembra che questi legami si stiano allentando se non addirittura strappando. La base del Nord, come detto, è in subbuglio e i vari Zaia, Giorgetti e c. non perdono occasione per prendere le distanze da Salvini, che imperterrito continua la sua solitaria guerra mediatica. Lo slogan, ai tempi di Umberto Bossi, era: padroni a casa nostra. I leghisti duri e puri sono rimasti lì ed a loro non interessa fingere di spadroneggiare a Roma e Bruxelles con alleanze spurie e castranti.

C’è però un elettorato leghista allargato al quale è difficile prendere le misure: va dal no agli immigrati, che, tutto sommato gira e rigira, resta l’opzione di fondo, all’euroscetticismo di stampo populista, dall’ordine e sicurezza intesi in senso meramente protezionista all’opposizione di maniera ai poteri forti. La gente che ha in testa questa scala di (dis)valori cosa aspetterà ad aprire gli occhi? Le nostalgie nordiste filobossiane  non hanno una grande presa sul nuovo elettorato salviniano. Ci vorrà tempo per svegliarsi. Il centro-sinistra non sembra in grado di riassorbire l’emorragia, il centro destra praticamente non esiste. Al momento   accontentiamoci del buon senso (?) nordista: è quanto passa il convento. Siamo messi proprio male.

Un sindaco ai Raggi x

Scrivo questo commento al buio, vale a dire senza conoscere l’esito della burlesca consultazione referendaria grillina sulla ricandidatura di Virginia Raggi a sindaco di Roma. Un tempo quando si voleva lasciare le cose come stavano si faceva una commissione, oggi i pentastellati, quando sono in difficoltà e non sanno che pesci pigliare, promuovono un referendum sulla piattaforma Rousseau dall’esito (quasi) scontato, dando l’impressione di essere democratici e lasciare decidere (?) ai loro sostenitori.

Anche solo per provare a giudicare l’operato di un sindaco bisognerebbe vivere per molto tempo nella città da esso amministrata. Personalmente ho bazzicato Roma molti anni fa con escursioni mordi e fuggi dovute a impegni di carattere professionale: ne ho sempre tratto l’impressione che nella nostra capitale anche il più piccolo dei problemi rischi di diventare insormontabile. Da allora in Campidoglio si sono succeduti diversi personaggi espressione di cangianti coalizioni politiche:  senza voler fare ingiustamente d’ogni erba un fascio, i romani, in un certo senso, le hanno provate tutte con risultati a volte discutibili, talora  insoddisfacenti, spesso addirittura sconfortanti. Stando ai dati emergenti dai monitoraggi mediatici, la città vive in un’emergenza continua ed articolata, dai rifiuti ai trasporti, alla viabilità.

Quando le cose vanno male, sembrerebbe relativamente facile decidere per il cambiamento: peggio di così, si dice, non potrà andare. Invece Roma dimostra che non c’è alcun limite al peggio, sembra che la politica si sia accanita contro la capitale promuovendola a “vituperio delle genti”. Il problema che però sta a monte del giudicare gli amministratori pubblici dovrebbe consistere nell’individuare se ed in quale misura le cause del male siano remote o recenti. Gli ultimi anni, quelli della sindacatura raggiana, hanno migliorato o peggiorato la situazione proveniente dalle amministrazioni precedenti? A questo problema se ne aggiunge un altro: Virginia Raggi ha avuto il tempo sufficiente per almeno avviare un processo di cambiamento, lasciando magari intendere di avere delle idee bisognose però di un certo lasso di tempo per ottenere qualche benefico effetto?

Ai suddetti interrogativi dovrà rispondere l’elettorato romano, e prima ancora, la base degli iscritti pentastellati chiamata frettolosamente a pronunciarsi. Mi sembra che il discorso possa così ridursi ai minimi termini: Virginia Raggi merita una prova d’appello o deve fare le valige e togliere il disturbo? La politica ormai, a tutti i livelli, ci propina personaggi inadeguati al ruolo, che dovrebbero ricoprire, per impreparazione, inesperienza, incapacità, inettitudine. Più il compito è arduo più l’inadeguatezza diventa dannosa e clamorosa. Fare il sindaco di una grande città come Roma è un’impresa estremamente difficile: nessuno ha la bacchetta magica, ma qualche qualità dovrebbe pur credibilmente presentarla.

Temo che l’esperienza dell’amministrazione Raggi, per come si è formata, per come si è concretizzata e per come si è logorata, non dia sufficienti garanzie. L’interessata se ne dovrebbe rendere conto, ma purtroppo, con i tempi che corrono, nessuno osa farsi da parte: non lascia, ma vuole raddoppiare. Chi ha o può trovare qualcosa di meglio si dia da fare: vale per i grillini, vale per tutti. Nessuno si può presentare esibendo un passato virgineo; i pentastellati ci hanno provato ma non ci sono riusciti.

La città di Parma con l’allora grillino Federico Pizzarotti tentò di giocare la carta del nuovismo a tutti i costi, che, strada facendo, si è trasformata – rendendosi vieppiù autonoma rispetto “all’ideologia pentastellata” – nel continuismo a basso costo, vale a dire in un’ordinaria amministrazione di tipo condominiale,  che punta a mettere un po’ d’ordine nei conti, a sistemare qualcosa, ma soprattutto a non fare ulteriori buchi ed errori. Parma ha segnato l’inizio del pretenzioso grillismo governante e, seppure a livello periferico, ne ha comportato la fine. La Raggi non ha avuto la freddezza e la serietà di sottoporsi ad un simile bagno di umiltà e rischia quindi di essere la coda in cui sta il veleno del fallimento dei cinque stelle. La Raggi si ripropone goffamente come una sorta di amministratore di sostegno per una città in cui la politica non è in grado di svolgere la sua funzione: troppo tardi per una simile auto-retrocessione, troppo presto per rinunciare alla sfida politica di alto livello. Meglio la Raggi di un salto nel buio? Proverei prima a dissipare le tenebre accendendo una piccola fiamma. Lo dico non per dare un dispiacere ai grillini, non per fare un assist al partito democratico, non per sfidare la destra a misurarsi nel concreto, ma per il bene dei Romani, di Roma e dell’Italia.

Capitalismo, la luna, il coronavirus e tu

La gara per la conquista dello spazio rappresentò “l’aspetto sportivo” della guerra fredda tra l’Urss e gli Usa: la prima tappa fu vinta dall’Unione Sovietica col lancio del primo uomo,  Jurij Gagarin, che portò a termine con successo la propria missione il 12 aprile 1961 a bordo della Vostok 1 ed ebbe una carriera politica tale da incarnare l’estrema politicizzazione della navigazione nello spazio .

In seguito a questo storico volo, che segnò una pietra miliare nella corsa allo spazio, Gagarin divenne infatti una celebrità internazionale e ricevette numerosi riconoscimenti e medaglie, tra cui quella di Eroe dell’Unione Sovietica, la più alta onorificenza del suo paese. La missione sulla Vostok 1 fu il suo unico volo spaziale, anche se in seguito venne nominato come cosmonauta di riserva nella missione Sojuz 1, conclusasi in tragedia al momento del rientro con la morte del suo amico Vladimir Komarov. Successivamente Gagarin fu vice direttore del centro per l’addestramento cosmonauti, che in seguito prese il suo nome. Nel 1962 venne eletto membro del Soviet dell’Unione e poi nel Soviet delle Nazionalità, rispettivamente la camera bassa e la camera alta del Soviet Supremo dell’Unione Sovietica. Per ironia della sorte Gagarin morì nel 1968 a seguito dello schianto del MiG-15 su cui si trovava a bordo in occasione di un volo di addestramento.

La seconda tappa vide il trionfo americano con lo sbarco sulla luna. Apollo 11 fu la missione spaziale che portò i primi uomini sulla Luna, gli astronauti statunitensi Neil Armstrong e Buzz Aldrin, il 20 luglio 1969. La prima passeggiata lunare fu trasmessa in diretta televisiva per un pubblico mondiale. Nel mettere il primo piede sulla superficie della Luna Armstrong commentò l’evento come “un piccolo passo per [un] uomo, un grande balzo per l’umanità”. Apollo 11 concluse la corsa allo spazio intrapresa dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica nello scenario più ampio della guerra fredda, realizzando l’obiettivo nazionale che il presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy aveva definito il 25 maggio 1961 in occasione di un discorso davanti al Congresso degli Stati Uniti: “prima che finisca questo decennio, di far atterrare un uomo sulla Luna e farlo tornare sano e salvo sulla Terra”.

Questa stratosferica gara fu in gran parte fine a se stessa e venne infatti seguita dalle tifoserie nazionali e internazionali al di là di quelle che potevano essere le conseguenze socio-economiche per il progresso mondiale. La guerra fredda è finita (?) o meglio ha preso altre pieghe, altre dimensioni e altri protagonisti anche se il discorso ritorna continuamente d’attualità assumendo, con la fine delle ideologie, sempre più spudoratamente connotazioni meramente economiche. La corsa al vaccino anti-covid ha scatenato immediatamente gli appetiti delle grandi potenze e dei loro inqualificabili leader.

Moderna, un’azienda statunitense di biotecnologie, ha annunciato che il governo degli Stati Uniti si è assicurato una fornitura per 100 milioni di dosi di mRNA-1273 (vaccino anti-Covid) per una cifra pari a 1,5 miliardi di dollari. È inoltre prevista l’opzione per gli Stati Uniti di acquistare ulteriori 400 milioni di dosi. “Apprezziamo la fiducia del governo americano nella nostra piattaforma di vaccini mRNA e il costante supporto”, ha affermato Stéphane Bancel, amministratore delegato di Moderna. “Stiamo portando avanti lo sviluppo clinico di mRNA-1273, con lo studio di Fase 3 in corso condotto in collaborazione con NIAID e BARDA. Parallelamente, stiamo aumentando la nostra capacità di produzione con i nostri partner strategici, Lonza, Catalent e Rovi, per affrontare questa emergenza sanitaria globale con un vaccino sicuro ed efficace”.

Gli Usa battono e la Russia risponde. “Stamattina per la prima volta al mondo è stato registrato un vaccino contro la nuova infezione da coronavirus”. Il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato così il via libera del ministero della Sanità al primo farmaco contro il Covid, che a sua figlia è già stato somministrato. Si chiamerà Sputnik V per analogia con il lancio del primo satellite artificiale terrestre nel 1957. “Lo Sputnik-1 – si legge sul sito dedicato al vaccino – ha intensificato la ricerca spaziale in tutto il mondo. Il nuovo vaccino russo contro il Covid-19 ha creato un ‘momento Sputnik’ per la comunità mondiale. Dunque il vaccino è stato chiamato Sputnik V”. Sviluppato dall’Istituto Gamaleya di Mosca, ha iniziato la fase 3 dei test clinici – che normalmente dura mesi e coinvolgono migliaia di persone – soltanto la scorsa settimana, motivo per cui suscita molto scetticismo all’interno della comunità scientifica, perplessa dalla volontà di Mosca di volerlo registrare prima della fine della sperimentazione.

A questi signori non interessa niente della vita di milioni di persone, interessa il business miliardario della commercializzazione del vaccino. C’è da tremare perché la scienza si dovrà piegare ai tempi ed ai modi di questa corsa affaristica planetaria con i conseguenti dubbi sull’efficacia e sulla innocuità del vaccino e perché la sua somministrazione avverrà probabilmente secondo criteri aberranti.

Giorgio Ruffolo ha scritto un libro dal titolo invitante e, almeno per me, inquietante: “Il capitalismo ha i secoli contati”.  La descrizione del libro è così sintetizzata: “Alcuni sostengono che il capitalismo avrebbe imboccato una strada di autodistruzione di cui si può prevedere il necessario percorso e la sua inevitabile fine. Per Giorgio Ruffolo non è vero. Non c’era niente, nel passato del capitalismo, che fosse necessario e inevitabile. E non c’è niente di simile nel suo futuro. Perché le origini del capitalismo possono essere rintracciate ben prima della nostra epoca, prima dell’emersione del volto potente e inquietante dell’impresa contemporanea. Perché già l’antichità dell’Occidente, tra Grecia e Roma, conteneva in sé i segni di quella attrazione verso il denaro e verso la produzione di valore che costituisce l’essenza della produzione e dello scambio capitalistico. Il passato del capitalismo gode quindi una durata straordinariamente lunga, e questo spinge Ruffolo a guardare al futuro nella certezza che il capitalismo non avrà vita troppo breve. Perché esso ha dentro di sé la capacità di adattarsi ai tempi più diversi, l’elasticità necessaria a catturare l’immaginazione degli uomini di qualsiasi epoca, gli strumenti indispensabili per continuare a essere lo scenario economico del futuro”.

Molti si rallegreranno, ormai pochi si schiferanno, tutto il mondo è capitalistico, la gara a chi lo è di più è aperta e sicuramente il covid 19 è l’occasione che fa il capitalismo ancora più ingiusto e vorace. E pensare che si continua a dire che “col coronavirus niente sarà più come prima”. C’era una importante canzone degli anni cinquanta del secolo scorso intitolata “Come prima più di prima”: la possiamo intonare ad amaro commento degli sviluppi capitalistici nella lotta al coronavirus.

 

 

Le pentole del post-comunismo

Riporto di seguito quanto scrive Giuseppe Agliastro, corrispondente de La Stampa. “Sono state elezioni all’insegna della paura e della più turpe repressione politica le presidenziali che si sono concluse ieri in Bielorussia. In questi mesi, gli oppositori sono stati sbattuti in galera, scherniti, costretti a fuggire o a nascondersi. Ma questo non ha fermato le proteste contro il regime di Aleksandr Lukashenko e nella tarda serata di ieri – dopo che le autorità hanno annunciato la vittoria schiacciante dell’«ultimo dittatore d’Europa» – si sono registrati scontri e nuovi arresti in diverse città del Paese, tra cui la capitale Minsk, blindata con polizia, esercito e mezzi militari.

I media danno notizia di alcuni feriti e dell’uso di granate stordenti e lacrimogeni da parte degli agenti e il timore è che il governo ricorra a un uso sproporzionato della forza contro i dimostranti che da mesi scendono in piazza a decine di migliaia sfidando colui che stringe in pugno il Paese da oltre un quarto di secolo. La candidata di spicco dell’opposizione, Svetlana Tikhanovskaya, ha chiesto di evitare in ogni modo la violenza, ma ha anche messo in discussione i controversi risultati elettorali. «Credo ai miei occhi e vedo che la maggioranza è con noi».

La popolarità di Lukashenko è in caduta libera, gli exit poll governativi indicano però il satrapo bielorusso come il vincitore delle elezioni con l’80% dei voti, la solita maggioranza bulgara a suo favore. Molto distante Tikhanovskaya, data al 6,8%. Ma è dal 1995 che l’Osce boccia le elezioni in Bielorussia perché non rispettano gli standard democratici. Incalzato dalle proteste, Lukashenko ha fatto arrestare gli oppositori più scomodi e li ha accusati di essere in combutta coi 33 presunti mercenari russi arrestati a Minsk con l’accusa di voler destabilizzare il Paese. «Lukashenko ha chiarito di voler mantenere il potere a ogni costo», ha spiegato alla Reuters il politologo Aleksandr Klaskovsky. «La domanda è a che prezzo».

C’è poco da fare, la democrazia non si conquista dall’oggi al domani: è caduto il muro di Berlino, si è sfaldato l’impero sovietico, alcuni Paesi dell’est-europeo hanno aderito all’Ue, la storia ha camminato, ma la democrazia è stata rinviata a data da destinarsi, perché ha bisogno di maturare nelle coscienze delle persone prima e più che negli assetti istituzionali.

Aveva ragione Gorbaciov quando teorizzava un percorso progressivo di cambiamento e ristrutturazione; avevano ragione gli amici di Ceausescu quando definivano un semplice colpo di stato la caduta del regime rumeno; ha ragione chi sostiene che è stato troppo rapido e sbrigativo il percorso europeo di alcuni stati post-comunisti dell’Est.

Scoperchiare le pentole senza abbassare il livello del gas ottiene solo il risultato di avere una tracimazione devastante: è successo nella ex Iugloslavia, è successo in Russia e Paesi collegati, succede in Polonia e Ungheria. Le macerie del comunismo non sono state rimosse ma riciclate e dalla padella in parecchi casi si è finiti nella brace. Il caso della Bielorussia è emblematico. A noi non rimane che fare il tifo per gli oppositori a questi regimi: hanno davanti una vita molto difficile, una strada in salita. D’altra parte è sempre stato così: in democrazia non ci si va in carrozza. I regimi autoritari trovano il modo di sopravvivere con le mance generalizzate di regime: meglio un piatto di minestra garantito che un cenone promesso.

Tempo fa mi raccontava un amico di avere ascoltato gli sfoghi di un ex carcerato: li traduco in italiano, anche se in dialetto avevano ben altra forza espressiva. “In galera, tutto sommato, non si sta male, nessuno ti rompe le scatole, si mangia a sbaffo, si guarda la televisione…”. È tutta questione di sensibilità e di mentalità. Non è un caso se molti finiscono col ritornare in carcere. Il carcere educa al carcere. La dittatura educa alla dittatura. Deve intervenire una “cruenta” rottura di schemi, altrimenti anche le migliori intenzioni dei pochi finiscono nel dimenticatoio dei molti. È pur vero che sono le minoranze che fanno la storia, ma non sempre sono minoranze positive e costruttive.

In questi giorni ho rivisto la stupenda inchiesta di Sergio Zavoli “Nascita di una dittatura”. Quanti errori da parte dei partiti democratici, quante divisioni tra i socialisti, quante titubanze nei popolari, quante miopie sul nascente fascismo. Ci vollero anni di battaglie, ci volle una resistenza di popolo, ci volle una nuova classe dirigente purificata nel sangue per avviare una democrazia. E il percorso è ancora in atto. Il discorso vale anche per la Bielorussia e per i Paesi di quella collocazione geo-politica. Cosa possiamo fare noi? In gioventù scendevo in piazza assieme a tanta gente. Oggi le uniche piazze riempite in modo ficcante sono state quelle delle “sardine”. Ma parliamoci chiaro: chi si preoccupa dello strapotere di Lukascenko? Sbagliamo a fregarcene, perché l’autoritarismo è una brutta pandemia, che si combatte solo con il vaccino democratico in costante e continua sperimentazione.