Il papaccio, il pretaccio e il…lavoraccio

Quando mi capitava di incontrare un simpatico e cordiale amico, un vecchio socialista verace, sapevo fin dall’inizio dove andava a parare il dialogo politico: di qualunque aspetto si parlasse la lingua batteva sul dento dolente del lavoro. Gli rendo merito e testimonianza dedicando alcune riflessioni al tema del lavoro, mettendo a provocatorio confronto la drammatica problematicità del momento storico con gli insegnamenti di papa Francesco, mutuati letteralmente dalla recentissima enciclica “Fratelli tutti” e riportati in corsivo, riservando poi al lettore un finale a sorpresa (un colpetto di scena).

Il fatto è che «la semplice proclamazione della libertà economica, quando però le condizioni reali impediscono che molti possano accedervi realmente, e quando si riduce l’accesso al lavoro, diventa un discorso contraddittorio». Parole come libertà, democrazia o fraternità si svuotano di senso. Perché, in realtà, «finché il nostro sistema economico-sociale produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola persona scartata, non ci potrà essere la festa della fraternità universale». Una società umana e fraterna è in grado di adoperarsi per assicurare in modo efficiente e stabile che tutti siano accompagnati nel percorso della loro vita, non solo per provvedere ai bisogni primari, ma perché possano dare il meglio di sé, anche se il loro rendimento non sarà il migliore, anche se andranno lentamente, anche se lo loro efficienza sarà poco rilevante.

Come sintetizza una importante ed interessante ricerca pubblicata su “La Repubblica”, l’Italia celebra l’11 ottobre la sua settantesima giornata nazionale per le vittime del lavoro. E mai come quest’anno nella ricorrenza, assumono un “sinistro” rilievo i numeri di una strage silenziosa che non conosce contrazioni: sono le stimmate della cattiva coscienza del nostro Paese, della sua distratta e cinica classe dirigente. Da gennaio ad agosto di quest’anno, 830 donne e uomini hanno perso la vita uccisi dal lavoro. Uno ogni 8 ore. Dal lunedì alla domenica.

L’attività degli imprenditori effettivamente «è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti». Dio ci promuove, si aspetta da noi che sviluppiamo le capacità che ci ha dato e ha riempito l’universo di potenzialità. Nei suoi disegni ogni persona è chiamata a promuovere il proprio sviluppo, e questo comprende l’attuazione delle capacità economiche e tecnologiche per far crescere i beni e aumentare la ricchezza. Tuttavia, in ogni caso, queste capacità degli imprenditori, che sono un dono di Dio, dovrebbero essere orientate chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento della miseria, specialmente attraverso la creazione di opportunità di lavoro diversificate. Sempre, insieme al diritto di proprietà privata, c’è il prioritario e precedente diritto della subordinazione di ogni proprietà privata alla destinazione universale dei beni della terra e, pertanto, il diritto di tutti al loro uso.

È inutile ed ipocrita imbastire un paradossale contrasto fra il diritto alla salute ed il diritto al lavoro: vale per l’industria inquinante, vale per le attività economiche che producono armi e strumenti di morte, vale per il clima di pandemia in cui sembra che sia meglio sacrificare l’incolumità alla possibilità di lavorare e non impoverirsi. Il difetto sta nel manico, nella scala di valori in cui abbiamo messo al primo posto la proprietà privata e la ricchezza fine a se stessa. La pandemia sta facendo scoppiare le contraddizioni del nostro sistema e mette in evidenza come siano stati posti in secondo piano i diritti fondamentali alla salute ed al lavoro rispetto alla alienante e scriteriata produzione purchessia, addirittura cartolarizzata nella mera speculazione finanziaria.

Il grande tema è il lavoro. Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze. Questo è il miglior aiuto per un povero, la via migliore verso un’esistenza dignitosa. Perciò insisto sul fatto che «aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro». Per quanto cambino i sistemi di produzione, la politica non può rinunciare all’obiettivo di ottenere che l’organizzazione di una società assicuri ad ogni persona un modo di contribuire con le proprie capacità e il proprio impegno. Infatti, «non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro». In una società realmente progredita, il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere sé stessi, per condividere doni, per sentirsi corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per vivere come popolo.

La Costituzione italiana esordisce dichiarando che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Più avanti nel titolo riguardante i rapporti economici parla di tutela del lavoro, di equa retribuzione, dei diritti della donna lavoratrice, di iniziativa economica libera, che però non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, di funzione sociale della proprietà privata. La bussola della vita del nostro Stato è orientata inequivocabilmente verso il lavoro per tutti e a condizioni dignitose e garantiste.

Il caro ed indimenticabile amico don Luciano Scaccaglia coglieva i gesti liturgici e, genialmente ed immediatamente, li allargava dal loro religioso simbolismo all’impatto esistenziale. Durante la celebrazione del Battesimo sull’altare venivano posti due riferimenti essenziali: la Bibbia e la Costituzione italiana. L’una chiedeva al cristiano la fedeltà alla Parola di Dio, l’altra al cittadino l’attivo rispetto dei principi democratici posti a base del vivere civile. Vale anche e soprattutto per il discorso del lavoro a cui sto facendo sofferto riferimento. Questo, secondo i detrattori del cavolo (resisto alla tentazione di usare un termine volgaruccio che lascio alla facile intuizione del lettore), anche altolocati, voleva dire fare politica in chiesa… Che ottusità mentale e culturale! Erano stupende e geniali provocazioni esistenziali, che contenevano autentici trattati di teologia coniugata con la laicità dello Stato. Per fortuna è arrivato papa Francesco, il papaccio che rende giustizia al pretaccio.

Insieme (quasi) alla chetichella.

Da tempo si vociferava della nascita di una nuova formazione politica in ambito cattolico. È passato quasi sotto silenzio mediatico questo parto. Stando a quanto ne riferisce, in modo molto chiaro e puntuale, Angelo Picariello su Avvenire, è nato un nuovo soggetto politico «di ispirazione cristiana, autonomo e non confessionale». Una sfida da vincere “Insieme”. Si chiama così il nuovo partito: un progetto a lungo coltivato e lungamente discusso fra varie sigle e componenti dell’associazionismo.

Lo ha presentato il professor Stefano Zamagni, l’ex presidente dell’Agenzia per il Terzo settore: una nuova formazione «che parta dal basso, non da una leadership, che semmai sarà un punto di arrivo, non di partenza». Un progetto per porre rimedio a una diaspora ormai trentennale, «concepita all’inizio con l’idea di favorire il bipolarismo. I risultati sono sotto gli occhi di tutti – ha detto Zamagni – perché l’Italia non è bipolare e infatti il bipolarismo ha dato pessimi risultati, simili a quelli dei duopoli in economia». Un partito collocato rigorosamente al centro, perché «una democrazia liberale non può fare a meno di un partito di centro».

Ma non è tanto un problema di collocazione. È, soprattutto, una questione di contenuti, di temi, di valori, che sono stati progressivamente marginalizzati nel dibattito politico. «L’effetto del bipolarismo è stato la progressiva sparizione di un partito di ispirazione cristiana. E non si capisce perché questo pensiero non debba avere più dignità nella sfera politica». Il rischio, ora, è addirittura quello di una politica che non abbia più alcun pensiero, che si affidi alla democrazia diretta. Mentre, per Zamagni «la politica non deve limitarsi a dare delle risposte, deve anche saper giocare d’anticipo sui problemi, suscitando domande, perché altrimenti si rischia solo di inseguire i problemi che non si è stati in grado di prevenire».

Un partito, quindi, che sappia fornire una ricetta diversa dalla contrapposizione ormai datata fra statalismo e liberismo, «che hanno fallito entrambi», che promuova una «economia civile di mercato, in cui la famiglia sia soggetto, e non oggetto di mere elargizioni». Attento al magistero della Chiesa, «che però va letto per intero – ha concluso Zamagni – ad esempio la sostenibilità di cui parla il Papa, non è solo ambientale, ma anche antropologica». No quindi alla «servitù digitale», alla tecnica che si sostituisce all’uomo. Sì invece alla centralità della persona umana e a un’Europa che si faccia interprete di questi valori. Dignità della persona, rispetto della vita, «famiglia come primo ambito di fraternità e cellula fondamentale della società», centralità dell’educazione, rilancio della dignità del lavoro. Politiche per l’integrazione. Rilancio della sussidiarietà vera, che rimetta al centro i territori e non mero decentramento politico. Sono queste le priorità contenute nel documento di base.

A questa iniziativa politica aderiscono ex dirigenti sindacali, giornalisti impegnati nell’associazionismo pre-politico, docenti e studiosi. Da sottolineare il carattere non confessionale che dovrà avere questo nuovo partito, «laico, di ispirazione cristiana, aperto a non credenti che ne condividano il programma».

È partito alla chetichella, ma con premesse assai interessanti e prospettive tutte da coltivare ed approfondire. Tento di coglierne gli aspetti innovativi e caratteristici, anche a costo di ripetere pappagallescamente quanto sopra già richiamato al fine di meglio considerare i pro e i contro dell’iniziativa: la natura assolutamente laica e rigorosamente non leaderistica e personalistica ma partecipata dal basso; una forte attenzione ai contenuti ed ai valori riconducibili all’ispirazione cristiana in grado di mettere al centro i problemi e non le facili risposte; le scelte di fondo individuabili in un’economia civile di mercato, nella famiglia quale soggetto fondamentale, nel richiamo all’integrale magistero della Chiesa, nella centralità della persona umana, dell’educazione, della dignità del lavoro, nell’integrazione sociale, nella sussidiarietà autentica, nel ruolo dell’Europa quale interprete di valori su cui innestare le istituzioni e le politiche comunitarie.

Progetto un tantino generico, ma molto sostanzioso e stimolante. La levatura culturale ed etica dei promotori è un ulteriore segno di serietà dell’iniziativa. Si intravedono, è inutile nasconderlo, alcuni rischi: quello di fare anacronisticamente il verso alla democrazia cristiana; quello di cassare tout court il bipolarismo che è scritto nella storia dei Paesi democratici occidentali e che non andrebbe visto come una mera semplificazione di schieramenti, ma come lo sforzo di lavorare su obiettivi largamente condivisi in una contrapposizione autenticamente democratica (la terza fase di Aldo Moro rimasta incompiuta); quello di rinchiudersi in una sorta di problematica cittadella valoriale, sottovalutando il fatto che la politica è fatta di concretezza e di immediatezza e che la gente è sì stanca di proclami populistici, ma è comunque desiderosa di intuire fin dall’inizio sbocchi concreti agli enormi problemi che stiamo vivendo; quello di appiattirsi sul magistero della Chiesa, rischio che intravedo fin dall’inizio (non nascondo, pur con tutto il rispetto delle persone e delle intenzioni assai credibili, di sentire un po’ di odore di sacrestia seppure riveduto e corretto); quello di sottovalutare la schiacciante e globalizzante influenza dei meccanismi economico-finanziari, nascondendosi dietro una non meglio precisata terza via; quello di vagheggiare una collocazione politica centrale foriera di equivoci e frutto di semplicismi derivanti dalla storia  non sufficientemente studiata.

Aspetto con interesse il completamento della diagnosi e le prime indicazioni per la terapia: le malattie di fondo sono state individuate, restano da capire bene le cause delle patologie di cui soffriamo, rimane da tracciare un percorso curativo e riabilitativo, da proporre comunque una equipe medica all’altezza del compito (non solo ottimi diagnostici, ma anche validi e credibili terapisti e, perché no, coraggiosi chirurghi) e da individuare un metodo coinvolgente dei pazienti, togliendo ad essi l’illusione di guarire senza soffrire.

 

L’emblematica disputa sulle mascherine

Giriamola come vogliamo, senza voler essere prevenuto, pur rallegrandomi  della guarigione imminente e pur augurandogli un pieno ritorno alle sue funzioni e alla sua campagna elettorale, vedo nel comportamento di Trump l’immagine dell’uomo che vuol sembrare più forte della malattia, che non vuol fare i conti con essa e nega l’evidenza di una situazione drammatica che sta vivendo il suo Paese, finendo col sottovalutarla ed affrontarla in modo sbagliato, coinvolgendo in questa paradossale deriva (quasi) negazionista i cittadini che, a torto o a ragione, hanno in lui un punto di riferimento.

Cerchiamo di essere molto umili. Sì, perché l’unica ricetta che può funzionare è l’umiltà. Anche la scienza purtroppo segna il passo e le uniche certezze che ci offre sono: lavarsi spesso e bene le mani, tenere una certa distanza nei rapporti con le persone con le quali non ci sia comunanza di vita, indossare una mascherina negli ambienti chiusi e anche all’aperto. Sono norme di comportamento molto semplici e sembra siano le uniche a garantire un certo successo nella battaglia preventiva contro il coronavirus.

Smettiamola quindi di sottovalutare i rischi (non si tratta di una semplice influenza, è un’influenza molto ma molto pericolosa), non illudiamoci di poter far finta di niente e vivere come se il covid non esistesse, non rinviamo tutto ad un ipotetico vaccino di cui non conosciamo tempi ed efficacia.

«So che tenere la mascherina è faticoso, anche io faccio molta fatica a portarla perché ho dei problemi respiratori. Ma se la tengo io per otto ore, non c’è nessuno in quest’aula che non abbia la possibilità di tenerla». È stato questo l’appello della deputata di Italia Viva Lisa Noja, affetta da amitrofia spinale, ai suoi colleghi, «ancora troppe volte richiamati dalla Presidenza perché tendono a non indossare mascherine».

È inutile nasconderlo, l’uso della mascherina, al di là del relativo disagio che può indubbiamente creare, è stupidamente diventato un segno di debolezza, la fastidiosa ammissione della propria impotenza di fronte alla malattia, il segno di una retrocessione umana e sociale, il simbolo della rassegnazione al fatalismo. A tanto arriva la nostra presunzione: non vogliamo ammettere di essere in evidente difficoltà e di dover ricorrere a misure che consideriamo troppo banali per essere seriamente adottate, troppo importune per essere accettate.

Dall’altra parte c’è però anche il rischio di uscirne con le ossa rotte: tormentati, condizionati, isolati e impoveriti. I media non ci stanno informando ma tormentando; gli scienziati non ci stanno aiutando ma ci confondono le idee; i politici, non tutti, danno pessimi esempi; gli operatori economici, sulla base delle loro oggettive difficoltà, costruiscono allarmismo e catastrofismo; il clima di incertezza e precarietà incombe su di noi come un macigno. E allora?

La situazione psico-sociologica che stiamo attraversando è complessa e difficile. Aggiungo in merito una bellissima frase che mi ha detto una cara persona mia conoscente: “Dobbiamo restare noi stessi”. Mi sembra che contenga tutto!  L’ho ringraziato per quel consiglio così semplice, ma così profondo. Poi ho ripensato: un invito solenne a rimanere agganciati all’educazione ricevuta, ai valori della Costituzione, al senso civico, all’esperienza storica dell’antifascismo, alla cultura democratica, alle scelte per la pace e la non violenza.

È positivamente interessante che il governo stia puntando in parallelo a due provvedimenti: la proroga dello stato di emergenza con ulteriori provvedimenti anti-covid e nuove norme in materia di sicurezza e immigrazione. Sono previste modifiche importanti, rispetto alla normativa varata su ispirazione dell’allora ministro Matteo Salvini, in merito ai requisiti in base al quale verrà concessa la protezione internazionale. Vengono inoltre abolite le maxi multe nei confronti delle navi Ong che entrano in acque territoriali italiani dopo aver soccorso i migranti. Si torna anche a un sistema di accoglienza in cui i Comuni avranno un ruolo di primo piano attraverso gli Sprar. Finalmente un piccolo ma significativo passo verso un modo di governare che ci aiuti ad affrontare le situazioni nuove e drammatiche, rimanendo noi stessi.

La manciniana corazzata Potëmkin: una cagata pazzesca

Tra le tante cose fatte più male che bene, nella mia ormai lunga vita ci sono le lezioni, meglio dire ripetizioni, che davo a un simpatico ragazzino, poco portato allo studio: era faticoso ficcargli in testa certe nozioni. Un giorno eravamo alle prese con la storia degli uomini primitivi e bisognava capire quale fosse stato il loro primo bisogno che cercavano di soddisfare: si trattava del bisogno di nutrirsi, di mangiare, di sopravvivere. Non c’era verso di cavargli di bocca questa deduzione molto elementare. Provai ad aiutarlo facendo un po’ di scena: gli facevo gesti e movimenti che potessero evocare la ricerca di energia, di nutrimento, di forza. Mi guardava con aria dubbiosa, poi ad un certo punto, come improvvisamente illuminato, sparò la risposta: lo sport! Risi a crepapelle. Anche lui rideva, ma non troppo. Probabilmente si chiedeva cosa avesse detto di così ridicolo ed assurdo da suscitare la mia ilarità. Infatti, se da una parte poteva essere ed era una cavolata buttata a vanvera, dall’altra rappresentava una corrente seppure distorta mentalità: un bisogno secondario diventava primario, addirittura l’incipit esistenziale assoluto. Lo sport che riempie la vita.

Ebbene, il commissario tecnico della nazionale di calcio ha chiosato le parole del ministro della salute sulla priorità dell’apertura delle scuole rispetto agli stadi: “Lo sport è praticato da milioni di italiani, è una parte importante della società. Gli impianti riaprano in percentuale, come altrove”. Durante una delle tante stucchevoli conferenze stampa, fatte per riempire il tempo in vista delle prove della squadra nazionale e per giustificare lo stipendio di un pletorico staff dirigenziale e di vere e proprie frotte di giornalisti sportivi abituati a (non) lavorare sul nulla, Mancini ha risposto in modo penoso alle recenti dichiarazioni del ministro della Salute, Roberto Speranza, il quale aveva detto testualmente: “Dobbiamo puntare le nostre energie sulle cose essenziali. La priorità sono le scuole, non gli stadi. Non possiamo correre rischi per riportare migliaia di persone negli stadi”.

Sollecitato da una domanda, Roberto Mancini ha commentato: “Si dovrebbe pensare, prima di parlare. Lo sport è un diritto di tutti esattamente come la scuola. É una parte importante della società, come l’istruzione e il lavoro. Lo sport è praticato da milioni di italiani. Resto della mia idea, non sono condizionabile. Sono a favore della riapertura degli stadi in percentuale, come avvenuto in tanta parte d’Europa. In Polonia troveremo 25.000 spettatori, forse di più e io sono solo contento”. La Gazzetta dello sport, tanto per stare dalla parte del manico, ci vede una diversità di vedute, ma probabilmente anche l’insofferenza per un atteggiamento pregiudiziale, riduttivo dello sport e del calcio in particolare, venuto a galla più volte, fin dall’inizio della pandemia; una sottovalutazione dell’impatto economico e sociale del calcio professionistico che muove un indotto enorme e, a cascata, alimenta lo sport di base. Che ha una sua essenzialità”.

A quel punto mi sono chiesto: ma cosa sta dicendo? Il c.t. è impazzito? E dire che sembrava una persona seria ed equilibrata. Ha fatto un tiro mancino e ha detto una cagata pazzesca! Il bello è che prima di spararla ha fatto una premessa, vale a dire che prima di parlare si dovrebbe pensare. Lo sport secondo la Costituzione manciniana è un diritto di tutti esattamente come la scuola: siccome si tratterebbe di una riforma costituzionale, proporrei un referendum confermativo. Sono sicuro che vincerebbero i “sì”, tanta è l’alienazione mentale che provoca il calcio nella testa di chi lo segue.

I commentatori di Rai sport, palesemente imbarazzati, hanno fatto i salti mortali dialettici per dargli ragione, ma soprattutto per difendere il loro posto di lavoro. In Italia c’è il diritto di esprimere in assoluta libertà le proprie opinioni. Mancini lo ha fatto e ora, nel mio piccolo, lo faccio anch’io e mi sciacquo la bocca. Lo sport, quello calcistico in particolare, può contare su un vomitevole assetto pseudo-professionistico e di puro mercato, ed è quindi un’attività economica come tante altre, meno trasparente di altre e soggetta come le altre al rischio d’impresa. La scuola non c’entra niente col calcio e il ministro Speranza ha detto la pura e sacrosanta verità: mancherebbe altro che si mettessero sullo stesso piano la pubblica istruzione e la privata, seppure consistente, passione (si dovrebbe definirla in modo assai più spregiativo) calcistica.

Si dice che il popolo italiano sia composto da circa sessanta milioni di commissari tecnici, cioè di tifosi candidati a guidare la nazionale. Temo che a differenza delle scelte tecniche che vedono l’allenatore sistematicamente sul banco degli imputati, questa volta forse il popolo sarà d’accordo con lui. Dopo le cazzate di Mancini, so di andare contro corrente, ci sarebbero gli estremi per uno sciopero del tifo, ma a quello purtroppo ci ha già pensato il coronavirus.

Quel simpatico ragazzino, a cui impartivo lezioni private e che nel frattempo sarà diventato un adulto ed oggi sarà un anziano simpatizzante del pallone, avrà forse letto o addirittura ascoltato le porcherie di Mancini e si sarà chiesto: “Cosa aveva da ridere quel cretino che mi voleva insegnare la storia? Avevo risposto giusto e lui faceva il furbo. Il tempo è galantuomo…”.

 

L’esame alla finestra della sofferenza

Di ritorno da certe visite a persone ricoverate in ospedale, dopo avere toccato con mano la sofferenza presente nelle corsie, mio padre si illudeva e addirittura teorizzava la conversione ad una vita migliore per chi fosse costretto o avesse comunque l’occasione di entrare a contatto con chi è colpito dalla malattia, portando in quel luogo soprattutto quanti osavano esternare impulsi di cattiveria. «A chi gh’à vója ‘d fär al cativ, bizògnariss portärol a far un gir in sert ospedäl: agh va via la vója sùbbit…». Pensava che ne sarebbero usciti purificati per sempre.

Purtroppo non è detto che l’esperienza diretta o indiretta della sofferenza induca a più miti consigli. Lo stanno a dimostrare le diverse reazioni avute da due vip dopo essere state colpite dal coronavirus. Con tutto il rispetto, la delicatezza e la comprensione del caso sono spinto a mettere a confronto il comportamento di Massimo Giannini, direttore del quotidiano La Stampa, con quello di Donald Trump. I due personaggi sono inconfrontabili, ma il paragone impossibile mi serve per sottoporre implicitamente all’attenzione il diverso taglio culturale. Faccio riferimento alle cronache apparse sul quotidiano La Repubblica.

Donald Trump si è levato la mascherina chirurgica con la quale era stato dimesso dall’ospedale subito dopo essere sceso dall’elicottero che lo ha riportato alla Casa Bianca. Lo ha fatto a favore di telecamera, mentre alzava i pollici facendo il segno del “va tutto bene”. Si spera non abbia l’intenzione di disobbedire alle indicazioni dei medici, girando senza protezione pure nella famosa dimora: col rischio di contagiare altri membri dello staff.

Fonti dei servizi segreti denunciano il malumore degli agenti di scorta: alcuni di loro sono risultati positivi, infettatisi viaggiando col presidente nei giorni precedenti alla conferma della malattia. “Siamo pronti a prenderci una pallottola per il presidente. Ma non una pallottola dal presidente…” dice una fonte, che vuol restare anonima, al corrispondente di Cnn, Jim Acosta.

Ma Donald Trump proprio non ne vuol sapere di mostrarsi ulteriormente debole e, nel Paese che ha superato i 7 milioni di contagi, in un tweet dice: “Non abbiate paura del Covid. Non fategli dominare le vostre vite”. E non spende una parola per gli oltre210mila già uccisi dal virus. ‘Trump ha sconfitto il Covid’ c’è scritto sulle nuove monete in vendita a 100 dollari l’una. A venderle online è il negozio che vende solo oggettistica legata alla Casa Bianca.  Il 20% dei fondi raccolti con la vendita delle monete sarà donato alle associazioni per la prevenzione del Covid e alla ricerca sul cancro. Ma il gesto di levarsi la mascherina appena rientrato alla Casa Bianca, lascia perplessi.

Massimo Giannini, risultato positivo dopo aver accusato qualche sintomo preoccupante, ha trascorso undici ore al reparto Covid del Policlinico romano Gemelli, tra i ricoverati e la paura del coronavirus. “Ho sentito tanti pazienti piangere e gridare di dolore” e il racconto di medici e infermieri su “quanto stiano crescendo i ricoveri urgenti” e su “come si stiano riaprendo le terapie intensive”.  Nell’ editoriale sul suo quotidiano racconta “La lezione che imparo dal Covid”, perché “qualche ora di visita in questi luoghi in cui si continua o si ricomincia a soffrire farebbe bene a ognuno di noi. Sarebbe una lezione utile”, scrive Giannini.

Il secondo motivo del suo editoriale “riguarda il nostro Paese e la nostra convivenza civile. Di fronte alla drammatica impostura dei negazionisti e alla cinica disinvoltura dei riduzionisti. Di fronte all’insofferenza degli imprenditori – aggiunge l’ex vicedirettore di Repubblica – e all’indifferenza dei giovani verso le restrizioni imposte dalle autorità politiche. Di fronte a un pericolo mortale: che scenda il Grande Oblio sulla tragedia che abbiamo vissuto tra marzo e aprile, sui diecimila morti soli senza l’ultima carezza e sugli ‘eroi in corsia’ che hanno dato la loro vita per salvare quella degli altri”.

Giannini, ospite in videocollegamento di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7, alla luce di quello che ha visto in ospedale, ha affermato che “dobbiamo stare tutti più attenti. Serve più attenzione e più rigore. Dobbiamo metterci una mano sulla coscienza e non dimenticare quello che abbiamo vissuto, perché anche se adesso non siamo in quella situazione, possiamo tornarci rapidamente se non facciamo attenzione”. Poi un nuovo appello rivolto “soprattutto ai giovani che devono avere grande senso di responsabilità, perché possono essere loro i principali veicoli del virus”.

Non c’è alcun dubbio, due diversi approcci, due modi di essere uomini prima che politici o giornalisti, due culture a confronto, due differenti e contrapposti esempi. La tentazione di chiosare il discorso è forte, ma mi faccio violenza, non aggiungo altro, mi limito ad indirizzare ad entrambi i miei auguri di pronta e totale guarigione.

 

Il teatrino calcistico dell’assurdo

Un mio conoscente, in vena di sparare parole forbite, sosteneva di avere raggiunto “l’epice” della propria carriera, così dimostrando purtroppo di avere raggiunto l’apice della sua ignoranza. Già che ci siamo mi sovviene lo strafalcione di un altro mio simpatico amico. Quando spuntava qualcuno, di cui aveva appena (s)parlato, esclamava: «Ecco, tabula rasa!». Voleva dire “lupus in fabula”, ma faceva lo stesso.

Lo stupidario calcistico non ha limiti. La mamma dei cretini pallonari è sempre incinta e in questi giorni ha partorito un’assurda polemica: mi riferisco al tira e molla conseguente alla positività al covid di due persone facenti parte della squadra del Napoli. Da una parte la FGCI che brandiva il protocollo secondo il quale il Napoli avrebbe dovuto scendere in campo contro la Juventus senza battere ciglio; dall’altra parte l’ASL campana che accampava il diritto/dovere di mettere in quarantena tutto il gruppo napoletano impedendogli di recarsi a Torino e di giocare la partita.

Non voglio scomodare Luigi Pirandello, ma la querelle sembra la versione comica del suo “così è se vi pare”. Chissà per quanto tempo si trascinerà questa discussione sul sesso del calcio. La ASL si è impuntata in nome della difesa della salute pubblica: volendo portare fino in fondo il discorso ci sarebbero gli estremi per chiudere i battenti dell’intero Paese e non solo della Campania. Ci siamo infatti dentro alla grande anche se non lo vogliamo ammettere e vogliamo negare l’evidenza di un ritorno alla grande della pandemia e finiamo col mettere in priorità tutto meno la salute pubblica.   Abbiamo desiderio impellente di normalità, ci stiamo rilassando più che distanziando, e il calcio lo impugniamo come la più grande arma di distrazione di massa. Come si permette quindi l’ASL di intromettersi e di rovinarci la festa?

La FGCI si è intestardita a difesa del proprio mondo: lo spettacolo deve continuare, facciamo finta che il covid non esista e alla fine vinceremo noi, non col vaccino ma col pallone. Così stanno facendo tutti e perché proprio il calcio dovrebbe essere più realista del re? La ASL si preoccupi di altre questioni. Quali? Faccia quel che vuole, ma non rompa le uova nel paniere calcistico! Abbiamo varato delle regole e a chi osa buttarcele all’aria peste lo colga (non ha importanza se la peste c’è già…).

Mentre il Napoli si è messo in quarantena seguendo scrupolosamente le disposizioni delle autorità sanitarie, la Juventus è scesa in campo seguendo rigorosamente le regole dettate dalle autorità calcistiche. Naturalmente ci puzza di opportunismo al limite del conflitto geo-politico. Staremo a vedere fin dove arriverà questa paradossale rissa pallonara. Prima o poi si scateneranno (in parte è già successo) le tifoserie sui social e ne leggeremo delle belle. Ai giornalisti non par vero trovare pane per i loro denti cariati.

E cosa c’entrano l’epice, la tabula rasa, il lupus in fabula da cui sono partito? Strafalcione chiama strafalcione, meditate gente… La FGCI ha raggiunto l’epice dell’assurdità; l’ASL ha tentato di fare tabula rasa; io ho fatto la parte del lupo come personaggio delle favole o come animale che porta i suoi interlocutori alla perdita della parola. In fin dei conti ho voluto solo sorridere un po’. “Tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena mi è diletto”. E quale sarebbe il bene? Ma è chiarissimo: lo spettacolo calcistico. E le pene in cosa consisterebbero? Ma è chiarissimo: il rischio di essere infettati. Forse però a pensarci bene, infettati li siamo già, nel cervello. Goal!

 

La pecora papale e i lupi curiali

Mio padre dava una interpretazione colorita e semplice delle situazioni aggrovigliate al limite della legalità. Diceva infatti con malcelato sarcasmo, facendo riferimento al palazzo del potere più fisicamente a lui vicino: «Bizoggna butär in tazér parchè a s’ris’cia ‘d mandär in galera dal comèss fin al sìndich, tutti invisciè…». Se volete, una sorta di versione da osteria della impostazione affaristico-massonica della nostra società, che purtroppo ben si attaglia alla situazione della Curia vaticana. Si temeva e si sapeva che sotto la cenere del conservatorismo clericale covasse il fuoco dell’affarismo nelle alte gerarche vaticane. L’input del conclave a Bergoglio era stato proprio quello della pulizia nei sacri palazzi e il papa eletto aveva immediatamente capito l’antifona, scegliendo il nome più rivoluzionario che poteva: Francesco.

La società corrotta “spuzza” ha detto con grande incisività il papa e “spuzza” in parte la gerarchia cattolica nascosta nelle stanze vaticane. Stanno uscendo le testimonianze di monsignor Alberto Perlasca, assistente dell’allora cardinale Angelo Becciu all’interno della Segreteria di Stato, davanti ai promotori di giustizia vaticani: stando ai media – peraltro lanciati in una discutibile corsa allo scoop che, ad onor del vero, rischia di fare più confusione che verità – si aprono scenari inediti. Sembra addirittura che la creazione di un sistema economico parallelo servisse a Becciu per gestire “organicamente” il potere, creare dossier per screditare rivali, funzionari o uomini vicini a Papa Francesco che avrebbero potuto interrompere i piani dell’allora Sostituto alla segreteria.  Robe da matti anche per la chiesa “casta meretrix”, coraggiosamente e realisticamente ipotizzata, se non erro, da sant’Ambrogio.

Forse è iniziata l’epoca dello scoperchiamento della pentola curiale e cosa ne uscirà è difficile da prevedere. Papa Francesco, come afferma il ben informato padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà cattolica, l’autorevole rivista dei Gesuiti, non è un ingenuo e non è un pontefice naif: ha avviato infatti un processo di purificazione profonda. Consapevole dell’assoluta necessità di promuovere e concretizzare una grande riforma strutturale all’interno della Chiesa, preferisce però partire da una riforma spirituale mettendo il Vangelo al centro di tutto e confidando nella forza del messaggio cristiano. In un certo senso sembra quasi che predichi bene e lasci razzolare lo Spirito Santo: vai avanti tu, perché a me scappa da ridere…

Il nodo della riforma incombe e incalza sempre più considerato il fatto che le strutture vaticane sono assai impermeabili rispetto ai reiterati richiami pontifici: lascia che dica, prima o dopo si stancherà… Penso che la schematizzazione dicotomica fra riforma spirituale e riforma strutturale lasci il tempo che trova e finisca per chiudere la Chiesa nel pollaio in cui non si capisce se venga prima l’uovo o la gallina. Effettivamente il papa sembra più orientato ad alimentare la pentola spirituale che non a scoperchiare quella strutturale: ha varato in modo “anomalo” e fuori da Roma la sua terza enciclica, visitando a sorpresa il monastero Valle Gloria di Spello e la chiesa di Santa Chiara, prima di giungere al Sacro Convento, per firmare sulla tomba di San Francesco la “Fratelli tutti” (il titolo è già un programma). Basterà l’affidamento al più grande dei Santi a sconfiggere l’andazzo clerico-conservatore-affaristico che imprigiona la Chiesa istituzione e “sputtana” la Chiesa comunità?

La predicazione del pontefice non si ferma peraltro alle parole, ma fa risuonare la musica dei gesti eloquenti ed emblematici come non mai: quelli che affascinano il popolo di Dio. A livello spirituale Francesco non è solo: può contare sull’aiuto dello Spirito Santo (sic!), sulle evocate e insistenti preghiere dei cattolici sparsi nel mondo (almeno quelli a lui favorevoli e sono tanti!), sulla protezione di San Francesco (non è poca cosa!), sul “tifo” sincero dei poveri, che dovrebbe valere molto di più delle truffaldine manovre dei ricchi.

Può darsi però che Gesù Cristo ad un certo punto consigli al suo vicario: aiutati che il ciel t’aiuta! E allora non ci sarà più tregua per le gerarchie in vena di potere e di intrallazzi col potere.  Intanto che c’è, Gesù Cristo potrebbe dargli un altro consiglio, spiegandogli che ai poveri che muoiono di fame bisogna aggiungere anche coloro che sono sopraffatti dal dolore, dal fallimento del loro matrimonio, dalle discriminazioni sessuali, dai drammi famigliari, dalle maternità difficili ai limiti dell’impossibile. Qualcosa (forse molto) il papa ha fatto in queste delicatissime materie, ma una flebo di coraggio non gli farebbe male. In conclusione, la pentola dell’affarismo curiale va scoperchiata, quella della spiritualità evangelica va alimentata e portata ad ebollizione. E quella del dogmatismo? Il brodo ristretto che in essa resiste va allungato e raffreddato con l’acqua fresca della carità.

 

Il diavolo fa le pentole e i coperchi

Due sconvolgenti fatti di cronaca mi inducono a riflessioni originali e personali. Due fidanzati vengono uccisi a coltellate da un loro conoscente che ha premeditato e pianificato il delitto: «Erano troppo felici e li ho uccisi per invidia». Un movente troppo assurdo per essere plausibile, troppo plausibile per essere assurdo.

Un ragazzo di 11 anni è morto lanciandosi dal balcone di casa, all’undicesimo piano, nel cuore della notte. Polizia e Procura, che stanno indagando sull’accaduto, ipotizzano il reato di «istigazione al suicidio». Il ragazzo, prima di scavalcare la ringhiera, avrebbe scritto un bigliettino nel quale chiede scusa alla mamma e fa riferimento a uno stato di paura vissuto, secondo quanto si apprende, alle ultime ore di vita: «Mamma, papà vi amo ma devo seguire l’uomo col cappuccio». L’undicenne allude, in particolare, a un uomo nero, e gli inquirenti non escludono possa essere stato vittima dei cosiddetti «challenge dell’orrore», del tipo «blue whale», un gioco che si svolge totalmente on-line, che comprende atti di autolesionismo fino al suicidio. Secondo quanto emerso finora, sembra che il ragazzo fosse sano e felice, praticasse sport e fosse perfettamente integrato.

Siamo di fronte a morti inspiegabili: o sfugge qualche elemento tale da giustificare simili vicende oppure siamo in presenza del male fine a se stesso, il male per il male. “È vero che la vendetta non risolve il problema, ma per pochi istanti ti senti soddisfatto”: così ha scritto l’omicida sul proprio profilo facebook. Nel secondo caso forse siamo addirittura alla morte procurata per gioco.

Chiedo scusa a psicologi, criminologi e sociologi: le loro analisi e le loro motivazioni non mi convincono affatto. Mi rifugio nel confronto assai poco scientifico, ma tanto umanamente palpitante, tra i miei genitori. Mia madre così come era rigorosa ed implacabile con se stessa era portata a giustificare chi delinqueva, commentando laconicamente: “Jén dil tésti mati”. Mio padre invece, con arguta ironia non credeva alle assurde giustificazioni riconducibili alla follia di un momento, alla patologia criminale, al delirio psicologico e, in un simpatico gioco delle parti, ricopriva il ruolo di intransigente accusatore: “J én miga mat, parchè primma äd där ‘na cortläda i guärdon se ‘l cortél al taja.  Sät chi è mat? Col che l’ ätor di l’ à magnè dez scatli äd lustor. Col l’ é mat!”.

Non mi sento neanche di buttare la croce addosso alle famiglie, alla scuola, alla società in genere: sono stanco di questo datato scaricabarile sociologico. Certo, le crisi possono creare il brodo di coltura, ma ci vorrà pure qualcuno che metta in pentola il crimine. Come ho già scritto altre volte, non mi ritengo un fanatico che vede il diavolo aggirarsi nelle nostre strade, ma qualche dubbio atroce mi coglie. Mi risulta che papa Paolo VI, dopo avere dialogato con il professor Vittorino Andreoli, noto criminologo e famoso psichiatra, lo abbia accompagnato cortesemente all’uscita, suggellando in modo inquietante lo scambio di opinioni che avevano avuto: «Si ricordi professore che il diavolo esiste!».

Cos’è che dà un carattere demoniaco a questi episodi. Ce ne sono tante di vicende malefiche, ce ne sono sempre state…Che evoca una presenza demoniaca attiva è la strada senza uscita, una sorta di inevitabile baratro a cui certi fatti conducono. La psicologia, la sociologia, l’antropologia, la criminologia, la medicina, persino la letteratura, ammutoliscono.  Quando il male viene commesso per il gusto di fare male, senza nessuna motivazione, senza ogni e qualsiasi ragione insana e/o patologica, devo arrendermi all’evidenza: ci puzza di zolfo. Il demonio va accanto a chi si mette in condizione di ospitarlo, ma sa giocare anche in proprio.

Non mi sembra una fuga dalle responsabilità umane ed etiche, ma l’ammissione di una debolezza davanti a cui le forze del male vanno a nozze. Il miglior esorcismo credo sia essere coerenti con la propria fede per chi ce l’ha, essere fino in fondo creature umane per chi crede comunque che non siamo su questa terra per fare una folle scampagnata in compagnia dei nostri istinti satanici.

 

 

Le cinque candele del “Dibba”

“Così facendo si andrà verso una direzione di indebolimento del Movimento 5 Stelle e si diventerà un partito come l’Udeur, buono forse più per la gestione di poltrone e di carriere. Non è quello per il quale ho combattuto”. Queste le parole di Alessandro Di Battista nell’intervista andata in onda nel corso della trasmissione ‘Piazzapulita’. Ha inoltre definito l’alleanza strutturale con il Pd “la morte nera”. Poi, l’accusa più dura: “Ci sono persone – dice – che spingono per la leadership collegiale perché c’è il pericolo che il capo diventi io, la verità è questa”.

Gli consiglierei innanzitutto di dare una ripassatina alla storia anche se a rinfrescargli la memoria ci ha pensato tempestivamente Clemente Mastella, fondatore nel 1999 dell’Udeur, un partito politico italiano legato ai valori del cristianesimo democratico, un’anima in pena alla ricerca di uno spazio autonomo tra il centro-destra caratterizzato dal berlusconismo imperante da una parte e dall’altra parte il centro-sinistra frastagliato e alla ricerca di un minimo di identità unitaria.

Mastella non ha risposto in punta di forchetta ed è andato giù durissimo: “Questo Robespierre dei miei stivali manifesta l’intenzione di prendersela con i suoi e chiama in causa il mio Udeur. Che era una cosa molto seria a differenza di questo gruppo di “personaggetti” senza cultura, insignificanti e loro sì davvero legati al potere”. E dunque, non prima di aver ricordato che lui con l’Udeur aveva il peso di determinare il destino dei governi e di aver ottenere per questo risultati politici importanti, si è tolto il macigno che si portava nei mocassini da più di un decennio: “A lui potrei dire soltanto una cosa: vaffa. Come voi dicevate a me quando, con Beppe Grillo e gli altri vi divertivate a Bologna. Ora mi diverto io. Vaffa, carissimo Di Battista: sei un grande leader mondiale dell’idiozia politica”.

In secondo luogo sarebbe più che opportuno per Di Battista un bel bagno di umiltà. Solo lui è così pieno di sé da non capire che il M5S senza Beppe Grillo non sarebbe mai nato, non avrebbe avuto i trascorsi successi elettorali e non avrebbe alcun futuro dopo i reiterati tracolli dei consensi? Si considera il salvatore del movimento? Finora non si è capito cosa voglia e cosa faccia e forse non lo sa neppure lui. Non pensavo che Grillo avesse tanta pazienza da sopportare queste nullità che osano autoconsiderarsi interpreti autentici del grillismo.

La morte nera non è l’alleanza strutturale col Pd, ma la deriva spontaneista e piazzaiola di un partito che è nelle istituzioni, che è al governo e che pensa di tenere i piedi in due paia di scarpe, se non addirittura in tre: al governo col Pd, semmai al governo con la Lega e forse, ancor di più, fuori dagli schemi a soffiare sul fuoco dell’antipolitica. Gli italiani hanno aperto gli occhi e non sarà certo Di Battista a richiuderli o a foderarli con il prosciutto vetero-grillista stagionato nel salumificio “Dibba”.

Silvio Berlusconi voleva mandare i grillini a pulire i cessi di mediaset: non si è sbagliato di molto, c’è voluto un po’ di tempo, ma sono in vista delle latrine di Camera e Senato, anche se hanno voluto ridimensionarle. Clemente Mastella li definisce personaggetti senza cultura: non si sbaglia di molto, sono dietro la lavagna a scrivere le aste e i puntini della politica. Beppe Grillo ha capito tutto, sta cercando di salvare il salvabile e li lascia dire non so fino a quando. Se li sento parlare di Stati Generali, mi viene da ridere. Siccome Mastella una certa cultura ce l’ha, ha colto nel segno definendo Di Battista un Robespierre da baraccone.

Mia madre di fronte a certe cavolate messe in atto dalla Chiesa si rifugiava in una battuta laconica e spassosa: “Za il cézi j én mezi vódi, se j a vólon vudär dal tutt, chi fagon pur!”. Io provo a girare il ragionamento sul M5S e Alessandro Di Battista: “Za i urni j én mezi vódi, se j a vólon vudär dal tutt, chi fagon pur, chi metton segretäri Di Battista e acsì il sincov stéli i se zmorson cme sincov candéli!”.

 

 

 

 

Sfida statunitense e sfiga mondiale

Durante una campagna elettorale in cui si contrapponevano Berlusconi e Prodi, Roberto Benigni, con la sua impareggiabile verve ironica, disse nel pieno di una trasmissione televisiva della Rai, fregandosene altamente della par-condicio: «Io non sono di parte, ma Berlusconi non mi piace…».  Non ho l’autorevolezza del grande Benigni, ma provo ad imitarlo: «Seguo la campagna elettorale americana con molto scetticismo, ma detesto Trump…».

Un tempo non avrei esitato ad alzarmi da letto in piena notte per seguire la diretta televisiva del dibattito Trump-Biden. L’altra notte me ne sono stato a letto e mi sono accontentato di leggiucchiare i commenti del giorno dopo. Perché? Due i motivi. Uno di carattere anagrafico riconducibile alla mia anzianità, che mi toglie vigoria fisica (per il momento, ringraziando il cielo, non mentale).  L’altro di ordine politico: si intuisce chiaramente che lo scontro, in vista delle presidenziali Usa, è di infimo livello e quindi scappa la voglia di interessarsene e di “tifare” per uno dei due candidati.

Il dibattito presidenziale a tratti è stata una rissa verbale: i due candidati si interrompevano a vicenda e parlavano uno sopra l’altro. Volavano anche insulti. Biden: “Sei un bugiardo e un clown”. Trump: “Non c’è nulla di intelligente in te”. Temo che avessero entrambi ragione da vendere e che i “complimenti” scambiati siano le reciproche nitide loro fotografie.

L’immagine di Trump sta venendo fuori in tutte le sue possibili e immaginabili sfaccettature negative: ultima e non ultima la patente di evasore fiscale.  Biden è scialbo, sembra capitato lì per caso, non è all’altezza del compito. Possibile che uno stato democratico con storia e tradizione, seppure contraddittorie, come gli Usa non riesca a mettere in campo niente di meglio? La pochezza statunitense la dice lunga sulla vacanza (irreversibile?) della politica. Stiamo assistendo allo scontro fra l’affarismo fatto politica e la politica fatta mantenimento dello status quo. Il resto è patetica scena mediatica.

Corte Suprema, gestione dell’emergenza Covid-19, economia, rivolte razziali, integrità delle elezioni, rispettive carriere politiche: per novanta fittissimi minuti i due hanno litigato intorno ai sei grandi temi scelti dal conduttore di Fox News Chris Wallace. Stando ai sondaggi sembra che “il duello” non abbia spostato nemmeno un voto. Forse Biden ha vinto la battaglia sul piano della decenza, ma è tutto da dimostrare che gli serva di fronte ad un elettorato alla ricerca dell’indecenza.

Problemi enormi a fronte dei quali si evidenzia una clamorosa inadeguatezza dei candidati alla presidenza. Non ripetiamo l’errore di quattro anni or sono, quando in molti alzavano le spalle e ributtavano la merda oltreoceano, illudendosi di poter prescindere dalla (non) guida politica statunitense.  Quella merda ce l’abbiamo addosso e non riusciamo a scrollarcela di dosso.  Ce ne sta arrivando addirittura una seconda ondata.

Ho l’impressione di assistere ad una sceneggiata, per la quale, come succede in certe fiction, sono previsti due finali uguali e contrari, con l’imprevisto dello stallo post-elettorale con tanto di coda di ricorsi e riconteggi, degni di una finta democrazia. Infatti durante il dibattito, quando si è passati a un tema serissimo come il voto postale, erano tutti esausti. L’ex vicepresidente invitava a votare ormai spompato. L’altro ripeteva meccanicamente “è una vergona, una frode”. “Finirà male”, diceva Trump. “Hai solo paura”, concludeva Biden. Mio padre diceva con molta gustosa acutezza: «Se du i s’ dan dil plati par rìddor, a n’è basta che vón ch’a guarda al digga “che patonón” par färia tacagnär dabón».

Sono contento di non avere la cittadinanza statunitense perché sarei in serio imbarazzo. Alla fine, seguendo il consiglio montanelliano, mi turerei il naso e voterei Joe Biden. “Putost che nient (Trump) è mej putost (Biden). Anzi, piuttosto che “un capace di tutto” è meglio “un capace di niente”.