Tagliarsi i coglioni per fare dispetto al coronavirus

Il leitmotiv negativo dei protagonisti della lotta al coronavirus è quello di anteporre la propria visibilità alle esigenze individuali e comunitarie di vivibilità, allo svolgimento puntuale e corretto del proprio ruolo istituzionale. È una chiave di lettura piuttosto sconsolante, ma purtroppo rispondente alla realtà dei fatti. Cominciamo dall’alto, anche se si potrebbe iniziare tranquillamente anche dal basso.

Il governo, pur concedendogli tutte le attenuanti del caso, ha cercato e sta cercando di difendere più la propria immagine che non la salute dei cittadini: il protagonismo mediatico del premier e dei ministri non ha aiutato ad instaurare quel clima di dialogo e di collaborazione indispensabile per affrontare una situazione così difficile, complessa e drammatica. Troppe conferenze stampa, un’autentica inflazione, troppe buone intenzioni rimaste lettera morta: in certe condizioni occorre parlare poco e a tono. Lo spreco del tempo ha inferto un colpo mortale alla strategia complessiva, ma anche e soprattutto alla serietà governativa.

Errori in cui sono caduti colpevolmente anche gli scienziati protagonisti di una fuorviante bagarre: tutto e il contrario di tutto, opinioni in libertà, idee contrastanti, logorroiche gare all’ultima ricetta. Si sono giocati credibilità ed affidabilità in un momento in cui c’era e c’è grande bisogno di avere alcuni precisi riferimenti scientifici per orientarsi in mezzo all’angosciata e angosciante lotta per la sopravvivenza.

Forse ancor più clamoroso è il comportamento delle Regioni e dei loro massimi responsabili: un vomitevole gioco allo scaricabarile verso il governo centrale, una tendenza a scavalcare le disposizioni nazionali contestandole o addirittura accentuandole, finendo col creare un clima di rissa istituzionale in cui non si capisce più niente.

I media stanno svolgendo un ruolo devastante: il loro ossessionante ritmo informativo diventa, seppure indirettamente, un invito all’evasione e alla trasgressione. Non se ne può più!  La canzone di Mina è perfetta al riguardo:

“Caramelle non ne voglio più
Certe volte non ti capisco
Le rose e violini
Questa sera raccontali a un’altra,
Violini e rose li posso sentire
Quando la cosa mi va se mi va,
Quando è il momento e dopo si vedrà
Una parola ancora
Parole, parole, parole
Ascoltami
Parole, parole, parole
Ti prego
Parole, parole, parole
Io ti giuro
Parole, parole, parole, parole, parole soltanto parole, parole tra noi”

E la gente non è stata e non è da meno. Ha colto al volo le manchevolezze dei pubblici poteri, degli scienziati e dei media e ne ha fatto un alibi per la propria insensatezza trasgressiva. Il clima si è surriscaldato e rovinato: ripristinare collaborazione e solidarietà diventa un problema quasi impossibile. Tutti criticano, tutti si lamentano, tutti protestano: sembra di essere nel felliniano film “Prova d’orchestra”.

La più clamorosa prova è però quella delle Regioni. Volevano intervenire in proprio con provvedimenti drastici e giustamente il governo le ha frenate in questa loro smania di protagonismo. Sono state quindi coinvolte in un discorso globale ma differenziato, anche perché loro stesse non volevano più interventi generali penalizzanti per tutti. Sul più bello si mettono a contestare le decisioni a cui hanno partecipato, accusando di discriminazione politica la catalogazione dei territori effettuata in base a criteri oggettivi di misurazione della gravità della situazione. Chi è in zona rossa chiede perché altri no. Chi è in zona gialla vuole rincarare la dose in proprio chiudendo le scuole ed auto-collocandosi in (quasi) zona rossa. Chi è in zona arancione tace ma non acconsente e si prenota al dissenso non appena sprofonderà in zona rossa. L’opposizione parlamentare cavalca lo scontro e soffia sul fuoco. Semplicemente pazzesco! E se io devo uscire di casa alle undici di sera, devo redigere la solita dichiarazione d’intenti. Cosa risponderebbe anche il più disciplinato dei cittadini: andate tutti a farvi fottere! Stiamo fornendo un perfetto assist a chi vuole fare insensatamente i propri comodi. Stiamo giocando un indecente gioco al massacro. Miglior brodo di coltura al virus non potremmo offrire. Per favore, basta… diamoci tutti una regolata, perché, se non ci convertiamo, periremo tutti.

 

Biden e la forza dei nervi distesi

È molto difficile che nelle vicende umane emerga come vincitore un soggetto mite in un mondo che premia l’arroganza e l’aggressività. Ebbene nel confronto tra Donald Trump e Joe Biden, non tanto nelle urne, ma negli atteggiamenti dei giorni della campagna elettorale e in quelli immediatamente successivi alle votazioni ha prevalso in modo netto la pacatezza sull’intolleranza, la calma sulla spietatezza. Nei giorni scorsi riflettevo e temevo che Davide non avesse fionda e pietre da lanciare contro Golia, invece mi sono sbagliato. La bisaccia è quella storica dei democratici e dei loro valori, ma la faccia ce l’ha messa Biden ed è un viso accattivante per la sua semplicità.

Ho ascoltato il discorso del nuovo presidente americano: breve, semplice e molto coinvolgente, almeno per chi crede nel volto umano della politica, un discorso che merita di essere valutato ed accolto con un senso di liberazione e un po’ di ottimismo. Dico la verità: mi è piaciuto molto, mi sono persino commosso, ho pregato per lui perché possa aiutare l’America e tutto il mondo. Prendo in parola quanto detto da Lucia Annunziata: lasciateci sognare ed essere ottimisti almeno per alcuni minuti. Faccio riferimento inoltre a quanto affermato da Massimo D’Alema: negli Usa c’è un ritorno ai valori, la vita, la salute, la solidarietà, l’unità, la democrazia.

Nessun tono trionfalistico, ma una seria constatazione delle profonde divisioni esistenti nel popolo statunitense e la necessità quindi di lanciare messaggi distensivi e idee unificanti. Non sarà facile per Biden superare il clima conflittuale che si è instaurato: esistono due modi di intendere la politica, la tensione egoistica verso soluzioni sbrigative e divisive contro l’apertura dialogica e paziente verso programmi solidali. Queste due impostazioni attraversano un po’ tutte le classi sociali, donne e uomini, tutti i territori, tutte le etnie e le religioni seppure con un peso diversificato.

In politica si è soliti affermare che prima di tutto vengono i programmi e poi le persone che li portano avanti. Bisogna probabilmente cambiare questo approccio alla realtà: prima c’è il metodo, poi i valori di riferimento, poi le persone e poi i programmi. Biden sta interpretando questa nuova scaletta e speriamo riesca ad osservarla nonostante le inevitabili difficoltà che gli si presenteranno.

Nel dibattito post-elettorale molti cercano di individuare da subito le novità che si verificheranno in conseguenza del cambio alla Casa Bianca. Cosa succederà all’interno degli Usa, nei rapporti con l’Europa, nei rapporti con Cina e Russia? A me interessa che cambi il clima e che alla contrapposizione aprioristica si sostituisca un dialogo costruttivo da cui far scaturire nuovi equilibri e nuove intese nel rispetto dei valori fondamentali della democrazia. Voglio sperare che muti il metodo con cui affrontare i problemi e cercare le soluzioni. “America first” era lo slogan di Donald Trump. “Democracy first” mi pare sia quello di Joe Biden.

So già che i  critici di Biden pretenderanno la soluzione immediata delle questioni sul tappeto. In questo ha già risposto: per la pandemia metterà al lavoro un gruppo autorevole di esperti che dal gennaio prossimo, data in cui entrerà nel pieno dei poteri, gli consenta di varare un piano ben diverso dal negazionismo o riduzionismo del suo predecessore.

In campo economico in questi ultimi anni ha trionfato il “Lasciate fare”, massima assunta a simbolo del liberismo economico, adottata da Trump in tono radicale e provocatorio, un principio favorevole al non intervento dello Stato nel sistema economico; secondo questa teoria, l’azione egoistica del singolo cittadino, nella ricerca del proprio benessere, sarebbe infatti sufficiente a garantire la prosperità economica dell’intera società, secondo la metafora della mano invisibile creata da Adam Smith. Anche per effetto della crisi susseguente alla pandemia sarà invece necessario ripensare i processi economici prevedendo anche interventi pubblici che favoriscano opportunità di lavoro e difesa dei soggetti più deboli.

In conclusione spero sia veramente arrivato uno squarcio di luce nelle tenebre che ci stanno opprimendo. Ci sarà tempo e modo di verificare, di criticare, di arrivare anche a delusioni di percorso, ma qualcosa è cambiato e non di poco conto.

 

Le trumpiane mutande dell’immunità

Mi sento di affacciare una maliziosa ipotesi: se dietro la vergognosa e imbarazzante testardaggine istituzionale di Donald Trump davanti alla incontrovertibile vittoria di Joe Biden ci fosse la prosaica volontà di ottenere l’impunità per i reati di cui è accusato e, forse ancor più, di ottenere il ristoro dai debiti delle sue aziende!?

A pochi giorni dalle elezioni presidenziali americane Bloomberg ha pubblicato un articolo sui pericoli che Donald Trump avrebbe corso se non fosse stato rieletto. Il presidente americano uscente ha una serie di processi e di accuse che sono stati “congelati” grazie alla sua posizione politica. Una volta tornato ad essere un normale cittadino, però, la macchina della giustizia si rimetterebbe in moto, a quel punto senza un’indennità presidenziale Donald Trump potrebbe anche finire dietro le sbarre dal momento che le accuse sono tante: dalla frode fino all’ostruzione della giustizia.

Il New York Times, che ha denunciato l’evasione fiscale di Trump, prevedeva: Trump farà di tutto per vincere e anche se perdesse si rifiuterà di accettare i risultati dello spoglio delle urne e chiederà di ricontarle; c’è anche chi pensa che sia disposto ad incitare la destra militarista americana a mobilitarsi, a scendere in piazza in assetto da guerra per fare giustizia della frode elettorale dei democratici. Siccome credo, nonostante tutto, che Trump non sia un pazzo scatenato, provo ad immaginare che, dietro questo gran polverone, egli stia puntando a difendere i suoi interessi, che potrebbero appunto chiamarsi impunità e ristoro dai debiti. Potrebbe tentare di alzare la posta del gioco per ottenere un colpo di spugna sulle sue numerose e gravi vicende giudiziarie. Per toglierselo dai piedi credo che Joe Biden non esiterebbe a pagare questo pur bruttissimo prezzo nel modo più coperto e indolore possibile. Molto potrebbe dipendere anche dalle maggioranze alla Camera ed al Senato: in caso di prevalenza repubblicana il rapporto istituzionale tra il nuovo presidente Biden e il condizionante potere legislativo potrebbe rientrare nella trattativa, ammesso e non concesso che al partito repubblicano interessi un’ancora di salvataggio per Trump (se lo toglierebbero dai piedi anche loro, cercando di voltare pagina dopo un quadriennio a dir poco pazzesco durante il quale il partito si è appiattito dietro le malefatte trumpiane).

Un avvocato americano di casa nei corridoi del potere e che vuole rimanere anonimo sostiene che Trump ha un piano ben diverso, una variante all’ipotesi introdotta dal sottoscritto. Se dovesse perdere (e ormai è cosa fatta), nel periodo che va da novembre fino al 21 dicembre si dimetterebbe (magari in segno di protesta aggiungo io). A quel punto Mike Pence, il suo vice, diventerebbe presidente e gli concederebbe il celeberrimo pardon, il perdono, presidenziale. È quello che fece Richard Nixon che non venne mai condannato nel processo di impeachment. Si dimise e il suo vice, Gerald Ford, lo perdonò. A quanto pare il pardon presidenziale impedisce qualsiasi causa futura, ciò significa che Trump lascerebbe la Casa Bianca mondato da tutte le accuse, proprio come fu per Nixon.

In buona sostanza il vero obiettivo di Trump sarebbe quello di cavarsi le castagne dal fuoco direttamente o indirettamente. Inoltre nel 2021 matureranno circa 100 milioni di prestiti immobiliari contratti dalle sue società, al momento gestite dal figlio, soldi che Trump non ha. Banche e finanziarie sono reticenti a rinegoziare prestiti con familiari del presidente a causa dei controlli serrati da parte dell’amministrazione pubblica, la Riserva Federale e soprattutto l’ufficio delle tasse. Diversa sarebbe la situazione se Trump non fosse più in carica. Se questa analisi fosse corretta allora Trump darebbe prova di essere una vecchia volpe e di aver capitalizzato al massimo la vittoria elettorale del 2016, essendosi sbarazzato di tutti i problemi che aveva con la legge quando è stato eletto. Tutto sommato quindi non gli dispiacerebbe più di tanto abbandonare la Casa Bianca pur di ottenere, magari con le pesanti raccomandazioni del nuovo presidente, una esiziale boccata d’ossigeno finanziaria.

In conclusione, se fosse così, povera America, che ha vissuto nelle mani di un pazzesco tycoon, il quale pretende una altrettanto pazzesca buonuscita e che vedrebbe il nuovo presidente, costretto per il quieto vivere e per l’unità nazionale, a concedergliela in qualche modo.  Ci sarebbe da farsi venire i brividi e da archiviare immediatamente l’impulso gioioso per la vittoria di Byden. Staremo a vedere e comunque resta pragmaticamente l’opportunità di brindare all’uscita di scena, speriamo definitiva, di uno squallido e potente personaggio. Il resto si vedrà: verificheremo col tempo se la politica americana riprenderà un minimo di confidenza coi valori democratici e un certo impegno nei rapporti costruttivi con il resto del mondo (in primis Ue e quindi anche Italia).

 

 

 

I virus aggiuntivi

Sento spesso, in questi giorni confusi e convulsi, accusare il governo italiano di non ristorare a sufficienza gli operatori economici ed i cittadini in genere, danneggiati dalle misure del distanziamento adottate per far fronte alla seconda ondata della pandemia da covid 19. Si azzardano al riguardo anche confronti con altri Paesi europei ed extra europei, assai più virtuosi del nostro.

È inutile nasconderci che l’Italia ha gravi ulteriori e storici problemi con cui fare i conti, problemi che complicano ulteriormente e maledettamente la situazione e rendono ancor più drammatica l’azione di contenimento del coronavirus. All’alto tasso di litigiosità tra le forze politiche che sta raggiungendo livelli indegni di un Paese civile, allo scontro tra le Istituzioni che rischia di inficiare l’equilibrio delineato esemplarmente dalla nostra Costituzione, si aggiungono quattro storici handicap che ci rovinano l’esistenza.

Parto dal fenomeno dell’evasione fiscale che ha impoverito le casse dello Stato costringendolo spesso ad operare tagli nella finanza pubblica che ora si rivelano deleteri: si pensi alla sanità ed ai trasporti, due campi in cui emerge in modo particolare la nostra debolezza nella guerra contro il virus. Mio padre non era un economista, non era un sociologo, non era un uomo erudito e colto. Politicamente parlando aderiva al partito del buon senso, rifuggiva da ogni e qualsiasi faziosità, amava ragionare con la propria testa, sapeva ascoltare ma non rinunciava alle proprie profonde convinzioni mentre rispettava quelle altrui. Volete una estrema sintesi di tutto cio? Eccola! Rifletteva ad alta voce di fronte alle furbizie varie contro le casse pubbliche: «Se tutti i paghison e i fisson col ch’l’è giust, as podriss där d’al polastor aj gat…».

C’è un secondo tarlo che rovina la nostra società nei rapporti tra politica ed affari ed è la corruzione. Questo rovinoso asset ha conosciuto un crescendo rossiniano fino a deflagrare nella fine della cosiddetta prima repubblica. Non è bastato lo scoppio di tangentopoli a frenare il fenomeno, che è addirittura progredito affinando le proprie caratteristiche fino al punto di far diventare l’Italia il Paese con il più alto livello di corruzione in Europa. Almeno in termini assoluti e non in percentuale al Pil. Ogni anno perdiamo infatti 236,8 miliardi di ricchezza, circa il 13 per cento del prodotto interno lordo, pari a 3.903 euro per abitante. La cifra della corruzione, già impressionante di per sé, è due volte più alta di quella della Francia, pari a 120 miliardi di euro e al 6 per cento del Pil e di quella della Germania, dove la corruzione costa 104 miliardi di euro (il 4 per cento del Pil). Questi sono i numeri contenuti in uno studio pubblicato dal gruppo dei Verdi europei basato sulle analisi condotte dalla ong americana RAND per il parlamento europeo, relatrice la deputata 5 Stelle Laura Ferrara. Mio padre dava una interpretazione colorita e semplice delle situazioni aggrovigliate al limite della legalità. Diceva infatti con malcelato sarcasmo: «Bizoggna butär in tazér parchè a s’ris’cia ‘d mandär in galera dal comèss fin al sìndich, tutti invisciè…». Se volete, una sorta di versione da osteria della visione affaristico-massonica della nostra società.

Ai due punti negativi di cui sopra si aggiunge il peso di una burocrazia pesante, costosa e frenante, tale da neutralizzare anche le migliori intenzioni contenute nei provvedimenti legislativi e governativi. È un vero e proprio contro potere in grado di scombussolare la società rendendola impermeabile alla politica e paralizzandola nei suoi meccanismi istituzionali ed evolutivi. La burocrazia è stata sempre tollerata o addirittura subita dai pubblici poteri, foraggiata e “clientelarizzata” dai partiti politici, difesa e protetta dai corporativismi pseudo-sindacali. Di fronte ad essa chinano il capo i governanti e soffrono i cittadini. Anche il decentramento regionale non ha snellito le procedure, ma ha finito con l’aggiungere alla tradizionale burocrazia centrale una ulteriore burocrazia periferica, peraltro assai meno preparata, competente ed esperta.

Dulcis in fundo abbiamo la delinquenza organizzata: una sorta di quinto potere o potere parallelo. La mafia, secondo la commissione parlamentare antimafia (presidente Giuseppe Pisanu), avrebbe un fatturato, cioè ricavi pari a 150 miliardi di euro all’anno. C’è chi sostiene che il fatturato sarebbe più basso. Prendendo per buone queste stime, si può affermare che con i suoi 150 miliardi Mafia Spa, una ipotetica holding sotto la quale ci sarebbero tutte le attività delle organizzazioni criminali, sarebbe di gran lunga la prima società italiana per il giro d’affari: avrebbe 40 miliardi di ricavi in più rispetto al primo gruppo italiano, Exor, che ha 111 miliardi di fatturato.

Con queste palle al piede non è facile governare e diventa (quasi) impossibile farlo in situazioni di emergenza come quella che stiamo vivendo. Purtroppo, mentre la battaglia contro il coronavirus ha tempi strettissimi, quella contro i virus dell’evasione fiscale, della corruzione, della burocrazia e delle mafie ha tempi biblici. Marciamo col freno a mano tirato e non serve accelerare e serve poco discutere sul percorso da fare. Rendiamocene conto, altrimenti rischiamo di dare tutte le colpe al conducente attuale, che arriva a babbo morto.

 

Amico del giaguaro e del maiale

Per l’ennesima volta ricordo cosa successe in Scozia durante la campagna elettorale referendaria sulla brexit.  La propensione scozzese – seppure almeno in parte strumentale rispetto alle loro mire indipendentiste – verso l’Unione europea, è sfociata in rabbia ed ha trovato, per ironia del destino, un ulteriore motivo di ribellione nelle parole proferite proprio in Scozia nei giorni del referendum dall’aspirante candidato repubblicano alle presidenziali americane, Donald Trump: «Vedo un reale parallelo fra il voto per Brexit e la mia campagna negli Stati Uniti». Come riferiva Pietro Del Re, inviato di Repubblica, nel pub di John Muir a Edimburgo, quando Trump è apparso in tv, tutti i clienti si sono avvicinati allo schermo. Poi hanno tutti assieme cominciato a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo è stato senz’altro pig, porco. La porcilaia si è storicamente allargata, consolidata e si rischia di non uscirne più.

Trump ha rispettato le premesse e mantenuto le promesse: è stato il più autorevole ed acerrimo nemico dell’unità europea. Anche all’Italia ha mandato parecchi messaggi di incoraggiamento per un’uscita dalla Ue, promettendo in cambio aiuti e appoggi. Non se ne è fatto niente, forse più per diffidenza verso Trump, che per convinzione europeista.

Mentre si sta profilando un respiro di sollievo proveniente dalle cancellerie europee – anche se c’è il controcanto dei populisti e sovranisti che hanno iniziato una sorta di penosa e macchiettistica vedovanza in vista della trumpiana uscita di scena – qualcuno ha tirato in ballo una curiosa e parafrasante versione della teoria del “tanto peggio tanto meglio”. In base a questa pseudo-analisi storica l’Europa sarebbe stata opportunamente costretta a rinserrare le fila sul piano militare, strategico, politico ed economico in conseguenza della chiusura dell’ombrello protettivo americano effettuata apertamente e decisamente da Donald Trump. Una sorta di educazione al nuoto buttando in acqua il bagnante incapace di nuotare. Non ho mai creduto a questi sistemi sbrigativi del si salvi chi può. C’è un fondo di verità nel discorso dei duri rapporti tra Usa e Ue, ma non ci vedo il bicchiere mezzo pieno.

Il Santo Padre ha ricordato la sua personale ‘formula’ per far funzionare un matrimonio, ovvero quelle tre parole utili “perché la famiglia vada sempre avanti e superi le difficoltà”: “Permesso. Grazie. Scusa”. “Permesso – ha spiegato il Papa – perché bisogna sempre chiedere al coniuge, la moglie al marito e il marito alla moglie: ‘Cosa pensi? Facciamo così?’ Mai calpestare: permesso”. Grazie, perché si deve “essere grati”: “Quante volte il marito deve dire alla moglie: ‘Grazie!’. E quante volte la sposa deve dire al marito: ‘Grazie!’. Infine “scusa”: “una parola molto difficile da pronunciare. Nel matrimonio sempre – tra marito e moglie – sempre c’è qualche incomprensione. Sapere riconoscerla e chiedere scusa. Chiedere perdono fa molto bene”, ha sottolineato il Pontefice.  “Sempre nella vita matrimoniale ci sono problemi o discussioni. È normale! E succede che lo sposo e la sposa discutano, alzino la voce, litighino e a volte volano i piatti! Non vi spaventate, però, quando succede”. Il consiglio del Papa è piuttosto a “non terminare mai il giorno, senza fare pace”. “Sapete perché? Perché la guerra fredda il giorno seguente è molto pericolosa.

Strana e azzardata similitudine: evidenzia tuttavia uno stile di comportamento che può avere un senso anche nei rapporti fra Stati alleati. Trump faceva volare i piatti, ha cominciato ancor prima di essere presidente, ma non ha mai chiesto permesso, non ha mai detto grazie e tantomeno si è scusato con gli europei trattati a pesci in faccia.  Al primo incontro alla Casa Bianca con Angela Merkel, mostrò indifferenza e fastidio versa la Cancelliera che timidamente gli porgeva la mano: fossi stato al posto della Merkel me ne sarei venuto via immediatamente, segnando una distanza abissale fra due modi opposti di intendere la politica. La Merkel invece si rassegnò alla prepotenza di questo personaggio e da allora cominciò addirittura a tentare di recuperare il difficile rapporto: la realpolitik vince sempre.

Quindi niente prese di distanza e colpi di reni come teorizzano certi storici in vena di improvvisazioni. Rivendicare la propria autonomia di giudizio e comportamento non vuol dire prescindere da certi rapporti obbligatori e fare i conti con l’oste non significa berla da botte.  L’esperienza trumpiana è quindi stata negativa in tutti i sensi a livello europeo. Non è servita a niente: non ha fatto scattare nessuna reazione d’orgoglio, non ha innescato nessun processo di maturazione, al contrario ha suonato sirene pericolosissime in chi le ha volute ascoltare.  “Dagli amici mi guardi Dio, che dai nemici mi guardo io” dice un vecchio proverbio. Trump era un nemico da cui guardarsi (uso l’imperfetto e faccio politicamente i debiti scongiuri), ma si presentava con l’aspetto dell’amico ed allora il discorso si è assai complicato ed è diventato un bel casino internazionale. Il bicchiere dei rapporti Usa/Ue non si è rivelato mezzo pieno o mezzo vuoto, ma vuoto del tutto dopo aver rovesciato quanto c’era dentro. È pur vero, come sostiene la saggezza popolare, che del maiale non si butta via niente, ma ricollegandomi alle invettive scozzesi di cui sopra e condividendole pienamente, devo sconsolatamente ammettere che la saggezza popolare nel caso di Trump trova un limite: non c’è niente da salvare.

 

 

Quando la matematica (e la democrazia) diventa un’opinione

Non sono malato di patriottismo, non sono un fanatico di europeismo, ma forse mai come in questo momento mi sento orgogliosamente italiano ed europeo. Sto constatando infatti come l’orto d’oltre atlantico sia molto meno verde: lo vedo addirittura morto a causa di bruciature da concime.

L’assetto istituzionale statunitense è infatti assurdo. Gli Stati Uniti non sono mai stati così divisi e incasinati. La democrazia americana, che peraltro è sempre stata oggetto di contesa fra bande corporative al limite del criminale, è diventata un autentico circo in cui spadroneggia un inopinato clown. Dal punto di vista sociale sono incollati al razzismo al proprio interno e verso l’esterno. Un tempo tendevano ad intromettersi negli affari degli altri Paesi: la loro politica estera era quella dell’ingerenza. Oggi condizionano il mondo con il proprio egoismo nazionale fatto di muri, dazi, alleanze schizofreniche e negazioni dell’evidenza.

Se Cristoforo Colombo l’avesse immaginato non sarebbe partito, anche se lui non pensava di scoprire l’America e quindi non ha nessuna (?) colpa. Su questa paradossale torta è stata posta la ciliegiona delle elezioni in cui Donald Trump sta facendo la parte del bambino capriccioso, che, quando si accorge di perdere, scappa col pallone, mettendo unilateralmente fine al gioco. I dati elettorali a lui sfavorevoli sono truccati, il voto per posta non vale, la matematica è diventata un’opinione.

Passi il discorso strisciante del negazionismo Covid nascosto dietro il concetto della medicina che non è una scienza esatta, ma che la matematica non valga un accidente è una novità che ci insegna questo buffone a cui gli americani continuano a concedere attenzione e credibilità. La sua presidenza è tutta un trucco e non finisce di stupire: sempre più difficile, proprio come nei circhi, solo che, anziché gli acrobati, in quello trumpiano sono i clown a tenere tutti col fiato sospeso. Senza rete perché i disastri se li bevono gli altri.

Un quadro desolante complicato dal fatto che per contrastare la marcia di questo carro armato, che avanza abbattendo qualsiasi ostacolo usando qualsiasi mezzo, i cosiddetti democratici statunitensi hanno mandato allo sbaraglio un vero signore, ma un politico piuttosto debole. Golia/Trump è “alto sei cubiti e un palmo, con in testa un elmo di bronzo, rivestito di una corazza a piastre, il cui peso è di cinquemila sicli di bronzo. Porta alle gambe schinieri di bronzo e un giavellotto di bronzo tra le spalle. L’asta della sua lancia è come un subbio di tessitori e la lama dell’asta pesa seicento sicli di ferro”. Davide/Biden corre prontamente al luogo del combattimento, caccia la mano nella bisaccia, ma non c’è nessuna pietra da lanciare, manca persino la fionda (in un certo senso meglio così, perché lo spettro di una guerra civile post-elettorale non è da escludere).

Non so come finirà il duello. Ho fatto il tifo per Biden, ma pensavo che avesse qualche idea pesante nella bisaccia e almeno uno straccio di carisma con cui spaventare l’avversario. Spero che, in caso di sua auspicabile vittoria, si riveli migliore come presidente che come candidato alla presidenza. E qualcuno continua a ripetermi testardamente che a noi “non ce ne può fregar di meno”, che se la vedranno gli americani, che per noi tanto non cambia niente. A volte mi viene persino il dubbio che abbiano ragione, poi penso a tutti i miei insegnanti di educazione civica, ai maestri di politica vera, a quanti sono morti (anche negli Usa) per la democrazia e la giustizia, e mi vergogno come un ladro di storia e come un cane che fruga nei rifiuti.

Sono andato a rileggermi quanto ha scritto Carlo Bastasin su La Repubblica: “Tuttora per definire i rapporti tra Europa e Stati Uniti si usano i riferimenti del dopoguerra: cooperazione strategico-militare e scambi commerciali. Nel primo caso Trump sembrava avere rotto una storia di 70 anni minacciando di lasciare la Nato. A inizio 2020 le istituzioni europee avevano invocato la propria autonomia strategica e promesso una visione politica globale. In realtà, quasi tutti i leader europei aspettavano soprattutto di veder passare l’eccezione -Trump per tornare al vecchio mondo. Una nuova assertività europea è evidente nelle vicende di Bielorussia, Ucraina, Turchia e nelle critiche alla Cina per la crisi di Hong Kong. Sanzioni sono state imposte a Russia, Cina e Nord Corea per le interferenze nella sicurezza digitale e a Mosca ora anche per il caso Navalnyj. Ma nei fatti non molto è successo per rafforzare la capacità strategica europea, per la quale l’Europa spera ancora nell’ombrello americano. Biden d’altronde ha definito l’Europa «il primo e indispensabile partner». Con un nuovo presidente il distacco atlantico potrebbe dunque ridursi”. Così dovrebbe essere anche per gli scambi economici (guerra dei dazi, governo dell’economia globale), per l’ambiente, per l’agenda digitale, per la crisi sanitaria, per le spinte sovraniste, etc. etc.

Non mi resta che aspettare e sperare che Davide prevalga a dispetto di Golia. Non riesco a rimanere indifferente. C’è in gioco l’avvenire globale e vorrei tanto potermi sentire, oltre che italiano ed europeo, un cittadino del mondo.

Il mattarello di Mattarella

In mezzo alla puzza di velleitarie sciocchezze governatoriali, di crescenti debolezze e incertezze governative, di latenti conflitti istituzionali, ad un certo punto ho sentito profumo di politica con la “p” maiuscola, ho provato a verificarne l’origine seguendo il mio olfatto, al momento non ancora intaccato dal covid, e sono arrivato al Quirinale: tutto tranquillo, anche se l’odore si intensificava e allora ho capito (quasi) tutto.

Sì, Mattarella si è stufato alla sua maniera e, probabilmente senza alzare la voce, ha costretto le regioni a più miti consigli, ha dato la sveglia al governo appisolato tra un decreto e l’altro, ha fatto magari una telefonatina ad Angela Merkel per capire come si stava comportando alle prese con problematiche simili, ha fatto una preghierina allo Spirito Santo perché illumini tutti (anche gli americani che stanno votando) e poi ha guardato di nascosto l’effetto che tutto ciò poteva fare.

In effetti l’effetto sembra esserci stato. I governatori hanno smesso di blaterare, Giuseppe Conte ha finalmente presentato una pur vaga linea di comportamento, in Parlamento le opposizioni si sono astenute sulle linee di programma anti covid presentate dal governo e sostenute dalla maggioranza, il clima si è leggermente rasserenato e la situazione sembra essere tornata, seppure assai precariamente, sotto controllo.

Per mio padre dopo l’operazione chirurgica per l’asportazione di ben tre ulcere al duodeno cominciarono le grandi manovre di sgombero intestinale. Non avevano successo e le cose si stavano decisamente complicando. Ad un certo punto rifiutò categoricamente che il clistere gli venisse praticato da un infermiere da lui conosciuto e ritenuto incapace: «Ti al cristéri at m’al fè pù. Putost a m’al fag fär da la sóra» (allora nei reparti ospedalieri vi era la presenza delle suore). L’infermiere se ne andò via scuotendo il capo e fortunatamente ne arrivò un altro dotato di una certa professionalità ed esperienza. «Agh pens mi, Mora, stat miga preocupär…». Glielo eseguì a regola d’arte al punto da scatenare finalmente un’autentica liberazione facilmente immaginabile, con tanto di preventiva installazione di barriere ambientali protettive. La similitudine un po’ triviale, rispolverata anche per alzare il morale,  mi sembra comunque abbastanza eloquente del clima emergenziale esistente e dell’intervento non risolutivo, ma efficace, operato da Mattarella.

Non credo che il presidente della Repubblica sia entrato nel merito dei provvedimenti da adottare, avrà al riguardo dato solo qualche utile consiglio attenendosi scrupolosamente, come è solito fare, alle sue prerogative costituzionali, ma sicuramente avrà affrontato di petto i nodi istituzionali che si stanno sempre più ingarbugliando, richiamando tutti per l’ennesima volta al senso di responsabilità, probabilmente minacciando anche qualche iniziativa imbarazzante.

Sì, perché cosi non si può andare avanti: o si ritrova, da parte di tutti, un minimo senso collaborativo e costruttivo o la situazione può veramente precipitare nel caos delle piazze, degli ospedali e delle terapie intensive. Non so se sia farina del sacco di Mattarella l’individuazione oggettiva delle tre fasce di rischio regionale con relativa previsione di provvedimenti graduati a seconda dell’entità del rischio stesso: non mi sembra tuttavia l’uovo di Colombo né il solito compromessone all’italiana, mi pare una buona intuizione da concretizzare in tempi brevissimi e da attuare con grande correttezza da parte dei protagonisti (cittadini compresi).

“La politica è l’arte del possibile, la scienza del relativo”: così diceva Otto Von Bismark. Più le situazioni sono difficili e complesse e più bisogna esercitarsi seriamente in questa arte. In questo tragico momento, ad esempio, devono tacere le trombe regionali e devono suonare le campane dell’unità nazionale; in questa contingenza drammatica deve ridimensionarsi lo scontro parlamentare tra maggioranza ed opposizione; in questa spaventosa confusione le parole devono essere pensate, calibrate e ricondotte nell’alveo delle sedi istituzionali; in questa incertezza e precarietà il rapporto tra politica e scienza deve trovare adeguate soluzioni al servizio del bene comune; in questo clima di preoccupazione e paura occorre sforzarsi di coniugare al meglio la difesa del diritto alla vita ed alla salute con la considerazione degli altri diritti di libertà economica e sociale.

Il presidente Mattarella, non solo da oggi, sta lavorando in questo senso e dobbiamo essergli grati e seguirlo: non ha la bacchetta magica, ma accettiamo con disciplina e senso del dovere le sue opportunissime bacchettate. Ben venga che Mattarella sfoderi il mattarello. Qualcuno fa lo spiritoso definendolo il parroco del Quirinale: ben venga il parroco. Ne ho conosciuto uno che non stava in sagrestia, ma veniva addirittura coinvolto nel sedare le liti a livello famigliare, condominiale e stradale. Ben venga anche lo spirito cristiano che connota la vita e l’impegno politico ed istituzionale di Mattarella: ricordiamoci che papa Paolo VI amava ricordare che “la politica è la più alta forma di carità”, dove carità vuol dire amore per l’altro, a prescindere dalla religione professata, dalla propria cultura, dal partito di appartenenza, dal ruolo ricoperto, dal colore della pelle, dalla lingua con cui si esprime.

 

 

Lo sciocchezzaio di unità nazionale

Vincenzo De Luca si scaglia contro giornalisti che hanno criticato la scelta di chiudere le scuole in Campania: «Hanno intervistato una mamma che dice che sua figlia piange per andare a scuola. È l’unica in Italia che piange perché non può studiare endecasillabi, forse l’unica al mondo. La mamma le dà il latte al plutonio».

“Il Paese non può permettersi un nuovo lockdown”, dice il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti il quale in una nota sui social suggerisce che bisogna intervenire sulla categoria più fragile, gli anziani. Ma scoppia la bufera perché Toti scrive anche, parlando degli anziani: “Si tratta di persone che sono per fortuna per lo più in pensione, non sono indispensabili allo sforzo produttivo del Paese ma essendo più fragili vanno tutelate in ogni modo”.

Quando a mio padre rimproveravano di essere esageratamente permaloso di fronte a certe espressioni, era solito affermare convintamente: «L’ è al tón ch’a fà la muzica…». E aveva ragione, mille ragioni. Se poi certi toni vengono usati da persone investite di alte responsabilità pubbliche, il discorso diventa clamorosamente offensivo e inaccettabile.

E questi signori, che si muovono con il garbo di un elefante in una cristalleria o in un negozio di porcellane, sarebbero coloro che decentrano il potere e avvicinano la gente alle istituzioni? Preferisco i più beceri burocrati ministeriali: cazzate simili non passano nemmeno nell’anticamera del loro cervello. Toti e De Luca si rendano conto che non stanno amministrando il condominio o la bocciofila, ma sono alle prese con problemi enormi in una situazione di una delicatezza estrema. Mio padre li fucilerebbe con una sarcastica ed “anarchica” battuta: «A un òmm, anca al pu bräv dal mónd, a t’ ghe mètt in testa un bonètt, al dvénta un stuppid».

Oltre tutto dovrebbero starsene zitti dopo aver dato pessima prova della loro (in)capacità amministrativa nei mesi scorsi. Invece di fare battute o affermazioni di cattivissimo gusto, pensino a combinare qualcosa di utile e la smettano di giocare a scaricabarile. Se continuiamo così è la volta che scendo in piazza anch’io e mi unisco alle pur stucchevoli proteste di questi giorni.

Qualcuno dirà che reagisco male perché sono stato toccato nella mia anzianità. Sissignori! Non accetto che un politico cooptato dal suo padrone, un soggetto che ha solo il merito di essere un berlusconiano d’accatto, venga a pontificare sulla mia capacità di contribuire alla produttività del Paese. Non si può nemmeno dire che Giovanni Toti, che nel 2019 ha fondato il partito politico “Cambiamo!”, di cui è leader, sia pieno di sé. Se così fosse infatti sarebbe magro e invece è grasso e ben pasciuto. Di cosa sia pieno, non lo so, o meglio lo so, ma taccio. Toti e De Luca hanno fatto lo sciocchezzaio di unità nazionale.

I tanto bistrattati e picconati uomini della cosiddetta prima repubblica non avrebbero mai detto simili scemenze. E non mi si dica che si tratta di incidenti di percorso, di equivoci, di fraintendimenti. Che la gente oltre la tortura a cui è sottoposta dalla pandemia, debba sopportare anche di essere insolentita da certi governatori (?) regionali, mi sembra un po’ troppo. Se questo è l’aperitivo alle prossime misure restrittive contro il covid 19, mi tremano le vene ai polsi. Agli scienziati che farneticano in continuazione e non hanno ancora capito come, dove e quando ci si contagia, ai media che buttano continuamente il prete della pubblica opinione nella merda prezzolata del loro mestiere, ai governanti che pestano l’acqua della loro insipienza nel mortaio della politica politicante, aggiungiamo pure i governatori regionali in vena di scherzare o di parlare come se fossero al bar dei loro palazzi istituzionali.

Un noto proverbio dice: “Chi scherza coi matti deve lasciare che i matti scherzino con lui”. La gente sta impazzendo di incertezza e di paura e non può accettare che qualcuno scherzi sulla sua pelle. Potrebbe succedere che i matti scoprano la propria virtù: quella di mandare a casa chi (s)parla e chi (s)governa alla maniera descritta in modo colorito dall’allenatore della squadra di calcio del Bologna.  ”Non prendiamo esempio dai nostri governi che fanno i decreti così a cazzo di cane, che non c’è una logica…”, lo ha detto Sinisa Mihajlovic, nella conferenza stampa alla vigilia della sfida casalinga contro il Cagliari, replicando a chi gli chiedeva se la sua squadra dovesse ritornare sul mercato e puntare allo svincolato Mandzukic per sostituire l’infortunato Santander. Ebbene la parafrasi calcistica introdotta da un allenatore, a prima vista esagerata e qualunquistica, si è rivelata profeticamente pertinente anche perché, a quanto pare, purtroppo chi ci governa sta andando nel pallone e prima di emanare i decreti, certi governatori si allenano buttando la palla in tribuna o, se proprio volete, sparando cazzate alla viva il parroco.

 

 

La caduta di braccia, braghe e …

Nell’aula del Senato, giovedì 29 ottobre, il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha reso un’informativa sui decreti, recanti ulteriori misure per contrastare l’epidemia da COVID-19 e i cosiddetti ristori per i soggetti colpiti dalle restrizioni imposte dal governo. Ho seguito la diretta Rai del successivo dibattito, che ha visto l’intervento di parecchi esponenti politici.

Sono partito con un certo, colpevole ma comprensibile, scetticismo, superato ben presto dal tenore dei pur brevi discorsi: la diffidenza si è trasformato in attenzione e via via addirittura in emozione per non dire commozione. Ero solo, ma sussurravo: checché se ne dica, questa è la democrazia. Queste signore e signori sono i miei rappresentanti ed io li devo ascoltare.

Penso che anche i senatori intervenuti fossero piuttosto emozionati a giudicare dal tono della voce e dalla partecipazione emotiva: tutti si sforzavano di entrare nel merito superando i rigidi schematismi di partito e la contrapposizione tra maggioranza e opposizione. Aleggiava in tutti un senso di sofferta critica piuttosto centrata e abbastanza costruttiva. La maggior parte erano donne, che onoravano il loro genere e che, soprattutto, dimostravano una notevole sensibilità. Dalle fila della maggioranza non venivano risparmiate critiche fino al punto di chiedere al presidente del Consiglio una verifica sull’adeguatezza dei ministri rispetto ai gravosi ed impegnativi compiti loro affidati. Dai banchi dell’opposizione piovevano dure censure all’operato del governo, però condite da una qualche voglia di dialogare e collaborare per il bene del Paese.

Ero sinceramente e positivamente sorpreso dal dibattito: gli oratori, probabilmente influenzati dalla diretta televisiva, cercavano finalmente di uscire dagli atteggiamenti di adesione acritica e di opposizione preconcetta, che purtroppo caratterizzano la dialettica politica e parlamentare. L’argomento a maggior ragione lo richiedeva: ho ascoltato argomentazioni serie e piuttosto coinvolgenti. Un ottimo segnale politico in un momento in cui c’è estremo bisogno di serietà e di equilibrio.

Purtroppo l’atmosfera, se non proprio collaborativa almeno rispettosa, ad un certo punto è stata letteralmente rovinata dall’intervento del solito guastafeste leghista, vale a  dire di Matteo Salvini, il quale ha cominciato a sparare cavolate a più non posso, scaricando responsabilità sui governanti, dimenticando che tra i governanti ci sono anche suoi amici politici a livello di molte importantissime regioni, superando bellamente clamorose incongruenze e incoerenze rispetto a suoi precedenti sproloqui, chiedendo dimissioni a tizio e caio, scordando di essere stato ministro degli Interni poco tempo fa e di non aver combinato niente di buono, anzi di avere scombinato parecchie situazioni inerenti la sicurezza e l’ordine pubblico e di avere fatto promesse mai mantenute.

Rovinato tutto, come diceva un mio carissimo e bravissimo insegnante, quando un allievo si inseriva maldestramente in certi discorsi avviati proficuamente. Sì, perché immediatamente gli esponenti della maggioranza si sono chiusi a riccio in difesa dell’operato del governo e quelli dell’opposizione non hanno resistito al fascino della polemica fine e se stessa innescata dall’illustre (?) collega leghista. A volte basta un granello di polvere per inceppare certi meccanismi virtuosi, immaginiamoci cosa può succedere se qualcuno butta un macigno tra le delicate rotelle del dibattito parlamentare.

Un vero peccato, un’occasione sprecata, una caduta di stile, un ritorno alla solita recita. Complimenti al senatore Salvini, molto capace di dare aria ai denti, di criticare a vanvera, di vomitare accuse. La gente se ne sta un po’ rendendo conto, ma il danno arrecato alle istituzioni è incalcolabile. “A m’ son caschè i bras”, diceva un mio collega poco avvezzo al dialetto parmigiano. Si dice: “A m’é caschè i bras”. Sempre lo stesso amico a volte esclamava: “A m’ son caschè i calsón”. Si dice: “A m’è caschè il bräghi”. Non cambia molto: ascoltando Salvini cadono le braccia, le braghe e…anche qualcosa d’altro…

 

I lupi di Trump

Consiglio a tutti di vedere o rivedere su You Tube l’ultima puntata del programma televisivo Atlantide, che ha tratteggiato in modo agghiacciante la personalità di Donald Trump e, di conseguenza, la paradossale dabbenaggine del popolo americano che lo ha votato e che lo prende ancora in seria considerazione. Per stessa ammissione degli autori il programma assomigliava a una vignetta satirica più che a un resoconto storico, ma, come si sa, le vignette non sono fasulle, anzi, prendono in considerazione i difetti per ingrandirli e drammatizzarli. Ebbene, così facendo, di Trump esce una immagine a dir poco mostruosa. Anche se di vero ci fosse solo una piccolissima percentuale, ci sarebbe comunque da rabbrividire di fronte al rischio che abbiamo corso e che corriamo ancora: consegnare le chiavi di casa del mondo intero a un disturbato mentale, a un pazzo scatenato che però piace alla gente perché ne legittima tutti i peggiori istinti.

Mi ha colpito l’episodio di una ragazza madre, che sbarca il lunario con fatica lavorando ad una paga da fame in un supermercato, alla quale è stato chiesto il perché del suo voto a Trump: di fronte alla sua piccola bambina, ha tirato fuori con estrema soddisfazione una rivoltella, chiarendo che il presidente, rendendole possibile il possesso di un’arma, l’aveva tranquillizzata e in un certo senso beneficata. Pazzesco!

Ed eccoci arrivati alla vigilia delle elezioni presidenziali statunitensi. Cruenti fuochi artificiali sono da prevedere: Donald Trump è alla frutta, se non verrà rieletto rischia la galera e/o la rovina finanziaria ed allora sta facendo l’impossibile per recuperare e non è da escludere che scateni un pandemonio istituzionale in caso di sconfitta. Dopo il danno la beffa. Un ultimo provvedimento riguarda la licenza di uccidere Zanna Bianca. Alla vigilia delle elezioni presidenziali, l’amministrazione Trump ha dato luce verde in extremis alla caccia al lupo grigio, uno dei simboli del vecchio West, entrato oltre 45 anni fa nelle liste delle specie in pericolo del governo americano. «Le protezioni previste dalla legge non sono più necessarie», ha detto il ministro degli Interni David Bernhardt, a cui fanno capo la tutela dei parchi e della fauna a rischio, annunciando la decisione in Minnesota.

A prescindere dal merito di questa decisione ne colgo tutto il simbolico messaggio: licenza di uccidere i lupi ma anche i neri, gli immigrati, i soggetti indesiderati, i poveracci che rompono le scatole. L’ipotesi è quella della pulizia etnica, sociale ed economica. Quante volte mi sono chiesto perché gli americani siano caduti in questa incredibile trappola politica. La risposta plausibile l’ho trovata, pensate un po’, nella impietosa analisi che faceva mia sorella Lucia delle magagne del popolo italiano: siamo rimasti fascisti con tutto quel che segue. Tradotto in lingua d’oltre oceano: gli americani sono rimasti razzisti con tutte le relative conseguenze socio-politiche.

La logica trumpiana è quella di eliminare comunque chi dà fastidio al sistema al fine di ripulirlo in superficie lasciando stare tutte le brutture, le ingiustizie, le povertà che contiene. Una sorta di maxi paradossale lavanderia dove i panni sporchi non si puliscono, ma si considerano puliti e quindi si lasciano intatte le vere sporcizie messe sotto un enorme e rassicurante tappeto. Il capovolgimento dei valori e dei principi accettato in nome di una parvenza di benessere individualistico ed egoistico. Forse la peggiore versione populista che la storia abbia finora conosciuto.

I poveri hanno votato Trump perché sperano di lavorare, le donne lo hanno scelto perché è un vero macho: è stato sufficiente per farlo vincere, anche se in realtà aveva perso (due milioni di voti in meno rispetto ad Hillary Clinton) ed è andato alla Casa Bianca sulla base di un sistema elettorale assurdo. Sembra che in parecchi, soprattutto le donne si stiano convertendo ed abbiano aperto gli occhi: staremo a vedere con ansia e preoccupazione. Il timore è che per la seconda volta il perdente finisca con l’essere vincente. Evviva la democrazia americana!

Tornando ai lupi, secondo i biologi, il via libera dell’amministrazione Trump alle doppiette si rivelerà “prematura” e “avventata”. I lupi, secondo gli scienziati, hanno infatti un ruolo chiave nell’ecosistema. In un celebre esempio, i pioppi di Yellowstone, che avevano sofferto negli anni in cui i lupi erano assenti, hanno ripreso a prosperare quando questi sono tornati a danno delle alci che ne mangiavano le foglie. Questo a sua volta ha avuto un effetto benefico su altre specie, come ad esempio i castori che hanno trovato più piante di cui nutrirsi. Però l’ecosistema trumpiano prevede che i cittadini si comportino come i lupi, i quali quindi non possono ballare coi lupi veri: di lupi ce ne sono abbastanza, quelli veri e propri vanno eliminati. Una specie di lapsus freudiano nella psiche malata di Trump. Bisognerà verificare la sanità mentale e psicologica del popolo americano: non mi faccio soverchie illusioni.