Il filo (il)logico del “lockdownino”

Il presupposto teorico del comportamento attuale dei governanti in merito alla pandemia da covid 19 sembra essere il seguente: assembramento = contagio. Quindi una sorta di assioma: per contenere le occasioni di contagio occorre evitare gli assembramenti e allora lotta indiscriminata alle possibilità di assembramento, vale a dire ristoranti e bar pieni di gente, teatri, cinema, palestre, piscine, stadi, sagre, feste, cerimonie, convegni, etc. etc.

Qualcuno, forse con un po’ di malizia anticlericale, ha sollevato il ditino chiedendo: perché le chiese invece restano aperte? Probabilmente si sarà pensato che la gente in chiesa è più disciplinata e portata al rispetto delle regole. Mi rimane qualche dubbio, anche perché pure a teatro si può andare con criterio e senza vendere il cervello alla movida. Ma lasciamo perdere…

Come funzionava la disciplina nella scuola di un tempo? Se non si riusciva a individuare l’autore delle malefatte, si sparava nel mucchio o, meglio, si puniva tutto il gruppo. In un certo senso è la logica del lockdown generale, ma anche di quello sedicente mirato. In certe palestre c’è troppo casino: chiudiamo tutte le palestre. Certi bar sono sommersi dagli “apericena”: abbassiamo le saracinesche per tempo. Picchiamo duro, entriamo a gamba tesa laddove si profila la violazione dell’obbligo di mascherine e distanziamento o comunque dove i contatti ravvicinati sono piuttosto probabili se non addirittura inevitabili. Una sorta di punizione preventiva. Dice un vecchio proverbio cinese: “Quando torni a casa la sera, picchia tua moglie. Tu non sai perché, ma lei lo sa benissimo …”. Non mi dilungo sulla trasparente similitudine.

L’impressione è che si proceda a tentoni con i lockdown sparati alla viva il parroco, con le chiusure imposte alla “mosca ceca”, con le regole buttate al vento del “se la va la va”. D’altra parte questa incertezza non è solo dei governanti centrali e periferici italiani, è di tutta la scienza che una ne dice e cento ne pensa, è di tutti i potenti del mondo che brancolano nel buio forse ancor peggio di quelli italiani (si pensi soltanto al delinquenziale tira e molla di certi personaggi in Europa e in America del nord e del sud).

Che tutto il mondo sia vittima della pandemia e stia balbettando preoccupandosi soprattutto di impostare speculazioni globali nella distribuzione del vaccino, è cosa arcinota e sconfortante. Questa tristissima realtà non deve però giustificare il pressapochismo nostrano e non ci esonera dal cercare comportamenti virtuosi a tutti i livelli. Mal comune non è mezzo gaudio, ma totale disastro!

Sembrava che il nostro Paese avesse, nei tempi e nei modi, accumulato un vantaggio rispetto al resto d’Europa e del mondo, nella battaglia al coronavirus: i nostri comportamenti venivano da più parti additati come esemplari e da imitare. Si trattava di un primato, seppure molto discutibile e doloroso, pur sempre tale da inorgoglire. Lo abbiamo malamente sprecato con una lunga pausa, dopo la quale siamo tornati a comportarci all’italiana.

Non mi sembra onesto peraltro spostare l’attenzione sui disordini legati alle manifestazioni di protesta che si stanno sparpagliando in tutto il Paese: sono da condannare fermamente le degenerazioni violente e persino le generalizzazioni qualunquiste che rischiano di inquinare le manifestazioni di dissenso. Prima di tutto sarebbe opportuno che chi critica avesse qualche proposta alternativa da porre, altrimenti giochiamo al massacro (vale anche per il sottoscritto). In secondo luogo la violenza complica ulteriormente la situazione e può persino diventare un alibi per chi non vuol ascoltare le critiche. In terzo luogo non vorrei che si scatenasse una polemica come ai tempi del sequestro di Aldo Moro: si discuteva dell’autenticità delle sue lettere e ci si lasciava scappare i brigatisti da sotto il naso. Ora, ci disperdiamo in inutili polemiche sulla chiusura anticipata dei ristoranti e magari ci lasciamo scappare fior di miliardi europei con cui affrontare l’emergenza e programmare il dopo emergenza. Spero infine che non si arrivi a parafrasare linguisticamente ed a scopiazzare culturalmente il paradossale “né con lo Stato né con le Br”. Non giungiamo, per l’amor di Dio, a pensare e tanto meno a proclamare: “né con i lockdown né con le piazze infuriate”. Nelle mie riflessioni critiche non voglio certo arrivare a tanto, ma proprio per evitare il peggio, vorrei capire qualcosa di più, ammesso e non concesso che ci sia, del comportamento dei miei governanti, senza bisogno per questo di screditarli istituzionalmente o rifiutarli qualunquisticamente.

Torno a bomba. Qualche scienziato o comunque qualche addetto ai lavori della virologia sostiene che i tentativi governativi non siano suffragati da nemmeno uno straccio di dati al fine di valutare preventivamente l’impatto di certe restrizioni sulla diffusione del virus. Forse si pretende un po’ troppo, però c’è l’impressione che la situazione non sia sotto controllo e che quindi si proceda per tentativi, lasciando al tempo la dimostrazione dell’opportunità di certe misure. Ma il tempo significa accumulare incertezze ulteriori per le regole assieme alle certezze per i cadaveri. Con questa macabra constatazione termino la mia odierna problematica riflessione.

 

 

 

Capitalismo (in)sopportabile

Quando leggo o ascolto qualche seria riflessione volta a mettere in discussione l’ideologia capitalista vengo catturato da una forte nostalgia valoriale, lontana da ogni e qualsiasi velleitarismo adolescenziale e pseudo-rivoluzionario, ma altrettanto lontana da ogni e qualsiasi rassegnazione di stampo liberista.

In questi giorni sono stato invitato a nozze dall’enciclica papale “Fratelli tutti”, che mi ha spinto a rivedere criticamente, alla luce del Vangelo e adottando la logica del buon samaritano, il mio stare nel sistema. Registro con interesse che il pensiero di papa Francesco irrita lorsignori, vale a dire i liberisti a tutto tondo, schiavi del capitalismo con i secoli contati. Benissimo! Allora vuol dire che ha toccato nel vivo della carne capitalistica e anche della mia carne.

Alcuni anni fa, nel periodo in cui ero impegnato a livello di volontariato in una cooperativa sociale, mi recavo spesso in banca per versare gli incassi del negozio gestito da un meraviglioso gruppo di persone fra le quali spiccavano alcuni soggetti svantaggiati avviati al lavoro. Manco a farlo apposta nei pressi dell’istituto di credito incontravo frequentemente un simpatico, schietto e colto amico col quale scambiavo qualche parola. Una mattina se ne uscì con questa provocatoria battuta: «Oh Mora, co’ sit dvintè un cäpitalistä?». Evidentemente era noto che non lo ero né in senso economico né in senso culturale. E non lo sono tuttora.

Ecco perché ho letto con un certo avido interesse di un libro-conversazione scritto da Fabrizio Barca ed Enrico Giovannini contro il neoliberismo, il populismo, il post-ideologismo della destra ma anche della sinistra, il disincanto, i pigri luoghi comuni, la tecnocrazia senza politica, la dittatura del Pil. È un libro per un capitalismo democratico, la democrazia partecipata, lo sviluppo sostenibile, la riduzione delle diseguaglianze, l’interventismo statale e quello dei cittadini, il ricambio generazionale. È un manifesto per una nuova politica, un’agenda per il futuro, prossimo non remoto. Così lo presenta in modo molto invitante Roberto Mania sulle pagine culturali de La Repubblica.

Paolo Sylos Labini sosteneva che il capitalismo è capace di adattarsi ai conflitti e alle pressioni che si trova di fronte. Giorgio Ruffolo sosteneva che il capitalismo ha i secoli contati. E allora? Vuoi vedere che fare un po’ di anticapitalismo o almeno cercare un nuovo capitalismo equivale a pisciare contro vento? Enrico Giovannini sembra quasi tranquillizzarmi: «È il capitalismo malato nella versione neoliberista che va riequilibrato. Non li capitalismo in sé. Ma un modello rapace che ha invaso il mondo, ossessionato dalla ricerca della creazione di ricchezza a tutti i costi, dall’esaltazione del ruolo dei mercati, dalle privatizzazioni sempre e comunque, dalla critica all’intervento statale. Quell’economia guidata dai tecnici e dalle burocrazie tecnocratiche degli organismi internazionali (dal Fmi all’Ocse), con la politica che si è piegata, arrendendosi. Un capitalismo senza redini».

Fabrizio Barca spiega: «Il rapporto fra capitalismo e democrazia può squilibrarsi ed è esattamente quello che è successo: i meccanismi di riequilibrio che la democrazia ha esercitato e sta esercitando nei confronti del capitalismo sono deboli». Poi torna Giovannini a rincarare la dose: «Il covid 19 ha reso più evidenti i rischi che stiamo correndo rispetto al futuro se non affrontiamo seriamente il tema della sostenibilità, non solo ambientale, ma anche economica e sociale. Da questo punto di vista, credo – e non è solo una cieca speranza – che questa crisi ci lascerà un capitalismo più responsabile, più avverso al rischio, anche se ancora alla continua ricerca di occasioni di profittabilità».

Il discorso si fa inevitabilmente e giustamente politico: la distinzione fra destra e sinistra è tutt’altro che superata; occorre riscoprire “le papille morali” della politica, vale a dire autorità, lealtà sacralità. L’autorità si conquista e si fonda attraverso il confronto acceso, aperto, informato e ragionevole volto a ricercare una credibile nuova identità della sinistra; la lealtà significa rimanere fedeli all’impostazione democratica di fondo senza assimilazioni alla lettura neoliberale o autoritaria; la sacralità non vuol dire mercato e merito, ma interesse collettivo, impegno a garantire l’avventura di un mondo realmente sostenibile.

Leggerò questo libro per capire meglio, per approfondire il discorso e per verificarne la fattibilità a livello partitico. In conclusione infatti mi sento di esprimere due dubbi o meglio di porre due punti interrogativi. Siamo sicuri che la crisi pandemica ci orienterà verso una revisione profonda del sistema capitalistico oppure non ci farà sentire il richiamo della foresta spingendoci semplicemente a rifugiarci all’ombra delle piante secolari del capitalismo? Chi, come e quando sarà in grado di effettuare e guidare questa revisione così profonda, scomoda e impegnativa? Prometto agli autori del libro di leggerlo con molta attenzione, di proseguire la riflessione, ringraziandoli comunque di questa provocazione, che ringiovanisce il mio spirito politico e risveglia il mio annebbiato idealismo.

Dall’idillio al dissidio

Aveva stupito tutti l’atteggiamento disponibile e responsabile tenuto dagli italiani durante il periodo del lockdown nella scorsa primavera: i cittadini avevano capito l’estrema gravità della situazione e, tutto sommato, avevano somatizzato le misure restrittive con un “obbedisco” rivolto alle istituzioni impegnate nella battaglia. La gente si era stretta attorno ai pubblici poteri indipendentemente dal colore politico di chi li esercitava.

Anche le parziali elezioni regionali e comunali del settembre scorso avevano lanciato un messaggio di positiva attenzione nei confronti di chi si presentava al giudizio dopo aver gestito direttamente o indirettamente la prima fase della pandemia. Le opposizioni non venivano prese sul serio tanta era la loro demagogica e strumentale avversità nei confronti dei governanti. Si potrebbe dire che il voto aveva una netta connotazione filo-istituzionale, l’esatto contrario del qualunquismo tipicamente scatenato dalle situazioni drammatiche.

Poi è arrivata l’estate con la diffusa illusione che il peggio fosse passato e la normalità fosse a portata di mano. Chi metteva in guardia rispetto ad una probabile recrudescenza autunnale della pandemia veniva regolarmente “cassandrizzato”: da una parte le persone sono andate giustamente in vacanza, ma si sono dimenticate o hanno fatto finta di dimenticare il covid 19 con tutti i problemi annessi e connessi; dall’altra parte i governanti si sono addormentati sugli allori (?) ed è sopraggiunta una colpevole inerzia: sono andati in vacanza anche loro lasciando emergere  una certa fastidiosa se non odiosa pigrizia mentale e fisica.

Nel rapporto tra governanti e governati la fiducia va conquistata giorno per giorno e purtroppo è andata via via scemando. La pandemia ha ripreso a correre mentre noi siamo rimasti al palo, perdendo tutte le occasioni per migliorare la situazione e prepararci all’onda di ritorno. Non so fino a qual punto l’atteggiamento distratto di molta gente abbia influito sul disimpegno pubblico: non riesco a valutare quale sia stato l’influsso negativo dell’irresponsabilità privata sull’inerzia pubblica e viceversa. Fatto sta che il circuito virtuoso si è trasformato in cortocircuito.

Il governo si è svegliato ed ha trovato l’invasore. La gente ha aperto gli occhi e ha visto il (quasi) niente intorno a sé. E allora via alle tardive misure restrittive per chiudere la stalla quando i buoi erano scappati: misure un po’ raffazzonate, ma soprattutto tardive rispetto agli impegni a suo tempo presi in materia sanitaria, scolastica, organizzativa ed economica. L’idillio, se mai era cominciato, è finito ed è finito di brutto.

È pur vero che il lockdown generalizzato metteva tutti nella stessa barca e dava l’impressione che i sacrifici fossero spalmati su tutti e quindi meglio accettabili da tutti. Ora che il lockdown è ristretto i cittadini colpiti si sentono maltrattati e discriminati e protestano duramente estremizzando e drammatizzando le conseguenze. In realtà il motivo di fondo del cortocircuito tra cittadini ed istituzioni è la sopravvenuta mancanza di fiducia. Se in una famiglia i genitori chiedono sacrifici dando il buon esempio a livello di impegno e di disponibilità, hanno qualche probabilità di successo; se invece danno l’idea di fregarsene altamente o comunque di non fare interamente il loro dovere, i figli e i nipoti cominceranno a scalpitare ed a protestare.

Sulle proteste c’è da fare la tara rispetto alle vergognose strumentalizzazioni politiche (ho sentito parlare di sciopero della fame per solidarietà con i ristoratori), rispetto agli egoismi corporativi (ogni categoria tira penosamente l’acqua al proprio mulino senza capire che manca l’acqua), rispetto alla mera rabbia sociale (coltivata da estremisti alla ricerca spasmodica di un clima di sfiducia generale), rispetto al ricorso alla violenza (facile rifugio per l’insensatezza dello scontro fine a se stesso),  rispetto agli egoismi individuali e di gruppo (i sacrifici li devono sempre fare gli altri). Resta tuttavia un malessere palpabile, pericoloso e sfiduciato. Adesso inizierà la solita diatriba fra chi vuole usare il pugno di ferro e chi intende dialogare fra sordi.

Le magagne della politica italiana, che fino ad ora erano state coperte dal rapporto benevolo istituzioni-cittadini, stanno riemergendo in tutta la loro evidente gravità: chi si smarca sostanzialmente dalla maggioranza di governo,  chi pensa a dividere piuttosto che ad unire, chi pensa ai voti che se ne stanno andando, chi pensa di recuperarli sbraitando, chi gioca al tanto peggio tanto meglio, chi non pensa nemmeno lontanamente di passare la mano, chi si nasconde dietro il mondo gravato dalle stessa difficoltà, chi allarga le braccia  in segno di impotenza, chi alza le spalle in segno di menefreghismo etc. etc.

Con la politica bisogna fare i conti. Forse ci eravamo illusi di bypassarne i nodi più spinosi. Stanno riemergendo tutti i punti critici e sinceramente non so come se ne possa uscire. Occorrerebbe una carismatica dimostrazione di alta capacità governativa per ridare credibilità alle istituzioni e recuperare il tempo malamente perduto. Non vedo niente di interessante all’orizzonte.  “Sl’è not us farà dé” ripeteva spesso Benigno Zaccagnini in dialetto romagnolo, negli anni del terrorismo, ricordando un motto della Resistenza. E non è che siamo messi meglio rispetto a quei tempi, anzi…manca però gente come Zaccagnini.

 

Continuismo a prova di docufilm

Se non erro, l’ultima omelia pronunciata dall’indimenticabile amico don Luciano Scaccaglia, agli inizi del 2014, affrontò lo spinoso argomento del rispetto della laicità dello Stato in materia di legislazione famigliare. Ricordo di avere apostrofato le sue parole, esprimendo un commento alla persona che mi stava accanto: «Un sacerdote con questo coraggio e con una visione così chiaramente evangelica e laica è molto difficile, forse impossibile, trovarlo». Era quasi un testamento spirituale che riporto di seguito: «Quindi tu, Chiesa, non avere paura! Non avere paura dei diversi, anche dei diversi sessualmente parlando: sono una ricchezza e non un pericolo. Non avere paura delle coppie di fatto: il sacramento che le unisce è l’amore. Non avere paura delle coppie omosessuali perché sono segno di amore e non temere se i bambini saranno affidati a queste coppie che hanno la vocazione e l’impegno a livello genitoriale e possono andare ben oltre la procreazione biologica. Non avere paura delle leggi civili laicamente e democraticamente adottate dal Parlamento. Non avere paura del sesso, perché è un grande dono di Dio. Non avere paura degli stranieri, perché Gesù li andava a cercare ed aveva grande fiducia in loro. Non avere paura degli Islamici, perché Gesù non discriminava nessuno in base alla religione.  Signore! Aiutaci a non avere paura! Ad andare per le nostre strade con il coraggio dell’amore e non in piazza con la paura del nuovo!». Don Scaccaglia, quando sosteneva queste tesi, sapeva di rappresentare un’avanguardia, di suscitare reazioni stizzite, di essere oggetto di allarmistiche critiche a livello episcopale e clericale, ma non si lasciava spaventare o frenare.

Ai suoi scandalizzati critici fischiano le orecchie: papa Francesco sta dicendo sostanzialmente le stesse cose. D’altra parte don Scaccaglia in vita era comunque in compagnia fortemente minoritaria, ma decisamente autorevole, se il cardinale Carlo Maria Martini affermava con assoluta tranquillità: «Non è male che due omosessuali abbiano una certa stabilità di rapporto e quindi in questo senso lo Stato potrebbe anche favorirli. Non condivido le posizioni di chi, nella Chiesa, se la prende con le unioni civili».

Infatti non a caso il nostro pretaccio lo ricordava così: «Tre anni or sono moriva il card. Carlo Maria Martini, grande studioso della Bibbia, pastore e profeta. Sulle orme di Gesù, partendo dalla giustizia quale conseguenza della fede, era aperto alle persone, non facendosi mai imprigionare dagli e negli schemi,  con una grande attenzione ai non credenti, ai poveri, ai malati, agli indigenti, agli stranieri, agli omosessuali, alle coppie di fatto, ai divorziati risposati, ai detenuti, financo ai terroristi; affrontava serenamente il dialogo con le altre religioni, si poneva, a cuore aperto, davanti alle problematiche sessuali, alla bioetica, all’eutanasia, all’aborto, all’accanimento terapeutico, all’uso del preservativo, al sacerdozio femminile, al celibato sacerdotale. Sempre pronto all’incontro con gli “altri”, con tutti».

In questi anni del pontificato francescano ho spesso registrato un certo gap teologico fra il pensiero di papa Francesco e quello del cardinal Martini soprattutto in materia sessuale. Bergoglio era un seguace di Martini: entrambi gesuiti, entrambi riconducibili all’area progressista cattolica. Il cardinale argentino ha raccolto il tardivo testimone dal perdente italiano nel conclave del 2006: Martini rinunciò alla candidatura a favore di Ratzinger. Ci vorrà tempo, ma ho fiducia che la distanza alla lunga possa essere colmata e le novità possano finalmente sbocciare e diventare stile pastorale comune.

“Le persone omosessuali hanno il diritto di essere in una famiglia. Sono figli di Dio. Nessuno dovrebbe essere estromesso o reso infelice per questo. Ciò che dobbiamo creare è una legge di convivenza civile. In questo modo sono coperti legalmente. Mi sono battuto per questo”. Lo afferma papa Francesco nel docufilm “Francesco” di Evgeny Afineevsky, presentato in anteprima mondiale al Festival del cinema di Roma, nella sezione Eventi Speciali.

Nel lungometraggio il Papa interviene sul tema anche con una telefonata a una coppia di omosessuali italiani che gli avevano indirizzato una lettera. Andrea Rubera e Dario Di Gregorio, tre figli piccoli a carico avuti con la “gestazione per altri” in Canada, avevano chiesto al Papa come superare l’imbarazzo legato al loro desiderio di portare i figli in parrocchia alle lezioni di catechismo. La risposta di papa Francesco è stata inequivocabile: i bambini vanno accompagnati in parrocchia superando eventuali pregiudizi e vanno accolti come tutti gli altri. Andrea Rubera è presidente di “Nuova proposta”, associazione di cristiani lgbt di Roma.

Sono parecchi i pronunciamenti aperturisti di papa Francesco in ordine all’omosessualità. La frase forse rimasta più celebre rimane quella del 28 luglio 2013 di ritorno dal viaggio apostolico in Brasile, in occasione della XXVIII Giornata mondiale della gioventù: «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?».

Il quotidiano Avvenire si mette dalla parte del manico e scrive che la nuova presa di posizione sui diritti da riservare alle persone omosessuali – ineccepibile (bontà sua n.d.r.) alla luce del Vangelo – rischia di essere letta come volontà implicita di rivedere il magistero sul matrimonio. Secondo il giornale di emanazione Cei, non è così e non avrebbe alcun senso ipotizzarlo.

Non mi interessa cercare l’ago nel pagliaio del continuismo magisteriale in materia sessuale. I casi sono due. O il cardinal Martini vaneggiava quando sosteneva: «La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio?». Oppure si tende a parlare bene e a razzolare male: magari rispedendo al mittente il sacrosanto diritto di accedere ai sacramenti e/o mettendo sulla groppa degli omosessuali il ridicolo obbligo di vivere in castità.

Attenzione a non fare come con il coronavirus: ci sono i negazionisti e i riduzionisti. Nel caso dell’omosessualità essere negazionisti rispetto ad un passato fatto di discriminazioni e intolleranze, anche da parte di uomini di Chiesa, mi sembra impresa storicamente e culturalmente assai ardua. Il riduzionismo invece è di casa anche se forse è ancor peggio. D’altra parte a livello di ebraismo non c’è chi sostiene che Gesù non dicesse niente di nuovo rispetto alla dottrina seguita dai “preti” dell’epoca? Mi chiedo allora perché tanta ostilità fino a metterlo in croce.

Cerchiamo di essere seri e ammettiamo che papa Francesco, pur con qualche titubanza e incertezza, sta cambiando certi indirizzi pastorali sciacquando quelli dottrinari nell’Arno evangelico e vigiliamo perché le inevitabili ondate reazionarie e tradizionaliste non tentino di svuotare nella prassi le novità espresse dal pontefice. Il pericolo è fortissimo.

Papa Francesco ha parlato del rapporto tra Chiesa e gay il 21 maggio 2018, incontrando un omosessuale cileno, Juan Carlos, come riferisce il quotidiano spagnolo “El Pais”. Queste le parole di Francesco: «Juan Carlos, che tu sia gay non importa. Dio ti ha fatto così e ti ama così e non mi interessa. Il papa ti ama così. Devi essere felice di ciò che sei”. Juan Carlos Cruz fu vittima di don Fernando Karadima, parroco pedofilo che è stato all’origine dello scandalo che ha scosso la Chiesa cilena. I suoi abusi, in particolare, sarebbero stati nascosti dalle gerarchie, fra queste dal vescovo di Osorno, Juan Barros.

Don Scaccaglia era da poco ritornato in parrocchia dopo lunga degenza ospedaliera per un complesso intervento chirurgico: gli rendevo visita non troppo frequentemente per non affaticarlo, ma comunque cercavo di comunicargli la mia vicinanza con qualche breve puntata nel suo appartamento. Andai da lui una domenica mattina prima della messa, che non aveva ancora ripreso a celebrare, pochi giorni dopo lo scoppio dello scandalo dell’outing del monsignore della curia vaticana, il quale ammetteva la sua omosessualità e la relazione con il suo partner, lanciando un bel sasso nella piccionaia omofoba (di facciata) degli ambienti clericale. Provai a introdurre en passant l’argomento con una battuta: «Hai visto Luciano che razza di casino ha fatto scoppiare quel monsignore della curia romana?». Sostanzialmente la risposta secca e immediata fu: «Ha fatto benissimo! È inutile continuare a nascondere la realtà dell’omosessualità presente anche fra i sacerdoti. Bisogna prenderne atto, smettere di criminalizzarla, toglierla dalla clandestinità e volgerla in positivo». Non volli battere ulteriormente il tasto, mi limitai solo a commentare: «Se mi volevi dimostrare di avere ripreso totalmente la tua lucidità e la tua verve, ci sei riuscito pienamente». Ne riferii ai componenti della comunità di S. Cristina al termine della messa celebrata da un sostituto: rimase piuttosto perplesso, ma non disse nulla e incassò il colpo.

 

 

I pesci in un barile che sta traboccando

Tento una lapidaria narrazione dei fatti inerenti l’ultimo periodo della pandemia, i lunghi mesi che hanno visto molte chiacchiere, parecchie polemiche, tante previsioni, infinite discussioni e pochissimi interventi concreti e mirati. Il 16 luglio di quest’anno – ed era già tardi – in uno dei miei commenti scrivevo quanto di seguito riporto.

“Secondo Massimo Cacciari, in autunno la situazione sociale ed economica sarà drammatica con pericoli per l’ordine sociale. Per stare a galla, il governo dovrà coprirsi dietro il pericolo della pandemia e tenere le redini in qualche modo. Una “dittatura democratica sarà inevitabile”.

Molto simile a questa piccante analisi, quella di Carlo De Benedetti, secondo il quale è la disuguaglianza il punto a cui si possono far risalire i principali difetti della nostra realtà. De Benedetti la vede come causa scatenante del malcontento destinato ad esplodere nel prossimo autunno, che, a suo dire, verrà calmato con mance e polizia, vale a dire con un po’ di ordine pubblico e un po’ di regali”.

Faccio un salto di tempo e vengo ai giorni nostri, al 24 ottobre: Antonio Di Costanzo su La Repubblica fornisce la cronaca che riporto di seguito.

“Monta la protesta a Napoli contro il “coprifuoco” e contro il lockdown annunciato dal presidente della Regione Vincenzo De Luca in diretta social. A tarda sera esplode la tensione. Scontri davanti alla sede della Regione in via Santa Lucia, cariche delle forze dell’ordine, lancio di lagrimogeni, urla e slogan contro la decisione di chiudere tutto in Campania, in una situazione di già grave crisi dell’economia. Così la prima notte del coprifuoco fallisce e il centro di Napoli si accende per la rabbia sociale”.

Lo stesso giorno sullo stesso giornale Roberto Petrini riferisce, in modo peraltro piuttosto tecnocratico, come di seguito.

“Il decreto “novembre”, il quarto anti-covid, è in allestimento al Mef e per ora conta su 4-5 miliardi. «Le risorse ci sono, sosterremo chi ne ha bisogno», assicura Gualtieri. L’idea originaria era quella di inserire nel decreto la proroga della cassa integrazione con una dotazione di 6-10 settimane spendibili fini a fine anno dalle imprese e di inserire anche la proroga del blocco dei licenziamenti fino a quella data. Il tutto per un costo di 2 miliardi. L’aggravarsi della situazione sanitaria ha suggerito di anticipare altre misure della legge di Bilancio: in particolare 1,4 miliardi per la proroga dei contratti a tempo determinato per 30 mila medici e infermieri e 1 miliardo per il contratto di lavoro dei medici. In tutto si salirebbe a 4-5 miliardi considerando che, se dovesse scattare una chiusura ancora più estesa delle attività economiche, sarà necessario anticipare parte del rifinanziamento da 4 miliardi, previsto in legge di Bilancio, del cosiddetto fondo perduto destinato alle piccole imprese gestite con partita iva, tra le quali spiccano ristoranti, bar e altre attività particolarmente colpite in questa fase. Quanto alle risorse, stavolta non si dovrà ricorrere allo scostamento di bilancio perché saranno riutilizzati i soldi “avanzati” da alcune delle misure di quest’anno a partire dalla cig: operazione indispensabile per evitare che le risorse vadano perdute”.

Poi sono arrivate le misure restrittive varate dal governo Conte il 25 ottobre 2020, che lasciano prevedere ulteriori reazioni di protesta da parte dei cittadini e delle categorie imprenditoriali interessati. Dopo Napoli e Roma sono in pentola altre manifestazioni stando anche agli inviti alla mobilitazione comparsi a catena su vari social e siti internet. Lungi da me soffiare sul fuoco, gufare o “sciacallare”, mi limito a registrare con molta preoccupazione i fatti del giorno col timore che l’ansia e la paura di parecchia gente possa trasformarsi in rabbia sociale sfogabile con la violenza.

Subito dopo il Dpcm del mini lockdown, ecco il ristoro economico. Scrive il quotidiano La Stampa: È il passo obbligato, richiesto da tutte le categorie economiche e le forze politiche, siano esse di maggioranza e opposizione. Il premier Giuseppe Conte, in conferenza stampa, fa sapere che i tecnici dei ministeri hanno già studiato come liquidare le compensazioni alle categorie più colpite. «Ci sarà un bonifico, direttamente sul conto corrente, dall’Agenzia delle Entrate, è una modalità che abbiamo già sperimentato», dice Conte. Per quanto riguarda le tempistiche il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, pensa che i contributi possano essere erogati «entro metà novembre». L’indennizzo sarà «superiore a quello ricevuto la scorsa volta» e riguarderà attorno alle 350mila aziende ed esercizi pubblici «che sono oggetto delle restrizioni introdotte dal Dpcm». Viene poi annunciato un credito di imposta per i mesi di affitto commerciale in ottobre e novembre. lo stop alla seconda rata Imu e una nuova indennità mensile ‘una tantum’ per i lavoratori di turismo, spettacoli, e sport: tutte categorie che vivranno almeno un mese sostanzialmente di sole spese, senza alcun ricavo”.

Mance e polizia? Fare la Cassandra è un modo di dire che significa predire avvenimenti disastrosi, preconizzare eventi funesti, drammatici, luttuosi, senza essere creduti. Ma Cassandra ci prendeva e per la verità anche Carlo De Benedetti ci ha azzeccato, anche se non era poi così difficile fare simili previsioni. La schizofrenia dei disordini è lampante: si protesta all’insegna del “piove governo ladro” o c’è qualche ragione fondata per protestare violentemente contro chi governa? La verità, come spesso succede, sta nel mezzo: i pubblici poteri potevano fare di più e meglio; la gente scarica sui pubblici poteri le proprie frustrazioni, le proprie paure e le proprie trasgressioni. Quanto alle mance, sembrano piuttosto consistenti, ma poi occorrerà del tempo e speriamo che gli aiuti non arrivino a pioggia su un’economia morta.

E la dittatura democratica prefigurata da Massimo Cacciari? L’ossimoro in questo caso sta diventando coerenza, un modo per uscire da una situazione pazzesca in cui la politica del bastone e della carota cerca disperatamente di raccogliere i frutti. Resta in tutto e in tutti la sensazione dell’improvvisazione e della precarietà. Se ben ricordo, Mario Draghi ha individuato nella precarietà il dato negativamente fondamentale di questa fase storica. In fin dei conti le profezie di De Benedetti e Cacciari mettevano in guardia da questo rischio: un colpo al cerchio della salute, un colpo alla botte dell’economia, una bastonata a chi rompe i coglioni, una carota a chi fa il bravo bambino, una restrizione di qua e una concessione di là. L’istituzionalizzazione dei pesci in barile? Una trafelata e tardiva rincorsa ai prevedibili e trascurati effetti della pandemia? Forse sono troppo cattivo. Spero di sbagliarmi, ma il brutto deve ancora venire!

 

La potenza vaccinale dell’amore

Mi sono preso la briga di consultare il dizionario per verificare il significato del termine “lockdwn”, che in questo periodo va purtroppo assai di moda. Ebbene, lockdown, scritto anche lock down, è una parola d’origina americana e significa letteralmente isolamento, chiusura, detenzione, confinamento. Confesso la mia ignoranza in materia di lingue straniere, quindi non lo sapevo per certo, lo avevo intuito dall’uso che se ne fa e adesso, se possibile, sono ancora più preoccupato. A monte dell’isolamento/confinamento non possono che esservi delle regole negative, delle proibizioni più o meno drastiche, dei divieti difficili da sopportare anche in nome della salute personale e pubblica.

Ero sull’autobus, circa a metà mattina, e osservavo come il traffico e la confusione fossero contenuti (era luglio e si vedeva), ma, come spesso accade, i fatti si prendono la briga di smentire immediatamente i pensieri: l’autobus si blocca improvvisamente e rientriamo in piena bagarre per una strettoia , impediti a sinistra da mezzi per lavori stradali e a destra (ogni riferimento alla logistica politica è puramente casuale) da un suv (io le chiamo camionette, fuoristrada per la precisione) grosso, ingombrante, lussuoso, decisamente bello sul piano estetico. L’autista del bus, alquanto spazientito, dava sfogo alla propria eloquente gestualità per far capire al conducente del suv la necessità di spostare il mezzo: altrimenti non si poteva passare. Devo ammettere che, molto educatamente, l’autista in questione non aveva fatto ricorso al clacson illudendosi di risolvere la questione senza bisogno di immettere baccano in un ambiente abbastanza tranquillo. Ma Toscanini non ottenne l’effetto sperato perché il suonatore faceva finta di niente, sperava che non si rivolgessero a lui (o meglio stava facendo il finto tonto). L’autista imperterrito continuava a gesticolare tentando di rendere l’idea: se non sposti il suv, il bus ti viene in cul (scusate la volgarità, ma il messaggio era quello). Finalmente il “tonto di lusso” si degna di scendere dal suo potente mezzo con l’intenzione di parlare all’autista direttamente: forse ci siamo, pensavo tra me, dove non poterono i gesti risolveranno le parole. Il dialogo non fu concitato per merito del pubblico dipendente che si limitò ad esporre la sua oggettiva impossibilità a proseguire la corsa. Da parte sua “il fenomeno” se ne uscì con una pirandelliana affermazione: “Ma io devo andare in banca !!!…” (nell’agenzia proprio a lato). Non so come, ma l’autista del bus non si agitò, si limitò a scuotere il capo mentre l’altro continuava dicendo: “Perché non chiede di spostare il mezzo di lavoro stradale?”.  Risposta anche troppo equilibrata: “Ma le sembra possibile?… e poi le faccio presente che esiste un divieto di sosta molto ben visibile”.  Dopo qualche residua insistenza il suv venne finalmente spostato ed io ridendo di gusto estrassi il taccuino per annotarmi il ghiotto aneddoto: il traffico era ripreso e dico sinceramente di non essermi minimamente preoccupato dell’urgente operazione bancaria di quell’assurdo signore.

A questo punto mi chiederete cosa c’entri questo episodio di qualche tempo fa, pur molto curioso, con il lockdown dei giorni nostri. Apparentemente nulla. Invece dà l’idea della nostra refrattarietà alle regole e quindi del nostro accettare con difficoltà le pur pesantissime restrizioni imposte dalle pubbliche autorità per contrastare la diffusione del covid. Da una parte non giustifico le trasgressioni, ma nello stesso tempo capisco il senso di smarrimento di chi si trova umanamente e socialmente isolato a causa dei divieti imposti.

Qual è il limite che ci dobbiamo porre per non passare dall’isolamento fisico all’alienazione umana? La scrittrice israeliana Hamutal Shabtai nel suo romanzo “2020” ha curiosamente profetizzato la pandemia ed è rimasta essa stessa colpita da quanto la sua descrizione romanzesca si stia rivelando e dimostrando realistica: come la paura abbia preso il sopravvento e come non solo gli uomini, ma anche gli Stati abbiano iniziato a relazionarsi attraverso la lente della paranoia. Meir Ouziel termina su La repubblica il suo pezzo di commento al libro di cui sopra con queste affermazioni, che non ho capito se siano riprese testualmente dal libro, ma certamente ne rispecchiano sostanzialmente lo spirito: “Un mondo senza erotismo e senza amore tra gli esseri umani equivale alla morte del mondo. Il bacio è l’unico mezzo che l’uomo ha per far fronte, per un istante, alla sua nullità rispetto all’eternità. L’amore è l’elemento più importante delle nostre vite. Tutti moriremo prima o poi, con o senza virus. Ma se continueremo a vivere senza l’amore, senza la possibilità di baciarci, il covid avrà davvero sopraffatto l’umanità”.

Sto faticosamente e disciplinatamente osservando le regole anti-covid, ma non rinuncio, nel modo più assoluto, ai miei affetti, a baciare ed a fare l’amore con la persona a cui sono legato sentimentalmente. Ci sto a morire, perché diversamente mi sentirei morire prima del tempo. La mia paura, che pure è tanta, trova un limite invalicabile nell’amore.

Mi ricordo di un’ardita e stupenda similitudine, che mi prospettò anni fa un sacerdote amico, tuttora vivo e vegeto, unico per la sua pazienza verso la mia mentalità sessuale al di fuori degli schemi. Forse attingendo dalla sua vocazione adulta e quindi dalla più diretta conoscenza dei rapporti umani, parlando di Risurrezione, Paradiso e Premio Eterno, mi propose un raffronto tra lo stato di soddisfazione e felicità nella vita eterna con lo stato sublime e pieno di scambievole amore dell’amplesso coniugale, con quei momenti che si vorrebbe non finissero mai, tanta è la gioia e la completezza che si vive insieme. Così, a detta di questo amico sacerdote, disinibito e uomo fino in fondo, sarà di noi nell’altro mondo. Ebbene, io non rinuncio agli acconti di Paradiso, non rinuncio all’eternità per paura del coronavirus.

Termino con un grazioso aneddoto anche per sdrammatizzare in un certo senso il discorso. Un mio zio, che non era da meno in senso battutistico rispetto a mio padre, scommetteva su una lunga vita così giustificandosi: «Al garà un bél dir al dotór: questo paziente sta morendo; mi a continov a tirär al fiä…». Avrà un bel daffare il covid a condizionarmi gli affetti spaventandomi a morte, a far svanire per sempre il sogno mio d’amore: io continuo a dare e ricevere dolci baci e languide carezze mentre fremente le belle forme disciolgo dai veli…

 

 

 

 

 

 

Se loro hanno Confucio…noi abbiamo Gesù

A noi arriva un quadro della situazione cinese da fare invidia. Nella prima fase della guerra al coronavirus, abbiamo scaricato sulla Cina molte colpe in merito alla falsa partenza del covid, dai colpevoli e imbarazzati ritardi di regime nell’ammissione della presenza del virus fino ad arrivare alle dolose e fantasiose accuse di essere i responsabili dell’immissione in circolo del virus stesso.

Scrive Marta Dassù in un commento pubblicato da La Repubblica: “La Cina sta però vincendo la seconda fase della guerra al covid. Chi vive nella Repubblica popolare afferma che il coronavirus non è solo sotto controllo, è già stato sconfitto. Con misure da tempi di guerra. Il lockdown a Wuhan è durato quasi cinque mesi, nel resto della Cina tre almeno. Ed è stato realmente un lockdown totale: presenza della polizia e sorveglianza elettronica hanno impedito alla gente di muoversi da casa e consentito di tracciare rapidamente i contagi. Un sistema invasivo di controllo sociale, pensato dal regime per ragione politiche, ha favorito la battaglia sanitaria. Ha avuto un peso, naturalmente, anche l’impronta confuciana della società.  In Cina l’individuo si concepisce anzitutto come parte di una comunità più vasta: i diritti dei singoli possono essere sacrificati alla sicurezza collettiva. Numero stratosferico di tamponi e divieto assoluto degli spostamenti interni hanno fatto il resto, assieme all’esperienza già maturata di fronte alla Sars un paio di decenni fa”.

Un regime dispone di mezzi coercitivi che in democrazia non sono ammessi, anche se la nostra è più una “individuocrazia”, di demos e di civico ha ben poco al di là delle elezioni. Non si scandalizzino quindi i liberisti ad oltranza delle sacrosante critiche contenute nell’enciclica papale “Fratelli tutti” laddove afferma: “La categoria di popolo, a cui è intrinseca una valutazione positiva dei legami comunitari e culturali, è abitualmente rifiutata dalle visioni liberali individualistiche, in cui la società è considerata una mera somma di interessi che coesistono. Parlano di rispetto per le libertà, ma senza la radice di una narrativa comune”.

E allora innanzitutto non dobbiamo essere presuntuosi e provare ad imparare quanto di buono ci può venire dalla Cina: non demonizziamo quel Paese, anche se ha responsabilità enormi passate e presenti. Ad esempio il ricorso ai tamponi è uno strumento che stiamo utilizzando poco e male. Il contenimento degli spostamenti dovremmo cercarlo in tutti i modi possibili, partendo dall’idea che i diritti valgono bene certi sacrifici.

Comunque a far quadrare il cerchio democratico dovrebbe essere la politica con il consenso, con l’autorevolezza, con la credibilità, con la competenza e l’esperienza. Qui casca l’asino. I nostri governanti non hanno le carte in regole e infatti la seconda fase della guerra al covid registra non poche conflittualità fra la popolazione e tutti i livelli di governo. Ad una iniziale aspettativa responsabile e relativamente fiduciosa, sta seguendo una fase che si preannuncia assai conflittuale e sfiduciata da parte della gente nei confronti della politica.

Non torno sulle motivazioni di questa dicotomia più volte commentate. Mi soffermo brevemente sul tentativo di ripristinare il collegamento, rafforzando l’attuale governo Conte tramite un rinnovato ed allargato patto tra Pd e M5S a livello programmatico (vedi soprattutto l’utilizzo del Mes, la massiccia e mirata pianificazione degli investimenti, il varo di misure di sostegno ai soggetti e alle categorie più deboli) e politico (vedi alleanze sul territorio). Basterà a rendere l’idea di un governo compatto e duraturo in grado di gestire un’emergenza sanitaria ed economica senza precedenti? Certo meglio un po’ di concordia e di collaborazione rispetto ad una litigiosità paralizzante e fastidiosa.

Non voglio fare il “benaltrista”, ma credo occorra molto di più per creare un circuito positivo e fiducioso tra le istituzioni ed i cittadini. Non voglio fare il “maanchista”, ma l’ideale sarebbe un governo di unità nazionale guidato e composto da personalità di alta levatura professionale ed esperienziale, però la situazione politica non lo consente, salvo improbabili conversioni da parte delle forze politiche più demagogicamente riottose. Continuo, nonostante tutto, a nutrire grande fiducia nel presidente della Repubblica: Sergio Mattarella sta facendo l’impossibile per tenere agganciato e unito il Paese e per “costringere” i partiti ad un impegno serio e responsabile.

Non so l’effetto che farà su di lui l’appello degli oltre cento scienziati, partito ad iniziativa del presidente dei Lincei Parisi. Personalmente sono rimasto impressionato e mi sono chiesto: possibile che la politica, pur facendo lo sconto alla scienza, che ha dimostrato purtroppo tutti i suoi limiti di conoscenza e di coerenza, resti insensibile a simili sollecitazioni ad agire e ad agire in fretta in difesa della salute pubblica? Non dico staremo a vedere, perché non c’è tempo. Speriamo bene: che i governanti trovino la forza e la sensibilità per farsi carico della situazione e che i cittadini non si perdano in assurde conflittualità e rimangano coi nervi saldi di fronte ai sacrifici che verranno loro richiesti. Sembra un’intenzione da preghiera dei fedeli durante la Messa. Sì, forse bisogna soprattutto pregare (lo dico naturalmente per chi ci crede).

Maccheroniche procedure, molto burocratiche e poco democratiche

Il fascicolo sanitario elettronico dovrebbe essere una modalità sbrigativa di interlocuzione in merito ai rapporti con le Aziende sanitarie locali e allo svolgimento delle pratiche burocratiche relative. Ecco di seguito le istruzioni per attivarlo direttamente da casa tramite il Sistema pubblico di identità digitale.

Per farlo va effettuata la registrazione on line, caricando i documenti richiesti (scansione fronte/retro del documento di identità e della tessera sanitaria in corso di validità) ed effettuando la validazione di numero di telefono e indirizzo mail dichiarati. Va poi chiesto il riconoscimento via web-cam prenotando una sessione audio/video a cui accedere, una volta programmato, tramite link di Google Meet. Con l’identità Spid si può attivare il fascicolo sanitario elettronico.

Dopo aver letto queste “maccheroniche” e, per me, incomprensibili istruzioni, mi è passata la voglia del fascicolo elettronico, che qualcuno mi aveva consigliato di aprire. La burocrazia è troppo forte, vince sempre, anche contro l’informatica, anzi con quest’ultima va di pari passo per complicare le cose. Sono consapevole di essere un vecchio ed ingauribile retrogrado, ma se questa è semplificazione…

Come ho già più volte ricordato – il ripetersi è un altro inequivocabile sintomo di vecchiaia – molto tempo fa il ministro della riforma burocratica Massimo Severo Giannini, dopo qualche tentativo andato a vuoto, vista la difficoltà al limite dell’impossibilità di cambiare le cose, diede le dimissioni preannunciando di voler emigrare negli Usa. Giustamente l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini lo rimproverò aspramente. Avevano ragione entrambi?! Il primo si arrendeva di fronte alla forza delle procedure e degli apparati burocratici, il secondo strigliava la politica incapace di superare gli apparati.

Sul fatto di fuggire negli Usa abbiamo proprio in questi giorni la conferma che comunque, anche oltreoceano, la politica rischia di impantanarsi di fronte alla burocrazia, anche quella del voto. Gerard Pomper, professore emerito di Scienze Politiche alla Rutgers University del New Jersey, uno dei maggiori esperti di politica americana, è convinto che Joe Biden vincerà il voto popolare con un margine significativo e avrà una maggioranza decisiva anche nel Collegio elettorale, ma le procedure di voto complicheranno e allungheranno la conoscenza ufficiale dell’esito della consultazione creando i presupposti per una battaglia legale in cui probabilmente si rifugerà Donald Trump, deciso a vendere cara la pelle.

Dice Pomper: “Il voto di persona è semplice, la verifica richiede una firma veloce, basta premere pochi (sic!) pulsanti e il conteggio viene automaticamente registrato ed effettuato; il voto per posta invece comporta molti più passaggi, ciascuno soggetto a errori umani e meccanici. Nella maggior parte degli Stati ogni scheda deve essere richiesta, inviata, ricevuta, completata, restituita ai funzionari elettorali, contata e infine inclusa nel conteggio”. Dal momento che il ricorso al voto per posta è assai praticato, ci possiamo preparare alla ripetizione di quanto successe dopo lo scontro elettorale tra Bush e Gore nel 2000 che portò al riconteggio in Florida e alla decisione finale della Corte Suprema, con il dubbio residuo che quelle elezioni le avesse vinte Gore, il quale si dichiarò perdente per carità di patria.

Quindi la fuga negli Usa non risolve affatto il problema della invadenza burocratica nella politica e nella vita dei cittadini, anzi la rende ancor più clamorosa e devastante. Da una parte il sistema è elettoralmente schiavo della burocrazia, dall’altra parte la mancanza di burocrazia ha il prezzo dell’assenza di diritti. In tutto il mondo assistiamo ad elezioni truccate: la burocrazia è sempre una grande chance per chi vuole annacquare a monte ed a valle la volontà popolare, riducendo la democrazia a mera ritualità farcita oltre tutto dal peloso strapotere informatico.

Durante il lungo conclave del 1958  per l’elezione del papa che sfociò nell’elezione di Roncalli quale Giovanni XXlll, in caffè dal televisore si poteva assistere al susseguirsi di fumate nere e qualche furbetto non trovò di meglio che chiedere provocatoriamente a mio padre, di cui era noto il legame, parentale e non, con il mondo clericale (un cognato sacerdote, una cognata suora, amici e conoscenti preti etc….): “Ti ch’a te t’n’ intend s’in gh’la cävon miga a mèttros d’acordi cme vala a fnir “.  Ci sarebbe stato da rispondere con un trattato di diritto canonico, ma mio padre molto astutamente preferì rispondere alla sua maniera: “I fan cme in Russia, igh dan la scheda dal sì e basta! “.

Oggi a guerra fredda ultimata, a democrazia fintamente diffusa, a tecnocrazia imperante, a burocrazia incallita, a informatica scodellata, in mezzo a moduli, procedure, brogli, cliccamenti vari, potrebbe anche ricredersi ed ammettere sconsolatamente ed amaramente che “forsi saris mej fär cme i favon in Russia ‘na volta, parchè adésa ànca lôr i fan fénta d’ésor democratic”.

 

Vangelo lungo e pedalare

È troppo provocatoriamente interessante l’analisi di Marco Marzano su  ilfattoquotidiano.it ripresa da MicroMega per non essere presa in considerazione: riguarda le vicende della Curia Vaticana e il titolo, “Becciu è il malfattore e il Papa l’innocente tradito? La realtà è un po’ diversa”, è tutto un programma. Mi sembra opportuno citarne di seguito integralmente alcuni passaggi.

“Becciu è diventato ormai il sinonimo di Giuda, capace, per qualche denaro, di vendere l’immacolato e purissimo successore argentino di Pietro. Giorno dopo giorno cadono con lui nella polvere altre figure, ma la loro disgrazia non fa che esaltare, nelle cronache, il candore della veste papale, l’innocenza tradita del Santo Padre. Più costoro sono meschini più lui appare diverso da tutti, unico e puro.

È lo schema usato in altre circostanze storiche per descrivere il rapporto tra i sovrani e la loro corte, tra i dittatori e il loro seguito. “Il re e è puro e ama il suo popolo – questo è l’adagio – ma i perfidi cortigiani tramano alle sue spalle e approfittano della sua immensa bontà per compiere il male”. Oppure “il duce è onesto, sono i suoi collaboratori ad essere corrotti”. È questo anche lo schema adoperato all’inizio di Tangentopoli da quei leader politici che cercavano disperatamente di scaricare tutte le responsabilità degli affari illeciti dei loro partiti sui “mariuoli”, sui segretari amministrativi, su chi gestiva i cordoni della borsa.

In questo scenario, la curia romana viene descritta come una sorta di associazione di liberi professionisti indipendenti, in cui ciascuno fa un po’ quel che gli pare mentre il capo pensa solo a pregare e a celebrare messa. Quando si concludono affari di centinaia di milioni di euro quest’ultimo non viene nemmeno consultato.

Ho il sospetto che la realtà sia un po’ diversa. La Chiesa Cattolica è la più centralizzata e gerarchica delle istituzioni esistenti. Il monarca che la guida è dotato di poteri immensi e assoluti e la curia è il principale apparato organizzativo al suo diretto servizio.
Se così stanno le cose, i casi sono due: o Bergoglio si trova nella stessa posizione che fu di Ratzinger e ha perso completamente il controllo della situazione e allora siamo di fronte ad un vuoto di potere che immaginiamo sarà colmato al più presto (casomai grazie a un gesto di responsabilità, un autopensionamento del monarca) oppure il papa regna e governa a tutti gli effetti e allora qualche responsabilità l’avrà anche lui nelle vicende di cui sopra”.

Su un piano squisitamente politico l’analisi di Marzano non fa una grinza, senonché la Chiesa non è un’istituzione assimilabile tout court ad uno Stato più o meno anti-democratico. Se così fosse non solo avrebbe ragione, ma cadrebbe tutto il discorso o quanto meno si ridurrebbe ad una questione come tante, interna ai meccanismi di funzionamento di un sistema o di un regime. Rimane indubbiamente aperto, diciamo socchiuso, il discorso del potere temporale della Chiesa configurabile nel Vaticano, ma mi sembrerebbe una diatriba piuttosto anacronistica e di scarsa rilevanza. Non ci sarebbe da scandalizzarsi più di tanto e il gran baccano suscitato dai contrasti curiali rientrerebbe, bene o male, nelle normali vicende politiche di una pubblica istituzione.

Mia sorella, quando era impegnata in campo politico, non sopportava le reprimende clericali e reagiva schiettamente rimandando le critiche al mittente: “Prima di guardare la pagliuzza (?) nell’occhio laico della politica, togliessero la trave nell’occhio delle gerarchie cattoliche…”. Aveva perfettamente ragione, ma la partita non si gioca solo su questo terreno, c’è un altro livello in cui si colloca e si complica. “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi …”. Se crediamo in questa “diversa” natura della Chiesa, dobbiamo rifarci alla prima comunità intorno a Gesù: c’era un po’ di tutto. C’erano gli arrivisti («di’ che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno»), c’erano i complottisti (pensavano ad un messia politico che liberasse Israele dal giogo romano), c’erano i traditori (per delusione, per interesse, per paura, per vigliaccheria). Non per questo ci sogniamo di sputtanare Gesù, accusandolo di essere una scimmietta “non vedo, non sento, non parlo” e ancor meno “un re che sopporta i cortigiani corrotti che gli fanno gioco”. Vedeva i difetti dei suoi seguaci, che fra l’altro aveva scelto lui, li bacchettava continuamente, ma non ha azzerato il gruppo né espulso alcuno, al massimo chiedeva loro: «Ve ne volete andare anche voi?».

Senza esagerare, sono d’accordo con chi individua il tratto fondamentale del pontificato di papa Francesco nella assoluta e totalizzante centralità evangelica e quindi in una “pazzesca” sfida a tutti, tentando di “copiare” Gesù. Allora le eventuali contraddizioni del papa attuale non sono tanto a valle, nelle stanze vaticane, ma a monte nella “preferenza per i pubblicani e le prostitute”, vale a dire nel rifiuto categorico del dogmatismo, del clericalismo e del maschilismo. I suoi gesti vanno in questa direzione e non ci dobbiamo stupire se rischiano di rimanere lettera morta a livello istituzionale e strutturale. I limiti di papa Francesco riguardano le titubanze nell’affondare i colpi nel merito delle questioni riconducibili al dogmatismo, nel non riuscire a buttare all’aria il conservatorismo teologico. Papa Ratzinger è rimasto sostanzialmente vittima della sua smania identitaria giocata sul piano teologico (era stato fatto papa per ridare alla Chiesa una forte identità teorica), papa Bergoglio rischia di soccombere rispetto alla sua intenzione di capovolgere la Chiesa in nome del Vangelo e secondo l’esempio di Gesù. Ha alzato l’asticella al massimo per se stesso e per tutti i cristiani: ecco perché sta montando intorno a lui una notevole resistenza, il cristianesimo di comodo è finito.

Termino queste strampalate riflessioni con una similitudine. La pulizia della e nella Chiesa non la si fa tanto e solo utilizzando strumenti efficaci (solo una volta Gesù ha usato il bastone, contro i mercanti nel tempio) e buttando all’aria le scrivanie dei curiali (come mi piacerebbe vedere una scena del genere…), ma riportando il cristianesimo da religione a fede, dalle regole alla carità di vita in tutto e per tutto (Gesù dava più fastidio quando si sedeva a tavola con i pubblicani, quando si faceva toccare dalle prostitute, quando parlava seriamente e dolcemente con le donne, quando mandava assolte le adultere, quando si avvicinava ai lebbrosi, quando rimetteva i peccati agli scomunicati dell’epoca, etc. etc.). Dove ci sta il più, ci sta anche il meno. Togliamo il potere alle curie non con un colpo di stato vaticano, ma con una rivoluzione dal basso: è il metodo che ci ha insegnato Gesù e che penso, pur con inevitabili debolezze, stia portando faticosamente avanti papa Francesco.

 

Al centro del ring e mai a bordo ring

Durante le animate ed approfondite discussioni con l’indimenticabile amico Walter Torelli, ex-partigiano e uomo di rara coerenza etica e politica, agli inizi degli anni novanta constatavamo che alla politica stava sfuggendo l’anima, se ne stavano andando i valori e rischiava di rimanerci solo la “bottega” ed al cittadino non restava che scegliere il “negozio” in cui acquistare il prodotto adatto alla propria “pancia”. Fummo facili profeti: da allora più che di bipartitismo (im)perfetto si può parlare di qualunquismo strisciante con le parole d’ordine del “tutti uguali, tutti ladri e tutti stupidi”. Attenzione però, chi dice così, chissà perché alle elezioni vota a destra: se infatti tutti coloro che confondono destra e sinistra fossero coerenti, l’astensionismo a livello elettorale dovrebbe raggiungere vette pazzesche, invece…

Nello schieramento politico italiano c’è sempre stata ed esiste tuttora una forte tendenza ad essere di centro, perpetuando l’equivoco che occupare uno spazio centrale significhi essere equidistanti da destra e sinistra. Per fortuna uno dei promotori di una nuova forza politica in area cattolica, vale a dire “Insieme”, ha chiarito che stare al centro non vuol dire essere centristi, non significa scegliere una concezione immorale che trasforma la politica in un mercato, in cui si cede il proprio progetto a chi offre di più.

Lo stesso discorso vale per il termine “moderato”, che non vuol dire rifiuto dei contenuti forti provenienti da destra e sinistra, ma adozione di uno stile che non parta dai pregiudizi e dalle ideologie, ma dai problemi concreti della società per affrontarli nel dialogo e nel confronto. Non vuol dire solo adottare un linguaggio politicamente corretto (anche di questo c’è bisogno), non vuol dire prescindere dai principi e dai valori (Dio ci scampi e liberi da simili derive culturali), ma mettersi in discussione per trovare soluzioni condivise.

La pandemia avrebbe dovuto favorire un clima di moderazione costruttiva nel dibattito e nell’azione della politica, invece purtroppo ha divaricato ancor più le posizioni aggiungendo alla vuota conflittualità politica il gravissimo scontro istituzionale fra centro e periferia, fra Stato e Regioni, fra governo e comuni. Questa pessima immagine toglie ancor più credibilità e autorevolezza alla politica e porta discredito sulle istituzioni democratiche: in questi giorni purtroppo siamo un po’ tutti scriteriatamente e paradossalmente tentati dalle sirene della semplificazione autoritaria. Mia madre quando voleva sferzare il sistema politico parlava di “scemocrazia”. Speriamo di non dover utilizzare il termine “pirlamento”, come ho sentito dire a margine di una lucida e spietata analisi politica formulata da una simpatica anziana signora.

Non ricordo chi fosse, ma un grande personaggio sosteneva che la democrazia si esercita non tanto con le elezioni, ma dopo le elezioni. Questa breve ed eloquente analisi dovrebbe essere messa sotto il naso dei politici, che hanno sempre la riserva mentale del ricorso alle elezioni, con il retro pensiero di incassare a livello di partito un risultato favorevole: il resto non conta niente, i problemi possono aspettare. Uguale e contrario l’atteggiamento ostruzionistico degli esponenti politici preoccupati solo di guadagnare tempo, perché temono di incassare una sonora sconfitta elettorale e quindi tendono ad allontanare il pericolo giochicchiando di sponda. In questo momento la politica, come sostiene acutamente Walter Veltroni, avrebbe bisogno di un bagno di competenza, non per occultare o bypassare principi e valori, ma per dare ad essi una concretizzazione coerente e plausibile. Sarebbe il caso di mettersi “degasperianamente” al centro per guardare a sinistra sulle ali dei valori coniugati con la competenza.

Stiamo aspettando l’esito delle elezioni statunitensi ed è forte la tentazione di attestarsi su un atteggiamento di equidistanza europea rispetto ai contendenti, perché, mai come in questo periodo, la politica americana risulta vacua e incomprensibile, ma allo stesso tempo affaristica, egoistica e chiusa.  Però, come sostiene Carlo Bastasin su La repubblica, ci sono in ballo gli equilibri globali, gli scambi economici, i temi dell’ambiente e dell’agenda digitale. Non si può quindi rimanere neutrali. Io personalmente sono neutrale…ma Donald Trump non mi piace, anzi mi fa letteralmente schifo (se l’ho già scritto, repetita iuvant).