Il sogno a occhi aperti sul razzismo

Sulla scalinata del Lincoln Memorial il 28 agosto del 1963 l’allora leader del movimento per i diritti civili pronunciò il suo celebre “I have a dream”. Martin Luther King, che fu poi ucciso a Menphis nel 1968, sognava un’America senza razzismo, pacificata e integrata. Sono passati 57 anni e quel sogno non è mai stato così lontano dalla realtà come in questo periodo e così vivo nel mio animo. Riprendo di seguito le cronache di questi giorni.

Il 28 agosto 2020 a Washington erano migliaia i manifestanti, arrivati da varie parti degli Usa per ricordare quel discorso che ha segnato la lotta per i diritti civili degli afroamericani e per tutte le minoranze negli Usa. La manifestazione è caduta in coincidenza della nuova ondata di proteste per il caso Blake, il giovane afroamericano di Kenosha, in Wisconsin, colpito alle spalle dalla polizia e rimasto paralizzato, ma arriva anche nell’anno della barbara uccisione di George Floyd ad opera della polizia avvenuta a Minneapolis. La Casa Bianca è blindata, con centinaia di poliziotti e uomini del secret service schierati. Gli interventi più’ attesi sono stati quelli del reverendo Al Sharpton e quello del figlio di Martin Luther King.  La manifestazione di quest’anno era intitolata “Marcia dell’impegno, metti giù il ginocchio dal collo”, proprio in memoria di George Floyd, l’afroamericano soffocato dal ginocchio di un poliziotto a Minneapolis, pratica diffusa dalle forze dell’ordine durante gli arresti. “Non vogliamo solo che questa sia un’estate di malcontento”, ha detto il reverendo Al Sharpton, organizzatore della marcia: “Vogliamo fare come 57 anni fa, andare dal Governo nazionale e dire che abbiamo bisogno di una legislazione”. Gli attivisti chiedono l’approvazione di una legge ferma al Senato che consenta di perseguire gli agenti di polizia per cattiva condotta e per abuso di potere. Tra gli speaker della manifestazione anche i familiari di Floyd e di Jacob Blake, l’afroamericano colpito con sette colpi di pistola dalla polizia di Kenosha in Wisconsin. “Aspettiamo l’uguaglianza da trecento anni”, ha sintetizzato Don Carlisle, un cinquantenne arrivato presto con un gruppo di amici. “Tecnicamente, abbiamo costruito questo Paese e siamo ancora trattati in modo ingiusto”.  Per protesta si è fermato anche lo sport.

Donald Trump “non ha nemmeno menzionato il nome di Jacob Blake”, né ha menzionato i manifestanti uccisi a Kenosha, nel discorso alla Casa Bianca che ha dato il via alla sua campagna per le elezioni presidenziali del 3 novembre, ha sottolineato il reverendo. “Dimostra che c’è ancora molto lavoro da fare”.  Ieri sera si sono registrate numerose proteste nei pressi della Casa Bianca dopo il discorso di accettazione della candidatura alla presidenza da parte di Trump che, durante la Convention, ha ripetutamente indicato i recenti casi di saccheggi e distruzioni, durante alcune proteste nelle città’ guidate dai democratici, come prova che il candidato presidenziale democratico Joe Biden sarebbe la scelta sbagliata. Biden ha criticato il modo in cui Trump ha gestito i disordini per l’ingiustizia razziale, affermando di aver gettato benzina sul fuoco.

Intanto oggi la Cnn divulga la notizia che Blake è ammanettato al suo letto d’ospedale: lo ha denunciato la sua famiglia. Lo zio di Blake, Justin Blake, ha detto all’emittente usa che il padre del 29enne è andato a trovare il figlio nell’ospedale di Wauwatosa (Wisconsin), dove è ricoverato, e gli si è “spezzato il cuore” quando lo ha visto ammanettato. “Questo vuol dire aggiungere la beffa al danno”, ha commentato Justin Blake. Il giovane, ha proseguito, “è paralizzato e non può camminare e loro lo tengono ammanettato al letto. Perché?”. Come è noto, Blake è stato colpito alla schiena domenica scorsa da sette proiettili sparati da un poliziotto di Kenosha mentre cercava di entrare nella sua auto dove lo aspettavano i suoi tre figli piccoli. Il video del fatto ha fatto il giro del web infuocando di nuovo le proteste antirazziali e creando scene da guerra civile.  “Non ho alcuna comprensione personale del motivo perché sarebbe necessario tenerlo ammanettato”, ha detto il governatore del Wisconsin, Tony Evers, ai giornalisti. “Spero che potremo trovare un modo migliore e fare di più’ per aiutarlo a riprendersi”, si è augurato. Nel frattempo però né l’ospedale né la procura riescono a fornire ragioni della decisione. E la rabbia tra i cittadini afroamericani cresce, alla luce anche del trattamento indulgente che gli agenti avrebbero riservato al 17enne bianco responsabile dell’uccisione di due afroamericani nella notte di guerriglia a Kenosha.

La Casa Bianca ha contattato per la prima volta la famiglia di Jacob Blake. A parlare con sua madre però non è stato il tycoon ma il suo chief of staff Mark Meadows, che ha riferito di aver espresso il sostegno del presidente e di aver apprezzato l’appello alla pace da parte della donna, sullo sfondo delle proteste razziali. Sì, perché Donald Trump sta impostando la sua campagna elettorale sulla “difesa dei cittadini onesti contro le frange radicali che scatenano proteste violente”. Economia e ordine sono i suoi temi chiave e non a caso accusa il campo democratico di estremismo e socialismo. È estremismo protestare contro vomitevoli rigurgiti razzisti sostanzialmente coperti se non fomentati dalla Casa Bianca? Reagire alla violenza non è violenza, anche se la reazione a volte può sconfinare in episodi di rivalsa e di vendetta. Martin Luther King era fautore di un movimento non violento ed è molto opportuno il richiamo alla sua predicazione, al suo sogno che rimane vivo. È ordine reprimere con la forza gli scontri innescati da episodi di chiaro stampo razzista? Il razzismo è tuttora presente nel dna della società americana e Trump fa finta di niente, fa il pesce in barile. Accettando la nomination repubblicana ha sostenuto: «L’America non è soffocata dalle tenebre, è una fiaccola che illumina il mondo».

Il figlio maggiore di Martin Luther King grida: «Non ne possiamo più. C’è un ginocchio sul collo della democrazia e la nazione non potrà sopravvivere a lungo senza l’ossigeno della libertà. Ma la speranza non è ancora svanita, il cambiamento è ancora possibile e si ottiene con qualcosa di più delle marce e dei discorsi retorici. Si ottiene quando è data a tutti la possibilità di votare…». L’accesso al voto per i neri resta ancora difficile, ma essi non si devono stancare di lottare e di votare senza ricorrere alla violenza. Donald Trump fa finta di temere i brogli e quasi certamente butterà in rissa l’esito elettorale qualora fosse a lui sfavorevole. Tanto per cominciare pone ostacoli al voto dei neri, poi si vedrà… Chiediamoci il perché a distanza di oltre mezzo secolo siamo ancora incatenati alle discriminazioni razziali e, sia chiaro, non nell’ultimo dei Paesi africani, ma nel primo dei cosiddetti Paesi civili e democratici. Una stupenda canzone di Bruno Martino diceva: “E la chiamano estate questa estate senza te, ma non sanno che vivo ricordando sempre te…”. Oso parafrasarla nel seguente modo in ricordo di Luther King e della mia giovinezza da lui illuminata: “E la chiamano democrazia questa democrazia senza te, ma non sanno che vivo ricordando sempre te…”. E sia chiaro che chi pensa di squalificarmi definendomi un inguaribile sognatore, sappia che mi fa il più bello dei complimenti.

La ciambella evangelica nel naufragio trumpiano

Non sono un appassionato cultore delle religioni.  Ammetto di nutrire da sempre un certo scetticismo riguardo alle prospettive di unificazione, o per lo meno di dialogo, fra le diverse confessioni cristiane: mantengo intatta, nonostante i tentativi anche sinceri, l’impressione che si tratti di divisioni dottrinali molto influenzate da questioni di potere. Gesù, pur non essendo un prete dell’epoca, conosceva molto bene i “suoi polli” e, pur aborrendole con nettezza, le commistioni tra religioni e potere: in fin dei conti la sua morte può essere fatta risalire proprio al timore, da parte dei capi religiosi, di perdere il controllo della situazione. Per questo pregò con intensità ed insistenza affinché i suoi discepoli potessero rimanere uniti nel suo nome, senza cadere nella tentazione del frazionismo o del settarismo al fine di difendere i loro “orticelli clericaloidi”.

Di quanto sopra ho la riprova nell’atteggiamento dei cristiani evangelici americani di fronte alla presidenza di Donald Trump. Li osservo a distanza e leggo con stupore la loro prevalente adesione a questo strambo personaggio. Ho sempre avuto, seppure superficialmente, un occhio di riguardo per le questioni sollevate, in estremo dissenso rispetto al cattolicesimo, da Martin Lutero: l’essenzialità del vivere la fede in Cristo, il rifiuto di un certo insistente ritualismo, l’opposizione alla gerarchizzazione e clericalizzazione dei rapporti ecclesiali, etc. etc. Proprio per queste ragioni resto a bocca aperta quando sento e leggo che negli Usa gli evangelici hanno sostenuto e, cosa ancor più strana, continuano a sostenere Donald Trump, il quale si aggrappa sempre più all’appoggio religioso per uscire da una situazione di estrema difficoltà nella raccolta dei consensi.

Evidentemente agli evangelici non sono bastati questi quattro anni di “cazzate” per capire i profondi e insanabili contrasti fra la politica trumpiana e la fede evangelica. I legami, da quanto mi è dato capire, sono di carattere squisitamente doroteo, vale a dire questioni di potere: la religione che non cerca di ispirare la politica proponendo i propri valori con la testimonianza e con l’impegno, ma che si accontenta dei succosi piatti di lenticchie consistenti nella salvaguardia di spazi di potere e di aree di influenza. La democrazia americana mostra sempre più la corda del lobbismo su cui è costantemente in bilico e nell’asfissiante gioco lobbistico i cristiani evangelici svolgono un ruolo notevole.

Ricordo come un mio carissimo collega sostenesse che un credente, a qualsiasi religione appartenesse, non avrebbe potuto che essere politicamente di destra. Ragionamento apparentemente brutale e fazioso, ma non destituito di ogni fondamento. Se infatti mettiamo in primo piano gli interessi strutturali della religione finiamo per forza di cosa in braccio al potere, meglio se esercitato in senso reazionario o conservatore, senza correre alcun rischio di conflitto valoriale; se invece facciamo riferimento al dettato evangelico, non possiamo che essere laicamente lontani dal potere e a fianco di chi dal potere viene emarginato, discriminato, torturato e maltrattato in tutti i modi. La storia è tutta lì a dimostrarlo.

Tornando agli Usa sinceramente, pur concedendo a tutti la buona fede, non riesco a capire come un credente in Cristo possa votare per Donald Trump: le sue politiche sono la sistematica contro-rivoluzione cristiana, dal populismo al sovranismo, dal protezionismo al razzismo, dall’affarismo al clientelismo. È pur vero che in politica due più due non fa quattro, che non c’è limite al peggio, che i democratici non brillano certo per apertura agli ideali cristiani. È pur vero che non è facile essere e stare nel mondo senza essere del mondo. È pur vero che la fede non deve cercare riscontri obiettivi nella politica. Tutto quello che volete, ma che un seguace di Cristo appoggi Donald Trump mi fa letteralmente schifo. Così come mi fa schifo l’ostilità di tanti cattolici americani nei confronti di papa Francesco. Forse cattolici ed evangelici statunitensi hanno trovato una convergenza di fatto nella conservazione del potere religioso e laico. D’altra parte, come detto all’inizio, le divisioni fra cristiani avevano e hanno tuttora un bruttissimo sottofondo proprio nelle questioni di potere.

 

I telefoni azzurri dell’omertà europea

É più che scontato che mio padre amasse la buona compagnia, assai meno scontato è il fatto che esigesse una concreta ospitalità irridendo clamorosamente alle tavole spoglie: “Atenti a strabucher i bicer.”  Quando mia madre educatamente osava rifiutare col solito manierato “non si disturbi”, da provocatore nato la correggeva immediatamente: “No, no, ch’al s’disturba pur” (lascio immaginare i rimproveri che a freddo si buscava dalla moglie, ma quel che aveva detto non si poteva più ritirare).

Chissà perché di questo strano galateo paterno mi è sovvenuto leggendo i contenuti della telefonata segreta (?) tra Conte e Putin con il relativo giro d’orizzonte sugli eventi che caratterizzano o dovrebbero caratterizzare i rapporti tra Russia ed Unione Europea: soprattutto la crisi bielorussa e il caso del blogger avvelenato Alexey Navalny. Da giorni, il Cremlino ha intensificato i suoi contatti con i maggiori Paesi europei: è partito da una telefonata con la cancelliera Angela Merkel, poi è stato il turno del presidente francese Emmanuel Macron, del presidente del Consiglio europeo Charles Michel, e poi, per oltre un’ora, ha conversato con il premier italiano Giuseppe Conte. Faccio di seguito riferimento al chiaro resoconto di Francesca Sforza su La stampa.

In testa all’agenda del colloquio, i fatti di Minsk, cruciali per il futuro delle relazioni tra Russia e Ue, oltre che per la martoriata popolazione bielorussa. Il premier Conte ha fatto presente che di fronte a manifestazioni e proteste di queste dimensioni non è pensabile girarsi dall’altra parte, e pur consapevole del fatto che non ci può essere una soluzione della crisi in Bielorussia senza il consenso (e diciamo pure l’approvazione) di Mosca, ha sollevato l’importanza di una mediazione internazionale affidata all’Osce. Il problema però, come confermano anche fonti russe, è che quello che gli europei considerano «un tentativo di mediazione» è visto dai russi come «un’interferenza». «Durante lo scambio di opinioni sulla situazione in Bielorussia dopo le elezioni presidenziali – si legge nella nota del Cremlino diffusa da Gazeta.ru – la parte russa ha sottolineato quanto controproducente possa essere ogni tentativo di interferire negli affari interni della Repubblica». Ma se Lukashenko perdesse il controllo della situazione, chi si farebbe carico della gestione del Paese, ha chiesto l’Italia di fronte alla fermezza con cui Mosca rifiuta eventuali interventi di mediazione europea. Putin ha fatto capire che una perdita di controllo da parte di Lukashenko sarebbe un disastro per tutti, e che per questo avrebbe consigliato lui stesso, a Lukashenko, di incontrare gli altri ex candidati alla Presidenza per cercare di trovare una soluzione di compromesso. Per quanto riguarda un possibile sostegno militare al dittatore, Putin ha ricordato che in base al Trattato di Sicurezza Collettiva, la Russia, qualora fosse avanzata la richiesta, sarebbe «obbligata» a offrire il proprio aiuto. E ha anche detto che Lukashenko quella richiesta l’ha già avanzata, ma la Russia non ritiene che ci siano al momento le condizioni per un intervento. «Se però la situazione dovesse precipitare, e si dovessero verificare attacchi a palazzi delle istituzioni – ha detto Putin – allora la valutazione sarà diversa».

Ho capito: il fattivo interesse europeo si chiama “interferenza”, mentre l’eventuale aiuto russo sarebbe una risposta obbligata alla richiesta di aiuto. Non siamo molto lontani dalla teoria della “sovranità limitata” di sovietica memoria. Mentre la Russia si erge a Paese amico della Bielorussia per tenerla al guinzaglio a costo di soffocare le rivolte popolari contro il regime di Lukashenko, l’Europa dovrebbe stare a guardare fidandosi ciecamente della mafia putiniana. È finita la guerra fredda? Ma fatemi il piacere: dalla padella della rigida spartizione delle aree siamo passati alla brace della subdola consultazione sugli interventi. Dalla guerra fredda alla pace dei sepolcri più o meno imbiancati!  Se proprio devo essere sincero preferivo i comunistoni sovietici e il loro barbaro regime burocratico allo schifoso populismo di Putin, il quale non a caso era a capo dei servizi segreti sovietici e penso abbia sulla coscienza tali e tanti misfatti da far impallidire Hitler. Siamo nella perfetta continuità. Il discorso vale a Est e purtroppo anche per l’omertà occidentale. Il garbo e la discrezione con cui operano gli Europei non è abile diplomazia, ma vomitevole e pilatesco atteggiamento. Così va il mondo…

Sono in molti gli analisti che vedono una stretta correlazione tra le rivolte in Bielorussia e il ruolo di oppositore portato avanti da Alexey Navalny, e certo le circostanze temporali tra i disordini a Minsk e l’avvelenamento a Tomsk facilitano loro questo genere di congetture. Ma il premier Conte, in linea con i partner europei, si è limitato a valutare i contorni «preoccupanti» che circondano l’intera vicenda. Il presidente russo gli ha detto di essere anche lui interessato all’accertamento della verità, tanto da voler istituire una commissione d’inchiesta per far luce sull’accaduto. Allo stesso tempo, Putin ha fatto notare come sia importante, in questa fase, una grande condivisione dei risultati scientifici con la parte tedesca. «Al momento – ha detto – non pare risultino tracce della sostanza incriminata nell’organismo della persona colpita (il nome di Navalny non è stato mai pronunciato dal presidente nel corso di tutta la telefonata), ma soltanto gli effetti che questa avrebbe avuto nel medesimo organismo». Difficile quindi, secondo, i russi, far derivare direttamente la presenza dell’agente Novichok nel corpo del blogger. Indizi, ma non prove, e per questo «senza condivisione delle informazioni sarà difficile capire cosa è accaduto».

Le acrobazie russe non sono lontane da quelle fasciste dopo la morte di Giacomo Matteotti. E noi facciamo finta di ascoltare le false elucubrazioni di Putin: la prima gallina che canta e che continua a fare uova avvelenate. In politica estera la prudenza e la cautela sono importanti, ma non devono sfociare nella fuga dalle proprie responsabilità etiche e politiche. Possibile che l’Unione Europea non possa fare qualcosa di più rispetto alle ridicole telefonate di cui sopra? Se l’anelito democratico, che sta serpeggiando in Bielorussia, aspetta un riscontro europeo, penso dovrà riavvolgere frettolosamente le bandiere o bagnarle nel sangue. Dei Bielorussi, diciamola tutta, all’Europa non può fregare più di tanto: avremo il coraggio di alzare la voce solo se Putin ci verrà a toccare nel vivo. Non so come e non so quando. Nel frattempo leghisti e pentastellati lo ammirano e lo considerano un punto di riferimento diretto o indiretto. E questa sarebbe la seconda o la terza repubblica italiana (ho perso il conto!)? Ogni giorno che passa rimpiango la prima, laddove la politica estera aveva una sua dignitosa e coerente dimensione. Acqua passata macina solo nei miei ricordi… Mio padre esigeva che gli amici si disturbassero nell’ospitalità, io esigerei che almeno si esprimessero chiaramente nella solidarietà.

Il sindaco Pizzarotti, più spretato che convertito

Sono solito accettare le prediche purché vengano da pulpiti autorevoli, competenti, credibili e soprattutto coerenti. Ragion per cui non mi farò certo dettare il voto al prossimo referendum dal sindaco Federico Pizzarotti. Questo signore è capitato per caso a fare il sindaco di Parma per demerito del Partito democratico in vena di sciagurate scelte in quel di Parma e per merito di Beppe Grillo in vena di scherzare col fuoco dell’inceneritore parmense dei rifiuti.

Stringi stringi l’elezione nell’ormai lontano 2012 è dovuta a queste due ragioni: la candidatura piddina assolutamente sbagliata (Vincenzo Bernazzoli per gli smemorati) e la demagogica quanto impossibile promessa dello stop all’incenerimento dei rifiuti. I parmigiani, me relativamente e parzialmente compreso, stanchi della presuntuosa inconcludenza del partito democratico, e fuorviati da una polemica strumentale sulla difesa dell’ambiente, decisero di aprire le porte del municipio al movimento cinque stelle inaugurando così indirettamente e incolpevolmente (?) la stagione grillina a livello nazionale.

Federico Pizzarotti ha avuto il tatticistico buongusto di ammettere i propri limiti, di abbandonare le chimere propagandistiche, di fare un bagno di realismo finanziario dopo tanti dissennati sperperi (non suoi), ma soprattutto di prendere progressivamente le distanze dal suo movimento e dalle velleitarie battaglie grilline. Questo gli ha consentito di riacchiappare la fiducia dei parmigiani, rassegnati all’amministrazione di basso profilo dopo le lunghe esperienze di affaristica e salottiera deriva.

Sia chiaro che nessuno è entusiasta di Pizzarotti e tutti lo bevono da botte. Non si erga quindi a coscienza critica e si accontenti di amministrare il condominio senza rompere troppo i coglioni. Non avrei rispolverato questi ragionamenti se non mi fossi visto tirato per la giacca (si fa per dire) dai consigli pizzarottiani in materia di referendum sul taglio dei parlamentari. Pur arrivando ad analoghe conclusioni di voto per il “no” ho letto con fastidio le sue menate, che vorrei di seguito riprendere sottoponendole all’esame finestra del suo curriculum da “maddaleno” pentito.

“Ci avviciniamo al giorno del voto sul referendum costituzionale che prevede il taglio del numero dei parlamentari, previsto per il prossimo 20 settembre. Lo anticipo: voterò no al taglio, e lo argomento”. È quanto scrive il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, in un lungo post su Facebook. “Voglio essere libero da preconcetti e visioni dogmatiche, dove chi vota sì lo fa per dare un duro colpo alla casta (ma quando mai), e chi vota no invece lo fa per spirito di conservazione contro chi minaccerebbe la democrazia (ma quando mai). Una riforma è buona o brutta a seconda dei punti di vista, ma non buona o brutta tout court.

Caro sindaco Pizzarotti, Lei si è affacciato alla politica proprio sulla base dei presupposti che ora mette in discussione: l’anticasta e l’antipolitica erano il suo punto di partenza o meglio il punto di partenza di chi inventò e portò avanti la sua candidatura. Lei ha cominciato un po’ troppo presto a sputare nel piatto dove mangiava e quindi la sua cucina politica non mi convince, perché la vedo opportunistica e frettolosa. Se Lei ha la memoria corta, io ce l’ho piuttosto buona e lunga.

Per me questa riforma è semplicemente insensata: si tratta di interrogarsi sul funzionamento della nostra democrazia, che come tutte le democrazie ha i suoi aspetti burocratici”, prosegue. “I numeri ci parlano ora di una rappresentanza più o meno equilibrata tra le principali nazioni europee, ma con il taglio dei parlamentari la rappresentanza democratica italiana diminuirebbe in misura non indifferente: 1 parlamentare per ogni 100 mila abitanti. Non è un attentato alla democrazia, non viene meno il principio democratico ma, cosa non da poco, si ridurrebbe la rappresentanza territoriale per numero di abitanti e ciò si riverberebbe sul funzionamento della macchina democratica: già ora sentiamo i parlamentari poco vicini ai territori e alle loro esigenze (o non è così?), figuratevi dopo la riforma”, sottolinea Pizzarotti.

Egregio signor sindaco, proprio Lei parla di democrazia e osa propinarci una lezioncina in merito? Lei, che proviene da un movimento assemblearista, parla di rappresentanza? Lei, che ha fatto parte di un partito che designa i suoi candidati in base a consultazioni burletta effettuate sul web, osa preoccuparsi del legame tra parlamentari e territorio? Lei, che si è lasciato inventare dai populisti, è diventato un rigido difensore dei meccanismi costituzionali ed istituzionali del funzionamento della nostra democrazia?

“Ma a fronte di cosa si tagliano i parlamentari? Dicono quelli che la vogliono: a fronte di un risparmio economico. Ma rispetto al bilancio dello Stato è un risparmio esiguo! Ma davvero il risparmio va fatto sulla rappresentanza (principio democratico sostanziale) e non, chessò, sui dicasteri, sulla burocrazia (investire sul digitale è, a sua volta, un risparmio economico), sulle decine di enti pubblici la cui funzionalità è dubbia e farraginosa, sullo stipendio stesso dei parlamentari, che ancora oggi fa tanto discutere? Queste voci vanno tutte bene? Non ci sono sperperi di denaro pubblico?”, si domanda il primo cittadino di Parma. “Però vorrei che al tempo stesso non si riducesse la discussione sul risparmio economico, favorevoli o contrari. Quanto è povera la nostra azione politica, e le nostre idee sulla democrazia, se ci soffermassimo esclusivamente su questa voce? – continua -. Sarebbe come dire che la politica è un’attività positiva e benefica quando chi la fa sa spendere, quindi risparmiare, meno degli altri.

Lei, esimio primo cittadino parmense, abiura la fede nel risparmio sui costi della politica, da cui ha preso le mosse nel 2012? Lei si tuffa nella piscina del benaltrismo e vuole insegnarci a nuotare nel riformismo provenendo dal mare assurdo del “tutti ladri e tutti stupidi”? Lei rifiuta la stretta logica referendaria dopo avere fatto professione di fede nel più becero dei radicalismi di facciata?

No: è la qualità che conta. È la qualità delle nostre azioni, la qualità delle nostre riforme, la qualità delle nostre idee, la qualità dei nostri investimenti, la qualità dei nostri servizi, la qualità della nostra rappresentanza – argomenta -. È la qualità l’obiettivo verso cui dobbiamo dirigerci. Invece vedo poca qualità e tanta, tanta semplicità. D’altra parte chi ha voluto questa riforma costituzionale è quel partito che ha posto per se stesso principi inderogabili e granitici per poi rinnegarli il giorno dopo. Non c’è qualità in tutto questo, solo tanta tanta arrogante semplicità. Voto NO al referendum, e non perché la democrazia sia sotto minaccia, ma perché ci stiamo indirizzando verso una democrazia senza qualità”, conclude Pizzarotti.

Lei, simpatico buontempone della municipalità, ci richiama alla qualità della politica, dimenticandosi di avere militato in un partito di improvvisatori, che ha fatto dell’inesperienza e dell’incompetenza le sue cifre caratteristiche? Lei dimentica di essere arrivato a reggere il comune di Parma senza avere alcuna esperienza amministrativa, senza essere dotato di preparazione, senza avere professionalità consona al ruolo pubblico in cui veniva inopinatamente catapultato. Lei mi dirà che, anche in politica, errare è umano e di avere avuto il coraggio di non perseverare negli errori. Si è convertito? Io direi piuttosto che si è spretato e divertito alle spalle prima dei parmigiani e poi dei grillini. Sì, perché una conversione politica, tipo quella di Saulo sulla via di Damasco, per essere credibile deve comportare il pagare di persona, mentre invece Lei su questa conversione ha fondato le sue fortune, trovando il modo di rimanere al suo posto dopo pazzesche giravolte politiche, che peraltro non sono ancora terminate. Ero comunque già orientato a votare “no” al prossimo referendum anche per i motivi da Lei sollevati, e voterò “no” pur se questi motivi, messi in bocca a un testimone poco credibile come Lei, rischiano di perdere pregnanza e valore.

 

Il teatro etico

Il movimento «Non Una di Meno» ha scritto una lettera aperta alla sovrintendente della Fondazione Arena di Verona Cecilia Gasdia, lamentando la presenza nel cartellone del programma del festival lirico in corso del direttore d’orchestra austriaco Gustav Kuhn e del tenore spagnolo Placido Domingo. Entrambi, viene sottolineato, sono stati accusati di molestie e abusi di potere.

«Le accuse hanno avuto delle conseguenze: indagini, abbandono o allontanamento da prestigiosi incarichi internazionali e cancellazione degli spettacoli dai cartelloni dei principali festival del mondo, viene rilevato. Verona rappresenta evidentemente un’eccezione». La lettera è stata sottoscritta da altri movimenti, associazioni e singole persone che saranno rese note sulla pagina Facebook del Movimento.

«Noi siamo quelle che lottano per un finale diverso della Carmen di Bizet, conclude la missiva. Siamo quelle che non sono disposte a sollevare nessuno e in nome di nulla dalle conseguenze dei propri comportamenti. Siamo quelle che non stanno in silenzio di fronte alla complicità. Siamo quelle che chiedono e le chiedono: perché ci sono voci che contano e altre no?”.

Ammetto di essere rimasto negativamente sorpreso e addirittura schifato dalle squallide vicende venute a galla nella vita di Placido Domingo. Confesso di non avere presente il personaggio Gustav Khun e quindi, come sempre purtroppo succede, lontan dagli occhi… Nel mondo dello spettacolo era ed è arcinoto che esistano queste vomitevoli prassi sessuali ed è giusto respingerle, condannarle, stigmatizzarle e prevenirle in tutti i modi.

Lungi da me colpevolizzare le vittime: è un vizio antico e inaccettabile. Tuttavia, se le denunce e i conseguenti movimenti di protesta avvenissero in tempi reali e non a babbo morto o a molestia consumata, sarebbe molto meglio ed avrebbero ben altro impatto. Parlo fuori dai denti: se sono una cantante lirica e mi accorgo che per calcare la scena di un teatro prima devo calcare il letto di qualche personaggio importante, non dovrei neanche minimamente adattarmi a questa prassi con la riserva mentale di vendicarmi in un secondo momento. Il coraggio bisognerebbe averlo da subito e non a scoppio ritardato. D’accordo, meglio tardi che mai, ma se vogliamo moralizzare un ambiente lo dobbiamo fare in modo netto e immediato, altrimenti a posteriori tutto diventa più sfumato e discutibile.

La seconda riflessione riguarda l’eventuale ostracismo nei confronti di chi si renda responsabile di certi comportamenti. È un discorso molto delicato, sempre e comunque, senza alcun aggiuntivo riguardo se la sessualità viene rubata da artisti in carriera. Pierpaolo Pasolini non era certamente uno stinco di santo nel vivere la sua sessualità e probabilmente avrà molestato ragazzini sfruttando la sua posizione e financo il suo denaro, finendo addirittura col rimanere vittima dell’ambientaccio con cui entrava in combutta sessuale: a nessuno venne in mente di squalificarlo a vita come poeta, scrittore e regista. Mi si dirà che sono paragoni impossibili e che un conto è la vox populi un conto sono le realtà processuali. L’esempio, con tutto il rispetto per la persona citata, mi è servito solo a rendere l’idea di una possibile forzatura etica. Inoltre bisogna tenere conto che non sempre le realtà processuali arrivano a smascherare le realtà di vita vissuta. E allora? Forse è meglio lasciare che la giustizia faccia il suo corso senza infierire a latere. Non si tratta di complicità o di stare in silenzio di fronte ad essa, ma di evitare ogni e qualsiasi strumentalizzazione seppure a fin di bene.

Posso io, direttore di un grande teatro, mettere un blocco all’ingaggio di artisti processati per reati sessuali? Forse scadiamo nel teatro etico! Magari dovrebbero essere gli interessati a chiedere scusa e a togliere l’incomodo, ma è pretendere troppo, così come è pretendere troppo che i molestati denuncino immediatamente i tentativi subiti. La società si cambia con il movimentismo di denuncia e di protesta, ma anche e soprattutto con le coscienze individuali e le loro coraggiose difese e conversioni. Non volevo scadere nel teatro etico e probabilmente ci sto ricadendo. Chiedo scusa e spero di essermi spiegato.

 

L’Occidente amico del giaguaro

Garry Kasparov è stato campione del mondo di scacchi, è un attivista politico e oppositore di Putin che attualmente vive in esilio in Croazia. Ha espresso desolati giudizi sul recente attentato contro Aleksej Navalnyj, oppositore e combattente contro la corruzione in Russia: “Un messaggio chiarissimo dentro e fuori la Russia: nessuna voce contro il regime di Vladimir Putin è più tollerata: tutto ciò è anche conseguenza di un Occidente che non muove mai un dito contro i metodi “mafiosi” del Cremlino”.

L’intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica si conclude con una domanda: “Cosa crede succederà adesso?”. Kasparov risponde: “La voce dell’Europa è debole e disunita e negli Stati Uniti c’è un presidente come Donald Trump che, al pari degli altri leader sovranisti, non è certo un’invenzione di Putin, ma di sicuro gioca a suo favore”.

In ordine alla grave situazione della Bielorussia sull’orlo di una guerra civile scatenatasi dopo l’esito di elezioni truccate da parte del regime di Lukashenko, Bernard-Henry Lévy scrive su La Repubblica: “L’Europa deve capire che è sola, ridotta alle sue forze e priva del sostegno di un’America repubblicana che ha rotto con l’eredità antitotalitaria del presidente Reagan. Essa deve tenere conto della terrificante frana che ha fatto sì che si passasse, anche al suo interno, dallo spirito di Jan Patocka e Bronislaw Geremek, a quello di Matteo Salvini, Viktor Orbàn, Jaroslaw Kaczinski e dei fautori della Brexit. E deve sapere che spetta a lei, tuttavia, venire in soccorso e fare in modo che questo evento si trasformi in una rivoluzione di velluto alla Vaclav Havel piuttosto che in una sanguinosa primavera in cui, come a Praga nel 1968, sarebbe affidato ai carri armati di Putin restaurare un ordine post-sovietico”.

Non so se l’Europa potrà e saprà darsi un colpo di reni democratico: la vedo assai dura. L’Unione Europea è troppo ripiegata su se stessa, è intenta a guardarsi l’ombelico, che, peraltro, non è assolutamente l’ombelico del mondo. Se non sappiamo raccogliere il grido di libertà proveniente dal di fuori, difficilmente riusciremo a solidarizzare all’interno. Rinchiudersi nei propri problemi non aiuta a risolverli, ma li esaspera e li colloca in un contesto sbagliato.

Quanto agli Usa non riesco a capire se si stia effettivamente mettendo in moto una situazione nuova in vista delle prossime elezioni presidenziali. È sempre molto difficile intuire gli sviluppi della politica americana. La “cotta trumpiana” sembrerebbe avviarsi a soluzione anche in conseguenza della disastrosa gestione dell’emergenza covid. Temo tuttavia che Trump possa avere sette vite come i gatti: disfarsi di personaggi simili è molto difficile. La candidatura di Joe Biden sembra forte, ma in realtà è debole: è forte di un compromessone fra le diverse anime democratiche e fra diversi interessi economici, ma è debole per uno Stato in cui la politica è vista come scelta radicale e leaderistica. C’è poi l’incognita di un sistema elettorale paradossale, che, dopo avere catapultato quattro anni fa il perdente alla Casa Bianca, potrebbe mantenercelo per i prossimi quattro nonostante tutto. Non vorrei che partisse nell’elettorato americano l’idea di una scelta fra il poco-sicuro e il molto-incerto, una sorta di “meglio stare nei primi danni” anche se sono enormi.

Vedere la politica e la democrazia ridotte in questo modo mi rende triste. Le idee non contano niente, persino i legittimi interessi non trovano sbocchi, tutto si gioca nel fumo mediatico peraltro tutto da riscoprire in base alle ristrettezze del covid.  Trump sta riciclando la sua minestra rancida, Biden sta cucinando una minestra tutta da scoprire. C’è poco da stare a tavola. Non mi resta che fare il tifo più contro Trump che a favore di Biden, come fanno molti tifosi in campo calcistico. Nel recinto di Biden vedo comunque una parvenza di discorso politico, mentre sul lato opposto vedo solo demagogia. Di questi tempi bisogna sapersi accontentare.

Tornando agli oppositori russi e ai contestatori bielorussi, non si illudano dell’aiuto euro-americano. Dovranno fare affidamento sulle loro forze e combattere a mani nude. Con il carissimo amico Gian Piero Rubiconi si parlava spesso di politica, non era la sua vocazione principale, ma se ne interessava e riusciva, come in tutte le cose, a trovare una sua originalità di analisi e di proposta. Era un libero pensatore: aveva idee aperte e progressiste, cosa che lo portò nel 1956 a fare a botte all’università in difesa dei moti rivoluzionari in Ungheria contro il regime comunista. Lo ricordava spesso, proprio per confermare che non era mai stato prigioniero di schemi e che aveva vissuto con la mente puntata sugli ideali di libertà. Ci sarà qualcuno in Occidente disposto a fare a botte a sostegno degli oppositori ai regimi post-sovietici di Putin e Lukashenko? E magari, perché no, contro i populisti e sovranisti amici del giaguaro?

Elezioni regionali: poca politica e molta antipolitica

Sulle elezioni regionali grava da sempre il dubbio se abbiano o meno un significato politico di rilevanza nazionale. Ogni volta che l’elettorato, a qualsiasi livello, si pronuncia, la cosa assume inevitabilmente e giustamente una portata politica, anche se limitatamente a ciò per cui si vota. Invece i riflessi amministrativi, soprattutto quelli regionali, impattano inevitabilmente sugli equilibri parlamentari e governativi.

Le elezioni regionali del 20-21 settembre, ammesso e non concesso che si possano svolgere in condizioni di sicurezza, riguardano sette regioni: Campania, Liguria, Marche, Puglia, Toscana, Veneto e Valle d’Aosta. Quasi nessuno, in preparazione del voto, effettua analisi serie e obiettive sui risultati ottenuti dalle giunte e dai presidenti regionali. Da una parte si parla di governi e governatori regionali enfatizzandone i pur rilevanti poteri, dall’altra si finisce col riportare il tutto in ambito nazionale per valutare l’effetto dei risultati sulla tenuta della maggioranza giallorossa, sui rapporti tra M5S e PD, sulla scalata della Lega di Matteo Salvini.

Il ruolo istituzionale delle regioni è molto importante: se ne è avuta una dimostrazione con la gestione dell’emergenza covid. Siamo purtroppo al limite della confusione fra poteri, con la situazione ulteriormente complicata dalla disomogeneità esistente fra gli indirizzi politici nazionali e locali. Ci sarebbe da mettervi mano a livello costituzionale per fare un po’ di chiarezza e di ordine, invece si preferisce picconare la Costituzione a vanvera, come sta succedendo con la drastica riduzione del numero dei parlamentari.

Le domande poste agli e dagli elettori dovrebbero essere le seguenti: come hanno amministrato gli uscenti e chi si pone in alternativa ha credibilità e capacità? Le candidature rispondono a criteri di competenza ed esperienza? Quali sono le linee programmatiche dei candidati e quale spessore evidenziano? Invece i punti in questione sembrano essere la sfida tra pentastellati e democratici, il consenso che riusciranno a raccogliere il dentista di Grillo, attrici, cantanti, nani e ballerine di varia storia e provenienza, la rivincita toscana di Salvini nella partita di ritorno dopo l’insuccesso emiliano dell’andata. Si ipotizzano già i risultati: 4 a 3, 3 a 4, etc. e per ogni esito si pensa all’effetto immediato. Come si fa per il valzer delle panchine nei campionati e nelle Coppe calcistiche.

Il M5S si è fatto dare un indirizzo dai propri iscritti: dalla piattaforma Rousseau è uscito un voto favorevole all’accordo periferico con il Pd, salvo poi preferire il ruolo di battitori liberi a costo di perdere capra e cavoli. Una presa in giro bella e buona, ma l’elettorato grillino è ormai talmente disilluso che reagisce scappando, non si capisce dove.

Il Pd, pur disposto a pagare prezzi salati sull’altare dell’alleanza giallorossa, deve fare i conti con un alleato (?) sgusciante e imprevedibile e quindi si vede costretto a combattere in solitudine e in condizione di manifesta inferiorità numerica contro il centro-destra. Se la Toscana dovesse andare a destra sarebbe veramente un bel guaio. Non so fino a che punto potrà funzionare il voto disgiunto grillino fra lista regionale pentastellata e candidato governatore di centro-sinistra.

In questi giorni sto rileggendo un libro sul pensiero e l’azione politica di Mino Martinazzoli: “Uno strano democristiano”. Il libro è del 2009, ma, per certi versi, è attualissimo. Si legge: “Possiamo dire che il sogno dell’alternanza della democrazia compiuta oggi è raggiunto, ma è certamente una cosa diversa da quella che Moro immaginava. La sua morte è una cesura su un certo tracciato. Con lui avremmo raggiunto una democrazia dell’alternanza attraverso la politica, senza di lui l’abbiamo raggiunta attraverso l’antipolitica. È, cioè, un’alternanza senza partecipazione, con l’emergere di assetti partitici che più che rappresentare si autorappresentano. Il grande problema in campo è la stanchezza democratica. Una stanchezza che Moro temeva più di ogni altra cosa. Sapeva che essa avrebbe potuto costituire il vero rischio per le istituzioni che il Paese stava ancora consolidando. Temeva lo svuotamento dei valori democratici, accantonati per far posto all’ipertrofia del privato, al ripiegamento sul sé Individuale. Avvertiva il paradosso delle democrazie mature, che stentano a suscitare impegno ed energie destinate alla politica”.

Non credo siano, da parte mia, assurde nostalgie, ma sincere, oserei dire commosse rivisitazioni della politica. L’alternanza, dopo il bagno affaristico proposto dal regime berlusconiano, si ripropone quale scelta tra un populismo strisciante ed ambivalente e un popolarismo debole e balbettante. Cosa andremo a votare il 20 e 21 settembre Dio solo lo sa: ci viene propinata una sorta di polpetta avvelenata, un mix tra un assurdo e dispettoso referendum, un voto con le porte girevoli pentastellate, un agguato destrorso. E la democrazia? Ne parleremo alla prossima occasione!

Evviva la “squola”

La storica impossibilità di riformare la scuola italiana mi ha sempre innervosito, irritato e indispettito: tutti i tentativi operati sono regolarmente andati a vuoto, anche quelli proposti da fior di ministri. I motivi, al di là delle obiettive difficoltà di mettere mano ad un mondo articolato e complesso, ci dovranno pur essere. La ministra dell’istruzione Lucia Azzolina, anziché mettere il dito nelle pieghe, o per meglio dire piaghe, della sua incompetenza e inadeguatezza, ha pensato che la miglior difesa sia l’attacco ed è partita in contropiede all’assalto del sindacato: «Le scuole riapriranno dal 1° settembre nonostante sia in atto un sabotaggio da parte di chi non vuole che ripartano».

Questo l’attacco in un’intervista al quotidiano La Repubblica. Azzolina ha fatto aperto riferimento ai sindacati scuola e ad un vero e proprio loro sabotaggio per impedire la riapertura delle scuole. In particolare non vorrebbero il concorso aperto a tutti. “Ho collaborato io stessa con un sindacato della scuola fino al 2017. Non c’è dubbio però che in questo ruolo mi sia trovata di fronte a una resistenza strenua al rinnovamento”, afferma la ministra, che poi spiega la sua posizione: “Non è un mistero che i sindacati siano contrari al concorso con prova selettiva: vorrebbero stabilizzare i precari, immissione in ruolo per soli titoli». Le critiche lasciano intendere che il sindacato mantenga una storica posizione conservativa dello status quo e uno strenuo atteggiamento corporativamente volto alla difesa degli interessi dei lavoratori della scuola.

Secondo un retroscena, pubblicato sempre da Repubblica, le parole della ministra Azzolina troverebbero un antefatto in una riunione a Palazzo Chigi, durante la quale il presidente del Consiglio Giuseppe Conte avrebbe parlato in modo esplicito di “ricatto del sindacato”. Secondo il virgolettato contenuto in un articolo del suddetto giornale, Conte avrebbe detto: «Siamo di fronte ad un ricatto inaccettabile da parte del sindacato. Ci stanno dicendo: se fate fare il concorso noi non facciamo ripartire la scuola. Immaginano una ratifica della situazione esistente: immettere in ruolo i precari ope legis. Ma i concorsi sono indispensabili, come è chiaro, a garantire trasparenza ed equità. Nel rispetto dei diritti acquisiti da ciascuno, i concorsi valutano i candidati per titoli e merito: non possiamo chiudere la porta a centinaia di migliaia di giovani proprio mentre chiediamo nuove competenze, digitalizzazione, modernità. I sindacati stanno chiedendo ai propri iscritti di mettersi in aspettativa, sollecitando l’invio in massa di diffide preventive ai dirigenti scolastici, sollevando per via burocratica questioni che bloccano di fatto la possibilità di ripartire». L’incontro si sarebbe concluso con una forte dichiarazione del premier: «I sindacati hanno svolto e svolgono un’azione fondamentale, da parte di questo governo c’è il massimo ascolto e rispetto di tutte le legittime istanze, che sono davvero tante: purché i sacrosanti diritti di chi lavora non si trasformino in rendita di posizione di chi li rappresenta. Ogni trattativa è aperta, ogni ricatto è da respingere».

Naturalmente la reazione dei sindacati non si è fatta attendere. Il segretario della Cgil, Maurizio Landini, ha definito inaccettabili le accuse provenienti dal ministro, ha dichiarato di difendere i lavoratori senza nascondersi dietro ricorsi e diffide, ha sottolineato i ritardi nell’avvio della messa in sicurezza delle scuole e nel processo di regolarizzazione del personale precario, ha ribadito che il sindacato ha l’ambizione di rappresentare tutti, vale a dire le persone che lavorano nella scuola, i lavoratori che mandano i propri figli a scuola e gli studenti, ha concluso impegnando il sindacato verso l’interesse generale del buon funzionamento del sistema di istruzione con l’obiettivo comune che la didattica riparta in presenza e in sicurezza per tutti.

Non ho la capacità e la possibilità di entrare nel merito dello scontro in atto, registro le posizioni in campo ed esprimo gravi preoccupazioni sul futuro della scuola a breve, medio e lungo termine. Non posso però esimermi dal tornare al punto dell’incipit di questo commento. Se “ecclesia semper reformanda est” come afferma il protestantesimo in riferimento appunto alla Chiesa, si potrebbe dire che “schola numquam reformanda est”. Spero di non avere “maccheronizzato” il latino. Voglio cioè dire che la politica e il sindacato hanno entrambi storicamente delle gravi responsabilità nella gestione del sistema scolastico, basti pensare alle titubanze sul discorso del tempo pieno, che, a mio giudizio, è un punto irrinunciabile per una scuola veramente impegnata e impegnativa. Se il sindacato si è spesso e troppo nascosto dietro la mera difesa degli insegnanti, la politica però non ha scherzato e purtroppo dimostra ancora una volta la sua pochezza di visuale e di convinzione. Proprio in questi giorni ho esaltato quanto la scuola mi abbia dato in termini di conoscenza e di formazione: merito soprattutto degli insegnanti che ho avuto. Sì, perché la scuola non la fanno i ministri e i sindacati, ma gli insegnanti. E allora, mettiamoli una buona volta in condizione di lavorare molto e bene, di guadagnare il giusto, di aggiornarsi continuamente, di dialogare con gli studenti e le loro famiglie. Il sindacato non li difenda e rappresenti a prescindere dal loro valore e dal loro impegno, i governi non li trattino come pezze da piedi, gli studenti non li considerino come avversari e le famiglie come comodi bersagli per il loro scaricabarile. Che il covid ci costringa ad essere seri e ad evitare insulse e dannose polemiche: ognuno si prenda le sue storiche ed attuali responsabilità e la smetta di pensare e scrivere la scuola con la “q” del qualunquismo corporativo, della quiete conservatrice e della quaresima perpetua.

Alla Calenda italiana

“È la degenerazione totale della politica, una cosa che non ha eguali in Europa”. Questo il commento di Carlo Calenda riguardo la vicenda di Rousseau e le nozze Pd-M5S. In un’intervista alla Stampa, il leader di Azione descrive il momento politico attuale come contrapposizione fra un polo populista e uno sovranista, con i partiti delle grandi famiglie europee – Pd e Forza Italia – schiacciati nel ruolo di subalterni”. “È evidente – afferma Calenda – che un Paese con un debito immenso e un rischio chiaro per la tenuta dello Stato, potrebbe non sopravvivere a questa situazione. Dal taglio ai parlamentari al giustizialismo, dalla velleità di nazionalizzare anche il gelato alla non modifica dei decreti sulla Sicurezza sino a Quota100, che rimane, l’agenda la fanno i Cinquestelle. Il populismo grillino si sposa col massimalismo Pd. La loro saldatura non è tattica, ma sociale e politica”.

Quanto al ruolo del suo movimento, Azione, Calenda dice che “ciò che conta è il pensiero che esprimi. Azione è la casa di popolari, liberali e riformisti, le tre grandi famiglie che hanno fatto l’Europa. L’obiettivo è il buon governo che vada oltre lo scontro sterile ed ideologico su tutto, dai migranti al Mes. Estremizzare è lo schema di gioco populista e sovranista. Per nascondere l’incapacità del governo danno del fascista agli altri. In assenza di una discussione seria, si finisce per distruggere il Paese. Popolari, liberali e riformisti son la maggioranza che ci voterà”.

Zingaretti e Berlusconi, i partiti tradizionali, dice ancora Calenda, “hanno festeggiato il Recovery Fund, senza badare al fatto che avremo meno fondi Peep dalla Bce l’anno prossimo. L’Italia ha perso l’autonomia finanziaria, avrà sempre bisogno della spalla dell’Europa e della Bce. Se andassero al governo delle forze antieuropeiste, il rischio di tracollo finanziario sarebbe immediato. Come fai a disegnare un piano di investimento e crescita se sei contro tutto? Guidati da populisti e sovranisti, se ci affidiamo all’ex venditore di bibite o a quello che non frequentava il Viminale quando era ministro, sul mercato non ci andiamo ma più da soli”.

Sono tutti ragionamenti abbastanza condivisibili, ma la politica, che è pur sempre un’arte, non è tale sul piano figurativo, ma su quello interpretativo della realtà. «Se uno arrivasse da Marte penserebbe a una commedia felliniana» dice simpaticamente Carlo Calenda. È vero, ma le sue considerazioni sembrano arrivare dalla luna, tanto sono prive di sbocchi alternativi concreti. Che pranzo passa il convento? Una minestra pentastellata e un secondo piddino. Il menù di riserva, l’inciucio del patto anti-inciucio del centro-destra, comporta una minestra scaldata e speriamo che gli italiani non siano disposti a ingoiarla. Nella cucina in divenire “Italia viva” di Renzi sta con un piede dentro e uno fuori rispetto all’attuale equilibrio di governo e può rappresentare solo un piccante aperitivo. “Azione” di Calenda sembra un contorno alla ricerca del sapore: mira a scompigliare i giochi – sarebbe interessante – ma chi può fare nel centro destra la quinta colonna per un ritorno alla normalità di stampo europeo? Berlusconi? Purtroppo, ed è paradossalmente amaro ammetterlo, non conta un cazzo. Anche auspicando che il cavaliere con tante macchie sia almeno senza paura, i numeri sarebbero lontanissimi dalla costituzione di una maggioranza europeistica tra popolari (+ Europa + Italia viva + Azione + Forza Italia) e socialisti (Pd + Leu). Non mi dispiacerebbe mandare a casa i populisti grillini e godrei come un grillo a mettere fuori gioco i sovranisti di Lega e Fratelli d’Italia. Mi sembrano però scenari fantasiosi e inagibili.

Forse l’elettorato allo sbando potrebbe trovare in queste prospettive qualche rinsavimento, ma i tempi devono essere lunghi pena il rischio di portare l’Italia in braccio alla destra con un nuovo presidente della Repubblica ridotto ad apprendista stregone. Non vorrei che la sacrosanta critica di cui sopra portasse la gatta al lardo fino a lasciarci lo zampino. O ci affoghiamo nel mar grande di Mario Draghi (per quel che so nuotare, politicamente parlando, vedrei molto bene questa immediata eventualità) o, diversamente, mi sono fatto l’idea che in questo strano periodo storico occorra pazienza, poi ancora pazienza, per finire con altra pazienza. Chiedere l’impossibile (almeno al momento) ritorno alla logica dei poli europeisti non vorrei finisse col legittimare e consolidare l’unico polo in via di saldatura, cioè il destra-destra di Salvini e Meloni, che ha i suoi problemi di tenuta politica e territoriale.

I nervi scoperti della gioventù

In questi giorni mi va di toccare, senza troppi riguardi e con linguaggio forse poco corretto, argomenti delicati, mi va di effettuare impietose analisi della realtà. Oggi è la volta dei giovani. Li osservo con relativa invidia, ma con molta pena. Li vedo così evanescenti, così stralunati, così persi dietro cose che non contano niente. E mi chiedo: cosa potrà risvegliarli da questo torpore valoriale ed esistenziale. Non certo gli anziani, che ne hanno fatto una sorta di brutta copia per i loro sogni inconfessabili. Non certo la famiglia che li vezzeggia e li foraggia in modo scriteriato. Non certo la scuola che li trascina su percorsi approssimativi e superficiali. Non certo la politica che li considera carne morta da cannoni disoccupazionali e deresponsabilizzanti. Dopo tutte queste risposte negative, mi convinco che solo le dure prove della vita potranno maturarli e costringerli a tornare coi piedi per terra e con la testa in avanti.

Una battuta che ho sentito ripetere da mio padre in occasione di rimproveri martellanti rivolti da madri o padri, un po’ isterici e troppo esigenti, ai loro figli bambini, magari per farli smettere certe abitudini (succhiarsi il dito pollice) o certi vizietti infantili (attaccarsi alle gonne della mamma) è la seguente: “A t’ vedrè che quand al se spóza al ne la fa miga pu”. Della serie diamo tempo al tempo. Oppure di fronte a certi comportamenti adolescenziali piuttosto caparbi per non dire testardi era solito commentare: “S’al fa tant a catäros la moroza a cambia tutt”. Certo mio padre non aveva a che fare con il problema droga, con le stragi del sabato sera, con la violenza gratuita dei giovani d’oggi, ma anche ai suoi tempi i problemi esistevano e lui adottava le sue ricette. La vita sentimentale e quella sessuale erano per lui due riferimenti importantissimi. Oggi purtroppo non è più così: tutto viene rapidamente consumato e non c’è il tempo per digerire e assimilare queste esperienze di vita. In fin dei conti però riteneva, come penso anch’io, che la vita, in un certo senso, ti costringa a maturare.

Può essere un grave lutto, una grave malattia, una sconfitta clamorosa, una delusione cocente a scuoterti e a costringerti a ripensare l’esistenza: vale per tutti, a maggior ragione per i giovani. Non vorrei, ma purtroppo credo sarà così e che fra questi eventi sconvolgenti ci sia il covid. Finora i giovani (non) l’hanno affrontato con noncuranza, pensando da una parte che non li riguardasse per motivi anagrafici, ritenendo, dall’altra parte, che la vita, intesa come libero sfogo nel divertimento a tutti i costi, non potesse essere condizionata da fattori esterni di carattere sanitario.

Cosa sta succedendo? I giovani si stanno ammalando, l’età media dei soggetti colpiti dal coronavirus si sta abbassando precipitosamente, i loro comportanti disinvolti al limite dell’irresponsabile li stanno buttando in pasto alla pandemia. Il covid, per tutti, ma anche per le recalcitranti giovani generazioni, si sta rivelando un fattore di sconvolgimento esistenziale: una gravissima e pericolosissima malattia, che sta diventando paradossalmente una terapia maturante.

Quando, durante la mia ormai lunga vita, ho vissuto esperienze di sofferenza in campo sentimentale, famigliare, umano in generale, mi sono rifugiato e mi sono consolato in e con un ragionamento: se ne uscirò, non potrò dire che sia andato tutto bene, ma avrò esperienza e maturità per affrontare le nuove prove della vita. Una sorta di allenamento, di preparazione, di rincorsa. Sento qualcuno che dice: “la sperànsa di malvestìi ca faga un bón invèron”. No, “la forsa ‘d prepareros al pés”. Per risalire occorre spesso toccare il fondo e noi lo stiamo toccando. I giovani se ne facciano una ragione. Si diano, come tutti, una mossa psicologica, si destino dal torpore delle movide, degli apericena e delle nottate in discoteca. Sarà dura, ma potrebbe essere anche un bene.  Tutto il mal non vien per nuocere. Masochismo bello e buono? Può darsi, ma…