Uccisori e guardiani di Willy

Willy Monteiro Duarte, 21 anni, è stato aggredito e preso a calci e pugni perché ha cercato di proteggere un amico coinvolto in una rissa. Per la sua morte sono stati arrestati quattro giovani dediti alla violenza. Una notte di inaudita violenza costata la vita al ragazzo di 21 anni di origine capoverdiana e residente nella vicina Paliano, morto dopo essere stato picchiato a sangue dal branco mentre tentava di placare una rissa. Inutile l’intervento dei sanitari del 118, Willy è giunto in ospedale senza vita.

Secondo una prima ricostruzione, Willy e l’amico sarebbero rimasti coinvolti in una rissa in un locale e quando il branco ha aggredito l’amico, Duarte sarebbe intervenuto invitando gli aggressori a smetterla. Ma i quattro si sono accaniti sul ragazzo massacrandolo di botte. E scappando subito dopo a bordo di un’auto di grossa cilindrata. Un pestaggio opera di un gruppo di coetanei, già noti alle forze dell’ordine.

Willy, figlio di una coppia di capoverdiani trasferitasi molti anni fa a Paliano e impegnata in una locale azienda agricola, era cresciuto nel piccolo centro della provincia di Frosinone ed era perfettamente inserito nel paese, dove giocava nella locale squadra di calcio e dove aveva anche partecipato alla sfilata in abiti storici per la rievocazione del Palio. Aveva una sorella più piccola, frequentava l’istituto alberghiero di Fiuggi e lavorava come aiuto cuoco all’Hotel degli Amici di Artena.

Di fronte a un simile fattaccio, non voglio sembrare integralista cattolico, anche perché non lo sono, ma mi affido alle voci provenienti dalla Chiesa, l’unica istituzione autorevole e credibile in grado di dare un’interpretazione nel senso dell’autocritica personale e comunitaria e del riscatto individuale e sociale. Faccio riferimento ai resoconti pubblicati dal quotidiano Avvenire.

“Siamo tutti corresponsabili”, “seduti su una polveriera che può esplodere” da un momento all’altro. È la denuncia del vescovo di Velletri, mons. Vincenzo Apicella, dopo la morte di Willy Monteiro. “L’ennesimo atto di feroce e assurda violenza, cui non possiamo rassegnarci – dice il presule – ucciso a calci e pugni da quattro coetanei, nostri condiocesani, durante una rissa di cui non conosciamo i motivi e a cui era molto probabilmente estraneo”. “Tutti siamo corresponsabili – denuncia il vescovo -. Da dove provengono i virus della prepotenza, della violenza, della vigliaccheria, del disprezzo della vita, della stupidità che generano queste tragedie e gettano nella disperazione intere famiglie e comunità? Siamo quotidianamente seduti su una polveriera, che può esplodere improvvisamente e di cui non abbiamo consapevolezza”. Apicella si rivolge alle famiglie, alla Chiesa, alla scuola, alle istituzioni “perché siano partecipi “di quella fondamentale e indispensabile opera di civiltà che si chiama educazione e che va rivolta a tutti, anche agli adulti”. E chiede ai parroci di diffondere il messaggio nella prossima messa domenicale.

“Barbarie pura” quella che ha portato a massacrare a morte il giovane Willy Monteiro da parte di un gruppo di coetanei. Don Luciano, parroco di Colleferro, parlando con l’Adnkronos dell’atroce pestaggio, va oltre la denuncia. Per cercare di capire il perché di tanta “follia”. “Dietro questi ragazzi c’è il vuoto, un vuoto di valori, di famiglie scardinate, latitanti. Oggi sono i social a educare… Ma anche la Chiesa – ammette il sacerdote che ieri sera ha incontrato i famigliari di Willy insieme al sindaco – non riesce più ad incidere, a fare quello che faceva prima. Davanti abbiamo un muro: il muro dei facili guadagni, di una economia che rischia di prevalere sull’uomo, dei social, della droga”. Il parroco di Colleferro parla avendo negli occhi il teatro del pestaggio: “In quel boschetto, dopo la mezzanotte, inizia la ‘vita’: droga e prostituzione. Ci si prostituisce per 10/15 euro per potere comprare droga. Quel parchetto è un tappeto di preservativi la mattina. Ho pure suggerito alle forze dell’ordine di mandare uomini in borghese ma ho l’impressione che si lasci correre. Che ci si sia arresi”. Don Luciano torna alla notte del pestaggio: “E dire che quel ragazzo, Willy, era lì per mettere pace dopo avere terminato la sua giornata di lavoro come aiuto cuoco. Colleferro non c’entra nemmeno molto visto che questi sono barbari di Artena. Siamo alla pura follia, ma la verità è che raccogliamo i frutti amari della mancanza di valori condivisi. Non solo non vale più il principio di amare il prossimo, si è smarrito il senso della ragione. In balia della ‘cultura’ dei Superman, della forza, della violenza cieca e gratuita”.

Non ho niente da aggiungere, mi sento solo in obbligo di riflettere: anch’io ho certamente la mia parte di responsabilità per questa deriva valoriale che ci sta distruggendo. Non mi sento di criminalizzare nessuno. È vero che non bisogna confondere le vittime con i carnefici, ma chi sono le vittime e chi sono i carnefici. Non siamo forse tutti vittime e carnefici? Il Signore mi dice: “Dov’è Willy, tuo fratello?”. E io rispondo: “Non lo so. Son forse il guardiano di mio fratello Willy?”.

E dal profondo Delrio la luna mia ripescherò

Graziano Delrio: “Di scuola si è parlato tardi e male. La colpa è di tutti ma ora si acceleri”. Così il capogruppo del Pd alla Camera. Nel panorama politico italiano, così penosamente avvitato su se stesso, mi sembra per diversi motivi il personaggio più serio e affidabile.

Innanzitutto non sputa sentenze, è portato a ragionare in modo pacato: non esibisce muscoli e non propone ricette miracolose. Lascia intendere di non avere solo certezze, ma anche tanti dubbi e di essere quindi disposto a dialogare e a discutere senza presunzione.  Purtroppo in un mondo come quello attuale finisce con l’essere considerato un politico senza spina dorsale, un parlamentare di seconda categoria, un signor nessuno in un parterre di padreterni.

Non è fazioso, sa ammettere limiti ed errori della propria parte politica: ha saputo sintetizzare ammirevolmente le pecche nell’azione governativa sulla scuola: bisognava cercare di fare presto e bene e si è finito col fare tardi e male. Senza scaricare colpe e responsabilità, mettendo nell’armadio le bacchette magiche, che non servono a nulla.

Graziano Delrio non è un leader? Se per leader intendiamo un fanfarone che sputa sentenze, è un gran bene che non lo sia. Se intendiamo un punto di riferimento personale e politico, lo può essere, anzi è forse l’unico personaggio con un’adeguata statura etica e politica. Ma il partito democratico è alla ricerca di qualcuno che dia sempre ragione a tutti, che difenda l’esistente o vuole una guida autorevole e innovativa nei contenuti e aperta e dialogante nei modi?

Il segretario Pd Nicola Zingaretti, sta andando avanti a zig zag: da una parte si sfoga e sembra prendere le distanze dal governo e soprattutto dal M5S: “Il Pd ormai è libero, ovunque alternativo alla destra ed eccetto in un caso sempre avversario dei cinquestelle. Di certo sarà il primo partito della coalizione e probabilmente, eccetto in Veneto, il primo partito in assoluto ovunque. Per chi sta alla finestra e non combatte, come gli alleati o Calenda, è facile nascondersi, ma è anche impossibile vincere. Il Pd invece dopo il voto comunque darà le carte. E poi si vedrà”. Chi ci capisce qualcosa è bravo. Io ci vedo solo tatticismo esasperato.

Dall’altra parte Zingaretti illustra alcuni progetti per trasformare l’Italia; il “Paese che produce”: trasferimento tecnologico, competenze, sostenibilità; “Il Paese che sa”: investimenti in scuola, università e ricerca; “il Paese che unisce”: infrastrutture, digitalizzazione e reti ferroviarie; “il Paese che è sul territorio”: lotta al dissesto idrogeologico; “il Paese per i giovani”: lotta alla dispersione scolastica e per favorire la natalità; “il Paese che prende cura”: infrastrutture per il sociale e per un welfare che aiuti le donne; “il Paese che amministra”: sburocratizzazione e giustizia più veloce.

Non si può però tenere i piedi in due paia di scarpe: quelle del governo e quelle di partito battitore libero in vena di varare programmi ambiziosi e onnicomprensivi. Mi sembra che il Pd voglia un po’ fare il verso al M5S puntando ad essere una forza politica di protesta e proposta. E se Zingaretti andasse a casa, si concentrasse sulla regione Lazio di cui è governatore e lasciasse il pallino della segreteria piddina a un personaggio come Delrio, non sarebbe meglio? Un segretario che parli poco e lavori molto. Chissà che qualcuno non ci stia pensando. Mi sembra l’unico erede possibile rispetto alla seria classe dirigente di un tempo ormai lontano. E se Conte fosse costretto a fare le valige (eventualità non del tutto peregrina) e Draghi fosse effettivamente stanco (ne avrebbe più di un motivo) e si volesse comunque per tante ragioni evitare le elezioni politiche anticipate (chi ha detto che dopo Conte c’è il diluvio), non vedrei male un premier come Graziano Delrio. Molte volte la storia mi ha dato ragione, ma a distanza di molto tempo. E qui di tempo ce n’è pochissimo.

 

 

 

Scegliere o non scegliere, questo è il problema

L’ex sindaco di Los Angeles, Antonio Villaraigosa, intervistato da Alberto Flores d’Arcais per il quotidiano La Repubblica sulle previsioni elettorali americane, dichiara: «Il dato nazionale conta poco, contano quei sei o sette Stati in bilico che decideranno il risultato finale. Se i democratici perdono qui, hanno perso, anche se Biden avesse quattro milioni di voti in più. I repubblicani stanno mettendo in discussione ogni voto, a iniziare da quelli per posta, faranno ogni cosa per “rubare” le elezioni».

Forse non ci rendiamo conto fino in fondo: questa sarebbe la democrazia a cui fare riferimento? Due ipoteche gravano sulle elezioni presidenziali negli Usa: l’imbroglio istituzionale del voto a macchia di leopardo e il broglio sventolato in anticipo per mettere avanti le mani e rifiutare un’eventuale sconfitta.

Già Donald Trump aveva battuto quattro anni fa Hillary Clinton pur avendo ottenuto due milioni di voti in meno, ma la cosa potrebbe tranquillamente ripetersi in modo ancora più clamoroso. Negli Usa può vincere spudoratamente chi perde, non per un soffio, ma per milioni di voti. Roba da matti! Un simile sistema elettorale dovrebbe essere radicalmente cambiato e invece continua ad imperversare e rischia di falsare ancora la politica americana, e magari anche quella di tutto il resto del mondo, piazzando alla Casa Bianca un presidente di “larga minoranza”.

Negli Stati gravitanti attorno all’Urss le elezioni erano manovrate e il candidato ufficiale del partito unico vinceva con percentuali altissime, come avveniva soprattutto in Bulgaria. Da lì l’espressione “maggioranza bulgara” con la quale si intende una maggioranza schiacciante di consensi non sostenuta però da un libero dibattito oppure come conseguenza di palesi elezioni farsa, cioè elezioni il cui risultato ha evidenti discrepanze dal volere popolare. L’espressione deriva dalla situazione politica della Bulgaria, quando era il più fedele alleato dell’Unione sovietica, ma anche dal fatto che il dibattito interno era inesistente. Il termine ha spesso una forte carica negativa ed è talvolta usato in senso ironico. L’espressione è usata con lo stesso significato anche fuori dal campo strettamente politico.

D’ora in poi sarà bene aggiornare il lessico politico introducendo l’espressione “minoranza statunitense”. In Italia e in altre parti del mondo esistevano ed esistono le “maggioranze silenziose”, quelle parti ritenute maggioritarie in una data società, che non esplicitano pubblicamente le proprie opinioni e sono generalmente scarsamente partecipanti alla vita politica, ma che spesso la influenzano in forma passiva. La democrazia americana, capovolgendo uno dei principi basilari, introduce il vero e proprio ossimoro “maggioranza-minoranza”.

Ma non è finita. Se per caso ai democratici venisse in mente di vincere le elezioni facendo incetta di voti espressi per posta, si preparino ad essere accusati di brogli e a farsi scippare la vittoria. Non ho capito il perché, ma probabilmente solo in quanto il voto postale sarebbe teoricamente più favorevole al partito democratico. Altro ossimoro all’americana: il “voto-non voto”. Donald Trump guazzerebbe dentro una buffonata simile: per vincere ogni arma è ammessa, anche la più incredibile. E i voti a suo favore sembrano in ripresa. Ha gestito l’emergenza covid in modo indegno (quasi 200mila morti), ma basterà sbandierare l’ipotesi di un vaccino qualsiasi per conquistare il voto e coprire le drammatiche magagne.

Di fronte ad una simile situazione Giuseppe Conte, il premier italiano, introduce il suo ossimoro e “sceglie di non scegliere”. Questo o quello per me pari sono: il duca di Mantova, del verdiano Rigoletto, si esprime così a proposito delle donne. Qualcuno brutalmente dice, in piena mentalità machista: a me le donne vanno tutte bene purché respirino, intendendo che la donna va valutata solo dalla cintola in giù. La posizione di Conte, che sta perdendo non pochi colpi a livello intellettuale e politico, prevede che i gatti americani siano tutti bigi: «Tra Donald Trump e Joe Biden, chiunque vinca per l’Italia non cambia molto». Se proprio vuole fare solo della realpolitik, stia almeno zitto. Ultimo ossimoro della giornata.

 

Le passerelle e le passerone

Sessuomane è colui che ha un’attenzione morbosa per tutto quanto attiene al sesso e all’attività sessuale. Sessuofobo è chi ha paura ad affrontare qualsiasi azione o pensiero relativi alla sessualità. Fortunatamente non mi ritrovo in nessuna delle due fattispecie patologiche. Ricordo i tempi in cui dai parrucchieri per uomo si regalavano natalizi calendarietti con le donnine nude o mezze nude. “Vuole il calendario o preferisce un’agendina”, mi chiese il giovane garzone di bottega. Dammi l’agenda su cui annotare i numeri di telefono delle donne da frequentare: le passerone vere, perché non mi accontento di “guardonare” le femmine in passerella.

In questi giorni a Firenze si sono svolte sfilate di alta moda donna, di alta sartoria uomo e alta gioielleria. Dietro il paravento del rilancio economico di un settore importantissimo per il nostro Paese si nascondono passerelle mozzafiato di modelle e modelli (mi interessano molto meno) che legano perfettamente sesso, economia e voglia di reagire allo stress covid.

A Venezia è in corso il Festival del Cinema e nessuno si interessa ai film in proiezione. Tutti guardano il tappeto rosso dove sfilano le star. Cecilia Rodriguez ha infiammato Venezia con uno spacco spettacolare e vertiginoso. É arrivata da sola e non voleva passare inosservata. E ce l’ha fatta eccome. La sorellina di Belen ha sfoderato un vestito pirotecnico, che ha mandato in visibilio i fotografi i quali hanno cercato di immortalare ogni particolare. Specialmente i più piccanti. A Venezia sta vincendo lei, il suo vestito ‘enorme’ ma sensuale, che sembra coprire tutto, eppure… Tutti a bocca aperta per bellezza e originalità. Un vestito argentato con gonna che si allarga a dismisura. La soubrette ha catturato l’attenzione di tutti.

La sorella di Belen era arrivata a Venezia al Festival del Cinema per la prima del film “Padrenostro”, di Claudio Noce, con Valeria Solarino e Pierfrancesco Favino. Una grande occasione per farsi notare, e Cecilia non se l’è lasciata sfuggire. Indossava un abito da sera firmato Maria Lucia Hohan. Ma quello che ha lasciato tutti a bocca aperta, a partire dai fotografi, è stato uno spacco laterale all’altezza di coscia e glutei, e Cecilia non ha avuto paura di mostrare le sue curve, anzi ci ha giocato, voleva sedurre tutti e ci è riuscita.

Siamo alle eleganti ma indiscutibili saghe sessuali. Forse un modo come un altro per esorcizzare il covid e le sue ossessioni. Forse il modo più spiccio e accattivante per uscire dalla rientrante emergenza. L’evasione che per l’uomo parte dall’apertura virtuale della patta dei pantaloni, per la donna prevede la mostra reale ed ammiccante del proprio corpo. Eva vince sempre due a zero. E cosa c’entra il covid? C’entra eccome…meditate gente… È tutta una questione di sfiga, quindi… Facco come mio padre: quando si discuteva di politica, ad un certo punto sovrastava tutti ad alta voce: “A vris veddor cò i fan Barilla e Balestrieri”. E chi non capiva la stoccata ironica verso i trinariciuti rispondeva piccato: “Cò’ gh’éntra Barilla e Balestrieri”. Papà concludeva così: “N’al so miga, si vuètor ch’andì sémpor adrè”.

Arisa, Cecilia Rodriguez, Tania Cagnotto: chi si copre, chi si scopre, chi fa impazzire un po’ tutti a partire dai fotografi. Tutto sommato non sono né scandalizzato, né minimamente infastidito: la donna col suo meraviglioso corpo e con il suo animo (le due facce della stessa medaglia) è l’antidoto a tante sciagure. Purtroppo non ai femminicidi e agli stupri, che però non c’entrano niente col vero e proprio sano sesso.

Gli spacchi mi piacciono e mi aiutano ad essere uomo che vuole scoprire di essere tale, purché non mi fermi lì e vada oltre gli spacchi esibiti per puntare alla donna integrale. Non sopporto i sottanoni, mi piacciono i burkini, odio i bigottoni più o meno evangelici, ammazzerei (si fa per dire) chi guarda dal buco della serratura, mi fa schifo chi si schifa del sesso. È tutta questione di misura, di erotismo intelligente. Le donne le ho sempre preferite ben tenute, in ordine, belle, compatibilmente con i doni di madre natura, nell’anima e nel corpo. Sono tuttora di questo parere e allora concludendo non mi resta che rincarare la dose. A pensarci bene, ritengo molto meglio, da tutti i punti di vista, il vertiginoso abito con spacco inguinale, sfoggiato alcuni anni or sono a San Remo da Belen Rodriguez, e l’abito metallizzato plissettato con lo spacco vertiginoso indossato a Venezia dalla sorellina Cecilia, piuttosto che i sottanoni cardinalizi fruscianti intorno ai compiaciuti governanti italiani. Questione di gusti.

 

Abbasso la pubblicità, evviva la televisione pallosa

Ogni tanto fa capolino nel dibattito politico e negli indirizzi di governo l’eventualità di contenere la pubblicità sulle reti Rai alzando il canone o meglio aumentando la parte di canone che entra nelle casse dell’Ente radiotelevisivo.  Molti gridano allo scandalo perché dei vantaggi derivanti da questa tendenza usufruirebbero le televisioni private.

Le tv private facciano quello che vogliono, pur rispettando le regole, a me interessa che ci sia una televisione pubblica che si e ci liberi il più possibile dal condizionamento pubblicitario e che quindi possa programmare i palinsesti senza troppo preoccuparsi dell’audience, vedendosi costretta a sfornare la cosiddetta tv spazzatura o addirittura deficiente.

Fu in occasione di una visita a Gallo Grinzane, in provincia di Cuneo, il 19 novembre del 2001, che scoppiò una delle più violente polemiche sulla televisione spazzatura di cui si avverte ancora l’eco. In quell’occasione la signora Franca Ciampi, moglie dell’allora Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, rispose così, mentre visitava il locale castello dove ha sede il premio letterario, al presidente della manifestazione Giuliano Soria, che la esortava a promuovere la lettura fra i giovani: ”Con me sfonda una porta aperta: noi abbiamo tre nipoti e a loro dico sempre non guardate quella deficiente , non me ne voglia Zaccaria, di televisione, ma leggete, leggete, leggete”, fu la risposta, riferita all’allora presidente della Rai.

Persino la perbenistica TV 2000, quella gestita direttamente e/o indirettamente dalla Conferenza Episcopale Italiana, è impiccata alla pubblicità: la manda in onda prima delle messe, dei rosari, degli Angelus del Papa, sfruttando la scia delle trasmissioni religiose e condendo la pubblicità stessa con menate pseudo-etiche, che fanno venire il latte alle ginocchia.

Io sarei sinceramente disposto a pagare un canone Rai maggiorato pur di alleggerire la televisione nello stillicidio pubblicitario, così come sarei disposto a pagare un obolo a Tv 2000 purché cessasse lo scandaloso effetto traino che mescola con simoniaca disinvoltura il sacro e il profano. Nessuno dice niente: tutti zitti, tutti contenti di bere pubblicità a colazione, a pranzo, a cena, a messa, al rosario, etc. etc.

Sembra che Giuseppe Conte e il suo governo lascerebbero alla Rai una porzione maggiore del canone tv, nell’ordine dei 150-200 milioni di euro, ma aumenterebbe la fetta di pubblicità per i concorrenti, che ben sappiamo a chi fanno particolare riferimento. Non è questa la riparametrazione da me sopra auspicata. Ma so di essere un inguaribile anticapitalista e antiliberista, forse un comunista.

Non ditemi che non sarebbe positivo poter scegliere la visione dei programmi senza subire il ricatto pubblicitario. Se la pubblicità è l’anima del commercio, contenerla entro certi limiti potrebbe essere l’anima dello spettatore televisivo. Sapeste quante e quali acrobazie tento per bypassare le interruzioni: cerco, telecomando alla mano, di liberarmi dall’incubo, ma non c’è niente da fare. Cambia canale, cambia ladro!

Si ironizza sulla televisione senza pubblicità considerandola “pallosa” e inguardabile. Posso fare un paragone azzardato, triviale e scandaloso? Per soddisfare brutalmente i propri istinti sessuali, è meglio ricorrere alla pornografia o alla prostituzione. È meglio masturbarmi con una bambola gonfiabile dove compro aria sporcacciona o provare un rapporto a pagamento con una donna tutto sommato assai meno sporcacciona di me. La pornografia è una risposta virtualmente obbligatoria che ti lascia con un palmo di naso. La prostituzione almeno la scegli, se vuoi, la paghi, a volte la puoi persino apprezzare nella sua schiettezza e sincerità. Pornografia=pubblicità; prostituzione=scelta della trasmissione con tutti i rischi del caso. Mi sono spiegato? Se fosse ancora al mondo la signora Ciampi, per la quale non avevo grande simpatia, forse sarebbe d’accordo con me e opterebbe per la castità della lettura. Ma siamo poi così sicuri che la lettura ci liberi dalla tirannia delle televisioni e dei social?  Infatti io non sono mai riuscito ad essere puro e casto al par di neve alpina…

 

Bose senza pose

Il caso Bose/Bianchi continua a tenere banco mediatico nonostante le secchiate gelide di Avvenire. Il 21 agosto è riesploso il “caso nel Monastero di Bose”, con il delegato del Vaticano (Padre Amedeo Cencini) che ha rilevato come Enzo Bianchi ancora non abbia lasciato Bose nonostante il provvedimento dello scorso giugno sull’allontanamento del fondatore dalla sua “creatura”. Notizia prontamente smentita dall’interessato. Dopo alcuni giorni è stata la volta di Massimo Recalcati su La repubblica ad intervenire con un pezzo dal titolo molto ben centrato: “Vaticano non tocchi Enzo Bianchi, quale pietas nel cacciarlo da Bose?” ed a prendere le difese di Padre Bianchi attaccando duramente il Vaticano.

«Era proprio necessario allontanare Enzo Bianchi e altri fratelli e una sorella dalla Comunità che ha fondato con un decreto vaticano inappellabile?», si chiede Recalcati dopo aver ricordato come Enzo Bianchi abbia fondato praticamente da solo il Monastero di Bose alla fine del 1965, incarnandone questa inizialmente «folle e solitaria comunità spirituale». Nel tempo è divenuto un vero e proprio Monastero “multireligioso” che ospita fratelli e sorelle di diverse confessioni cristiane, con la difficoltà sorta nel momento in cui si è cercato di trovare un “sostituto” al “priore” e fondatore: «Ogni fondatore vive il rischio di confondere la responsabilità del suo atto di fondazione con un diritto illimitato di proprietà sulla sua creatura», ammette Recalcati che però contesta il decreto del Vaticano, accusandolo di «sapore medioevale» invece che avviare un lavoro di dialogo e riconciliazione con l’intera Bose.

Sempre secondo Recalcati l’effetto del decreto vaticano è senza appello: «smascherare Bose, mostrare che sotto sotto tutto è rivalità invidiosa, conflitto insanabile, impossibilità della fratellanza, assenza di Vangelo. Questo ha significato colpire al cuore non tanto il fondatore ma la sua creatura e un intero popolo che in essa credeva. Possibile che questo effetto non sia stato contemplato dagli estensori del Decreto?». In maniera sibillina però Recalcati pone l’accento sulla possibilità che possa invece essere stato proprio questo l’intento voluto dalla Santa Sede. Lo psicanalista attacca poi direttamente Padre Cencini sulla scelta di allontanare Bianchi anche in questi ultimi giorni: «egli non sa che fratello Enzo oggi è un uomo anziano, con problemi di salute e bisognoso di assistenza? Sfuggono al delegato vaticano, psicoterapeuta, la vulnerabilità e la fragilità di fratello Enzo? C’è davvero qualcosa di cristiano nel suo atteggiamento?». Secondo Recalcati, Enzo Bianchi ha il diritto di restare fino alla fine della sua esistenza nel posto che ha fondato, per di più in epoca di Covid come questa: «vuole spegnere per riportare tutti i fratelli e le sorelle ad una normalizzazione senza desiderio, alla negazione del carisma, alla neutralizzazione del fuoco del Vangelo. Padre Cencini obbedisce al Decreto vaticano mentre contraddice la legge del Vangelo e la fiducia che lo stesso papa Francesco gli ha assegnato», attacca ancora Recalcati non prima di lanciare pieno sostegno all’anziano priore piemontese. «Quale pietas, non solo cristiana ma anche solamente laica, si rivela nell’imporre ad un anziano con gravi problemi di salute di abbandonare la sua casa e lasciare i luoghi che ama? Forse pensa lo psicologo Cencini che questo sia il solo modo per spegnere la forza del transfert e il carisma di Enzo Bianchi al fine di riportare la normalità a Bose? Ma il cristianesimo non è forse l’esperienza di un’eccedenza, di una “follia”, come diceva Paolo di Tarso, della eccedenza e della follia del desiderio?».

E il Papa? Non so che dire. Probabilmente sta adottando la politica del pietoso silenzio, quella del “laissez faire, laissez passer”, che non gli impedisce tuttavia di andare avanti per la sua strada, ma rischia di lasciare intatte certe posizioni clericali e gerarchiche. Forse ritiene opportuno non prendere di petto certe opinioni e situazioni per non acuire i contrasti e scatenare polemiche ulteriori. Sono un po’ perplesso, ma bisognerebbe essere al suo posto per giudicare.

Mi basta al riguardo riportare di seguito testualmente quanto scrive Paolo Rodari su La Repubblica. “Si chiama La costa del Limay. È un ‘condominio sociale protetto per donne trans’, costruito nel quartiere Confluencia di Neuquén, la città più popolosa della Patagonia. È stato inaugurato lo scorso 10 agosto grazie all’impegno di una suora di clausura, la carmelitana Mónica Astorga Cremona, che da anni accoglie le trans che vivono in condizioni di disagio, spesso in fuga dalla prostituzione e bisognose di occupazione: dodici miniappartamenti con un salone comune. Secondo quanto riporta l’agenzia Telam, l’inaugurazione è stata salutata anche da papa Francesco, il quale, nonostante sia a conoscenza dell’ostilità di parte della Chiesa locale per il lavoro della religiosa, ha voluto scriverle queste parole: «Cara Mónica, Dio che non è andato al seminario, né ha studiato teologia, ti ripagherà abbondantemente. Prego per te e per le tue ragazze. Non dimenticare di pregare per me. Gesù ti benedica e la Santa Vergine ti assista. Fraternamente, Francesco»”  

La politica senza pensiero è come un albero senza radici

Mia sorella aveva un debole per le persone intelligenti. Affermava convintamente che quando una persona è intelligente è più che alla metà dell’opera, perché questa sua qualità, cascasse il mondo, non viene mai meno. Personalmente vado anche oltre, mescolando qualità mentali ed etiche: preferisco infatti avere a che fare con un cattivo intelligente piuttosto che con un buono stupido.

Per Ciriaco De Mita sono passati gli anni, forse ha sbagliato a rimanere abbarbicato alla politica, che peraltro rappresenta una passione presente nel sangue e quindi irrinunciabile ed inevitabile, forse incarna un po’ troppo la vocazione al notabilato, forse mantiene intatta nel tempo una certa fastidiosa presunzione, tuttavia a livello di intelligenza politica non dimostra affatto i suoi novantadue anni, ben portati da tutti i punti di vista e che gli danno un surplus di esperienza e di schiettezza.

Ritengo giusto ripercorrere brevemente la sua vita politica. Ciriaco De Mita è un politico a tutto tondo, ex Presidente del Consiglio, più volte ministro e dal 2014 sindaco di Nusco, sua città natale. Raggiunse l’apice del potere politico negli anni ottanta quando fu Presidente del Consiglio dei Ministri. È stato inoltre segretario nazionale e poi presidente della Democrazia Cristiana e quattro volte ministro. Deputato dal 1963 al 1994 e dal 1996 al 2008 ed europarlamentare dal 1999 al 2004 (contemporaneamente deputato ed eurodeputato) e, dopo la DC, ha fatto parte del Partito Popolare Italiano, della Margherita e dell’Unione di Centro.

Ha inizialmente aderito al progetto del Partito Democratico. Non ricandidato alle elezioni politiche del 2008 per via dello statuto del PD che puntava a un rinnovo della classe politica, ha aderito all’Unione di Centro. Ultimo importante incarico ricoperto è stato quello di presidente della seconda Bicamerale per le riforme costituzionali tra il 1993 e il 1994. Fu soprannominato ironicamente il padrino della DC (per le sue origini meridionali, difese con orgoglio: non è colpa mia se non ho un nonno di Abbiategrasso) e l’uomo del doppio incarico (segretario della DC e presidente del Consiglio con tanto di querelle sulla famosa staffetta con Bettino Craxi).

Tra i principali esponenti della cosiddetta Prima Repubblica, ha avuto indirettamente una forte influenza su tutta la vita politica degli anni successivi. Fu De Mita a nominare Romano Prodi suo consigliere economico e poi presidente dell’IRI, dando inizio alla sua carriera politica. Sempre a De Mita si deve l’impegno in politica di Sergio Mattarella. Fu inoltre un antesignano del dialogo col PCI con la sua teoria del patto costituzionale, per certi versi anticamera del compromesso storico.

Con un simile curriculum non mi stupisce che elargisca sferzanti giudizi sull’attuale classe politica. Salvini “non ha un pensiero” e il Pd “è niente”. Lo ha detto nel corso della presentazione della lista dei Popolari alle elezioni regionali in Campania. Secondo l’ex presidente del Consiglio “siamo in un periodo in cui il pensiero dei popoli è scomparso e resta la stupidità di quelli che parlano. Mi dispiace fare un solo nome – ha aggiunto – ma basta fare quello di Salvini: se avete notato non ha mai un pensiero da esprimere ma solo un accenno da introdurre, è una parola a metà”. De Mita ha usato parole dure anche per il Partito democratico: “E’ niente, è senza pensiero. Io questa cosa l’ho intuita ed è stata elemento di rottura. L’ultimo congresso del Pd si è chiuso senza pensiero, è stata la prevalenza di un gruppo rispetto all’altro gruppo, come se le persone fossero candidate al governo e non alla realizzazione di obiettivi”.

Ai tempi in cui militavo nella DC, De Mita non era il mio leader, ma rappresentava un punto di riferimento per quella sinistra democristiana in cui mi collocavo convintamente. La fine della sua segreteria, pur piena di contraddizioni tra idealità e pragmatismo, rappresentò per me l’occasione per uscire alla chetichella dal partito nonostante le insistenze di parecchi carissimi amici. A posteriori sono orgoglioso di avere purtroppo intravisto la successiva deriva della segreteria di Arnaldo Forlani e la degenerazione del potere nel CAF (accordo politico-governativo tra Craxi, Andreotti e Forlani).

A distanza di tanto tempo mi ritrovo perfettamente d’accordo con De Mita per quanto concerne la sua breve e lapidaria analisi socio-politica di cui sopra. Ha messo il dito nelle due piaghe: la generale e totale mancanza di pensiero politico, pur con diverse gradazioni fra destra e sinistra e all’interno dei due schieramenti, e la debolezza culturale prima che politica del partito democratico. L’intelligenza non gli è mai mancata (pur attualmente espressa con il dente avvelenato) e lo dimostra, anche se non basta. Se gli attuali esponenti politici di grido ne avessero almeno un pochettino… Purtroppo però l’intelligenza c’è o non c’è, non sono ammesse misure di ripiego, come nella barzelletta, che amava raccontare Enzo Biagi: quella madre un po’ troppo buona e comprensiva, che giustificava la trasgressiva gravidanza della giovanissima figlia, affermando che la ragazza era sì incinta, ma solo un pochettino.

Sanità non fa sempre rima con santità

Del batterio killer in un reparto pediatrico a Verona si era parlato qualche tempo fa in sarcastica coincidenza con la scorpacciata di ciliegie da parte di Matteo Salvini mentre il presidente della regione Veneto Luca Zaia parlava dell’inchiesta in occasione di una conferenza stampa. La penosa esibizione del leader leghista aveva in senso mediatico prevalso sulla delicatezza e gravità della questione dell’infezione, che ha causato morti e danni irreversibili a parecchi bambini, presumibilmente dovuta ad un batterio sconosciuto e contro il quale non si era potuto intervenire efficacemente. Già questo fatto della “devianza mediatica” la dice lunga e induce a serie riflessioni sul come e cosa stiamo vivendo. La notizia che aveva fatto scalpore non era tanto il dramma sanitario, ma la figuraccia di un Salvini in versione menefreghismo gastronomico. Giusto scandalizzarsi, eccome. Tuttavia rimaneva e rimane soprattutto il fatto inquietante di una sanità annichilita di fronte ad un batterio e imprigionata in comportamenti al limite della malasanità.

Affronto la questione facendo riferimento alla cronaca di Enrico Ferro su La Repubblica. Finalmente, dopo un anno e mezzo di verifiche e soprattutto dopo la battaglia legale avviata da una mamma, si scorge uno spiraglio di verità nella tragedia del Citrobacter all’Ospedale della Donna e del Bambino di Borgo Trento a Verona. Dopo la morte di quattro neonati e la chiusura del reparto, ora si scopre che il batterio letale si era annidato in un rubinetto dell’acqua utilizzata dal personale della Terapia intensiva neonatale e anche nei biberon. Carenze igieniche, sottostima del problema e protocolli di sicurezza non rispettati, tutto questo ha generato una epidemia. È la conclusione a cui giunge la relazione di una delle due commissioni nominate dalla Regione Veneto, come indicato dal Corriere del Veneto.

Si tratta della cosiddetta “commissione esterna”, coordinata da Vincenzo Baldo, ordinario di Igiene e Sanità pubblica all’Università di Padova. Secondo le conclusioni della commissione esterna, il Citrobacter avrebbe colonizzato il rubinetto forse a causa di un mancato o parziale rispetto delle misure d’igiene. Ricorrere all’acqua del rubinetto e non a quella sterile, è stato probabilmente un errore fatale. I primi controlli da parte dei vertici dell’Azienda ospedaliero-universitaria di Verona erano stati avviati a gennaio poi erano stati interrotti a causa dell’emergenza coronavirus. L’intero reparto di Ostetricia – Punto nascite, Terapia intensiva neonatale e Terapia intensiva pediatrica – è stato riaperto, dopo che il 12 giugno scorso il direttore generale dell’Aou veronese, Francesco Cobello, ne aveva disposto la chiusura, procedendo alla totale sanificazione degli spazi. Un’altra relazione sarà consegnata alla Procura della Repubblica di Verona.

Il Citrobacter ha ucciso Leonardo a fine 2018, Nina a novembre 2019, Tommaso a marzo scorso e Alice il 16 agosto scorso. Altri nove hanno riportato lesioni cerebrali permanenti mentre sarebbero addirittura 96 quelli colpiti dal batterio. Decisiva nella vicenda la perseveranza di Francesca Frezza, madre di Nina: “Nina ha subito accanimento terapeutico. Ci è stato negato di avere accesso alla legge 219, non è mai stata attuata una programmazione condivisa di cura, nonostante la prognosi infausta che confermava l’irreversibilità della malattia e la non aspettativa di vita. Le è stata negata la terapia del dolore tramite le cure palliative (legge 38). Nina ha trovato pace e dignità solo dopo aver chiesto le dimissioni e averla trasferita all’ospedale Gaslini di Genova, dove è stata amata e “curata” con amorevole assistenza fino al suo ultimo respiro. Ho voluto raccontare la mia vicenda non per avere giustizia, in questo confido pienamente nella procura di Verona, ho chiesto ascolto affinché da questa tragedia avvenga il cambiamento, perché non succeda più e per lanciare un messaggio che in Italia le cure Palliative esistono e tutti i bimbi malati e inguaribili sono un bene prezioso della società, vanno tutelati e rispettati come persone e come individui”.

Fin qui la cronaca oltre la quale si intravedono delle brutte “magagne”. Durante la degenza ospedaliera di mia sorella, che ormai preludeva purtroppo alla sua fine, mi sforzavo di esserle vicino e questi miei tentativi erano apprezzati dagli altri degenti, i quali lanciavano messaggi consolatori del tipo: “Lei è fortunata ad avere un fratello così premuroso…”. Mia sorella non gradiva e, con il suo realismo al limite della spietatezza, rispondeva: “Non è oro tutto quel che luccica…”. Il discorso vale anche per “la sanità in odore di santità” in conseguenza dell’esperienza covid. Come del resto tutte le esperienze umane, anche nei reparti ospedalieri si fa molto, anzi moltissimo per i pazienti, ma si commettono anche errori e leggerezze. Mio padre, dopo aver subito un grosso intervento chirurgico andato a buon fine, ammetteva di non avere abbondato in elogi e ringraziamenti verso il personale ospedaliero e si chiedeva: “Se l’intervento fosse andato male, saremmo stati pronti col fucile spianato a scaricare colpe sugli operatori sanitari. È andata bene e tutto tace!”.

Detto questo bisogna pur ammettere che qualcosa non ha funzionato nell’ospedale veronese finito nell’occhio del ciclone e soprattutto che spesso all’interno delle strutture sanitarie esiste un colpevole silenzio di fronte ai propri limiti ed errori, una certa reticenza ad ammetterli che indispettisce e infastidisce. Certo, se per me commettere un errore nel redigere un bilancio contabile era grave pur non mettendo a rischio la vita di nessuno, per un medico l’errore può essere fatale ed avere conseguenze disastrose.

Poi emerge anche il discorso dell’accanimento terapeutico: questione delicatissima sollevata dalla madre di una vittima. Purtroppo la missione del medico è contenuta in mezzo a due paradossi. Da una parte la necessità di non rassegnarsi mai di fronte alla malattia: non c’è più niente da fare, mentre, come diceva il mio caro medico e amico, “c’è sempre qualcosa da fare”; dall’altra parte la consapevolezza che la vita della persona va difesa nel rispetto di essa e non a prescindere dalla persona e dai suoi diritti. Anche perché, come ebbe autorevolmente a dirmi un medico specialista a cui mi ero rivolto ripetutamente per approfondire certi miei disturbi, la medicina non è una scienza esatta, assai più collegabile alla letteratura che alla matematica. Forse è anche per questo che le inchieste in campo sanitario finiscono sempre in una bolla di sapone: c’è senz’altro un forte spirito di corpo che blocca sul nascere l’accertamento della verità, ma c’è anche una obiettiva difficoltà ad individuare precise responsabilità in un campo così difficile e complesso. “Io voglio andarci fino in fondo” sosteneva un mio conoscente sull’orlo dell’ipocondria. E una voce fuggita dal seno di un collega gli rispondeva laconicamente: “In queste cose non ci si arriva mai in fondo…, se non per andare al cimitero… “.

 

Le donne portano i pesi e subiscono le misure

In un momento storico in cui la società dovrebbe cambiare (il condizionale è d’obbligo), affinché questo anelito non resti la versione parolaia del dopo-covid, occorre cercare, come ci consiglia Archimede, un punto d’appoggio per mutare il mondo. Pochi giorni or sono “Donna”, il supplemento settimanale de La Repubblica, ha individuato le 100 donne che cambiano il mondo: attiviste, scienziate, economiste, politiche, artiste, ambientaliste, scrittrici, sportive. Se il futuro sarà migliore per tutti lo dovremo (anche) a loro. Personalmente vorrei togliere “anche” e sostituirlo con “soprattutto”. Passo ad esporre brevemente (?) i miei dubbi, le mie perplessità e le mie speranze al riguardo.

Tra la televisione e i social che presentano e sfruttano la donna oggetto, la sociologia che la individua come motore del mondo che cambia, la psicologia che la analizza come oggetto della maschile violenza estrema e la politica che si riempie la bocca di pari opportunità ma finisce col relegarla al ruolo di moglie e compagna da soma non so se trovare un perfetto legame o una drastica discontinuità. Se sono le donne a determinare in gran parte i consumi, esse stesse diventano almeno complici della macchina consumistica per eccellenza, vale a dire dei media che (a dir poco) le propongono in scosciamento, sculettamento e stettamento continuo. I media sono infatti sorgente e foce del consumismo, centro e culmine del sistema, strumento e scopo del capitalismo spendaccione. E perché le donne non reagiscono a chi le vuole turlupinare con la parità in materia pensionistica senza tener conto di un’intollerabile disparità di diritti (stipendi, carriere, precariato etc.)? Le discutibili analisi sociologiche cui ho fatto riferimento ritagliano alla donna un ruolo di primo piano: possono aiutare a capire l’influsso della galassia femminile sulla politica e sulle scelte elettorali ai vari livelli.

Già dal punto di vista quantitativo l’elettorato femminile italiano (e non solo italiano) è in netta prevalenza, se aggiungiamo il dato qualitativo, arriviamo, in teoria, ad una sorta di democrazia a misura di donna. Allora perché sono così scarsamente rappresentate nei diversi consessi, dal parlamento ai consigli di circoscrizione? Perché spesso ricoprono il ruolo di battitrici libere in senso deteriore, di mero supporto al potere, di compiacenti comparse di regime?  Perché subiscono imperterrite un super-lavoro fatto di pulizie della casa, di preparazione dei cibi, di effettuazione della spesa, di cura dei figli, di assistenza agli anziani, supplemento quantificato dall’Istat in due ore medie giornaliere? Forse la peggiore delle risposte viene dal fatto che proporzionalmente alla conquista femminile di spazi culturali di autonomia sale la violenza maschile che “uccide” le donne, nel senso di tarpare loro le ali, di strumentalizzarne le doti, ma anche nel senso della concreta e fisica “eliminazione per amore”. Mi chiedo soprattutto il motivo per cui molto spesso le donne restano imprigionate nella loro vis polemica, consumata in superficiali conflitti con le persone, a scapito di una sacrosanta battaglia contro il sistema che finisce col ghermirle irrimediabilmente dal punto di vista psicologico, sociale, economico e politico. Ho profonda stima e grande ammirazione per l’universo femminile e quindi vorrei capire.

Gli scatenati sociologi sostengono che la rivoluzione rosa nei consumi si basi sulle scelte delle donne dettate da autonomia economica, sano pragmatismo e maggiore informazione: teoria assai discutibile. Provo a ribaltarla, se possibile, sul campo politico. La maggiore disponibilità reddituale dovrebbe comportare una notevole resistenza ai messaggi fasulli della propaganda elettorale continua. La concretezza di scelta dovrebbe smascherare le promesse puramente demagogiche di cui la politica è zeppa. L’abbondante informazione posseduta (quale poi?) dovrebbe scoprire la realtà delle proposte programmatiche nella loro superficialità di dibattito e di scontro.

Proviamo a ragionare sull’aspetto superficiale delle donne: sono spesso belle, eleganti, affascinanti (se non è ancora chiaro, le donne mi piacciono molto: di uomo ci sono anche troppo io), emancipate, indipendenti; soprattutto lavorano, spendono, fanno vacanze, leggono, vanno al cinema ed a teatro, escono con le amiche. Dell’improvvisato campione dovrebbero far parte anche le persone sole, maltrattate, sfruttate, disoccupate, immigrate. I dati regionali sull’immigrazione attestano che a Parma le donne immigrate sono quantitativamente prevalenti rispetto agli uomini e costituiscono una percentuale ragguardevole ed in costante aumento sul totale della popolazione femminile. E allora perché le une e le altre non comprendono l’imbroglio di una società fumosa, virtuale e vanagloriosa? Le prime magari si illudono di vivere nell’alta società, le seconde non contano niente.

Perché concedono fiducia ad una classe politica vuota? Perché si lasciano incantare ed incartare dalla politica dell’immagine? Perché? Non ho la risposta facile. Ne azzardo una. Non c’è donna o uomo che tenga. Se manca un forte ancoraggio ai valori, se non esiste memoria storica, se trionfa l’egoismo, se vale più l’apparire dell’essere, se l’altro è visto come un competitore, se il lavoro è vissuto in funzione della carriera, l’eventuale rivoluzione rosa cambierà il colore ma non la sostanza della nostra società. Mi permetto pertanto di suggerire alle donne tre piste di contestazione al regime.

Quella della concretezza. Vogliamo smascherare o quantomeno verificare la società modello, quella dei servizi alla persona? Facciamo la prova finestra dei bisogni concreti, quelli di cui le donne sono inevitabilmente subissate: gli asili nido, le scuole materne, le case di riposo, l’assistenza domiciliare agli anziani, i trasporti pubblici, l’assistenza sociale alle famiglie in crisi, l’alloggio a canone accessibile e via discorrendo. Lungi da me relegare la donna nel forzoso ruolo di casalinga operatrice sociale, ma è innegabile come sia il soggetto portante il peso maggiore di certi problemi e sarebbe opportuno riuscisse a sottoporre ad un esame spietatamente critico la nostra fumosa perfezione.

Quella della correttezza. Proviamo a scovare l’affarismo che ci attanaglia? Chissà perché penso sia più un vizio maschile che femminile. Consegnerei volentieri alle donne una virtuale scopa per una spietata pulizia da tutti i legami sporchi tra potere politico e potere economico: impegnate nella battaglia contro la corruzione, ben lontane dalla facile “puttaneria di regime”.

Quella della semplicità. Basta con le sceneggiate, finiamola con le chiacchiere, andiamo al sodo, usiamo la cartina di tornasole della solidarietà: a chi può rivolgersi una donna emarginata, con problemi esistenziali insormontabili, vittima di violenza, imprigionata nella sua debolezza economica e sociale? Anche su questo piano ho maggior fiducia nelle donne. Se vogliono, sanno essere attente agli altri, senza demagogia ma con tanta disponibilità.

Sia chiaro! Non auspico una spersonalizzazione della donna, al contrario vedrei bene una femminilizzazione giocata in chiave contestatrice del sistema e non avida nel divorare le sue briciole. Impegnata in una battaglia per l’effettiva parità dei diritti e possibilmente non dei difetti.

Si nota qualche significativa presenza femminile nella classe dirigente, a livello politico (ministri, parlamentari, assessori, consiglieri), sociale (sindacalisti), economico (dirigenti aziendali), burocratico (pubblici funzionari), mediatico (giornalisti e persino direttori di giornali), ma ho l’impressione che tutto resti bloccato dalla storica mancanza di fiducia della donna verso le sue simili e da una sorta di “complesso” frenante, fasullamente superato con l’esibizionismo. Alla fine sostanzialmente ne viene opacizzato l’apporto culturale e ne viene marginalizzata la verve. Resta solo la solita equivoca corsa all’immagine. Coraggio!  Per determinare qualche cambiamento bisogna “lavorare di gomito”, senza pietà e senza paura di sbagliare. Tanto, peggio di così… Forse mi illudo, ma a qualcuno bisogna pur attaccarsi. Proviamo convintamente con le donne. Chissà!

 

 

 

Tra preoccupante sconforto e baldanzoso delirio

Nella mia poco spensierata vita fanciullesca avevo due riferimenti extra-familiari: l’asilo e il teatro. Il primo mi dava ansia al limite dell’angoscia, il secondo mi dava gioia. All’asilo andai solo un anno: non mi piaceva, soffrivo nel mescolarmi agli altri bambini, mi preoccupavo di non riuscire a scrivere con gli stampini per la paura che mi venissero sottratti dai miei coetanei più furbi di me, non mi sentivo a mio agio. Chissà quali catastrofiche vitali premesse avrebbe dedotto uno psicologo. Basto io per dirvi che fu l’inizio di una sofferta e mai vinta lotta contro l’insicurezza. Per fortuna c’era il teatro, il Regio, con cui ebbi il primo approccio a quattro anni per assistere a “Un ballo in maschera” di Verdi (per la cronaca, Bergonzi, Stella e Silveri gli interpreti), per poi fare l’ingresso ufficiale il primo gennaio 2007 con una memorabile Turandot. Così la mia infanzia trascorse anche fra il panico dell’asilo prima e della scuola poi e l’estasi del teatro: due istituzioni fondamentali nella vita di una persona e di una comunità.

Purtroppo dopo tanti anni sono ancora qui a fare i conti con l’ansia che dilaga e con la gioia che si restringe (manco a farlo apposta infatti i teatri sono chiusi e chissà quando potranno riaprire i battenti). Ho letto una interessante intervista ad un pedagogista che dà alcuni consigli ai genitori in occasione del prossimo rientro a scuola dei loro figli: evitare di caricare di paure e ansie il ritorno in classe, che dovrebbe essere invece una festa. Per me andare a scuola non è mai stato una festa e, come detto sopra, mi ha sempre procurato una certa preoccupazione, se non una vera e propria ansia. Capisco però il significato dell’appello e lo condivido.

Ormai siamo condannati a vivere in ansia: paura del covid, paura per i continui disastri atmosferici, paura della povertà dietro l’angolo, paura della solitudine, paura…Si può vivere così? Un allerta continuo, che non ci aiuta, ma ci spaventa e ci condiziona. Alle disgrazie obiettive i media aggiungono l’enfasi e la maniacale insistenza. Temo che molte persone, i giovani in particolare, reagiscano nel modo più sbagliato possibile: il delirio di onnipotenza nell’esorcizzare i pericoli, vivendo nella più totale ed irresponsabile fuga dalla realtà. Da una parte l’ansia fatta sistema personale e collettivo, dall’altra lo sballo individuale e sociale, da una parte l’overdose di informazioni sanitarie e di consigli comportamentali e dall’altra il bullismo negazionista e menefreghista.

Dice lo psicologo Daniele Novara: «Non bisogna terrorizzare i bambini: e stai lontano dalla maestra, e non toccare i compagni, mi raccomando se no prendi il virus. Troppe apprensioni bloccano i bambini e, cosa più grave, rendono ai loro occhi la scuola un luogo dove addirittura i compagni e la maestra diventano pericolosi». Il discorso vale per i bambini, ma vale anche per gli adulti: rischiamo l’isolamento e lo scoraggiamento e molti, un po’ per celia e un po’ per non morire, buttano, come si suole volgarmente dire, “il prete nella merda” e si comportano come se niente fosse. Il soggetto depresso passa normalmente da stati di abbattimento a momenti di euforia. Se andiamo avanti così tutta la società cadrà in una sorta di depressione globale, rimbalzando scriteriatamente dalla prostrazione emotiva all’artificiale baldanza.

Mi soffermo sull’emergenza scolastica: è un aspetto molto delicato. Il problema è molto serio perché c’è il rischio, assai poco calcolato, di sovvertire il sistema educativo con effetti a cascata e nel tempo a venire. Torno, a metà degli anni sessanta, sui banchi di scuola. Con un mio compagno di classe, l’amicizia andava oltre il sano cameratismo scolastico per allargarsi al dialogo umano, culturale e politico. Io cattolico e democristiano, lui non cattolico e comunista: di fronte alla realtà incandescente di quegli anni riuscivamo, pur partendo da culture e sensibilità diverse, a trovare un fervido terreno d’incontro, un punto di convergenza in base ai valori che ci ispiravano (la giustizia sociale, l’attenzione alle classi popolari, la laicità della politica, etc.). Ci scambiavamo esperienze, idee, ansie, preoccupazioni, dubbi e certezze. Eravamo in anticipo di dieci anni rispetto al compromesso storico. Ci ritrovammo dopo alcuni anni, impegnati entrambi nel movimento cooperativo, lui quello di matrice socialista, io quello di ispirazione cristiana: il dialogo riprendeva con una immediatezza sorprendente e con affascinante fluidità. Poi arrivammo quasi a lavorare insieme a servizio delle cooperative, prescindendo dagli schemi, che, nel nostro piccolo, eravamo stati capaci di superare coraggiosamente e, oserei dire, pionieristicamente. Quando si costituì il partito democratico andai a quelle esperienze di quarant’anni prima e mi dissi: per noi la fusione arrivava in ritardo, meglio tardi che mai!

Attenzione quindi a non farsi prendere dall’ansia del distanziamento, perché potrebbe costarci molto cara in termini umani e sociali. Però bisogna anche difendere la propria incolumità. Valla a trovare la giusta via di mezzo, che non consiste certamente nelle discoteche e nelle movide affollate e spensierate.  Sento dire in questo periodo che esisterebbe anche un diritto al divertimento: ce lo siamo inventati noi. Esiste il diritto di vivere, che è tutto un altro discorso. Bisogna sforzarsi di vivere e di vivere al meglio, ancorandoci ai valori che né il covid né le intemperie, né le povertà possono distruggere. Nel finale dell’opera Ernani di Giuseppe Verdi, Elvira è tentata di reagire tragicamente al destino avverso che gli sta rubando l’uomo amato. Il vecchio Silva, autore di quel disastro, le grida: «No, sciagurata…arrestati…il delirar non vale».  Silva non era credibile in questo appello. Noi dobbiamo esserlo, abbiamo il dovere di esserlo verso chi sta dando fuori di matto: “Arrestatevi…il delirar non vale”.