Non provare per credere

Alla triste vigilia della guerra del Golfo, vale a dire agli inizi del 1991, durante una trasmissione sportiva in televisione, la conduttrice Alba Parietti, bellissima donna e a quel tempo incantatrice di calciodipendenti, a commento di una notizia flash sulla trattative per evitare in extremis la guerra, notizia che riportava la richiesta di aiuto a Dio da parte dell’allora segretario generale dell’Onu, ormai deluso e scoraggiato dalle umane diplomazie incrociate, con atteggiamento a metà tra lo scettico e lo sprezzante, ha sciorinato, in tono aggressivo, questa battuta: “Se Dio c’è, è il momento di dimostrarlo”.

Certamente il Padre Eterno non aveva bisogno di vedere accreditato il proprio ruolo da una pur affascinante donna di successo, la cui presunzione peraltro poteva arrivare fino al punto di lanciare un ultimatum a Dio richiamandolo alle proprie responsabilità. Povera Alba e poveri tutti noi che forse ci meritammo quella guerra, che non tardò purtroppo a scoppiare.

Facciamo un acrobatico ma significativo paragone con l’attualità. Alla viglia della consultazione elettorale regionale in Toscana, stando alla cronaca riportata da La Repubblica, Giorgia Meloni ha tirato anzitempo le somme politiche. «Qui se po’ fa’», ha azzardato in romanesco, aggiungendo: «Non abbiate paura di cambiare, di provare qualcosa che non avete provato mai in questa regione. Provate una persona di centro-destra, una donna che è lì perché capace. Se prendi un passante a fare il ministro ti ritrovi la Azzolina e lo paghi. Faremo della Toscana una terra forte, libera e coraggiosa». Fin qui le argomentazioni che sembrano uscite da uno spot pubblicitario in materia di detersivi per i piatti più o meno sporchi.

Il bello però è un altro. Sbilanciandosi ancor più di Matteo Salvini, forse indebolito dalle recenti ed avvolgenti inchieste giudiziarie a carico di “strani” personaggi del suo partito e di Silvio Berlusconi, che fa sempre più tenerezza che rabbia, sognando ad occhi aperti di dare una spallata al governo Conte, la leader (?) di Fratelli d’Italia fa appello al presidente della Repubblica, il quale “magari una riflessione dovrebbe pur farla, anche perché non è un banale acritico notaio e Conte non si dimetterebbe mai, mentre la Costituzione prevede lo scioglimento delle Camere”.

Certamente Sergio Mattarella non aveva bisogno di questo ripasso “bignamiano” sui poteri del capo dello Stato, tanto meno di uno sconclusionato discorso sullo scioglimento delle Camere e ancor meno di consigli sul comportamento riflessivo da tenere. Anche perché il pulpito da cui viene la predica è penoso e sbracato.  Che la presunzione di questa politicante da strapazzo arrivi fino al punto di permettersi di dare lezione al presidente della Repubblica, usando peraltro un tono stupidamente ironico e inaccettabilmente (quasi) minaccioso, non pensavo fosse possibile, invece purtroppo questo e altro.

Povera Giorgia e poveri italiani che forse, in fin dei conti, (non) si meritano di provare un governo di destra-destra, dopo averne più volte provato in passato, con catastrofici risultati, uno di centro-destra. Stando a Giorgia Meloni ci ritroveremo, come in Toscana, in una terra forte, libera e coraggiosa. Dio ce ne scampi e liberi.

ll 16 settembre Ursula von der Leyen è intervenuta al Parlamento europeo per fare il punto sullo stato dell’Unione. A un certo punto, mentre parlava delle politiche sui flussi migratori e criticava l’approccio delle destre europee, è stata interrotta da Jorg Meuthen, leader del movimento xenofobo e di estrema destra Alternative für Deutschland, che fa parte del gruppo a cui aderisce anche la Lega di Matteo Salvini, evidentemente infastidito dalle parole della presidente della Commissione europea. “C’è una differenza fondamentale di come le destre guardano all’essere umano. Ci sono loro, che predicano l’odio, e ci siamo noi”. Meditate gente…

Che i toscani e gli italiani ci pensino: questo è dunque il mio umile invito. Quanto a Sergio Mattarella ho estrema fiducia in lui, mentre non ne ho nel modo più assoluto in Giorgia Meloni, la quale, dopo essere andata a scuola di dizione, dovrebbe starsene zitta per carità della Patria a cui enfaticamente si richiama il suo nostalgico partito.

Lo sciopero tafazzista

É stato indetto uno sciopero dai sindacati di base per le giornate del 24 e del 25 settembre e riguarda tutto il mondo della scuola e dell’università: personale dirigente, docente, Ata, Ricerca. Le sigle interessate – Unicobas Scuola e Università, Usb P.I., Cobas Scuola Sardegna e Cub Scuola Università e Ricerca – non raccoglieranno forse un’adesione massiccia, ma potrebbero provocare comunque disagi notevoli, facendo incrociare le braccia a docenti, personata Ata, ausiliari, tecnici e amministrativi delle scuole e delle università. «Non potrà essere garantita la didattica», la formula che adotteranno i dirigenti di elementari, medie e superiori. «Non si può sapere per tempo la portata dell’adesione allo sciopero, il preside non può infatti sapere prima quali e quanti docenti aderiranno alla protesta; ci sono rischi di nuove interruzioni», ha confermato il presidente dell’Associazione nazionale dei presidi, Antonello Giannelli.

La piattaforma delle rivendicazioni è ampia: si sciopera per chiedere investimenti veri nella scuola pubblica statale, classi con 15 alunni al massimo e un piano pluriennale serio per porre in sicurezza l’edilizia scolastica, l’assunzione di 240mila insegnanti, la stabilizzazione dei 150 mila precari con tre anni di servizio attraverso un concorso accessibile a tutti, l’aumento degli organici della Scuola dell’Infanzia, stabilizzazione diretta degli specializzati di sostegno e percorsi di specializzazione per chi ha esperienza pregressa. Oltre all’assunzione di almeno 50mila collaboratori scolastici «per ricoprire i paurosi vuoti in organico per la vigilanza» e l’incremento di 20mila fra assistenti amministrativi ed assistenti tecnici. Le risorse, fanno il conto i sindacati, nel Ricovery Fund ci sono.

Allo sciopero si aggiungerà il giorno successivo sabato 26 una manifestazione nazionale del Comitato «Priorità alla scuola» alla quale hanno dato il loro sostegno anche i sindacati rappresentativi del comparto scuola, da Cobas a Flc Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola e Snals.

Non sono un esperto di politica scolastica, vedo chiaramente le insufficienze del sistema, ho notato benissimo come il governo abbia affrontato e stia affrontando in modo insufficiente e tardivo l’emergenza in questo importantissimo e fondamentale campo, ma proclamare uno sciopero in questo momento e in questa situazione, è semplicemente demenziale. Uno sciopero tafazzista!

Si sapeva che alla ripresa autunnale avremmo avuto un clima socialmente difficile, ma non pensavo si arrivasse a simili manifestazioni di irresponsabilità. Sì, perché la protesta è una cosa, la cagnara è altra cosa.

In questi giorni ho letto che il covid potrebbe avere conseguenze assai gravi anche sul cervello: non so se rientri nelle ormai solite sparate terroristiche o se il discorso abbia un certo fondamento scientifico.  Stiamo comunque attenti: il covid è un virus molto pericoloso in quanto può portare all’impazzimento anche sul piano dei rapporti sociali. Siamo tutti esasperati e frustrati dal clima di incertezza e di precarietà nella nostra vita. Se trasferiamo e scarichiamo queste tensioni nella società, siamo fritti in padella. Non è il momento di aggiungere benzina sul fuoco.

Prevengo ogni e qualsiasi accusa di anti-sindacalismo. Al riguardo so di avere le carte in regola. Nella partecipazione attiva alla vita politica ho aderito alla corrente democristiana sindacal-aclista, quella di Giulio Pastore prima e di Carlo Donat Cattin dopo. Ho sempre espresso una commossa e viscerale adesione alle battaglie sindacali.

Mi concedo anche una piccola digressione autobiografica. Mi è tornato infatti alla mente un piccolo episodio della mia vita in concomitanza con l’indizione dello sciopero di cui sopra. Eravamo nei primi mesi del 1969, avevo in tasca un fresco e brillante diploma di ragioniere, avevo appena incominciato a lavorare al centro elaborazione dati della Barilla, ero stato assunto in prova, c’era lo sciopero generale di solidarietà per i dipendenti della Salamini, azienda che stava per fallire. Ricordo con emozione il caso di coscienza che mi si poneva: aderire allo sciopero comportava qualche rischio non essendo ancora dipendente a titolo definitivo, gli stessi sindacalisti interni mi avevano concesso di comportarmi liberamente, i colleghi anziani facevano strani discorsi sull’opportunità di uno sciopero a loro avviso inutile, gli impiegati più scettici temevano di danneggiare ingiustamente la Barilla per colpa della Salamini. Credevo nel sindacato, nella solidarietà tra lavoratori, nello sciopero come diritto e come strumento di lotta, mi importava dei lavoratori della Salamini i quali stavano rischiando il loro posto e non mi preoccupava il fatto di creare problemi al mio datore di lavoro. Alla fine andai a lavorare col “magone” dribblando il cordone sindacale posto all’ingresso della fabbrica. In un certo senso aveva vinto l’egoismo anche se gli stessi sindacalisti non avevano preteso da me un atto di coraggio.

Concludo: lo sciopero è un diritto sacrosanto, uno strumento politico fondamentale, un modo serio per protestare: la storia è piena di lotte e di conquiste sindacali meravigliose.  Non sciupiamolo, non sprechiamolo, non abusiamone. Ce ne potremmo pentire amaramente.

 

Il vaccino elettorale

Il vaccino contro il coronavirus potrebbe essere pronto entro tre o quattro settimane: lo ha detto il presidente americano Donald Trump in un town hall a Philadelphia. Nel caso, il vaccino arriverebbe prima delle elezioni Usa del 3 novembre.

Un vaccino è una preparazione artificiale costituita da agenti patogeni opportunamente trattati (e parti di essi) somministrata con lo scopo di fornire un’immunità acquisita. D’ora in poi occorrerà rivedere la definizione in “preparazione strumentale costituita da messaggi elettorali predisposti a tavolino divulgata mediaticamente al fine di orientare il voto dei cittadini”.

Ai lontani tempi della mia giovinezza a chi voleva sottovalutare le battaglie politiche giovanili di contestazione globale al sistema, bollandole come velleitarie e demagogiche, si rispondeva che “tutto al mondo è politica” e quindi tutto doveva essere rimesso in discussione. Al di là delle estremizzazioni sessantottine il discorso del “tutto è politica” non è sbagliato: ogni problema ha un suo risvolto a livello di scienza e tecnica, come teoria e prassi, avente ad oggetto la costituzione, l’organizzazione, l’amministrazione dello stato e la direzione della vita pubblica.

Anche il covid quindi è politica, ma non nel senso della smaccata e sporca strumentalizzazione trumpiana. A tutto c’è un limite. La risposta non si è fatta attendere: Donald Tump dovrebbe “lasciare quel dannato campo da golf” per “sedersi nello Studio Ovale” e mettersi al lavoro sul piano di aiuti per il coronavirus. Così lo sfidante democratico per la presidenza, Joe Biden, parlando con i cronisti in Florida dove è volato per fare campagna elettorale con gli ispanici in particolare nel mirino.

Non so quali siano gli umori statunitensi emergenti dalla campagna elettorale, penso non ci sia da stare allegri. Sono pessimista: gli americani, detta come va detta, di politica non capiscono un cazzo, quindi non mi stupirei se ripetessero l’errore di quattro anni fa. “Errare humanum est perseverare diabolicum”, generalmente ci si ferma lì, invece il detto latino ha una coda, vale a dire “fili mi erra sed culpam tuam semper declara”. Tradotto in italiano: “Sbagliare è umano, perseverare diabolico; figlio mio, sbaglia ma ammetti sempre la tua colpa”. Credo che gli americani non abbiano alcuna intenzione di ammettere la loro colpa, cioè di avere buttato il prete mondiale nella merda del populismo.

Per populismo si intende genericamente un atteggiamento ed una prassi politica che mira a rappresentare il popolo e le grandi masse esaltandone valori, desideri, frustrazioni e sentimenti collettivi o popolari. In questo momento storico la frustrazione popolare per eccellenza è costituita dalla paura del covid e quindi tutto torna alla perfezione. Donald Trump incarna la parte del perfetto populista per un popolo che gode nel farsi accarezzare la pancia.

Quando è scoppiata la pandemia, vedendo l’inettitudine del presidente americano nell’affrontare la conseguente emergenza e le contraddizioni clamorose in cui è caduto, mi sono detto: “Ci voleva il coronavirus per battere Trump!”. Mi sono sbagliato perché forse dovrò rettificare il tiro: “Ci voleva il coronavirus per salvare Trump!”. Evviva gli amici americani: ci hanno regalato tante cose buone in mezzo ai loro affaracci; da ultimo ci hanno regalato i loro affaracci senza cose buone.

La politica per interposta scheda elettorale

Ci stiamo avvicinando all’articolata consultazione elettorale, che sembra fatta apposta per fare casino politico. Si vota per alcune importanti regioni e contemporaneamente sul referendum per il taglio dei parlamentari. Dietro questi voti fa capolino il giudizio sul governo Conte bis e addirittura la sua eventuale caduta, che potrebbe passare dalla sconfitta del centro-sinistra in Toscana e/o dalla vittoria del “no” sulla riformina (?) costituzionale della sforbiciata al Parlamento.

Entrambe queste eventualità, finora ritenute poco probabili, stanno diventando possibili e atte a comportare un “liberi tutti” con successivo rimescolamento di giochi e di carte. Infatti, sia a destra che a sinistra, sotto sotto c’è chi fa il tifo e aspetta il momento per buttare il vescovo e i preti nella merda. Chi sarebbe il vescovo? Facile ad intuirsi: Giuseppe Conte, oberato, oltre che dalle drammatiche emergenze covid, dalle difficoltà di governo e politiche, internamente ed esternamente alla sua maggioranza. E i preti? Altrettanto semplice individuarli: Nicola Zingaretti, stretto fra uno stiracchiato e incoerente “sì”, una notevole debolezza emergente dagli ozi regionali, sempre più schiacciato sui ricatti pentastellati e lontano dalla promessa discontinuità (come sostiene Emma Bonino, dalla malcelata mutilazione del Parlamento ai decreti sicurezza, dalla prescrizione a quota cento emerge una spiazzante e invalidante continuità per il Pd); Matteo Salvini, sempre più isolato e contestato in casa dalla “fronda giorgettiana”, dalla crescente “autorevolezza zaiana”, comico interprete di una leadership sempre più contesa anche all’esterno “dall’onda meloniana”  e disturbata dal “malpancismo forzitaliota”.

Nicola Zingaretti sta evidenziando la sua intrinseca debolezza e la sua burocratica incoerenza: il “sì” non gli dona, la Toscana lo fa traballare, Saviano lo vuol distruggere, il suo partito ha bisogno di una guida ben più autorevole e decisa. Matteo Salvini ha un sacco di guai con la giustizia, è contestato in piazza, è guardato a vista dai suoi e combattuto dagli alleati. I risultati elettorali stanno diventando una sorta di prova del nove per la caduta di questi due “dei di cartapesta”.

Il movimento cinque stelle ha innescato un populismo, che sta coinvolgendo troppi soggetti politici: il “sì”, se vedrà la luce, sarà figlio di troppi e disomogenei genitori: grillini, leghisti e fratelli d’Italia. La lega di Salvini ha indetto l’ennesima gara per legittimarsi come forza di governo: ma parte sempre troppo da lontano e dal difficile e, anche se dovesse incassare un risultato regionale soddisfacente o addirittura clamorosamente vincente, non avrebbe la forza per metterlo a frutto politicamente. Un gran casino avvitato su se stesso. Il Pd gioca sempre in difesa col rischio di prendere gol nei minuti di recupero.

Ci vuole coraggio per andare a votare. Verrebbe voglia di starsene a casa, ma dietro l’angolo ci sono comunque due grossi pericoli da scongiurare: consegnare il Paese a sovranisti e populisti sperando soltanto che se le diano di santa ragione fra di loro; assistere al crollo, sul territorio, della sinistra col rischio di innescare profondi mutamenti nelle direttive fondamentali della politica italiana.

Un “no” rispedirebbe al mittente le velleità populiste di ogni tipo e genere; la conferma dei governatori regionali di centro-sinistra (almeno in Toscana) ricondurrebbe la politica ad un minimo di coerenza e consistenza programmatica. Non so cosa succederebbe al governo Conte. I grillini sarebbero incazzatissimi, ma non potrebbero far male a nessuno se non a se stessi; l’ammalato democratico prenderebbero un brodino caldo, che gli darebbe un minimo di forza per evitare almeno gli avvoltoi renziani e calendiani; i leghisti troverebbero forse il coraggio di mandare a casa Salvini, con un certo ritardo e con un certo sconquasso, ma sempre meglio uno Zaia ragionante che un Salvini sbraitante.

Mi tocca fare il tifo per il “no” anche se inquinato dagli abbonati al no, che non mi piacciono, ma per dare almeno una ridimensionata ulteriore alle velleità grilline; mi tocca accontentarmi in Toscana di un Eugenio Giani qualsiasi, che faccia da cotone emostatico all’emorragia  di sinistra; mi tocca sperare nella conferma di due casinisti come De Luca ed Emiliano per evitare casini ben più grandi e pericolosi; mi tocca mettere il naso in casa leghista per preferire una politica sbagliata (leggi Giorgetti e Zaia) al populismo becero (leggi Salvini sotto scacco di Meloni). È pur vero che la politica è l’arte del possibile, ma dovrebbe essere pur sempre un’arte e non un mero artificio difensivo contro il peggio. Invece…

 

Il vomito sessista nelle ampie scollature femminili

Proprio in questi giorni ho riflettuto e scritto sulla normalità nella diversità dei comportamenti sessuali, ma evidentemente sesso e normalità non vanno troppo d’accordo se stiamo ancora a discutere e polemizzare su un abito troppo scollato, il topless esibito in spiaggia, indumenti osée indossati a scuola. Queste polemiche sono scoppiate in Francia dove le attiviste di Femen hanno manifestato contro la decisione di imporre l’utilizzo di una giacca a una turista giudicata troppo “scollata” per visitare l’esposizione. È inoltre scattata la protesta contro il dress-code sessista consigliato in alcune scuole e contro l’episodio delle due donne in topless a Sainte-Marie-la Mer alle quali gli agenti di polizia hanno chiesto di indossare il costume.

Attingo dalla cronaca della corrispondente de La repubblica Benedetta Perilli. Partiamo dall’inizio. Indossava un abito troppo scollato per poter visitare le sale del museo d’Orsay, a Parigi, e così una visitatrice è stata costretta a indossare una giacca per poter ammirare l’esposizione. Un gesto che ha fatto molto discutere e che non poteva non essere vendicato dalle attiviste di Femen. Le femministe, note per le loro azioni di protesta a seno nudo, si sono introdotte nel museo e hanno posato in topless, con le mascherine e mantenendo le distanze di sicurezza, mostrando sul corpo le scritte “Non è osceno” e “L’oscenità è nei vostri occhi”. In un comunicato hanno spiegato la ragione della dimostrazione citando anche l’episodio delle due donne in topless alle quali gli agenti di polizia hanno chiesto di indossare il costume: “Il museo d’Orsay ospita numerose opere, molte delle quali nudi femminili e maschili, così come il celebre dipinto L’origine du monde di Gustave Courbet. Per quegli agenti un abito scollato è un problema, ma non crea loro alcun problema fissare i seni di una donna e giudicare com’è vestita”. Le attiviste hanno spiegato di voler combattere il pregiudizio sul corpo della donna che “ogni volta è come se venisse etichettato osceno o sconveniente” e che “solamente ricordando che il corpo non è osceno e sostenendo Jeanne (la turista allontanata dal museo) e tutte le donne vittime di discriminazioni sessiste si ferma la sessualizzazione del corpo delle donne”.

Intanto la rentrée scolastica è stata segnata sempre in Francia, oltre che dall’emergenza Covid, anche da una polemica sul dress code sessista imposto dalle scuole. Vari gruppi femministi e molti studenti hanno indetto per il 14 settembre una protesta contro la decisione di alcuni istituti scolastici di vietare indumenti giudicati “indecenti” come shorts, minigonne e crop top. Gli stessi indumenti che chi partecipa alla protesta ha deciso di indossare in forma ancora più audace. La protesta, nata spontaneamente sui social, ha ottenuto il sostegno della ministra Marlène Schiappa, delegata responsabile della cittadinanza, che in un tweet ha commentato: “Come madre le sostengo con sorellanza e ammirazione”. A favore del movimento anche le attiviste de Les Glorieuse che spiegano: “Osate top, gonne e trucco per reagire alle loro proposte sessiste. Vi invito a farlo tutti, senza preoccuparvi del vostro genere, uomini, donne, non binari. L’abbigliamento non ha un genere e possiamo indossare quello che vogliamo. Dimostriamoglielo”.

Fin qui la cronaca. Chi mi conosce sa della mia larghezza di vedute in materia sessuale e quindi non resterà deluso nell’apprendere che mi schiero apertamente con le attiviste di Femen. Hanno ragione da vendere: non è con questi atteggiamenti censori e bacchettoni che si difende il decoro, il buon gusto e la decenza. Noi partiamo sempre dalla forma per trascurare la sostanza. “Ottimo disse il conte e vomitò nell’ampia scollatura della contessa”: così dice una ben nota espressione usata spesso nel nostro parlare quotidiano. D’ora in poi bisognerà stare attenti all’ampiezza della scollatura della contessa più che ad evitare di vomitarle addosso.

Non vedo quale attentato al decoro potesse rappresentare la visitatrice di un museo con un abito un po’ scollato. Se proprio vogliamo insistere, sarà necessario fissare delle regole e applicarle. Quanti centimetri di profondità potranno avere le scollature delle donne? Poi si dovrà tenere conto anche delle dimensioni del seno, che influiscono certamente sull’apertura della scollatura. E poi magari prevedere dei correttivi da apportare seduta stante: spille da applicare in parziale chiusura della scollatura. Ma il bello viene a livello di chi dovrà fare questi controlli e verificare queste misure: un esercito di guardoni previamente selezionato e magari remunerato in…economia.

Sto naturalmente scherzando perché forse è il modo migliore per sgonfiare i non problemi.  E i topless? Pensavo che il discorso fosse chiarito da tempo, invece… Certamente più delicato il discorso nelle scuole. Intendiamoci bene, tutti sappiamo qual è il vero problema: trovare l’equilibrio tra la sacrosanta e naturale esibizione del meraviglioso corpo della donna e il contenimento degli istinti sessuali maschili in cerca di sfoghi ben oltre le righe. È pur vero che in questo caso l’occasione può fare l’uomo maniaco sessuale, ma è altrettanto vero che, se un uomo non riesce a contenersi, deve badare a se stesso e non pretendere di coprire le proprie vergogne considerando vergogne i seni femminili.

Una mia amica, parecchio tempo fa, mi raccontava di avere assistito ad un episodio curioso. Un distinto signore intendeva acquistare all’edicola una rivista pornografica e non si accontentava di sceglierla alla chetichella tra quelle esposte in vetrina, ma chiedeva insistentemente e ripetutamente all’edicolante se non avesse qualcosa di più spinto da offrire. Ad un certo punto, dopo aver quasi esaurito il campionario, l’edicolante si spazientì e disse al potenziale cliente: “Senta, forse è meglio che lei si rivolga ad una casa di appuntamenti: ce ne sono per tutti i gusti…”. Quel signore arrossì e se ne andò sconsolato.

Certo le donne devono essere attente a non trasformare il loro libero arbitrio in materia di abbigliamento in provocazione bella e buona per soggetti sessualmente deboli (o forti): la misura la conoscono benissimo, senza che venga loro ridicolmente imposta da guardiani-guardoni, da presidi-bacchettoni e da poliziotti-bigotti.

 

Un pretaccio in più da (rim)piangere

In una Chiesa ammalata di dogmatismo e clericalismo è difficile non essere borderline o, meglio, anticlericali. Ma tutto è relativo: anche nella comunità cristiana, così come ovunque, contano molto le persone. La struttura gerarchica lascia il tempo che trova, addirittura spesso indispone, indigna, allontana dal Vangelo. Mi aprono la mente ed il cuore, anche se non mi illudono più di tanto, le meravigliose e consolanti brecce aperte da Papa Francesco, purtroppo seguite da innovazioni istituzionali somministrate col bilancino, da concessioni (bontà loro…) tardive e cattedratiche alla logica evangelica. Esistono, grazie a Dio, le eccezioni tali da ripristinare la giusta regola. Ho conosciuto preti che di clericale non avevano niente. Chi li chiama pretacci, chi li chiama preti di strada. Io ho un debole per questi sacerdoti che seguono alla lettera il Vangelo e aiutano i poveracci di turno, acrobati senza rete, martiri della carità, testimoni dell’amore fraterno.

Tra questi colloco anche don Roberto Malgesini. Non lo conoscevo e quindi sono costretto a ricorrere per lui alle notizie di cronaca apparse su La Repubblica. 51 anni, “un vero prete di strada” come lo descrivono tanti, sempre schierato dalla parte degli ultimi: è stato accoltellato e ucciso a Como. L’aggressione è avvenuta sotto la casa dove abitava. Inutili i soccorsi: quando don Roberto è stato ritrovato, era disteso per terra con diverse ferite da arma da taglio e i sanitari ne hanno solo potuto constatare il decesso. Sul posto è arrivato anche il vescovo Oscar Cantoni ed è forte la commozione e il dolore tra chi lo conosceva. Il vescovo ha benedetto la salma di don Roberto prima che fosse portata via, e a pochi metri dalla chiesa di San Rocco si è formata una folla di fedeli, tra loro tanti migranti. Molti piangono e si abbracciano. “Dov’è il don? No, non può essere lui”, dice uno di loro ad alta voce. Ci sono stati anche dei momenti di tensione tra i parrocchiani e le persone assistite da don Roberto con accuse reciproche di averlo lasciato solo. Una donna italiana e un giovane africano sono anche venuti alle mani fino all’arrivo della polizia.

Il direttore della Caritas, don Roberto Bernasconi, racconta che era consapevole dei rischi che correva e usa anche parole dure per spiegare come si muoveva nel mondo don Roberto: “Era una persona mite, era cosciente dei rischi che correva. La città e il mondo non hanno capito la sua missione”. Paragona l’omicidio a un martirio: “Voleva trasmettere un messaggio cristiano attraverso la vicinanza a queste persone. È una tragedia che nasce dall’odio che monta in questi giorni ed è la causa scatenante al di là della persona fisica che ha compiuto questo gesto. O la smettiamo di odiarci o tragedie come questa si ripeteranno. Spero che questo suo martirio possa contribuire allo svelenamento della società”. E la Diocesi del sacerdote ricorda la bontà: “Era un pezzo di pane”. Il sindaco Mario Landriscina ha deciso di proclamare il lutto cittadino.

La mia vita cristiana è segnata da preti di questo tipo. Sono nato due mesi prima della morte di mio zio sacerdote. Di lui porto indegnamente il nome ed è il mio santo protettore. I report, che i responsabili della scuola di Teologia, frequentata a Roma da don Ennio, inviavano alla Curia Vescovile di Parma, contenevano, in mezzo ai giudizi sul profitto, una osservazione critica sulla sua condotta: era un po’ distratto. Ebbene, si dirà, può capitare a tutti di distrarsi durante le lezioni più impegnative e dure da digerire. Non si trattava di questo, don Ennio non si perdeva a guardare fuori della finestra. Era al contrario troppo attento, ma ai proble­mi dei ragazzi di borgata coi quali trascorreva parecchio tempo ed ai quali dedicava il cuore dopo aver rivolto la mente agli insegnamenti teorici. Criticandolo, in modo palesemente burocratico, gli facevano, a mio giu­dizio, il più bello degli elogi. Era portato ad interessarsi degli emargi­nati, soprattutto i bambini: era vicino agli ultimi in stile prettamente evangelico.

Tra questi preti  c’era senza dubbio don Sergio Sacchi, un sacerdote dotato di un sorriso accogliente verso tutti, disponibile a servizio degli ultimi, che non sapeva dire no a chi gli chiedeva aiuto, che cedeva il proprio letto a chi non aveva un rifugio per la notte, che offriva tutto quello di cui disponeva a chi non aveva da mangiare, che ascoltava chi aveva bisogno di sfogare i propri disagi e le proprie disgrazie, che riceveva rimproveri perché troppo fuori dagli schemi burocratici ed amministrativi, che era ritenuto un disordinato perché se ne fregava dei bilanci e delle loro perbenistiche quadrature, che veniva spostato da un incarico all’altro e da una parrocchia all’altra come se fosse un pacco postale, senza pretendere un “grazie” anzi sopportando critiche ed incomprensioni.

Manco a farlo apposta era amico di don Luciano Scaccaglia: di lui mi parlava quando io ancora non lo conoscevo e me ne tesseva gli elogi. Sarebbe troppo lungo e ripetitivo richiamare diffusamente la testimonianza di don Scaccaglia.  Alla sua vita e alla mia amicizia con lui ho dedicato ricordi e libri a cui rimando i lettori interessati ad approfondire il discorso.

Si tratta di sacerdoti che ti donano l’ossigeno, che ti riconciliano con la religione cattolica. Spesso penso ai palazzi vaticani dove si traffica, ci si compromette, si fa l’esatto contrario di quanto è scritto nel Vangelo. Mi dico: non tutto è così! C’era, novant’anni fa, anche don Ennio Bonati, c’erano, molto più avanti nel tempo, don Sergio Sacchi, c’era don Luciano Scaccaglia, c’era don Roberto Malgesini. L’elenco non è esaustivo ma emblematico.

Il sacrificio di don Malgesini mi ha commosso e turbato: di fronte a questi esempi devo ammettere di sentirmi un cristiano di merda. Quindi non ne faccio solo l’occasione per una polemica con la Chiesa più o meno ufficiale, con la società che sembra sapere solo odiare e discriminare, ma l’occasione per una profonda autocritica.

Chiudo ricordando un episodio più volte riportato nei miei scritti. Come dimenticare infatti ciò che raccontava, con rara e simpatica verve ironica, da don Andrea Gallo, il quale era stato chiamato a rapporto in Vaticano da un importante cardinale per discutere dei comportamenti pastorali border line del più pretaccio dei pretacci. Don Gallo scelse una linea difensiva semplice ed inattaccabile: «Io applico il Vangelo…». Momento di panico. Il cardinale ribatté laconicamente: «Beh, se la metti su questo piano!?». «E su quale piano la dovrei mettere…», chiese provocatoriamente don Gallo.

 

 

 

 

 

Siamo tutti diversamente normali

L’omofobia è la paura e l’avversione irrazionale nei confronti dell’omosessualità, della bisessualità e della transessualità e quindi delle persone omosessuali, bisessuali e transessuali basata sul pregiudizio. L’Unione europea la considera analoga al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo e al sessismo. Con il termine “omofobia” quindi si indica genericamente un insieme di sentimenti, pensieri e comportamenti avversi all’omosessualità o alle persone omosessuali.

L’omofobia è ad un tempo timore ossessivo di scoprirsi omosessuale e avversione nei confronti degli omosessuali. Il termine è infatti utilizzato con diversi significati. Le definizioni di omofobia esistenti possono essere sintetizzate in tre principali prospettive: accezione pregiudiziale, accezione discriminatoria e accezione psicopatologica:

  • l’accezione pregiudiziale considera come omofobia qualsiasi giudizio negativo nei confronti dell’omosessualità. In questa definizione vengono considerate manifestazioni di omofobia anche tutte le convinzioni personali e sociali contrarie all’omosessualità come ad esempio: la convinzione che l’omosessualità sia patologica, immorale, contronatura, socialmente pericolosa, invalidante; la non condivisione dei comportamenti omosessuali e delle rivendicazioni sociali e giuridiche delle persone omosessuali. Non rientra in questa accezione la conversione in agito violento o persecutorio nei confronti delle persone omosessuali.
  • l’accezione discriminatoria considera come omofobia tutti quei comportamenti riconducibili al sessismo che ledono i diritti e la dignità delle persone omosessuali sulla base del loro orientamento sessuale. Rientrano in questa definizione le discriminazioni sul posto di lavoro, nelle istituzioni, nella cultura, gli atti di violenza fisica e psicologica (percosse, insulti, maltrattamenti).
  • l’accezione psicopatologica considera l’omofobia come una fobia, cioè una irrazionale e persistente paura e repulsione nei confronti delle persone omosessuali che compromette il funzionamento psicologico della persona che ne presenta i sintomi. Tale valutazione diagnostica includerebbe quindi l’omofobia all’interno della categoria diagnostica dei disturbi d’ansia e rientrerebbe all’interno dell’etichetta di fobia specifica. A differenza delle prime due accezioni, l’omofobia come fobia specifica non è frutto di un consapevole pregiudizio negativo nei confronti dell’omosessualità quanto piuttosto di una dinamica irrazionale legata ai vissuti personali del soggetto. Quest’ultima definizione, per quanto più attinente alla radice etimologica del termine, ad oggi non è sostenuta da una letteratura sufficiente da farla inserire nei principali manuali psicodiagnostici.

Ho tentato di fare chiarezza in materia, prima di addentrarmi nell’argomento, prendendo spunto da un fatto curioso: Marco e Denis, due uomini di Padova, che dopo la loro unione civile hanno deciso di festeggiare in Puglia l’inizio della loro vita insieme. E qui hanno avuto un’amara sorpresa: lo chef del resort Canne bianche a Fasano, dove soggiornavano, ha disegnato con la salsa la forma di un pene in un piatto destinato alla coppia. “Ci siamo sentiti umiliati”, dicono i due. “Pensavo di essere in un piccolo paradiso, ma, nonostante la cura dei dettagli, il personale è evidentemente poco selezionato e omofobo: siamo stati derisi dai camerieri, lo chef con la salsa ha scritto volgarità nei piatti e ridendo con i colleghi voleva farli portare a tavola”. Viaggio di nozze rovinato, quindi, e la loro denuncia è arrivata fino a Mixed Lgbti, associazione di Bari che si occupa proprio di tematiche Lgbt e di genere.

I soggetti omosessuali hanno mille ragioni per protestare ed esigere rispetto. Nei loro confronti, senza pensare alla violenza vera e propria che molto spesso si scatena, rimane sempre una vena di irrisione, di derisione, di compatimento, che ferisce tanto quanto e forse ancor più del rifiuto clamoroso e violento.

Ci dovrebbe essere uno sforzo, da parte di tutti e a tutti i livelli, di normalizzare nel modo più assoluto le scelte di vita di questi soggetti, senza insistere nella teorizzazione e nella contrapposizione. Ho l’impressione invece che gli omosessuali tendano più ad enfatizzare e ad esibire la loro diversità che a farla rientrare appunto nella normalità.

Non ricordo chi, forse lo scrittore Luca Goldoni, accennava ironicamente al rischio che, a forza di parlare di omosessualità, i diversi diventassero gli eterosessuali, invertendo paradossalmente il discorso.  Ripulita dall’ironia, questa affermazione mi sembra abbastanza seria e significativa di un clima conflittuale in cui viene collocata a tutti i costi la questione. Se non c’è conflitto, lo si va a cercare, se ne sente il bisogno, si vuole essere discriminati a tutti i costi per rivendicare la propria libertà e normalità. È un salto culturale che le persone omosessuali dovrebbero cercare di fare, quello di non sentirsi sempre e comunque sul banco degli imputati e di voler passare su quello dei giudici, ma di vivere con assoluta semplicità la loro vita senza bisogno di protagonismo aggiuntivo. Solo se arriveremo lì, avremo sconfitto l’omofobia, diversamente terremo aperta una sorta di guerra infinita in cui abbiamo tutto da rimettere e niente da guadagnare e in cui trovano brodo di coltura e libero sfogo i mai sopiti rigurgiti omofobi.

Partecipando a feste di nozze ho a volte assistito alla stupida gag del piatto di frutta offerto alla sposa, costituito dalla pornografica combinazione tra una banana e due arance oppure della torta nuziale con sopra la statuina dello sposo con enorme fallo in erezione: cose sciocche, triviali e fastidiose. Forse il piatto col pene al pomodoro rientra in questa categoria di stupidaggini sessuali. Capisco il disappunto di chi subisce simili scherzi, ma forse non è il caso di farne un caso.

Così come l’esibizionismo spinto dei gay-pride che non fa certo bene alla normalizzazione del concetto e della prassi omosessuale: il volere a tutti i costi marcare la propria diversità portandola ai confini della provocazione estrema. Un po’ come le persone che parlano continuamente di sesso, sbandierando le loro avventure erotiche: coprono spesso le loro impotenze, insufficienze e manie. Qualche rara volta mi è capitato di parlare a tu per tu con persone omosessuali o comunque rientranti in situazioni sessuali Lgbt e le ho trovate d’accordo sulla mia tesi, anzi a volte addirittura indispettite dall’esibizionismo e dal protagonismo controproducente. A sollevare questi discorsi bisogna però stare attenti perché si può finire inopinatamente da una parte nel calderone indistinto dell’omofobia o dell’ipocrisia perbenista e dall’altra parte in quello del lassismo o del transgender.  Il solito modo manicheo di affrontare i discorsi. Sotto sotto continuiamo a considerare il sesso un tabù e lo affrontiamo con cattiveria, con senso di colpa e soprattutto con bigottismo o antibigottismo, facendo un favore ai bigotti di tutti i generi.

Per concludere mi sembra opportuno riportare di seguito testualmente quanto scrive Paolo Rodari su La Repubblica. “Si chiama La costa del Limay. È un ‘condominio sociale protetto per donne trans’, costruito nel quartiere Confluencia di Neuquén, la città più popolosa della Patagonia. È stato inaugurato lo scorso 10 agosto grazie all’impegno di una suora di clausura, la carmelitana Mónica Astorga Cremona, che da anni accoglie le trans che vivono in condizioni di disagio, spesso in fuga dalla prostituzione e bisognose di occupazione: dodici miniappartamenti con un salone comune. Secondo quanto riporta l’agenzia Telam, l’inaugurazione è stata salutata anche da papa Francesco, il quale, nonostante sia a conoscenza dell’ostilità di parte della Chiesa locale per il lavoro della religiosa, ha voluto scriverle queste parole: «Cara Mónica, Dio che non è andato al seminario, né ha studiato teologia, ti ripagherà abbondantemente. Prego per te e per le tue ragazze. Non dimenticare di pregare per me. Gesù ti benedica e la Santa Vergine ti assista. Fraternamente, Francesco».

 

 

 

 

Cappio passato non macina più

16 marzo 1993. Una giornata rimasta nella storia, perché proprio quel giorno fu rapito Aldo Moro. E in aula a Montecitorio venne sventolato un cappio. L’autore iscritto come primo cittadino nella valanga di boutade parlamentari è Luca Leoni Orsenigo, deputato della Lega Nord, che con quel gesto estremo chiede pulizia nella classe politica corrotta. La scena del cappio è entrata anche in una fiction di Sky, “1993”, nella scena in cui il deputato leghista Pietro Bosco, dai banchi della Camera, prende al collega Orsenigo il cappio e lo agita. «Un falso storico – commentò Luca Leoni Orsenigo rivendicando la paternità unica del gesto – fa solo parte della finzione cinematografica. Il cappio era mio, l’ho agitato io e non lo ha mai toccato nessun altro leghista».

Sono passati oltre 27 anni. Il 10 settembre 2020 tre commercialisti vicini alle Lega e coinvolti nell’inchiesta milanese relativa alla vicenda Lombardia Film Commission e la compravendita di un immobile a Cormano nel Milanese da oggi pomeriggio sono agli arresti domiciliari. Ad eseguire l’ordinanza di custodia cautelare che riguarda anche Fabio Giuseppe Barbarossa, sono stati i militari del nucleo di Polizia economico-finanziario della Guardia di Finanza. Ai tre professionisti, insieme a una quarta persona anch’essa ai domiciliari, sono stati contestati a vario titolo i reati di peculato, turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.

La vicenda non è per niente una buona notizia per Salvini. Infatti, come scrive la Stampa, si tratta di nomi “pesanti” nell’architettura finanziaria della Lega: uno è infatti amministratore al Senato del gruppo del Carroccio, il secondo è invece revisore del partito alla Camera. I nomi dei due commercialisti erano entrati pesantemente anche nell’inchiesta sulla scomparsa dei 49 milioni di fondi pubblici che la Lega avrebbe dovuto restituire allo Stato.  E poi c’è il commercialista nel cui studio è stato fondato e domiciliato il movimento “Lega per Salvini premier”.  Uno infine è cognato di quest’ultimo e, nell’inchiesta, considerato un “prestanome”.

Questa volta il cappio rimane tra gli attrezzi della cantina, scoppia invece l’ira della Lega dopo gli arresti: giustizia a orologeria poco prima del voto. Salvini tace e lascia parlare i suoi, ma non ha dubbi: è una entrata a gamba tesa della magistratura. Una bomba in casa del Carroccio a dieci giorni dal voto alle regionali del 20 e 21 settembre. Proprio adesso che la Lega e tutto il centrodestra stanno macinando consensi in una Regione come la Toscana considerata inespugnabile fino a poco tempo fa, ma ora è in bilico grazie alla candidatura della leghista Susanna Ceccardi. E mentre c’è un testa a testa in Puglia. Matteo Salvini non ha alcun dubbio che si tratti di una entrata a gamba tesa della magistratura in un momento politicamente delicato e favorevole per la Lega.

Non entro nel merito della complicata ed articolata vicenda giudiziaria che sta diventando assai pesante per la Lega: chissà se e quando ci si arriverà in fondo e anche questo non è un bene per nessuno. Sono sempre perplesso davanti a certe iniziative della magistratura prese alla vigilia di consultazioni elettorali, che puzzano di intromissione lontano un miglio: sarebbe opportuno un po’ più di discrezione e di cautela per non influenzare impropriamente gli elettori con atti che a volte si dimostrano addirittura infondati o con accuse che, successivamente, vengono talora fortemente ridimensionate se non archiviate.

Quello che mi dà fastidio è il pendolo della strumentalizzazione politica. Ciò che ieri o ieri l’altro era da auspicare, ostentare, celebrare ed osannare, con l’esaltazione della scopa della magistratura contro la corruzione, oggi viene visto con dubbio e sospetto: niente cappio, niente manette, niente monetine, ma tanta imbarazzata perplessità sull’operato dei magistrati inquirenti. È cambiata la magistratura? Non credo proprio. È cambiata la politica? Purtroppo no, la sporcizia è rimasta in circolo e viene ripetutamente a galla come un fiume carsico. È cambiata l’informazione? No, è troppo spesso alla ricerca dello scandalo per lo scandalo o del clamore mediatico fine a se stesso. E allora? Cambiano le convenienze, l’opportunismo la fa da padrone, si oscilla spudoratamente fra giustizialismo e garantismo, fra populismo e istituzionalismo, fra qualunquismo e partecipazione. Chi ieri sbraitava lanciando accuse e manciate di fango senza andare per il sottile, oggi sottilizza e spacca il capello in quattro. L’elettore, il cittadino, di fronte a questi vergognosi cambiamenti, dovrebbe squalificarne i protagonisti, invece ne segue acriticamente le strane gimkane e applaude freneticamente. Gilberto Govi parlava sarcasticamente di “marionetti”; Simon Boccanegra esclamava ironicamente: “Ecco le plebi!”. Io mi limito a dire agli sguscianti politici ed ai cittadini faciloni: “Buffoni!”.

 

 

Bellezza femminile e bruttezza maschile

Ho profondo rispetto e grande ammirazione per le donne al punto che, come purtroppo molto spesso succede, leggendo episodi di stupri e violenze ai loro danni, resto letteralmente sconvolto e confuso. Non riesco a capacitarmi. In questi giorni è successo in ben due occasioni: a Pisticci, un paese in provincia di Matera a margine di una festa di compleanno, una “serata aperta” con cibo e alcol a volontà; a Paglia Verde, in un tratto di spiaggia libera, al Circeo, nella notte di ferragosto con una passeggiata serale in riva al mare che si trasforma in un incubo.

Faccio fatica anche a leggere le cronache tanto è lo sgomento da cui sono preso, anche se le modalità sono sempre assai simili e seguono un copione letteralmente vomitevole. Su questi fatti è già stato detto e scritto di tutto sia dal punto di vista psicologico che sociologico e infatti anche le immancabili analisi, dico la verità, lasciano il tempo che trovano.

Sintetizzerei a modo mio la situazione, a costo di apparire retorico, semplicista e manicheo: “le donne sono sempre e comunque belle e gli uomini sono (quasi) tutti brutti”. Come risulta evidente non è un giudizio estetico, vale a dire rispondente al gusto e al senso della forma, ma morale, vale a dire rispondente ai valori dell’animo. Mi vergogno di far parte della categoria, sì, perché forse anche la sola appartenenza fa scattare in me un senso di colpa.

Giovani uomini sordi davanti alle grida di due quindicenni che li imploravano di smettere mentre le violentavano a turno.  Se fosse plausibile cambiare sesso, lo farei. Non basta infatti condannare, scandalizzarsi, riprovare simili comportamenti. Penso sia arrivato il momento di fare qualcosa di più. Sento già chi auspica condanne esemplari, la castrazione chimica, provvedimenti giudiziari drastici. Non servono a niente. C’è chi vorrebbe scaricare colpe sulle famiglie, degli aggressori e delle aggredite: ne hanno, ma tendono a rimediare intervenendo a babbo morto, a stupro avvenuto, con atteggiamenti perbenisti o giustificazionisti. C’è chi impreca contro la rilassatezza dei costumi, contro l’eccessiva libertà lasciata ai giovani, contro le straripanti civetterie femminili, contro la droga facile, contro la mentalità dello sballo, contro la pornografia, contro i media, contro la società che guarda e tace.

L’altro giorno mi sono imbattuto in una trasmissione televisiva pomeridiana, che parlava di donne in modo ammiccante e inaccettabile, ben peggio di quanto possa succedere in uno sbracato bar di periferia. Mi è sovvenuto quanto affermò Monsignor Riboldi, battagliero vescovo di Acerra, durante un convegno: disse di preferire la pornografia pura a certi spettacoli televisivi ammantati di perbenismo.

Quindi tutte verità parzialissime e insufficienti a spiegare e combattere queste situazioni estreme (chissà quante ce ne saranno che non vengono a galla par paura, per vergogna, per quieto vivere). Dovrei allora sparare la mia diagnosi e la mia ricetta. Non ce le ho! Torno all’assioma di cui sopra: “le donne sono sempre e comunque belle e gli uomini sono (quasi) tutti brutti”. È nel profondo della coscienza individuale che bisogna andare a rovistare. Solo lì uno può capire il male che ha fatto, solo partendo da lì si può uscire. Una presa di coscienza che da individuale si dovrebbe fare collettiva, ma non è detto che questo succeda.  Però la ritrovata consapevolezza personale è comunque già qualcosa di importante e benefico. Ma certa gente la coscienza non ce l’ha o se la mette sotto i piedi… Ce l’abbiamo tutti e prima o poi ad essa dobbiamo rispondere.

Alcuni sorridono di fronte all’esame di coscienza serale consigliato a livello religioso. Non c’è niente da ridere, anzi c’è da piangere al buio se non lo si fa, c’è da piangere in piena luce se si ha il coraggio di farlo. Non voglio scomodare il demonio anche se ricordo sempre quanto racconta Vittorino Andreoli, il noto esperto e studioso di psichiatria criminale. Aveva avuto un importante e toccante incontro con papa Paolo VI, durante il quale avevano sicuramente parlato non di meteorologia ma di rapporto tra scienza e religione nel campo della psichiatria e dello studio dei comportamenti delinquenziali. Al termine del colloquio il pontefice lo accompagnò gentilmente all’uscita, gli strinse calorosamente la mano e gli disse, con quel tono a metà tra il deciso e il delicato, tipico di questo incommensurabile papa: «Si ricordi comunque, professore, che il demonio esiste!».

In totale e disinvolta controtendenza rispetto alla biblica, storica, religiosa e umana criminalizzazione della donna da Eva in poi, mi permetto di dissentire e faccio risalire al maschio l’origine dei mali dell’umanità: “le donne sono sempre e comunque belle e gli uomini sono (quasi) tutti brutti”. Qualcuno si sente toccato nel vivo? Benissimo, ne sono contento. A qualcuno viene da ridere? Malissimo, perché il prossimo stupro è dietro l’angolo.

 

La prigione dell’evasione

Riprendo una, banalmente tragica, notizia di cronaca da La Stampa. “Le statue e le strutture in cemento che richiamano i fasti dell’antica Roma devono essere stati un richiamo troppo forte e così una coppia di turisti a passeggio nella piazza principale di Tirrenia, sul litorale pisano, è entrata in quel giardino privato, di pertinenza dello stabilimento balneare Imperiale, e lei si è aggrappata con le braccia a una trave per farsi scattare una foto dal compagno. La struttura però ha ceduto di schianto colpendola alla testa e al collo. La donna, 43 anni, è morta quasi subito, prima ancora che arrivasse l’ambulanza. Ora saranno gli accertamenti disposti dal pm di Pisa Giovanni Porpora, che coordina le indagini dei carabinieri, a stabilire se sia stata una terribile fatalità o se la tragedia si poteva evitare”.

Alcuni giorni or sono ero in forte ansia per un diluvio temporalesco che si stava abbattendo sulla città. La strada in cui abito era diventata un fiume in piena, causa anche le bocchette intasate dalle foglie, che non ricevevano più: c’era il rischio di allagare cantine e garage. Osservavo con apprensione la situazione di quasi emergenza, dopo essermi precipitato a sgombrare ed aprire al massimo gli scarichi cortilizi per prevenire il peggio. Ebbene, una persona esce in strada e si reca sul punto di massimo ingolfamento acquatico. Pensavo tentasse di agevolare il tiraggio di una bocchetta, invece si è fatta un selfie, è uscita dall’acqua ed è rientrata precipitosamente in casa.

Siamo diventati tutti cronisti della nostra vita, senza scrupoli e senza etica. Prima viene la forma dell’evento col suo clamore d’immagine e poi la sostanza del dramma. A costo di rimetterci persino la vita. Mia madre si chiederebbe: “Podral andär bén al mónd?”.  Sembrano sintomi trascurabili e inevitabili della leggerezza umana. Certamente, ma sono anche chiari indizi della perdita del senso e del significato della vita. Anche il Papa si piega a questo andazzo e si sottopone alla tortura dei selfie scattati dai suoi visitatori.

Tutti sono in vena di autocelebrazione, ognuno vuole sentirsi protagonista di se stesso, tutti in prima pagina ed effettivamente qualcuno ci arriva, magari lasciandoci le penne. Intendiamoci bene: sono molto dispiaciuto della morte di questa giovane e bella donna, mi immedesimo nel dramma del suo compagno, che le ha fatto da sponda in questo paradossale e sciocco gioco, la ritengo vittima di un andazzo stupido e perverso da cui dovremmo uscire. Le vacanze estive, quest’anno più che mai, non sono state una meritata occasione di relax e divertimento, ma un ossessivo e controproducente sfogo sbattuto in faccia ai problemi. Tutto sempre sopra le righe, alla ricerca della trasgressione, dell’avventura. La disgrazia capitata a Tirrenia è solo una piccolissima, ma non trascurabile, punta dell’iceberg.

Di fronte alla frenetica impostazione delle vacanze e dell’evasione in genere (che rischia di essere una prigione peggiore della monotonia quotidiana) con bagni di folla nelle discoteche, nelle movide, etc. etc., mi viene spontaneo ricordare l’asciutta e pur simpatica verve di mio padre.  Si alzava molto presto al mattino per andare a curiosare tra i pescatori al porto e per godere il clima mattutino. Nuotava alla marinara, detestava gli scherzi in acqua (lui così scherzoso sulla terra ferma), non riusciva a leggere il giornale (un punto irrinunciabile della sua giornata) in spiaggia per effetto della brezza, che glielo spiegazzava continuamente, amava il sole e si esponeva molto volentieri senza preoccuparsi nei primi giorni, quando si notava l’impronta della canottiera (aveva lavorato al sole), e senza temere scottature o arrossamenti. Una giornata incrociò una bella bagnante che gli disse con fare materno: “Che scottatura, lei stanotte non dorme!” E mio padre di rimando: “Bene, così penserò a lei”. Era un bagnante sui generis, stava volentieri in compagnia con noi ragazzi, adolescenti, ma non era invadente e ci lasciava vivere in pace: ricordo ancora le risate che ci procurava con la sua tipica nonchalance. Era un uomo distensivo anche se qualche volta era tenuto al guinzaglio, si fa per dire, da mia madre. Sopportava con fatica il camminare sulla sabbia bollente e ripeteva al riguardo un vecchio adagio: “Magnär sensa bévor, fär l’amór sensa tocär, caminär int al sabión, j én tre cozi da cojón”. Aveva un suo specifico modo di godere la vacanza, piuttosto contagioso, ma semplice, liberale ed aperto agli altri. E se provassimo a fare così???