Il mondo governato dal totalitarismo economico

Il Nobel per la pace è stato assegnato al Word Food Programme, una delle agenzie dell’Onu, che dal 1961, anno in cui è stata fondata, si occupa di assistenza alimentare: dallo Yemen alla Siria, 17 mila dipendenti sul fronte di 83 nazioni per assistere 90 milioni di persone. Manoj Juneia, vice-direttore esecutivo e direttore finanziario del Fondo premiato dichiara: «Pace e fame sono collegati. Il mondo non potrà mai eliminare la fame se non c’è la pace, e finché c’è fame non ci sarà la pace. Dove c’è fame i conflitti peggiorano. Dove ci sono povertà e diseguaglianze, c’è più disperazione. In 80 Paesi su cento, fra quelli dove dobbiamo intervenire, c’è un conflitto». Sulle modalità di intervento del Fondo spiega: «Oggi il 40% della nostra assistenza è in pagamenti cash: trasferiamo il contante alle persone in difficoltà, solo una piccola parte dei nostri aiuti è in beni alimentari e va nei Paesi dove non c’è un mercato. Noi siamo al fronte. Se la Fao è il ministero dell’Agricoltura di tanti Paesi, noi siamo i vigili del fuoco».

Vandana Shiva, l’indiana scienziata di punta nell’attivismo della sostenibilità, chiede con vigore che il premio Nobel al Word Food Programme sia l’occasione per porre con forza l’obiettivo di garantire a tutte le genti del mondo una sana e corretta alimentazione, oltre che educazione, salute, lavoro e rispetto.

Quanto al collegamento fra le due piaghe della fame e del coronavirus afferma che «chi ha fame si indebolisce e diventa più vulnerabile. Poi, la crisi economica flagella Paesi già poveri che vedono compromesso il delicato ma cruciale equilibrio che avevano faticosamente costruito: produzioni agricole biodiverse ed ecologiche realizzate con criteri di rispetto dell’ambiente e di circolarità delle risorse».  Vandana Shiva aggiunge coraggiosamente una denuncia: «È atroce pensare che un ristrettissimo numero di miliardari sta aumentando la propria ricchezza durante la pandemia e i lockdown. Lo stesso pugno di uomini decide come cibo, salute, educazione devono essere organizzati. Nel mondo con c’è più una democrazia diffusa, ma un totalitarismo economico: è questo il problema centrale su cui concentrarsi; non è più sostenibile che centinaia di milioni di persone debbano fuggire lontano per sopravvivere o vengano spossessate dei loro beni. Siamo una sola umanità e dobbiamo sentirci vincolati da un obbligo di solidarietà. I ricchi aiutino i poveri e tutti mettano da parte i pregiudizi e le divisioni razziali, culturali, religiose. Purtroppo queste fratture vengono amplificate dal “divide et impera” che sembra inestricabile nei governi e negli individui economicamente e politicamente più potenti. Invece dobbiamo difendere i nostri comuni diritti, dal cibo al lavoro».

Finalmente voci autorevoli che ci provocano e ci portano a riflettere seriamente e ad affrontare i problemi al di sopra delle nostre quotidiane bagatelle. Proseguo inoltre nell’utilizzo del pensiero del Papa non tanto per farne una celebrazione o una incensazione che lasciano il tempo che trovano, ma per aggiungere, in diversi casi, chiose che mi mettono in crisi nel modo di concepire la mia vita e quella del mondo in cui sono inserito.

Scrive papa Francesco nella sua recentissima enciclica “Fratelli tutti”: “Molte volte si constata che, di fatto, i diritti umani non sono uguali per tutti. Il rispetto di tali diritti «è condizione preliminare per lo stesso sviluppo sociale ed economico di un Paese. Quando la dignità dell’uomo viene rispettata e i suoi diritti vengono riconosciuti e garantiti, fioriscono anche la creatività e l’intraprendenza e la personalità umana può dispiegare le sue molteplici iniziative a favore del bene comune». Ma «osservando con attenzione le nostre società contemporanee, si riscontrano numerose contraddizioni che inducono a chiederci se davvero l’eguale dignità di tutti gli esseri umani, solennemente proclamata 70 anni or sono, sia riconosciuta, rispettata, protetta e promossa in ogni circostanza. Persistono oggi nel mondo numerose forme di ingiustizia, nutrite da visioni antropologiche riduttive e da un modello economico fondato sul profitto, che non esita a sfruttare, a scartare e perfino ad uccidere l’uomo. Mentre una parte dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata e i suoi diritti fondamentali ignorati o violati». Che cosa dice questo riguardo all’uguaglianza di diritti fondata sulla medesima dignità umana?”.

Il covid sotto il tappeto

La situazione pandemica è gravissima. Sì, ma solo un pochettino. Da una parte siamo bombardati da notizie allarmanti e dati drammatici, dall’altra il governo se ne esce con una ridicola raffica di “provvedimentucoli” che fanno il solletico al coronavirus.

Tutti pontificano sulla difficoltà di contemperare le esigenze della sopravvivenza fisica con quelle della sopravvivenza economica: detto questo è detto tutto e niente. Le difficoltà vanno affrontate e non descritte per poi essere aggirate e/o rinviate.

Ci stanno portando in giro. Forse sarebbe meglio non fare niente, smetterla di ossessionare la gente e lasciare che si ammali ed eventualmente muoia senza funerali anticipati. Dobbiamo ammetterlo: abbiamo una classe politica inadeguata alla gravità della situazione. Non ce la fanno proprio. Stanno offrendo, a tutti i livelli, uno spettacolo indecente. Nessuno pretende miracoli, ma un po’ di decisionismo e soprattutto di impegno serio e continuativo. Mi si dirà che la deriva della politica governante è così in tutto il mondo: mal comune è mezza disperazione!

Non so se la ripresa della pandemia dipenda anche da comportamenti irresponsabili dei cittadini. Certamente esiste anche questo fattore col quale fare i conti, ma che dovrebbe essere almeno in parte prevenuto e ridimensionato da seri interventi a monte di governo e di controllo. Mi sembra stia succedendo esattamente il contrario: l’insipienza dei pubblici poteri favorisce l’incoscienza e la sventatezza della gente. Si sta facendo strada la convinzione che tutto sia inutile e quindi che tutto sia consentito.

Forse sono spietatamente critico, ma, osservando dall’esterno l’attività di chi svolge funzioni pubbliche di un certo livello, ho l’impressione di un girare a vuoto: chiacchiere in una situazione bisognosa di decisioni e di fatti. Non c’è un briciolo di carisma, di personalità, di credibilità, di ascendente, di prestigio. Non vorrei che il virus intaccasse anche il rapporto tra governanti e governati, sarebbe un vero disastro: lo sto sperimentando sulla mia pelle.

Paolo Jannacci, musicista, figlio del leggendario Enzo, in una recente intervista al quotidiano La Repubblica, ha tirato un’amara, emblematica conclusione: “Mi colpisce il blocco dello sport dilettantistico, che forse è quello restato vero sport e non business”. Infatti si tratta dell’eloquente esempio di come venga affrontato in modo blasfemo il rapporto tra salute ed economia. Non solo lo sport messo demenzialmente sullo stesso piano dell’istruzione, ma all’interno del discorso sportivo viene privilegiato il carrozzone affaristico. Mi ero illuso che il mondo dello sport professionistico venisse ridimensionato e costretto nell’angolo. Gufavo pensando che tutto il mal non venisse per nuocere, invece vince sempre il più forte. Sta succedendo a livello mondiale dove i ricchi non piangono, ma fanno affari d’oro; sta succedendo a livello nazionale dove si capisce benissimo come certi interessi non possano essere nemmeno sfiorati.

Strada facendo il covid sta svilendo tutti i nostri pregi ed esaltando tutti i nostri difetti. Sarà questo il significato dello slogan “niente sarà più come prima”? Il governo ha passato la patatina bollente dei lockdown in miniatura ai sindaci, che potranno decidere di chiudere dalle 21 strade o piazze a rischio assembramento: un goffo e vergognoso escamotage per non decidere e scaricare il barile. È pericoloso che non si sappia che pesci pigliare, ma è assai peggio fare i pesci in barile.

 

Speriamo che il papa perda la pazienza

Il segretario di Stato Vaticano Pietro Parolin (65 anni) non fa più parte della Commissione cardinalizia di controllo sullo Ior. La decisione del Papa è stata comunicata il 21 settembre, tre giorni prima della “destituzione” del cardinale Angelo Becciu. Parolin che era stato nominato il 16 dicembre 2013, sarà rimpiazzato dal cardinale italiano Giuseppe Petrocchi arcivescovo de L’Aquila, che secondo il solitamente ben informato periodico spagnolo Religio Digital potrebbe essere addirittura il prossimo Segretario di Stato. Il Papa ha anche cambiato altri due cardinali commissari dello Ior, con il prefetto di Propaganda fide, il filippino Louis Tagle (considerato come il delfino di Papa Francesco) e con l’elemosiniere pontificio, il polacco Konrad Krajevskj. Due scelte che la dicono lunga sulla volontà del Papa circa la natura dello Ior, l’Istituto per le opere di religione, il cui Statuto è stato cambiato l’anno scorso, e da cui è partita la denuncia che nel luglio 2019 ha dato il via alle indagini della magistratura vaticana sul palazzo acquistato a Londra dal finanziere Raffaele Mincione.

L’indomani della destituzione del cardinal Becciu mi ero chiesto: possibile che il cardinale Pietro Parolin, di cui Becciu era il sostituto, non sapesse niente di niente? Il fatto che anche lui, seppure in modo assai più felpato e parziale, sia stato ridimensionato è una risposta indiretta alle mie perplessità. C’è aria di “pulizie in corso” nella curia vaticana: era ora! Fino a questo momento il Papa ha cercato di circondarsi di uomini di Chiesa affidabili e a lui fedeli: non è infatti possibile che lui in prima persona possa seguire e controllare tutto. Queste mosse fino ad ora si sono rivelate discutibili se non addirittura sbagliate e la nave curiale rimane in alto mare sbattuta dalle onde dell’affarismo. Speriamo che le nuove scope individuate possano scopare meglio.

Il punto debole dei papi da molto tempo si è rivelato quello della curia a cui devono comunque fare riferimento (in parte un falso o almeno relativo problema come dirò più avanti): forse esagero, ma hanno questa spina nel fianco, che li condiziona laddove non ne impedisce addirittura la nomina.

Pio XII era diretta emanazione della Curia e quindi forse non ebbe grossi problemi: la conosceva come le sue tasche e riusciva a dominarla. Puntavano a controllare Giovanni XXIII e invece si sbagliarono di grosso, anche perché lui i meccanismi curiali li aveva presenti e quindi sapeva prevenirli e sopportarli. Papa Montini era stato allontanato dalla curia e promosso vescovo di Milano: poi se lo ritrovarono fra i piedi e non ho mai capito che rapporto fosse riuscito ad instaurare Paolo VI con le stanze vaticane. Giovanni Paolo I, detta come va detta, morì sotto il peso dello Ior e degli scandali relativi. Giovanni Paolo II se ne fregò altamente e andò per la propria strada: non il modo migliore per affrontare il problema. Benedetto XVI, pur facendo parte di questo mondo, se ne stette in disparte, avvertì chiaramente la sporcizia esistente nella Chiesa, ma non mise il dito nelle piaghe, preferendo dedicarsi alle questioni teologiche in cui era indiscusso maestro.

Papa Francesco, per quanto concerne la riforma della Chiesa nelle sue strutture istituzionali e curiali, è arrivato come un dilettante allo sbaraglio al quale si chiedeva tuttavia di scalare il monte Everest: si è dovuto fermare ben prima della cima anche perché costretto a combattere a mani nude contro gente agguerrita, esperta e furba. Dopo sette anni è purtroppo ancora (quasi) al punto di partenza: forse avrà tagliato qualche coda, ma non ha certamente raggiunto la testa. Non lo invidio in questa operazione difficilissima e rischiosa: non è un ingenuo e indubbiamente sa quel che vuole. Ciò non toglie che abbia problemi enormi da affrontare.

Peraltro forse gli ostacoli non gli arrivano solo dalla Curia e dalle segrete stanze vaticane: papa Francesco si trova nel bel mezzo di un tiro incrociato di cui lui è bersaglio. Agli affaristi che brigano e tramano nell’ombra, si aggiungono e temo si affianchino i conservatori, i quali, dietro una difesa di facciata della tradizione e dei principi ad essa riconducibili, nascondono il timore per una Chiesa sdogmatizzata, sregolata, priva di potere, aperta, povera e scomoda.

Però ci sono anche i progressisti (tra i quali mi colloco), i quali, pretendono quasi l’impossibile, come i membri dell’episcopato tedesco: essi puntano ad uno stile sinodale e coinvolgente verso i laici ed hanno nelle questioni del celibato sacerdotale, del presbiterato femminile, delle unioni fra omosessuali, dei divorziati risposati, della morale sessuale in genere, le punte di diamante delle loro battaglie. Qualcuno arriva a paventare un vero e proprio scisma: fino ad ora era l’ala conservatrice, curiale e statunitense, a scalpitare e minacciare, adesso il pericolo verrebbe addirittura da “sinistra”, anche perché la “destra” trova sempre il modo di conservare il potere, mentre i progressisti puntano molto più in alto. Non credo si arriverà a tanto, però il clima è veramente difficile e imbarazzante.

Il papa è lì col vangelo in mano, l’unica arma teologica che si è scelto, e da questo punto di vista nulla da eccepire (mancherebbe altro…). L’altra scelta riguarda lo stile di comportamento, fatto di gesti apparentemente non risolutivi, ma eloquenti e indicativi. Qui c’è spazio per fare qualcosa di più: abbia il coraggio di aprire concretamente su certi temi. Nessuno pretende che sostituisca tutti i cardinali con donne impegnate sul piano ecclesiale oppure che crei altrettanti cardinali fra i laici arrivando ad una sorta di quota paritaria fra sottanoni celibatari e gonne autenticamente femminili o fra clero e laicato. Anne Soupa, teologa e biblista francese si è candidata come vescova di Lione ed è convinta che solo affidando responsabilità al mondo femminile si potrà fermare il declino della Chiesa (sono perfettamente d’accordo!). Questa battagliera fondatrice ed esponente del “Comitè de la Jupe” (comitato della gonna) sostiene che papa Francesco non abbia avuto il coraggio di esprimersi a favore del sacerdozio femminile e il fatto che dia incarichi amministrativi alle donne sia un contentino.

Gesù risorto è apparso prima a Maria di Magdala che agli apostoli: gesto più chiaro di quello… Ho invece l’impressione che Bergoglio tenda a sacrificare certe delicate ma inevitabili questioni identitarie a beneficio delle scelte verso i poveri: un compromesso assurdo, che finirebbe con lo scontentare e disorientare tutti. Della serie: niente sacerdozio alle donne, ma tanta attenzione agli ultimi. Anche la recente enciclica non ha sopito le velleità, ma anzi ha spaventato ulteriormente gli uni (già alla ricerca di liberistici paraventi dietro cui nascondere l’istinto doroteo di conservazione) e solleticato gli appetiti degli altri (ora o mai più).

Mi chiedo in conclusione: è possibile che la Chiesa abbia tali cappe di piombo sulla testa e tali schematismi nel petto? Oltre che pregare, cosa si può fare per rompere questi equilibri che impediscono di vedere un po’ di cielo? Quando nel 2013 fu eletto papa non ebbi il minimo dubbio che quella volta lo Spirito Santo fosse arrivato in tempo utile ed infatti, col suo nome e con i suoi gesti, ha dimostrato di avere un filo diretto con la Trinità. “Non dimenticatevi di pregare per me”: non è un ritornello di maniera, è sicuramente frutto della consapevolezza della gara durissima che sta vivendo e per la quale non è sufficiente partecipare, ma bisogna vincere nel cuore dei cristiani. Auguri papa Francesco! Sto dalla sua parte e aspetto con fiducia.

 

Nel deposito delle occasioni perse

Sono in attesa, come tutti, dei nuovi provvedimenti governativi finalizzati a contrastare la forte ripresa del coronavirus. Mi viene spontaneo però prima di pensare al nuovo, ripensare al vecchio, vale a dire alle occasioni buttate al vento in questi ultimi mesi di relativa tregua. Come afferma l’aforista americano Mason Cooley, rimpiangere il tempo sprecato è ulteriore tempo sprecato, ma non resisto alla tentazione e quindi spero di non cadere nel fastidioso atteggiamento del grillo parlante, di non piangere inutilmente sul latte versato, di non entrare per mettere ordine nel grande deposito delle occasioni perse e degli appuntamenti mancati, di non farmi influenzare più di tanto dalle sacrosante critiche circolanti (quelle del professor Massimo Cacciari in particolare, a cui peraltro faccio riferimento).

Pongo una premessa: le manchevolezze non riguardano solo il governo centrale del Paese, ma anche Regioni e Comuni; non dimentichiamo che le Regioni sono dotate di poteri enormi in materia sanitaria e non solo e rivendicano sempre maggiore autonomia salvo poi dimostrarsi molto spesso non all’altezza della situazione; ognuno ha la sua parte di responsabilità correlata alle proprie competenze. Forse la principale carenza è quella di non essere riusciti a fare squadra a livello istituzionale, rimanendo imprigionati nella confusione dei ruoli, presi dalla preoccupazione di scaricare il proprio barile anziché di farsene carico.

Ma vengo al merito delle questioni e parto dal fondo, dalla struttura assistenziale e sanitaria che ha evidenziato grosse carenze. Pur considerando i tempi stretti e le difficoltà oggettive, si poteva e doveva fare di più, potenziando le terapie intensive, i reparti ospedalieri, il personale sanitario, invece ho la sensazione che l’idea del peggio che sembrava passato abbia creato una sorta di rilassatezza comprensibile ma colpevole.

Fin dall’inizio si era capito che non funzionava il meccanismo dei tamponi: ebbene a distanza di otto mesi si registrano code interminabili e ritardi inammissibili. Riuscire a diagnosticare per tempo e in breve tempo la malattia è certamente un importante punto d’attacco: se il nemico non lo vedi e non lo individui con una certa precisione, come fai a combatterlo efficacemente?

A livello di prevenzione bisognava puntare sull’evitare gli assembramenti. La riapertura delle scuole ha impegnato tutti nella ricerca affannosa di personale, di locali e di strutture. La questione dei banchi è diventata un autentico tormentone, mentre si intuiva facilmente che il problema non sarebbe stato dentro le scuole ma fuori dalle stesse: mi riferisco soprattutto ai trasporti che non sono stati sufficientemente potenziati e che riguardano non solo gli studenti ma tutte le persone che hanno ripreso pienamente le loro attività. Il nodo dei trasporti è stato purtroppo sottovalutato e affrontato in modo sbrigativo e semplicistico.

Per evitare gli assembramenti occorreva anche concentrare, orientare e razionalizzare i controlli in tal senso, invece, come lucidamente osserva Massimo Cacciari, si sta facendo un gran casino creando allarme e panico dove occorrerebbe calma e serietà.

La gente è in balia di un’informazione carente, reticente, contraddittoria e sconclusionata da parte dei media, che proseguono imperterriti il loro macabro balletto, ma anche da parte degli organi istituzionali e scientifici che non affrontano con chiarezza gli snodi fondamentali della situazione. Non se ne può più di chiacchiere inutili, allarmistiche, illusionistiche: sono auspicabili poche, univoche e significative indicazioni almeno da parte di chi ci dovrebbe guidare e di chi supporta scientificamente i pubblici poteri.

Ritorno in conclusione alla premessa: si continua a legiferare in modo confuso e contraddittorio, ogni istituzione va per la propria strada più o meno giusta, si sente la mancanza di autorevolezza e affidabilità da parte di chi ci governa ai vari livelli. Gli italiani hanno capito la difficoltà enorme della situazione, tutto sommato hanno apprezzato l’impegno profuso dai governanti, hanno snobbato le sterili, inconcludenti e irritanti critiche delle opposizioni, hanno generalmente collaborato in modo oserei dire insperato, ma ora cominciano a sentirsi confusi e spaventati, trattati come “cani perduti senza collare”.

Mi sembra giusto riprendere testualmente quanto afferma incisivamente il professor Cacciari: “Basta, basta! Basta con questo delirio normativistico assurdo, con questo controllismo fuori senso. Sono un animale razionale e intendo essere trattato come un animale razionale!». Vale per lui, vale per me, vale per tutti.

Le streghe finanziarie spadroneggiano

Seguo con un certo interesse la collana edita dal Corriere della Sera sui “Grande delitti nella storia”. Sto leggendo il libro di Alessandro Visca dedicato a Martin Luther King dal titolo “Il sogno spezzato”. Barbara Biscotti conclude amaramente l’introduzione scrivendo: “Il suo assassinio fu il gesto, calcolato o viscerale, di chi pretendeva di poter arrestare quella marea (il movimento per i diritti civili degli afroamericani contro il segregazionismo, per i diritti umani in generale, un movimento di riforma e per una vera e propria rivoluzione pacifica). Un gesto sicuramente di successo sul piano economico, se si considera che nell’anno dell’assassinio di King (e di Bob Kennedy) l’indice Standard & Poors 500 della borsa statunitense chiuse con un rialzo dell’undici per cento. E non si tratta dell’unico caso nella storia statunitense in cui a eventi drammatici ha corrisposto un successo del mondo finanziario”.

Usando questa spregiudicata chiave di lettura della storia si ha la sensazione di vivere in un mondo di favola a rovescio, in cui le fila sono tirate dalla strega cattiva e in cui le fate, le belle addormentate e i principi azzurri non hanno scampo. Più che mai in questo momento storico si hanno le più tristi ed emblematiche conferme.

Su tutto grava come un macigno il gravissimo inestricabile nodo del rispetto dei  diritti umani e delle regole democratiche: eliminazione di esponenti dell’opposizione o di loro sostenitori, mire egemoniche ed espansionistiche ai confini, populismi cavalcati senza scrupoli, rapporti internazionali strani e complessi, sanzioni economiche che vanno e vengono, bombardamenti al di fuori degli schemi, ampi consensi interni conquistati con paura, nazionalismi, giustizia addomesticata e informazione controllata.

Si dovrebbe chiamare realpolitik. Un mio collega, raccontando i retroscena di certe gite scolastiche in odore di corruzione tangentizia, aggiunse ironicamente: e lo chiamano libero mercato… È sempre lo stesso libero mercato che la fa da padrone: sì, perché le più squallide vicende hanno purtroppo il tornaconto finanziario e affaristico. La realpolitik ulteriormente asservita alla realeconomik.

D’altra parte a ben guardare abbiamo i destini del mondo nelle mani dei più squallidi personaggi. Non è che in passato la scena fosse dominata da graziose mammolette, ma tutto ha un limite. La realpolitik del passato ci ha portato alla situazione pazzesca in cui ci troviamo, staremo a vedere dove ci porterà quella attuale riveduta e (s)corretta. Putin, Trump, Xi Jinping, Erdogan, Kim Jong-un, Bolsonaro, Duterte, etc. etc.: un’autentica gang mafiosa che gioca sui destini dell’umanità. E non se ne vede una seppur piccola via d’uscita.

Putin è un post-comunista della peggior specie mafiosa. Trump è un affarista perfetto a fronte del quale il nostro Berlusconi sembra un boy scout in piena regola. Erdogan prende per il sedere tutti o meglio fa comodo a tutti. Il leader nord-coreano rappresenta il volto paffuto e bonario della peggiore dittatura. In Cina hanno trovato il modo di miscelare il peggio del capitalismo e del comunismo. È il caso di dire che i populisti Bolsonaro e Duterte spopolano e fanno seguaci ovunque. Si potrebbe continuare, ma preferisco constatare che, di fronte a tanta vergognosa politica (?), l’Europa, con le sue pallide stelle, sta a guardare. Forse è ancor peggio: sta brigando con l’uno e/o con l’altro interlocutore di cui sopra.

Paolo VI sosteneva giustamente che la politica è la forma più alta di carità. I fatti lo smentiscono categoricamente: la politica, in questo caso mi riferisco al livello internazionale, sta diventando sempre più la forma più bassa di egoismo. E sempre in nome della libertà. Che schifo!

Dalle sabbie mobili in cui stiamo sprofondando emerge papa Francesco, che con la sua recente enciclica “Fratelli tutti” ci allunga una vigorosa e credibile mano. Ne cito di seguito alcuni passi, tenendo fede all’impegno che mi sono proposto di adottarla spesso come vademecum etico per dare risposte impegnative alle situazioni drammatiche in cui viviamo.

“Mi permetto di ribadire che «la politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia». Benché si debba respingere il cattivo uso del potere, la corruzione, la mancanza di rispetto delle leggi e l’inefficienza, «non si può giustificare un’economia senza politica, che sarebbe incapace di propiziare un’altra logica in grado di governare i vari aspetti della crisi attuale». Al contrario, «abbiamo bisogno di una politica che pensi con una visione ampia, e che porti avanti un nuovo approccio integrale, includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi». Penso a «una sana politica, capace di riformare le istituzioni, coordinarle e dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose». Non si può chiedere ciò all’economia, né si può accettare che questa assuma il potere reale dello Stato.

Davanti a tante forme di politica meschine e tese all’interesse immediato, ricordo che «la grandezza politica si mostra quando, in momenti difficili, si opera sulla base di grandi principi e pensando al bene comune a lungo termine. Il potere politico fa molta fatica ad accogliere questo dovere in un progetto di Nazione» e ancora di più in un progetto comune per l’umanità presente e futura. Pensare a quelli che verranno non serve ai fini elettorali, ma è ciò che esige una giustizia autentica, perché, come hanno insegnato i Vescovi del Portogallo, la terra «è un prestito che ogni generazione riceve e deve trasmettere alla generazione successiva».

Riconoscere ogni essere umano come un fratello o una sorella e ricercare un’amicizia sociale che includa tutti non sono mere utopie. Esigono la decisione e la capacità di trovare i percorsi efficaci che ne assicurino la reale possibilità. Qualunque impegno in tale direzione diventa un esercizio alto della carità. Perché un individuo può aiutare una persona bisognosa, ma quando si unisce ad altri per dare vita a processi sociali di fraternità e di giustizia per tutti, entra nel «campo della più vasta carità, della carità politica». Si tratta di progredire verso un ordine sociale e politico la cui anima sia la carità sociale. Ancora una volta invito a rivalutare la politica, che «è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune»”.

 

 

 

 

I deliri da covid 19

Col suo solito stile tranchant Massimo Cacciari ha nitidamente fotografato la situazione pandemica in Italia all’insegna del delirio: nelle norme, nei controlli, nell’informazione. Con una espressione simpatica ed eloquente ha affermato di sentirsi trattato come un deficiente. Egli parte dal rifiuto stizzito e categorico della semplificazione sulla ripresa della pandemia che sarebbe dovuta al fatto che ci siamo troppo distratti e divertiti l’estate scorsa, mentre la motivazione seria riguarda la ripresa dei rapporti interpersonali a livello economico, sociale ed educativo.

In secondo luogo le cose fondamentali che erano state promesse, vale a dire il rafforzamento delle terapie intensive, l’adeguamento delle strutture ospedaliere e il potenziamento dell’assistenza territoriale, sono state regolarmente “cannate”: i reparti di rianimazione sono già vicinissimi al collasso, negli ospedali si sta tornando all’anormalità, sul territorio basta vedere le interminabili file per farsi fare un tampone.

Aggiungiamoci pure (questo lo dico io) il discorso delle scuole: era lapalissiano che il problema non sarebbero stati i banchi e forse nemmeno le aule, ma il “casino” dei trasporti, delle entrate e delle uscite. Mi è capitato di girare in automobile per le strade cittadine nell’ora di punta: nessuna differenza rispetto agli ammassamenti esistenti in era anti-covid.

Cacciari se la prende anche con i controlli effettuati a vanvera, in modo assurdo per non dire demenziale, senza alcuna razionalità e senza alcuna efficacia, ma solo per dare l’illusione di avere la situazione sotto controllo. Prima ancora però esiste, a suo dire, il delirio normativo che guarda la pagliuzza delle feste in famiglia e trascura la trave dei bus e dei treni stracolmi.

Il discorso più criticamente interessante è però quello riferito ai dati sparati alla viva il parroco, senza alcun senso scientifico: nessuno spiega le patologie delle persone che non hanno retto al virus; nessuno analizza il rapporto fra tamponi effettuati e contagi riscontrati; nessuno chiarisce quale sia il rapporto fra contagiati asintomatici e contagiati in sofferenza, fra curati a casa e curati in ospedale, etc. etc.

Morale della favola: c’è da perderci la testa, da sentirsi becchi e bastonati, da farsi prendere dal panico. Cacciari conclude con un assioma (quasi) filosofico: non mi mettono in grado di ragionare e quindi mi fanno passare da deficiente.

A Massimo Cacciari ha fatto eco Alessandro Vespignani, 55 anni, uno dei massimi esperti di epidemiologia computazionale, che osserva l’evoluzione del contagio in Italia e la strategia messa in campo dal governo. A Boston dirige il «Laboratory for the modeling of biological and Socio-technical Systems», alla Northeastern University.

«Che il virus abbia ripreso a correre non è un certo una sorpresa. Lo sapevamo tutti che l’epidemia avrebbe ripreso forza in autunno, con la riapertura delle scuole, la ripresa delle attività e così via. Ora serve sangue freddo e giocare d’anticipo contro il virus, direi “a zona” per usare un’espressione calcistica. Innanzitutto le misure prese dal governo vanno poi declinate a livello territoriale. Il Covid va stanato regione per regione, città per città, quartiere per quartiere. Occorrono restrizioni mirate, non servono le misure a tappeto. E più che al numero dei positivi in generale, dobbiamo guardare alla situazione negli ospedali, alla saturazione dei posti nelle terapie intensive».

Quanto al senso delle misure governative Vespignani afferma: «Qui c’è un problema di comunicazione. Immagino che il governo abbia adottato quelle misure sulla base di dati scientifici. Però ora le deve spiegare e rispiegare ai cittadini. Non ho avuto modo di vedere tutte le carte, ma restiamo sull’esempio degli invitati a casa. Immagino che il comitato tecnico-scientifico abbia raccolto segnali importanti che il coronavirus si trasmette nei contatti con persone estranee al nucleo famigliare, identificato, per stare larghi, con una media di sei persone. Però tutto questo ragionamento va spiegato, altrimenti nessuno capisce l’importanza della misura. Un altro caso: perché il calcetto no e lo sport delle associazioni giovanili sì? Probabilmente perché il calcetto è praticato da milioni di persone, mentre le associazioni giovanili forse coinvolgono 3-400 mila ragazzi e ragazze e quindi sono più controllabili».

In conclusione l’epidemiologo dice: «Abbiamo perso molto tempo a discutere sul virus. Non possiamo fare finta di niente e neanche aspettare, sperando che la situazione migliori da sola. Non succederà. Dobbiamo tornare a essere uniti. I numeri di oggi non sono confrontabili con quelli di marzo, ma abbiamo davanti almeno 5-6 mesi durissimi».

Ho messo a confronto due pareri peraltro abbastanza concordi: di un uomo di pensiero e di un uomo di scienza. L’ho fatto per respirare in mezzo alla valanga di cavolate che ci opprime e che è direttamente proporzionale alla perniciosa voglia negazionista ed alla pericolosa tentazione riduzionista. L’ho fatto per tornare a ragionare in mezzo alla confusione in cui tutti i gatti sono bigi e in continuo agguato politico, scientifico e mediatico. L’ho fatto perché il mio spirito critico rimane intatto e penso sia il modo migliore per rispondere positivamente ai richiami al senso di responsabilità.

 

 

Il topolino nel messale e la talpa in messalina

“Cherchez la femme”: nella Chiesa cattolica, maschilista a tutto spiano, non è facile trovarla nei posti di rilievo e di potere, eppure in questi giorni ne è spuntata una che sembra fare, una pur negativa, eccezione alla regola. Cecilia Marogna, 39 anni, cagliaritana, ufficialmente imprenditrice e consulente, è stata arrestata e trasferita a San Vittore. La donna, ribattezzata dai giornali «la dama del cardinale», appena verrà convalidato il suo arresto dalla corte d’Appello di Milano, dovrà chiarire davanti a un giudice della Santa Sede il suo ruolo nella vicenda di spoliazione delle finanze vaticane costate la porpora al cardinale Angelo Becciu, considerato il suo «sponsor». E a lei, le manette. Non intendo mettere nessuno alla gogna, mi limito a riprendere dal quotidiano La Stampa le notizie emergenti relativamente agli affari vaticani, che sembrano addirittura tingersi di rosa.

Secondo le scarne informazioni trapelate sui motivi del suo arresto, le accuse sarebbero due: peculato e distrazione di beni. Si tratta di reati contemplati dal codice penale vaticano che recepisce però in buona parte il codice italiano. La vicenda è quella nota, relativa a una somma di 500 mila euro che la donna, auto accreditatasi come «007» della Santa Sede per gli affari esteri, avrebbe ricevuto al fine di missioni di beneficenza. Soldi che invece, secondo le accuse, sarebbero stati spesi in abiti di marca e arredamento di lusso. Lo stesso cardinale Becciu aveva sostenuto nei giorni scorsi di essere stato truffato da Marogna. Non si capisce però come un porporato del suo calibro, già Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi e soprattutto nominato nel 2011 da papa Benedetto XVI Sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato vaticana, tra le cariche più importanti che riguardano l’attività politica e diplomatica della Santa Sede, abbia potuto fidarsi di una donna che lo avrebbe indotto a consegnare una somma del genere.

La vicenda, peraltro ancora tutta da chiarire e giudicare nelle sedi competenti, suona quale provocatoria risposta al recente appello di papa Francesco sulla preghiera per la valorizzazione del ruolo femminile all’interno della Chiesa. Spontaneo e facile fare dell’ironia: su due questioni serissime, vale a dire l’affarismo della Curia vaticana e la misoginia clericale, si profilano addirittura strane combinazioni tra soldi e donne, il modo peggiore per sdoganare il sesso femminile e portarlo alla ribalta nella vita ecclesiale. Qualcuno dirà: di affaristi ce n’è a sufficienza senza bisogno di andarli a cercare nelle donne. Quindi, si perpetuerà, in un certo senso la demonizzazione della donna e la volontà di tenerla lontana dai sacri recinti dove gli uomini ne combinano già di tutti i colori.

Cambiamo capitolo per dire che la montagna della sacrosanta riforma liturgica ha partorito il topolino del nuovo messale, il volume che serve a celebrare l’Eucaristia.  La revisione italiana del Messale scaturito dal Concilio arriva a diciotto anni dalla terza edizione tipica latina varata dalla Santa Sede nel 2002. La lunga e complessa operazione coordinata dalla Cei ha visto numerosi esperti collaborare con la Commissione episcopale per la liturgia fino a giungere nel novembre 2018 all’approvazione del testo definitivo da parte dell’Assemblea generale dei vescovi italiani. Poi, dopo il “via libera” di papa Francesco, il cardinale presidente Gualtiero Bassetti ha promulgato il libro l’8 settembre 2019. E lo scorso 29 agosto la prima copia è stata donata al Pontefice.

Apprendo dal quotidiano Avvenire che la maggior parte delle variazioni riguarda le formule proprie del sacerdote. I ritocchi sono pochi e generalmente piuttosto insignificanti. Già nei riti di introduzione dovremo abituarci a un verbo al plurale: «siano». Non sentiremo più «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi», ma «La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi». È stato rivisto anche l’atto penitenziale con un’aggiunta “inclusiva”: accanto al vocabolo «fratelli» ci sarà «sorelle». Ecco che diremo: «Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli e sorelle…». Poi: «E supplico la beata sempre Vergine Maria, gli angeli, i santi e voi, fratelli e sorelle…». Inoltre il nuovo Messale privilegerà le invocazioni in greco «Kýrie, eléison» e «Christe, eléison» sull’italiano «Signore, pietà» e «Cristo, pietà». Si arriva al Gloria che avrà la nuova formulazione «pace in terra agli uomini, amati dal Signore». Una revisione che sostituisce gli «uomini di buona volontà» e che vuole essere più fedele all’originale greco del Vangelo.

Dopo l’orazione sulle offerte, il sacerdote, mentre si lava le mani, non sussurrerà più sottovoce «Lavami, Signore, da ogni colpa, purificami da ogni peccato» ma «Lavami, o Signore, dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro». Poi inviterà a pregare dicendo (anche in questo caso con piccole revisioni): «Pregate, fratelli e sorelle, perché questa nostra famiglia, radunata dallo Spirito Santo nel nome di Cristo, possa offrire il sacrificio gradito a Dio Padre onnipotente». Dopo il Santo, il prete dirà: «Veramente santo sei tu, o Padre…». E proseguirà: «Santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito».
Nella consacrazione si avrà «Consegnandosi volontariamente alla passione». E nell’intercessione per la Chiesa l’unione con «tutto l’ordine sacerdotale» diventa con «i presbiteri e i diaconi».

I riti di Comunione si aprono con il Padre Nostro. Nella preghiera insegnata da Cristo è previsto l’inserimento di un «anche» («Come anche noi li rimettiamo»). Quindi il cambiamento caro a papa Francesco: non ci sarà più «E non ci indurre in tentazione», ma «Non abbandonarci alla tentazione». Il rito della pace conterrà la nuova enunciazione «Scambiatevi il dono della pace» che subentra a «Scambiatevi un segno di pace». E, quando il sacerdote mostrerà il pane e il vino consacrati, dirà: «Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo. Beati gli invitati alla cena dell’Agnello». Una rimodulazione perché nel nuovo Messale «Beati gli invitati» non apre ma chiude la formula e si parla di «cena dell’Agnello», non più di «cena del Signore». Al termine ci sarà la formula: «Andate e annunciate il Vangelo del Signore». Ma i vescovi danno la possibilità di congedare la gente anche con le tradizionali parole latine: Ite, missa est.

Ho volutamente passato in rapida rassegna le novità per dimostrare, a contrariis, che purtroppo non serviranno a sgessare o sgelare le assemblee liturgiche: più che di revisione di frasi, parole e formule ci sarebbe bisogno di fare spazio alla spontaneità, alla fantasia, al coraggio di fondere il sacro con la vita. Quel coraggio e quella fantasia che non mancano a certa parte della gerarchia quando si parla di manovre economiche e di servire “mammona”: tutto è ammissibile, forse anche togliere le donne dal focolare domestico per ammetterle nel giro affaristico, tutto per fare soldi o per farseli mangiare da personaggi senza scrupoli. “Andate e mettete in discussione le messe ingessate e soprattutto i riti dell’affarismo vaticano”: così termina la mia personale liturgia.

 

 

 

 

Donne, donne, eterna sottospecie

Partecipando ad una celebrazione eucaristica, ho ascoltato durante la preghiera dei fedeli, che purtroppo ha quasi sempre un contenuto cervellotico e stereotipato, un’intenzione alquanto curiosa. La riporto a senso: preghiamo per coloro che hanno difficoltà nell’accostarsi ai sacramenti per le loro situazioni border line (uso questa espressione perché non ricordo le paroline melliflue liturgicamente usate). Presumo, anzi sono certo, che si facesse riferimento ai divorziati, ai conviventi, a quanti di fatto vivono “in odore di scomunica”.

«Preghiamo perché i fedeli laici, specialmente le donne, partecipino maggiormente nelle istituzioni di responsabilità della Chiesa». È l’appello lanciato da papa Francesco al termine dell’Angelus dell’11 ottobre 2020, in piazza San Pietro. «Nessuno di noi è stato battezzato prete né vescovo – ha osservato – siamo stati tutti battezzati come laici, laici e laiche. Sono protagonisti della Chiesa». Oggi c’è ancora bisogno di «allargare gli spazi di una presenza femminile più incisiva nella Chiesa e di una presenza laica, si intende, ma sottolineando l’aspetto femminile, perché in genere le donne vengono messe da parte». Specificando con quel sibillino “si intende” che non si pensa nemmeno lontanamente al sacerdozio e forse nemmeno, dopo tanto parlare, al diaconato femminile. Bisogna «promuovere l’integrazione delle donne nei luoghi in cui si prendono le decisioni importanti», afferma il Pontefice. Stando attenti a non «cadere nei clericalismi, che annullano il carisma laicale e anche rovinano la faccia della Santa Madre Chiesa».

“Aiutati che il ciel t’aiuta” dice un vecchio adagio e dovrebbe ricordarlo anche il Papa. Ce  un altro aforisma che prevede “il predicare bene e il razzolare male”. Sono perfettamente d’accordo con lui quando mette il dito nella piaga della scarsa partecipazione delle donne ai momenti decisivi e decisionali nella vita della Chiesa. Le donne sono indubbiamente una grande risorsa inesplorata! Potrebbe essere proprio il protagonismo delle donne a spiazzare i bigotti e i conservatori sempre, più o meno correttamente, alla ribalta. D’altra parte è il Vangelo che evidenzia il protagonismo femminile: tutte coraggiose, piene di fede, sanguigne, passionali, sensibili e forti, da Maria di Nazaret a Maria Maddalena, dalle sorelle di Lazzaro a Elisabetta, dall’emorroissa all’adultera, dalla samaritana alle vedove. Questa presenza dava fastidio agli Ebrei osservanti di allora, che le consideravano creature di serie D, e dà fastidio oggi, crea soprattutto imbarazzo la capacità femminile di mixare coraggio e delicatezza, profondità e semplicità, femminilità e forza d’animo, fascino e riservatezza.

Il mio indimenticabile amico don Luciano Scaccaglia spesso, introducendo la preghiera del canone eucaristico, si rivolgeva ai bambini, che circondavano l’altare (era anche  un escamotage dialettico per spararle grosse verso gli adulti e verso tutta la Chiesa al di là di S. Cristina), per ipotizzare la presenza all’ultima cena di donne e bambini, i componenti delle famiglie degli apostoli, le appassionate e coraggiose discepole: le donne, quindi, a correggere lo sguardo su una cena mestamente maschilista ed asessuata. Ebbene Suor Carmen Sammut, presidente dell’Unione internazionale superiore generali (una sorta di sinodo delle suore), ha afferma tempo fa in una intervista: «Ma lei, ha mai riflettuto sull’Ultima Cena? Nelle raffigurazioni, fatte anche da grandi artisti, quasi mai ci sono donne. Le pare possibile? Una cena senza donne? Eppure questa visione di una comunità ecclesiale senza donne, di una Chiesa, nei suoi vertici, solo maschile, ci è entrata dentro, l’abbiamo interiorizzata. Credo sia arrivato il momento di liberarcene e di dare il giusto peso alla presenza femminile nella Chiesa».

Il cardinale Pietro Parolin sembra abbia detto che di per sé una donna potrebbe diventare Segretario dello Stato Vaticano. Invece sempre Suor Carmen Mammut ha aggiunto al riguardo: «Segretario di Stato non lo so, ma andare alla guida di dicasteri sì, certo. Francesco l’ha ribadito: nella Chiesa si devono separare le funzioni, i ruoli dai “sacramenti”. Dunque una donna può essere messa in qualsiasi ruolo. E poi ha detto un’altra cosa molto forte. Ha parlato del codice di diritto canonico ed ha spiegato che, se una cosa è vietata dal codice, non significa che debba rimanere vietata per sempre. Il codice racchiude delle leggi, ma le leggi si possono cambiare». Non voglio essere malizioso ma credo che, tutto sommato, sarà più facile per le donne strappare la concessione di celebrare la messa piuttosto che di accedere al potere vaticano ed ecclesiastico. Arrivo ad essere ancora più malizioso: probabilmente la preclusione al sacerdozio è strumentale alla preclusione al potere a tutti i livelli. Le donne: sono sempre più convinto che da esse dipenda il nuovo a tutti i livelli, politico, sociale, religioso. Mi si obietterà che la presenza di donne in Vaticano potrebbe ulteriormente e sessualmente indurre in tentazione qualche monsignore o cardinale. Il gioco varrebbe comunque la candela: meglio essere attratti da una bella donna che da un chierichetto, meglio andare a letto spontaneamente con una funzionaria vaticana piuttosto che con un seminarista a pagamento. Più di così non posso sparare!

Papa Francesco è solito buttare giustamente sassi nella piccionaia conservatrice e bigotta o, se si preferisce, scagliare fulmini nel cielo (troppo) sereno del dogmatismo di comodo.  Rispondendo ad un quesito postogli in materia di diaconato femminile e sull’ipotesi dell’apertura di una commissione di studio in merito, ha risposto: «Sarebbe bene per la Chiesa chiarire questo punto. Sono d’accordo. Io parlerò di fare qualcosa del genere. Lo farò. Accetto». In precedenza aveva affermato: «La Chiesa deve coinvolgere consacrate e laiche nella consultazione, ma anche nelle decisioni, perché ha bisogno del loro punto di vista: desidero un ruolo crescente delle donne nella Chiesa. Non si tratta di femminismo, ma di un diritto di tutti i battezzati: maschi e femmine». Dovrebbe però finire il tempo delle dichiarazioni d’intento, delle commissioni di studio, dei tira e molla teorici e financo delle preghiere. Non vorrei infatti che valesse anche per la Chiesa la malignità (?) secondo la quale per non risolvere un problema basta fare un gruppo di studio…o magari imbastire belle preghiere mettendo a posto la coscienza.

Torno quindi al punto di partenza: pregare per le questioni delicate e controverse che esistono all’interno della Chiesa. Sono partito dai divorziati, dai conviventi di vario genere, da coloro che sessualmente vengono tenuti a distanza dai sacramenti e dalla comunità ecclesiale. Arrivo anche alle donne e alla preghiera del papa per la loro piena integrazione nella vita della Chiesa. L’assimilazione, in un certo senso, è già un triste inizio. Mi viene spontaneo però ipotizzare una risposta piccata del Padre Eterno: “Ma cosa mi chiedete? Togliete voi questi ostacoli sui quali io…lasciamo perdere…”.

 

 

 

Gli Acutis della santità

Papa Paolo VI riteneva che per formarsi nella fede i giovani avessero la necessità di molti testimoni e quasi nessuna necessità di maestri della dottrina. Cosa intendeva il pontefice con queste parole? Per capire a cosa si riferisse il Santo Padre basti pensare a quanti Santi nel corso della storia della Chiesa hanno fatto la differenza dando il loro esempio e quanti invece vengono ricordati per le loro dissertazioni teologiche.  Paolo VI voleva far comprendere che per guidare i fedeli non c’era bisogno di un attaccamento dottrinale alle parole del Vangelo ma l’esplicitazione delle stesse attraverso la vita di tutti i giorni.

Era la mattina del 12 ottobre 2006 quando all’ospedale San Gerardo di Monza si spegneva per una leucemia fulminante – leucemia mieloide acuta M3 – un quindicenne milanese di nome Carlo Acutis. Una morte di quelle che lasciano straziati i familiari – Carlo era anche figlio unico – e storditi amici e conoscenti, per l’età e la velocità degli accadimenti, intercorsero pochissimi giorni tra la diagnosi e il decesso.

Carlo era nato il 3 maggio 1991 a Londra, dove i genitori si trovavano per motivi di lavoro. Crebbe a Milano in una famiglia in vista nel mondo finanziario italiano – controlla attualmente la Vittoria Assicurazioni – frequentando la parrocchia di Santa Maria Segreta. Fu segnato da una pietà profonda quanto precoce. Fece la Prima Comunione, con un permesso speciale, a sette anni. Ebbe un amore vivo per i santi – san Francesco in particolare – e soprattutto per l’Eucaristia, fino ad allestire una sorta di mostra sui miracoli eucaristici che oggi è rimasta online e ha avuto un successo inaspettato, anche all’estero. Sportivo e appassionato di computer, come tanti coetanei, si distinse per lo spirito di carità, a partire dai senzatetto che incrociava in città.

Il gesuita Roberto Gazzaniga, incaricato della pastorale dell’Istituto Leone XIII, storica scuola della Compagnia di Gesù a Milano, ha così ricordato in una memoria scritta Carlo, arrivato lì, al liceo classico, nell’anno scolastico 2005-2006: «L’essere presente e far sentire l’altro presente è stata una nota che mi ha presto colpito di lui». Allo stesso tempo era «così bravo, così dotato da essere riconosciuto tale da tutti, ma senza suscitare invidie, gelosie, risentimenti. La bontà e l’autenticità della persona di Carlo hanno vinto rispetto ai giochi di rivalsa tendenti ad abbassare il profilo di coloro che sono dotati di spiccate qualità».

Carlo inoltre «non ha mai celato la sua scelta di fede e anche in colloqui e incontri-scontri verbali con i compagni di classe si è posto rispettoso delle posizioni altrui, ma senza rinunciare alla chiarezza di dire e testimoniare i principi ispiratori della sua vita cristiana». Il suo era «il flusso di un’interiorità cristallina e festante che univa l’amore a Dio e alle persone in una scorrevolezza gioiosa e vera. Lo si poteva additare e dire: ecco un giovane e un cristiano felice e autentico».

Ho ripreso le note biografiche di cui sopra da un articolo di Franco Cassiani su Avvenire.

Quattordici anni dopo la sua morte Carlo Acutis viene proclamato dalla Chiesa beato. La Messa con il rito di beatificazione è stata celebrata ad Assisi, nella Basilica superiore di San Francesco, presieduta dal cardinale Agostino Vallini, legato pontificio per le Basiliche di San Francesco e di Santa Maria degli Angeli. Il tutto è avvenuto nella città umbra perché lì Carlo fu sepolto – la famiglia ha un’abitazione in loco e il ragazzo aveva maturato un legame speciale con la culla del francescanesimo – mentre oggi le sue spoglie sono esposte alla venerazione dei fedeli nel Santuario della Spogliazione, dove sono state traslate lo scorso anno.

La guarigione ritenuta dalla Chiesa miracolosa e che ha portato Carlo alla beatificazione è avvenuta in Brasile, a Campo Grande, il 12 ottobre 2013. Come riporta la Congregazione delle cause dei santi, un bambino soffriva di seri disturbi all’apparato digerente, sin dalla nascita avvenuta nel 2010, e nel 2012 un esame aveva evidenziato una rara anomalia anatomica del pancreas. A causa di essa la vita del piccolo era caratterizzata da scarsa crescita e difficoltà nell’alimentazione. Più volte era stato ricoverato per disidratazione e processi infiammatori, solo un intervento chirurgico avrebbe potuto eliminare il problema, era stato il responso dei medici. L’intervento però non fu mai effettuato perché nel 2013, dopo che il bimbo ebbe toccato una reliquia del venerabile Carlo Acutis, si registrò qualcosa di sorprendente, che portò a una ripresa normale della sua crescita.

Esami clinici eseguiti negli anni successivi rilevarono che il pancreas non presentava più il problema anatomico iniziale. L’iniziativa di invocare l’intercessione di Acutis era stata presa dai genitori del bambino e dal parroco. Quest’ultimo nell’anniversario della morte di Carlo aveva organizzato una Messa, mentre la madre del piccolo aveva iniziato una novena per chiedere la guarigione. Familiari e parrocchiani si erano uniti a questa preghiera. La guarigione si presume avvenne durante la Messa, subito dopo il bacio della reliquia.

Mentre sono letteralmente assetato di testimonianze di vita cristiana, resto sempre piuttosto perplesso di fronte all’enfasi celebrativa, alle procedure burocratiche, alla spinta miracolistica con cui vengono collocati sugli altari quanti hanno semplicemente vissuto il Vangelo fino in fondo. Lungi da me interpretare ad oltranza il ruolo di avvocato del diavolo. La bellezza e il fascino dell’esempio di Acutis però consistono proprio nella ordinarietà di vita vissuta con grande fede e per questo la vita di questo giovane può rappresentare un punto di riferimento per i giovani: la santità non è qualcosa di (quasi) irraggiungibile e impossibile, è alla portata di tutti.

Quando portavo a casa un bel voto guadagnato a scuola, mio padre non si sperticava in elogi, faceva rientrare il pur gradito evento nella normalità, sottolineando come a nessuno venisse in mente di complimentarsi con lui dopo una giornata di lavoro durante la quale aveva dipinto con abilità alcune stanze.

La tentazione di supportare la religione a livello fantasmagorico e miracolistico è sempre presente e in agguato. Basti pensare che per diventare beati e santi, i defunti devono aver compiuto miracoli ufficialmente riconosciuti. È successo anche a Carlo Acutis come sopra riportato.  Con la beatificazione, il Cattolicesimo riconosce le virtù terrene di un defunto, la sua ascensione al Paradiso e quindi la capacità di intercedere presso Dio. Per diventare beati è necessario aver subito un martirio o aver compiuto un miracolo riconosciuto dalla Chiesa. La beatificazione apre poi la strada alla canonizzazione, ma per raggiungere la santità serve almeno un secondo miracolo ufficialmente accertato. Per la teologia cattolica, un miracolo è un evento eccezionale che va oltre il consueto ordine della natura. È un fenomeno che avviene sempre per volontà di Dio, ma che può manifestarsi anche per intercessione di una creatura. Spesso si tratta di guarigioni miracolose. In questo caso, l’evento viene considerato ufficialmente miracoloso solo dopo essere stato sottoposto a un’attenta analisi da parte di una consulta medica. Questa viene nominata dalla Congregazione per le cause dei santi ed è composta da specialisti credenti e non.

Così facendo si riduce la santità ad un percorso ad ostacoli effettuato senza alcuna penalità (non è così: santità non è perfezione ante litteram attestata da un tribunale vaticano) e si allontana il santo dalla sua vita, se ne fa un “santino”, che non serve a nessuno e a niente, se non a infoltire un discutibile pantheon. Non si innalzi quindi ad Acutis uno stereotipato altarino, ma lo si lasci vivere nella “mischia cristiana” assieme ai suoi coetanei, che hanno tanto bisogno di lui.

 

 

Perdono non è perdonismo

Liliana Segre ha parlato agli studenti nelle campagne di Arezzo, a Rondine, cittadella della Pace, raccontando ancora una volta quando bambina, a 13 anni, vide negli occhi l’orrore, diventò un “essere senza nome e senza sesso, senza dignità e insensibile, quello che volevano i miei aguzzini”.

“No, non ho perdonato, non è possibile, e non ho mai dimenticato, ma ho imparato a non odiare”, ha ripetuto spiegando che questa è una delle domande che le viene fatta più spesso dagli studenti. “Ma quando ebbi la possibilità di prendere la pistola e sparare all’ufficiale tedesco non lo feci. E quello è stato il momento in cui ho capito che non ero come i miei assassini ed è stato lì che sono diventata la donna libera e di pace con cui ho convissuto fino ad oggi”.

Ho letto l’enciclica papale “Fratelli tutti”, mi riservo di rileggerla ed approfondirla: è notevole per ampiezza e completezza. Mi aspettavo qualcosa di più sul piano teologico, spirituale, ecclesiale e pastorale: è una summa etico-sociologica in cui nuotare. Rimette in discussione tutto l’assetto mondiale e indica i presupposti culturali e sociali su cui impostare un’esistenza diversa. Evidentemente papa Francesco ha inteso chiarire ancora una volta e forse definitivamente che il fondamento della fede cristiana è il Vangelo e da lì devono partire tutti gli impulsi rivoluzionari o riformatori per la Chiesa e per il mondo. Penso quindi valga la pena di leggere questa enciclica in filigrana rispetto a quanto avviene giorno per giorno, considerandola una sorta di vademecum per rispondere agli interrogativi drammatici ed inquietanti del nostro vivere.

Oggi quindi la cito di seguito letteralmente sul tema del perdono, evocato dall’emozionante, umanissimo e profondissimo intervento della senatrice a vita Liliana Segre che ho sopra richiamato con tanta commozione. Scrive papa Francesco:

“Da chi ha sofferto molto in modo ingiusto e crudele, non si deve esigere una specie di “perdono sociale”. La riconciliazione è un fatto personale, e nessuno può imporla all’insieme di una società, anche quando abbia il compito di promuoverla. Nell’ambito strettamente personale, con una decisione libera e generosa, qualcuno può rinunciare ad esigere un castigo (cfr Mt 5,44-46), benché la società e la sua giustizia legittimamente tendano ad esso. Tuttavia non è possibile decretare una “riconciliazione generale”, pretendendo di chiudere le ferite per decreto o di coprire le ingiustizie con un manto di oblio. Chi può arrogarsi il diritto di perdonare in nome degli altri? È commovente vedere la capacità di perdono di alcune persone che hanno saputo andare al di là del danno patito, ma è pure umano comprendere coloro che non possono farlo. In ogni caso, quello che mai si deve proporre è il dimenticare.

La Shoah non va dimenticata. È il «simbolo di dove può arrivare la malvagità dell’uomo quando, fomentata da false ideologie, dimentica la dignità fondamentale di ogni persona, la quale merita rispetto assoluto qualunque sia il popolo a cui appartiene e la religione che professa». Nel ricordarla, non posso fare a meno di ripetere questa preghiera: «Ricordati di noi nella tua misericordia. Dacci la grazia di vergognarci di ciò che, come uomini, siamo stati capaci di fare, di vergognarci di questa massima idolatria, di aver disprezzato e distrutto la nostra carne, quella che tu impastasti dal fango, quella che tu vivificasti col tuo alito di vita. Mai più, Signore, mai più!»”.