Il bugiardino liturgico

Mentre inizia una vana discussione sulla Messa natalizia di mezzanotte anticipata alle ore 21,00 al fine di rispettare l’orario del coprifuoco anti Covid, preferisco, da cristiano, interessarmi seriamente della Messa quale evento liturgico fondamentale per la vita cristiana. L’importante infatti non è il quando, ma il come della celebrazione liturgica.

Il cardinale Gualtiero Bassetti (mi compiaccio per la sua guarigione e auguro un completo ristabilimento), nel presentare il nuovo Messale Romano, che potrà già essere utilizzato nel periodo liturgico dell’imminente Avvento e che diventerà obbligatorio dalla prossima Pasqua, vale a dire dal 04 aprile 2021, afferma testualmente: “Il libro è anche segno di «unità della Chiesa orante». Quindi, ammonisce la Conferenza episcopale, il sacerdote non deve «togliere o aggiungere alcunché di propria iniziativa». E avverte: la «superficiale propensione a costruirsi una liturgia a propria misura» non solo «pregiudica la verità della celebrazione ma arreca anche una ferita alla comunione ecclesiale». Poi ricorda le parole pronunciate da Paolo VI alla vigilia dell’entrata in vigore del Messale Romano riformato dal Concilio: no a tendenze che possano «costituire una fuga, una rottura; e perciò uno scandalo, una rovina». Tuttavia la Cei consente «opportune e brevi monizioni», ossia spiegazioni durante il rito. Con un’accortezza però: la «parola umana non soffochi l’efficacia della Parola di Dio e del gesto liturgico». Insomma, non bisogna esagerare. Perché tutto ciò mina la «nobile semplicità» della liturgia che deve essere «insieme seria» e «bella»”. 

Nel mio commento ai fatti del giorno postato lo scorso 15 ottobre (repetita iuvant, almeno lo spero per me) scrivevo: “Ho volutamente passato in rapida rassegna le novità per dimostrare, a contrariis, che purtroppo non serviranno a sgessare o sgelare le assemblee liturgiche: più che di revisione di frasi, parole e formule ci sarebbe bisogno di fare spazio alla spontaneità, alla fantasia, al coraggio di fondere il sacro con la vita”. Mi fermo qui perché in quella sede battevo la lingua sul dente dolente della fantasia affaristica mettendola in sarcastica contrapposizione con la monotonia liturgica. Ebbene, non mi ero assolutamente sbagliato, il timore si è fatto certezza: nessuna possibilità di aggiungere un po’ di spontaneità alla Messa. Tutto deve rimanere rigorosamente fisso e legato ai testi predisposti a cui si è data peraltro una spolveratina piuttosto insignificante.

La reazione ironica, forse l’unica cosa seria da fare di fronte alla testardaggine conservatrice della gerarchia, riguarda un amico sacerdote, vivo e vegeto ancorché ormai piuttosto anziano, alle prese da sempre con qualche problema di balbuzie, superato intelligentemente e brillantemente cambiando le parole su cui è più facile incagliarsi. Si comporta così anche nella celebrazione eucaristica. Vuoi vedere che anche quelle messe arrecano rovinoso pregiudizio alla verità della celebrazione e arrecano anche una ferita alla comunione ecclesiale? Attento caro don … a non farti scomunicare e d’ora in poi rassegnati a sottoporti fino in fondo alla tortura della balbuzie! (qualcuno dice che fosse la spina nel fianco di san Paolo).

Le profetiche novità ben più consistenti, che il mio amico don Luciano Scaccaglia, tanto osteggiato ed emarginato dalla Chiesa ufficiale, introduceva a livello liturgico e pastorale, hanno trovato un riscontro nei nuovi indirizzi del pontificato francescano: qualcuno disse e scrisse che nel 2013 (il pretaccio era ancora in vita) don Scaccaglia era diventato papa o meglio “papaccio”. Le cose purtroppo non sono andate proprio così, il tira e molla della Chiesa è sempre in vigore. Quella del nuovo messale mi sembra una brutta e anacronistica tirata di freno.

Tutti assistiamo in televisione ai riti celebrati in Vaticano, in S. Pietro a Roma (ultima in ordine di tempo la Messa concelebrata dal Papa con i neocardinali), e ne cogliamo la pesante spettacolarizzazione, abbiamo la sensazione di assistere ad assurde messe in scena degne del miglior Franco Zeffirelli. Papa Francesco ha trovato il coraggio di mandare a casa il cardinale Becciu, un impareggiabile fantasista dell’affarismo vaticano, a quando il licenziamento dell’insopportabile ed impettito maestro di cerimonie, protagonista instancabile di un marcamento a uomo del pontefice ovunque celebri una messa? Poi entriamo in certe chiese periferiche e torniamo a terra, per constatare la routinaria pochezza di liturgie sbrigativamente ed anonimamente finalizzate solo al tagliando di adempimento del precetto festivo. Da una estremità all’altra: dalla vuota enfasi rituale alla banalizzazione precettistica. Il nuovo messale, ma soprattutto le istruzioni per il suo uso con cui viene lanciato, ci riportano alla triste realtà di una Chiesa per la quale la più importante delle novità è quella di escludere le novità.

 

Meglio mardi che tai

La montagna parlamentare ha finalmente partorito il topolino della collaborazione politica anti Covid. Via libera praticamente unanime dalle Aule parlamentari alla risoluzione di maggioranza che autorizza lo scostamento dal pareggio di bilancio. Il centrodestra ha votato compatto dopo un parto piuttosto travagliato durante il quale il ginecologo Silvio Berlusconi ha dovuto usare il forcipe per strappare dall’utero nazionalista, populista e sovranista un voto ragionevole, anche se il vagito del neonato è stato immediatamente assai stonato: “Lo facciamo per l’Italia, non per il Governo”.

Un escamotage dialettico per salvare la faccia di fronte all’emorragia di consensi per la Lega, alla (in)credibile nouvelle vague destrorsa di Fratelli d’Italia, alla stucchevole predica berlusconiana nel deserto di un centro-destra sempre più schiacciato sulla sponda estrema dell’opposizione fine a se stessa.

Si arriva ad un esito politico di per sé positivo con gravissimo ed incolmabile ritardo e con la puzza sotto il naso proveniente da equivoche e incoffessabili motivazioni tattiche: si va dalla difesa berlusconiana dei propri affari economici alla difesa salviniana di uno striminzito rimasuglio di dignità politica, alla difesa meloniana di una legittimazione post-fascista a guidare l’opposizione di destra.

In questo caso molto meglio il mezzo dei fini che non ne escono giustificati. Il governo ha incassato uno straccio di unanimità da non buttare via, anche perché se sarà un pungolo per la maggioranza a tenere aperte le porte del dialogo con l’opposizione, sarà anche una spada di Damocle sulle tentazioni barricadiere del centro-destra. Potrebbe essere l’inizio di un’inutile pantomima, ma potrebbe essere un punto di non ritorno rispetto alla conflittualità in cui ci si è trastullati in tempo di Covid. È un bicchiere mezzo pieno di ritrovata correttezza politica e mezzo vuoto di persistente e demagogica contrapposizione.

«La votazione sulla risoluzione di maggioranza relativa allo scostamento di bilancio è un ottimo segnale in questo momento di particolare difficoltà che sta attraversando il Paese. Tra le forze di opposizione prevale la via del dialogo e di un approccio costruttivo e per questo ringrazio, in particolare, quanti l’hanno voluta perseguire sin dall’inizio, con determinazione ma sempre nella chiarezza dei ruoli», ha commentato il premier Giuseppe Conte. «Auspico che questo clima di confronto e di dialogo possa accompagnare anche i prossimi, delicati passaggi che dovremo affrontare per uscire da questo periodo di emergenza».

Per quanto riguarda Fratelli d’Italia, la posizione è stata espressa durante la discussione in Aula dal vicecapogruppo a Montecitorio, Tommaso Foti: “Come Fratelli d’Italia siamo stati all’opposizione del governo Conte I e siamo fieramente all’opposizione del Conte II (stoccata a Salvini n.d.r.). Non abbiamo nessun desiderio di commistione di ruoli (stoccata a Berlusconi n.d.r.), ma abbiamo il dovere di rappresentare in un momento difficile la stella polare di FdI, e cioè stare dalla parte degli italiani”. “Questo voto – ha spiegato Foti – non è per voi, non è per la maggioranza, ma è per amore dell’Italia, quella vera”.

“È stato un bel successo, finalmente il governo si è reso conto che da solo non va da nessuna parte. Ha ascoltato non solo il centrodestra unito, ma il paese, autonomi, partite iva”, ha commentato il leader leghista in conferenza stampa.

Berlusconi tace, più che soddisfatto del risultato ottenuto: ha riportato il centro-destra su posizioni ragionevoli e si è sgolato nel canto del cigno a livello di leadership. Oltre tutto incassa i complimenti di un autorevole avversario. “Una scelta di responsabilità di Berlusconi che ha politicamente costretto le altre forze di centrodestra a cambiare linea e ad adeguarsi. Chapeau”. Il ministro della Cultura, Dario Franceschini, ha ringraziato così il Cavaliere dopo il voto sullo scostamento di bilancio alla Camera. A Franceschini ha risposto piccata Giorgia Meloni, che ha ricordato come ad appoggiare il provvedimento non ci sia stata solo Forza Italia: “Hanno cercato di spaccare il centrodestra, il gioco non è riuscito, nel metodo e nel merito. Franceschini dice chapeau a Berlusconi? Lo dica a tutto il centrodestra”.

Il dibattito politico resta misero e penoso, prima, durante e dopo il passaggio parlamentare dello scostamento di bilancio. Temo non sia cambiato niente: le botti dell’attuale cantina politica italiana danno il vino che hanno. Speriamo che non diventi aceto.

 

Una, nessuna e centomila sconvenienze sessuali

Ricordo che, molti anni fa, monsignor Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, durante una conferenza all’aula magna dell’Università di Parma, raccontò di avere scandalizzato le suore della sua diocesi esprimendo loro una preferenza verso la stampa pornografica rispetto a certe proposte televisive perbeniste nella forma e subdolamente “sporche” nella sostanza. In fin dei conti la pornografia pura si sa cos’è e la si prende per quello che è, mentre è molto più pericoloso, dal punto di vista educativo, il messaggio nascosto che colpisce quando non te l’aspetti.

Grande clamore (?) ha suscitato la messa in onda su una rete Rai della puntata di una trasmissione dal contenuto piuttosto dubbio e inopportuno. Infatti è stato sospeso il programma “Detto fatto” dopo il caso del “tutorial”, andato in onda per insegnare alle donne a fare la spesa in modo sexy e provocante. Un contenuto giudicato fuori luogo e sessista che ha provocato una valanga di critiche e ha infine indotto alla sospensione, decisione presa dall’amministratore delegato della Rai, Fabrizio Salini.

«Un episodio gravissimo, che nulla ha a che vedere con lo spirito del servizio pubblico e con la linea editoriale di questa Rai», ha commentato Salini che ha anche annunciato di aver avviato un’istruttoria «per accertare responsabilità». «E – ha aggiunto – stiamo facendo valutazioni sul futuro di questo programma». Il caso ha suscitato una bufera tra le forze politiche, di maggioranza e opposizione, e negli stessi ambienti della Rai. La puntata di martedì pomeriggio è stata cancellata anche dalla lista di quelle che si possono rivedere su RaiPlay, così come sono state sospese le repliche del programma che la Rai mandava in onda al mattino.

La conduttrice, Bianca Guaccero, si è scusata con un lungo post sui social per lo scivolone. “Sono una donna, una mamma single, che combatte ogni giorno per ciò in cui crede… soprattutto nella difesa della categoria che rappresento… la donna… ho sempre lavorato proponendo di me una immagine molto lontana da quella della donna oggetto… cercando di abbattere qualsiasi muro di pregiudizio e maschilismo… ma sono la conduttrice di un programma, mi prendo parte della responsabilità di ciò che è accaduto. Chiedendo scusa a tutti, per la superficialità con cui è stata gestita questa situazione da parte di tutta la nostra squadra – sottolinea ancora -. Sono certa della buona fede del gruppo autorale che lavora da mesi, cercando di confezionare, con grandissima fatica, un programma dignitoso e allegro nonostante tutte le difficoltà della situazione pandemica che stiamo vivendo. Il tutorial in questione, doveva aderire a dei toni comici e surreali, da non prendere sul serio, ma che stavolta ci sono venuti male. Perciò mi scuso io a nome di tutta la mia squadra, con tutte quelle persone che si sono sentite colpite da questo triste siparietto. Come sempre ho fatto nella mia vita, mi adopererò affinché tutto questo non succeda mai più”.

Ho visto solo un breve spezzone della trasmissione incriminata e non sono rimasto per nulla scandalizzato e nemmeno disgustato. Ho dato infatti per certo che l’intento fosse provocatoriamente ironico e dissacrante rispetto ai vuoti, manierati e cantilenanti messaggi della giornata contro la violenza sulle donne. Sono inoltre contrario ad interventi censori, oltretutto fatti il giorno dopo, che quindi dimostrano incoerenza ed incapacità di controllo.

Poi, parliamoci chiaro, se la Rai dovesse censurare tutte le trasmissioni in cui le donne fanno più o meno piccante tappezzeria, resterebbe poco della insopportabile sequela di salotti mattutini e pomeridiani. Ecco perché sono partito da quanto diceva monsignor Riboldi con spietata concretezza etica. Di fronte a certe trasmissioni, non nascondo di essere tentato di scappare dal video per rifugiarmi nei siti porno: meglio la pornografia conclamata di quella subdola, meglio gli sporcaccioni e le sporcaccione in prima persona, nudi come mamma li fece, piuttosto degli sporcaccioni in giacca e cravatta o delle sporcaccione in atteggiamenti ammiccanti.

Quindi non accetto le prediche da improbabili pulpiti più perbenisti che morigerati e non vorrei che la squadra di “detto fatto” diventasse la pietra di uno scandalo, che va ben oltre le sciocchezze proposte dalla trasmissione finita sul banco degli imputati: se scandalo deve essere lo si allarghi all’intera programmazione di intrattenimento e di divertimento del servizio pubblico televisivo. Volete un piccolo esempio? Sulla rete Rai Sport va in onda un programma di riesumazione di importanti fatti sportivi del passato: è introdotta da presentatrici belle, abbronzatissime, arrampicate su tacchi over 20 cm., abbigliate con minigonne vertiginose che lasciano intravedere (?) cosce da sballo. La donna, anche in quelle trasmissioni, che col sesso non dovrebbero avere nulla a che fare, viene usata come specchietto per le allodole maschiliste ed erotiche sempre in agguato. È peggio o meglio rispetto al vademecum sexy di “detto fatto”? Col criterio adottato da monsignor Riboldi, molto peggio. Si sappia regolare monsignor Fabrizio Salini.

 

 

Non è tutto oro quel che luccica nel “pibe de oro”

Ero alla fermata di un autobus ed attendevo con la solita impazienza l’arrivo del mezzo pubblico; accanto a me stavano un giovane padre assieme a suo figlio bambino, ma non troppo. Sfogliavano un giornale sportivo e leggevano i titoloni: il più eclatante diceva della pesante squalifica comminata a Maradona per uso di sostanze stupefacenti. Si, il grande Maradona beccato con le dita nella marmellata. Il bambino ovviamente reagì sottolineando la gravità della sanzione ed espresse, seppure un po’ nascostamente, il suo rincrescimento per l’accaduto. Qui viene il pezzo forte, la reazione del padre che vomitò (non so usare un verbo migliore): “Capirai quanto interesserà a Maradona con tutti i soldi che ha!!!” Il bambino non replicò e l’argomento purtroppo si chiuse così. Non so ancora darmi ragione del mio silenzio, ma forse fu dovuto al fatto che una bestialità simile non me la sarei mai aspettata da un padre: ci fosse stato “mio padre” non avrebbe taciuto. In poche parole quel signore aveva lanciato un messaggio negativo, diseducativo all’ennesima potenza. Era come dire al proprio figlio: “Ragazzo mio, nella vita conta solo il denaro, delle regole te ne puoi fare un baffo, della correttezza fregatene altamente”. Arrivò finalmente l’autobus, il tutto finì lì, ma ringraziai mio padre perché non ragionava così.

Comincia così, in netta controtendenza il mio omaggio/ricordo dedicato a Diego Armando Maradona. Nei i soliti scontati e stucchevoli panegirici giornalistici e nelle penose e sbracate reazioni post-mortem dei tifosi c’è un concetto, più o meno dichiarato, che funziona da leitmotiv: non si può fare distinzione fra l’artista del pallone e l’uomo. È una presuntuosa “excusatio non petita”: solo Dio non ci fa e non ci farà a fette, ci prende, ci prenderà e ci salverà per quello che siamo. Noi però non siamo Dio e abbiamo il dovere non tanto di giudicare, ma di accettare gli atti del nostro prossimo, in vita e dopo la morte, senza sbrigative commistioni tra arte ed etica, che rischiano di sminuire entrambe le facce della medaglia e di fare solo confusione nell’ansia di approntare le false e sontuose lapidi del caso.

Se non fossimo in grado di distinguere fra le opere d’arte e le contraddizioni nella vita dell’artista, dovremmo gettare nella spazzatura  (quasi) tutta l’espressine artistica o dovremmo ridurre “il buono” a controfigura del “bello”, tornando   alla “kalokagathia”, che rappresenta la concezione greca del bene connessa all’azione dell’uomo e che sostiene che vi sia una complementarità tra “bello” e “buono”: ciò che è bello non può non essere buono e ciò che è buono è necessariamente bello.

Maradona era, a suo modo, un artista, che incarnava, con un pizzico aggiuntivo di originale simpatia, la famosa espressione letteraria “genio e sregolatezza”, con la quale si vuole associare la genialità, specialmente artistica, con abitudini di vita stravaganti e disordinate. Ciò non significa sorvolare sulla sregolatezza, che non deve essere bypassata in nome del genio, il quale a sua volta non ha bisogno di questo confuso mixaggio. Se si vuole dire che la sregolatezza mentale di Maradona era comunque condita, a livello di cuore, da una notevole e ammirevole dose di generosità (in campo e fuori dal campo), è giusto ammetterlo e considerarlo. D’altra parte non si dice che “tutti i matti hanno le loro virtù”?

Un mio carissimo amico, sofferente dal punto di vista psichiatrico, mi raccontò, con ovvio sollievo dialettico, di come un altro comune amico avesse sdrammatizzato il suo allarmistico convincimento di essere sprofondato nel gorgo della schizofrenia, con una lieve battuta: «Non preoccuparti, siamo tutti un po’ schizofrenici…». Questa pietosa bugia ci serve anche a scoprire che sotto-sotto (forse) non siamo cattivi. Il discorso vale, a maggior ragione per chi, come Maradona, ha il merito di aver fatto della propria “arte creativa” un dono elargibile agli altri, un’occasione di divertimento per tutti nel partecipare alla competizione sportiva di altissimo livello qualitativo. Concentriamoci quindi in modo equilibrato sulla genialità del calciatore e lasciamo perdere giudizi strumentalmente assolutori sull’uomo: è il migliore servizio che possiamo rendere alla memoria del “pibe de oro”.

 

 

 

Violenza sulle donne e clericaloide antifemminismo

Di femminicidio si parla poco e male: poco, nel senso che l’argomento tiene banco solo ciclicamente, poi passata l’invettiva, gabbata la donna; male, nel senso che il tema viene affrontato molto superficialmente, spesso solo a livello giuridico, processuale e sanzionatorio. Il fenomeno evidenzia dati sconvolgenti e il fatto che il lock down abbia accentuato il ricorso alla violenza contro le donne fino alle estreme conseguenze dimostra come il rapporto con la donna venga vissuto spesso come sfogatoio delle maschili frustrazioni.

Esistono motivazioni culturali, storiche, sociali, economiche, politiche e religiose: su queste cause occorrerebbe ragionare per riuscire a rimuoverle non certo con la bacchetta magica delle pene detentive (anche quelle possono servire, ma purtroppo spesso intervengono a donna morta e sepolta), ma con una complessa ed articolata opera educativa che rimuova nella mentalità dei giovani ogni e qualsiasi aggancio col passato machista, con una precisa e puntuale azione politica che promuova la definitiva parità della donna in tutti i campi e in tutti i sensi, con una insistita, insistente e martellante divulgazione a livello culturale dei valori di cui la donna è portatrice e fautrice. Oserei dire che quello della valorizzazione del ruolo della donna non sia un problema, ma “il problema” della nostra società, l’ancora di salvezza per un futuro di pace ed autentico progresso.

Purtroppo al sadismo maschile si accompagna spesso una sorta di masochismo femminile: intendo dire che la donna è portata a impostare la sua emancipazione come adesione agli pseudo-valori sella società maschilista e adozione degli schemi comportamentali maschili. Amo fotografare questa inquietante “sindrome di Stoccolma” con un’amara constatazione: la donna forse punta più alla parità dei difetti piuttosto che a quella dei diritti. A maggior ragione occorre capovolgere la situazione rendendo la donna protagonista e non semplice comprimaria o addirittura mera spettatrice se non tragica vittima.

Voglio fare però una puntata in campo religioso. Sì, perché le religioni, più o meno tutte, hanno peccato e continuano a peccare di misoginia: la donna tentatrice, la donna essere inferiore (un tempo considerata addirittura senz’anima), la donna relegata non tanto nel ruolo di sposa e madre ma in quello di “macchina riproduttiva”, la donna esaltata a parole ed emarginata nei fatti, la donna discriminata nei ruoli e nelle funzioni.

Mi preme aggiungere qualche ulteriore considerazione oggettiva sul problema della donna nelle religioni, questione indubbiamente centrale e che, nelle prassi secolari, evidenzia una certa analogia di impostazione. Anche la posizione della donna a livello di dottrina dimostra che il cristianesimo parte in quarta con un vangelo spudoratamente femminista per poi ripiegare sul pazzesco maschilismo paolino, da cui ci sono voluti secoli per tentare di uscire e il cammino è tutt’altro che terminato. Con tutto il rispetto per la predicazione di Paolo, un cristiano dovrebbe comunque sempre rifarsi al dettato evangelico, alle parole e agli esempi di Gesù, ma purtroppo il Vangelo spesso è finito in soffitta coperto da una moltitudine di polverose scartoffie teologiche e dottrinali. La vita cristiana, a ben pensarci, è una lotta continua non tanto contro le tentazioni della carne, ma contro il tentativo di svuotare il Vangelo per impastoiarlo in un reticolo di assurde regole: esattamente il percorso inverso rispetto a quello compiuto da Gesù rispetto alla tradizione ebraica.

Volendo concedere all’attuale dottrina cristiana un giudizio obiettivo, mi sentirei di ammettere che sulla questione femminile non siamo ancora tornati a Gesù, ma ci siamo significativamente allontanati dal pensiero paolino.  Purtroppo non è così per l’Islam che rimane saldamente ancorato ad una impostazione coranica scriteriatamente maschilista e antifemminista da cui non riesce a schiodarsi. Mentre il cristianesimo è riuscito gradualmente ad affrancarsi da una tradizione pesante e alienante, l’islamismo ne rimane vittima, anche perché non ha il riferimento evangelico (e non è poca cosa) a fargli da sponda.

Come riporta opportunamente e significativamente il mensile Jesus nel numero di ottobre 2020, “Anne Soupa, teologa e biblista, il 25 maggio scorso ha spiazzato tutti autocandidandosi al ruolo di vescova di Lione, ancora vacante dopo le dimissioni del Cardinale Philippe Barbarin, coinvolto nello scandalo della pedofilia. Gesto che molti hanno interpretato come provocatorio ma che per Soupa è piuttosto una «rivendicazione politica del ruolo delle donne nella Chiesa, ingiustamente marginalizzate dall’istituzione ecclesiastica».

Anne Soupa spara al meglio le sue cartucce: «Le donne nella Chiesa sono arrivate a un tale accumulo di frustrazione e sofferenza da far semplicemente traboccare il vaso. L’idea di avere un altro vescovo come il precedente, nominato secondo la stessa logica clericale che ha portato a coprire le violenze, è per me intollerabile e sono convinta che se ci fossero più donne nella Chiesa ci sarebbero meno abusi. (…) L’esclusione delle donne dal sacerdozio è allo stesso tempo il sintomo e la malattia della Chiesa perché permette di concentrare il potere nelle mani del clero. (…) La risposta che arriva da Roma alle richieste delle donne non è incoraggiante. Papa Francesco non ha osato esprimersi a favore del sacerdozio femminile e il fatto che dia più spazio alle donne in ruoli amministrativi, come nel caso delle sei donne nominate nel Consiglio dell’economia del Vaticano, è un contentino, il segno che non darà loro responsabilità pastorali».

La Chiesa cattolica non è l’ultima ruota del carro dell’emancipazione femminile, ma non è nemmeno la punta di diamante nella battaglia a favore della donna e contro le discriminazioni e le violenze che essa subisce. Mi si dirà che non si bruciano più le streghe, che preti e vescovi non uccidono le donne che non si prestano alle loro eventuali avance, anche se al riguardo qualcuno sostiene che esista la mina vagante delle suore violentate fisicamente e vessate moralmente, che prima o poi esploderà forse ancor più fragorosamente di quella della pedofilia.

La religione deve e può fare molto di più rispetto alle solite mozioni degli affetti, ai pronunciamenti ex cathedra ed ex fenestra, che purtroppo lasciano il tempo che trovano, vale a dire lasciano le donne sole coi loro drammatici e tragici problemi: deve cambiare registro al proprio interno, mettendo in moto un virtuoso volano, che avrà effetti positivi su tutta la società e sull’intera questione femminile.

 

Il covid pieno e la società ubriaca

Durante un convegno di carattere politico ero seduto fra i partecipanti vicino ad un caro amico a cui certo non faceva difetto la vis polemica. Il dibattito si trascinava stancamente, mancava l’acuto: chi meglio del mio amico poteva risvegliare la platea? Lo convinsi ad intervenire e lo caricai a dovere, invitandolo a “tirare giù senza pietà”. Mi diede retta, lo fece al di là delle mie più rosee aspettative: salì al podio e cominciò ad attaccare con una tal veemenza e soprattutto con una tal genericità da irritare alquanto l’uditorio. Fin qui, missione compiuta. Il bello fu che ad un certo punto, quasi automaticamente, anch’io mi sentii costretto a contestarlo apertamente, gridandogli di smetterla e di andarsene a casa. Lui dal podio mi guardava e non capiva: proprio io che lo avevo aizzato, ora lo attaccavo clamorosamente. Ci volle del bello e del buono per ripristinare l’amicizia, solo la sua innata bontà riuscì a superare l’incidente di percorso.

Questo aneddoto, più volte rammentato, mi consente di introdurre in modo eloquente e leggero la triste realtà del dibattito sulle problematiche Covid, che sta diventando sempre più irritante e stucchevole: è una contraddizione continua. Le sacrosante critiche vengono squalificate dalle incoerenze dei critici. A chi governa viene chiesto tutto e il suo contrario, finendo così con l’assolvere, nel polverone sollevato, i peccati, talora mortali, di chi ha gestito e sta gestendo l’emergenza e programmando il dopo-pandemia.

Non riesco più a seguire le discussioni televisive, anche le più serie, impantanate in questo gioco della botte piena e della moglie ubriaca. Faccio alcuni esempi. Da una parte si sostiene che il governo abbia sottovalutato durante l’estate la quasi certezza di una seconda ondata pandemica, facendo saltare gli argini del contenimento e  non predisponendo, nei limiti del possibile, quanto poteva servire a farvi fronte: strutture ospedaliere, terapie intensive, personale sanitario, trasporti pubblici, controlli seri, monitoraggi adeguati, screening allargati se non di massa, vaccini anti-influenzali, etc. etc. Dall’altra parte gli si chiede di ripetere la leggerezza estiva allentando le misure restrittive ed abbassando la guardia in vista dell’affaire natalizio: un natale austero sarebbe infatti un disastro per l’importante filiera agro-alimentare del Paese. Ci si dimentica che esiste un’altra probabile filiera assai più tragica ed irrecuperabile, quella dell’ammalarsi, di entrare in ospedale, di essere ricoverati in terapia intensiva e di morire soli come cani.

Tante reprimende per la scriteriata apertura estiva delle discoteche (per la quale si batterono certe Regioni, che magari oggi si nascondono dietro i borbottii per le zone rosse, arancioni e gialle); oggi si chiede l’apertura degli impianti sciistici e delle strutture turistico-alberghiere ad essa collegate. Forse ci stiamo affidando solo al buon Dio, speriamo nell’aiuto del cielo senza aiutarci fra di noi. Preghiamo con questo blasfemo incipit: “Il Signore scia con voi”.

Molte critiche per i ritardi nell’adozione di misure drastiche per il contenimento della seconda ondata virale per poi lamentarsi e protestare per le chiusure che vanno inevitabilmente a danneggiare l’economia: tutti si scandalizzavano per gli assembramenti circostanti bar e ristoranti ed ora si vorrebbe riaprire i locali pubblici per dare sfogo alla verve festaiola natalizia e di fine anno.

C’è poco da fare, la coperta anti-covid è corta, se la tiriamo sulla difesa della salute scopriamo l’andamento economico e viceversa. Bisogna scommettere sul miracolo di trovare un compromesso fra queste due esigenze paradossalmente contrastanti. Riaprire in sicurezza mi sembra una pia illusione: le misure restrittive stanno funzionando, ma gli ammalati continuano a morire. Figuriamoci se si provasse ad aprire le porte: succederebbe come la scorsa estate, liberi tutti e chi muore si arrangi.

Se il presidente del Consiglio azzarda un’ipotesi di aperture ragionate e pilotate con prudenza, qualcuno gli fa clamorosamente presente che i commercianti e i ristoratori hanno bisogno di sapere per tempo se e quando potranno svolgere la loro attività. E allora? Apriamo al buio salvo poi lamentarci se arriverà una terza probabile ondata nel prossimo gennaio.

La riapertura delle scuole era auspicata da tutti (personalmente nutrivo qualche perplessità, ma ero sepolto sotto la valanga degli improvvisati difensori della imprescindibile educazione scolastica), salvo programmarla in modo demenziale per poi correre ai ripari chiudendo le porte più critiche quando i buoi erano scappati. Adesso si ricomincia il giro di valzer: la ministra, anche sulla spinta delle proteste di studenti e loro famigliari, spinge per la riapertura, ma non mi risulta che il problema fondamentale dei trasporti sia stato adeguatamente affrontato e, almeno in parte, risolto.  Forse stiamo parlando a vanvera adottando un macabro gioco dell’oca in cui torniamo sempre daccapo e perdiamo sistematicamente.

In una situazione caratterizzata da drammatiche incertezze esigiamo prospettive sicure, finendo col trascinare chi governa in ulteriore confusione, aggiuntiva rispetto a quella combinata in proprio. Diamoci una calmata, perché altrimenti le cose finiranno molto peggio di quanto si possa immaginare. Peggio di così, si dirà… Al peggio non c’è limite!

Un vaccino per prepararsi al vaccino

“Per fare un vaccino, io personalmente, voglio che sia approvato e voglio vedere i dati”, dice Andrea Crisanti, direttore di microbiologia e virologia all’Università di Padova. Parole che hanno scatenato una lunga scia di polemiche e contro-dichiarazioni. A partire dal presidente del Consiglio superiore di sanità, Franco Locatelli che, alla conferenza stampa del venerdì al ministero della Salute sull’analisi dei dati del Monitoraggio Regionale della Cabina di Regia non dà spazio a dubbi: “Se ci fosse il primo vaccino oggi in Italia Franco Locatelli lo farebbe senza la minima esitazione”. I vaccini anti-Covid “che verranno resi commercialmente disponibili – puntualizza Locatelli – seguiranno, per quanto in una situazione emergenziale, tutta una serie di step ineludibili garantiti dalle agenzie regolatorie. Quindi – ammonisce Locatelli – è bene ricordare sempre la responsabilità di affermazioni che poi possono avere riverbero mediatico”. Un tema, questo della sicurezza dei vaccini anti-Covid, sorvegliato speciale.

Ero piccolo, ma serbo un ricordo molto preciso della mia vaccinazione antivaiolosa. Ero con mia madre nella sala d’aspetto dell’ambulatorio comunale dove si svolgevano le vaccinazioni: i bambini piangevano per l’impressione del subire una strana puntura d’ago e per l’austera insofferenza di un’anziana dottoressa. Ero anch’io piuttosto preoccupato, mentre tra le mamme era in corso la discussione sull’obbligatorietà del vaccino. Alcune erano contrarie e dichiaravano apertamente, alla faccia di Jenner e Pasteur, di considerare come un sopruso quella vaccinazione: raccontavano strane vicende di gravi effetti collaterali. Altre erano scettiche sulla validità del vaccino e se ne stavano immusonite ad aspettare con un certo fastidio il loro turno. Altre, come mia madre, senza enfasi e con discrezione, confessando l’ignoranza in materia si affidavano alla scienza e al dovere civico di proteggere i figli da questo rischio.

Ho ripetuto questo episodio della mia infanzia per significare come siano passati decenni e il problema, per certi versi, rimanga ancora lo stesso. Ognuno deve fare il suo mestiere: gli scienziati devono ricercare e trovare le migliori soluzioni per la vita umana; i cittadini devono rispondere all’obbligo di comportarsi in modo civicamente corretto; i politici devono utilizzare al meglio le ricette scientifiche applicandole in difesa della salute dei cittadini. Purtroppo non è proprio così.

Gli scienziati dall’inizio della pandemia continuano imperterriti a sbandierare i loro conflitti ed a chiacchierare in libertà, confondendo le idee della gente già disorientata dalle ansie e dalle paure. I governanti brancolano nel buio, danno un colpo al cerchio e uno alla botte, fanno quel che possono, ma potrebbero fare molto di più e soprattutto meglio. I cittadini stanno a guardare, cominciano a spazientirsi, tendono a protestare, si lasciano prendere dal panico.

Le prospettive vaccinali nascono in questo clima. I dubbi e le perplessità sono più che ammissibili, ma non dovrebbero provenire ed essere esternati a ruota libera da chi dovrebbe rassicurare che le procedure avvengano nel modo migliore possibile. La speculazione affaristica si intromette anche in questi delicatissimi campi: siamo in un sistema capitalistico e non possiamo metterlo in contestazione partendo dai vaccini, sarebbe una sciagura. Gli errori e le incertezze albergano anche tra quanti sovrintendono scientificamente alla nostra salute: non si pretende la perfezione, ma la serietà e la discrezione. Chi governa ha il dovere di decidere, non facendo cadere le cose dall’alto, ma usando anche e soprattutto l’arma della informazione serena ed oggettiva e della convinzione costruttiva. I cittadini possono smarrirsi, ma devono ritrovare la strada dando ascolto alle voci ufficiali ed istituzionali competenti, senza correre dietro allo scoop mediatico e magari alle fake news.

Prepariamoci così alla vaccinazione anti Covid 19: poche chiacchiere, molte informazioni serie e molte disposizioni precise e puntuali. Non abbiamo cominciato nel migliore dei modi. Siamo ancora in tempo per aggiustare il tiro, facendo ognuno il proprio dovere. Rimanere freddi ed obiettivi non è mai facile, immaginiamoci nella situazione in cui stiamo vivendo. Il buon esempio dovrebbe venire dall’alto, ma anche il cittadino qualunque deve stare attento a quel che dice e fa. Ne va della salvezza di tutti.

 

 

 

La guerra è un errore che crea orrore

Esecuzioni sommarie, prigionieri uccisi per riti di iniziazione, bambini trucidati nelle proprie case, civili fatti fuori per liberare spazio sull’elicottero: sono solo alcuni dei reati raccapriccianti di cui si sono macchiate le forze speciali d’élite delle forze armate australiane (Adf, Australian Defence Force) durante i loro anni di attività in Afghanistan.

Il tutto emerge nero su bianco in un rapporto di 465 pagine di orrori, risultato di un’indagine durata anni (con la revisione di 20 mila documenti e 25 mila immagini e l’audizione di 423 testimoni) dove viene testimoniata l’uccisione illegale di almeno 39 civili e che fa piombare nella vergogna non solo l’esercito dell’Australia ma l’intero Paese. Per primo il premier, Scott Morrison, che ha già telefonato al presidente afghano, Ashraf Ghani, per esprimere “il suo più profondo dolore per la cattiva condotta” dei militari. Ora quelle carte sono in mano al procuratore speciale che indagherà per crimini di guerra. 

“Il vergognoso registro include presunti casi in cui nuovi membri della pattuglia sono stati costretti a sparare a un prigioniero per guadagnarsi la loro prima uccisione”, conferma il generale Angus Campbell, capo delle Forze di difesa australiane.  I soldati tenevano un macabro “conteggio dei morti per una competizione interna” e coprivano le uccisioni illegali organizzando schermaglie, posizionando armi vicino ai cadaveri e aggiungendo nomi (delle vittime innocenti) alle liste degli obiettivi.     

Dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, più di 26 mila soldati australiani furono mandati in Afghanistan per combattere a fianco delle forze alleate e statunitensi contro i talebani, Al-Qaeda e altri gruppi islamisti.  Le truppe da combattimento australiane hanno ufficialmente lasciato il Paese nel 2013, ma da allora è emersa una serie di resoconti spesso brutali sulla condotta delle unità delle forze speciali d’élite. 

Ho ripreso testualmente alcuni passaggi da un resoconto dell’Agenzia Italia. È giusto inorridire di fronte a questi eventi agghiaccianti: è una reazione emotivamente spontanea, ma razionalmente ipocrita. Infatti non c’è guerra che non abbia comportato episodi di violenza feroce ed ingiustificata, violenza chiama violenza in una inevitabile escalation.

Ricordo l’accesa discussione che ebbi tanti anni fa con un amico che giustificava convintamente lo scoppio della prima guerra del golfo quale reazione difensiva rispetto all’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein.  Quel conflitto oppose appunto l’Iraq ad una coalizione composta da 35 stati formatasi sotto l’egida dell’ONU e guidata dagli Stati Uniti, che si proponeva di restaurare la sovranità del piccolo emirato del Kuwait, dopo che questo era stato invaso e annesso dall’Iraq. Questo mio amico faceva un azzardato parallelo con la guerra contro la Germania di Hitler per teorizzare la cosiddetta guerra giusta.

La mia tesi era ed è anche oggi quella di ritenere sempre e comunque la guerra come un errore madornale. Anche sul piano diplomatico la reazione contro la Germania di Hitler ed i suoi alleati fra cui l’Italia era stata tardiva e piena di errori: non si possono sottovalutare certe situazioni abnormi, magari voltandosi dall’altra parte, magari accontentandosi di rapporti dettati dalla realpolitik, per poi intervenire a gamba tesa. Non sono uno storico, ma le poche nozioni in mio possesso mi portano a sostenere che il nazismo si doveva e poteva combattere a tempo debito senza arrivare a scatenare un conflitto mondiale.

Ma la vera risposta all’equivoco discorso della guerra difensiva non è certo la mia. Riprendo di seguito al riguardo alcuni passaggi dell’enciclica di papa Francesco “Fratelli tutti”. Mi sono ripromesso infatti di centellinarla in contemporanea con gli eventi che la storia attuale ci mette davanti e che ci interrogano tragicamente. Il modo migliore per non relegarla nell’etica astratta da smontare nel salotto del neoliberismo, ma per farne un concreto e positivo riferimento nelle scelte individuali e collettive.

È così che facilmente si opta per la guerra avanzando ogni tipo di scuse apparentemente umanitarie, difensive o preventive, ricorrendo anche alla manipolazione dell’informazione. Di fatto, negli ultimi decenni tutte le guerre hanno preteso di avere una “giustificazione”. Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla della possibilità di una legittima difesa mediante la forza militare, con il presupposto di dimostrare che vi siano alcune «rigorose condizioni di legittimità morale». Tuttavia si cade facilmente in una interpretazione troppo larga di questo possibile diritto. Così si vogliono giustificare indebitamente anche attacchi “preventivi” o azioni belliche che difficilmente non trascinano «mali e disordini più gravi del male da eliminare». La questione è che, a partire dallo sviluppo delle armi nucleari, chimiche e biologiche, e delle enormi e crescenti possibilità offerte dalle nuove tecnologie, si è dato alla guerra un potere distruttivo incontrollabile, che colpisce molti civili innocenti. In verità, «mai l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene». Dunque non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!

È importante aggiungere che, con lo sviluppo della globalizzazione, ciò che può apparire come una soluzione immediata o pratica per una determinata regione, dà adito a una catena di fattori violenti molte volte sotterranei che finisce per colpire l’intero pianeta e aprire la strada a nuove e peggiori guerre future. Nel nostro mondo ormai non ci sono solo “pezzi” di guerra in un Paese o nell’altro, ma si vive una “guerra mondiale a pezzi”, perché le sorti dei Paesi sono tra loro fortemente connesse nello scenario mondiale.

Come diceva San Giovanni XXIII, «riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia». Lo affermava in un periodo di forte tensione internazionale, e così diede voce al grande anelito alla pace che si diffondeva ai tempi della guerra fredda. Rafforzò la convinzione che le ragioni della pace sono più forti di ogni calcolo di interessi particolari e di ogni fiducia posta nell’uso delle armi. Però non si colsero pienamente le occasioni offerte dalla fine della guerra fredda, per la mancanza di una visione del futuro e di una consapevolezza condivisa circa il nostro destino comune. Invece si cedette alla ricerca di interessi particolari senza farsi carico del bene comune universale. Così si è fatto di nuovo strada l’ingannevole fantasma della guerra.

Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male. Non fermiamoci su discussioni teoriche, prendiamo contatto con le ferite, tocchiamo la carne di chi subisce i danni. Rivolgiamo lo sguardo a tanti civili massacrati come “danni collaterali”. Domandiamo alle vittime. Prestiamo attenzione ai profughi, a quanti hanno subito le radiazioni atomiche o gli attacchi chimici, alle donne che hanno perso i figli, ai bambini mutilati o privati della loro infanzia. Consideriamo la verità di queste vittime della violenza, guardiamo la realtà coi loro occhi e ascoltiamo i loro racconti col cuore aperto. Così potremo riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra e non ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la pace.

 

Le mele marce e una bella susina

Il Vaticano avvia un’indagine sul like alla modella brasiliana partito dall’account Instagram del Papa. “Possiamo escludere che il ‘like’ provenga dalla Santa Sede. Ci siamo rivolti a Instagram per spiegazioni”. Così hanno dichiarato fonti del Vaticano, che ha deciso di avviare un’indagine interna sul like dell’account ufficiale di Papa Francesco alla foto postata dalla modella brasiliana, Natalia Garibotto. Il “mi piace” è stato subito rimosso, ma non è passato inosservato. Tanto che la modella ci scherza su: “Almeno andrò in Paradiso”, ha scritto su Twitter. Papa Francesco ha creato il suo account ufficiale nel 2016 e ora conta oltre sette milioni di follower.

Fin qui la nuda notizia di cronaca, come (quasi) nuda è la bella modella nella foto in questione. Non saprei come definire l’episodio: una goliardata, una provocazione, una presa in giro? Probabilmente di tutto un po’. Faccio fatica a intravedervi un disegno volto a screditare il papa, anche se non si può escludere niente. Sono convinto che papa Francesco non si sarà scandalizzato e probabilmente avrà riso di gusto. Immagino i bisbigli e i finti imbarazzi nelle stanze vaticane.

Ricordo di avere scritto nel febbraio del 2012 un pezzo che parlava dei problemi della Chiesa e si chiudeva così: “Allora concludendo non mi resta che rincarare la dose. A pensarci bene, ritengo molto meglio, da tutti i punti di vista, il vertiginoso abito con spacco inguinale sfoggiato a San Remo da Belen Rodriguez, piuttosto che i sottanoni cardinalizi fruscianti intorno ai compiaciuti governanti italiani. Questione di gusti”. La foto a corredo era un profetico montaggio in cui veniva simpaticamente accostata l’immagine della scosciatissima Belen a quella di un impettito e chiacchierato (non per questioni sessuali, ma successivamente per un lussuoso superattico ristrutturato con i fondi dell’ospedale pediatrico Bambin Gesù) cardinal Bertone.

Il discorso, per quanto mi riguarda, è ancora lo stesso: tutto sommato è meglio per papa Francesco la inopinata e virtuale compagnia di una gran bella “susina”, piuttosto della concreta, pericolosa e simoniaca compagnia di cardinali affaristi e speculatori. Anche perché la foto di Natalia Garibotto si fa presto a rimuoverla (se fossi nel papa la lascerei a dimostrazione che il sesso non deve far paura alla Chiesa), mentre per togliere di mezzo i mercanti annidati nelle stanze curiali ci vorrebbe una evangelica bomba atomica e per spazzare via i “bigottoni” da tutte le sedi in cui sono annidati sarebbe necessaria una visita pastorale dello Spirito Santo in versione hard.

L’occasione è buona per fare anche una rapida incursione sul tema della presenza della donna nella Chiesa. Ben venga la foto di cui sopra, furtivamente postata nell’account papale, se voleva significare che la donna vuole intromettersi nella vita ecclesiale e, se non riuscirà a farlo entrando dalla porta, lo farà violando, magari provocatoriamente e usando tutte le sue armi anche in modo piccante, la conventio ad escludendum nei confronti del genere femminile.

Sono un ammiratore ed estimatore di “Femen”, il movimento femminista di protesta ucraino, divenuto famoso, su scala internazionale, per la pratica di manifestare mostrando i seni contro il turismo sessuale, il sessismo e altre discriminazioni sociali. Non penso che dietro la foto della modella brasiliana ci sia un serio intento femministico, ma, arditamente pensando, mi piace leggerla anche in chiave contestatrice di un andazzo discriminatorio sessista presente da sempre nella Chiesa.

Non voglio essere malizioso, ma credo che, tutto sommato, sarà più facile per le donne strappare la concessione di celebrare la messa piuttosto che di accedere al potere vaticano ed ecclesiastico (d’altra parte le due cose sono abbastanza collegate a livello di clericalismo dominante). Le donne: sono sempre più convinto che da esse dipenda il nuovo a tutti i livelli, politico, sociale, religioso. Mi si obietterà che la presenza di donne in Vaticano potrebbe ulteriormente e sessualmente indurre in tentazione qualche monsignore o cardinale. Il gioco varrebbe comunque la candela: meglio essere attratti da una bella donna che da un chierichetto, meglio andare a letto spontaneamente con una funzionaria vaticana piuttosto che con un seminarista a pagamento. Più di così non potrei sparare!

 

 

 

 

Quel che passa il convento

Il convento della politica italiana, nonostante gli autorevoli e credibili appelli del presidente Mattarella, passa poco o niente. Il clima emergenziale, anziché spingere alla collaborazione costruttiva, avvelena il confronto e irrigidisce le posizioni. Bisogna quindi “accontentarsi” di quello che si ha a disposizione e di quel che viene offerto, adattandosi alla situazione e non avendo purtroppo altre possibilità.

Vale per il governo che, nonostante la buona fede e l’impegno, si dimostra piuttosto inadeguato per debolezza politica intrinseca e per scarsa qualità soggettiva; vale per l’opposizione impiccata all’albero della strumentalizzazione, oscillante fra la sdegnosa indisponibilità e la pelosa disponibilità a collaborare. Avverto i deboli di cuore che proseguirò con una analisi “spannometricamente” spietata e “sfogatamente” provocatoria.

I due personaggi emblematici di questa impasse sono Giuseppe Conte e Silvio Berlusconi. Siamo alle prese con due soggetti il cui approccio alla politica è molto diverso. Conte è avvocato/professore capitato a Palazzo Chigi per caso, un coniglio tirato fuori dal cilindro di Grillo, accettato obtorto collo dal Capo dello Stato: strada facendo, ci ha preso gusto, sfruttando equilibri politici precari, ma senza alternative. Berlusconi è un imprenditore (più affarista che imprenditore) improvvisatosi politico, preoccupato prima di tutto di fare i propri interessi e poi di incantare la gente, convincendola che chi sa curare i propri interessi sa curare anche quelli del Paese.

Il primo vuole rimanere premier all’onore più del mondo che dell’Italia; il secondo vorrebbe rientrare nei giochi e sarebbe disposto a tutto pur di contare qualcosa in un panorama che tende a tagliarlo fuori. Conte è prigioniero di se stesso e di un governicchio estremamente debole e contraddittorio; Berlusconi si è col tempo trasformato da apparecchiatura pericolosa e ingombrante a cianfrusaglia insignificante. Sono entrambi insipidi per opposti motivi: un piatto freddo e una minestra riscaldata. Tutto sommato non contano un cazzo, ma lo dicono bene. Da lôr a niént da sén’na!? Due debolezze diverse, che, come ben si sa, pur messe insieme non fanno una forza. Il premier non prova neanche a sostituire qualche ministro palesemente inadeguato, perché sa perfettamente che il castello è talmente precario che, anche toccandolo appena, si rischia di farlo miseramente crollare. Il cavaliere vorrebbe tanto ergersi a leader dell’opposizione costruttiva, ma non ha i voti, non ha più il carisma, non ha la forza politica per una simile avventura.

E allora entrambi vivacchiano. Conte ce la mette tutta, ma, quando il tutto è così poco, non basta. Preparare una buona torta, con ingredienti scarsi di qualità e quantità, è impresa ardua, quasi impossibile. Berlusconi gioca il doppio ruolo del poliziotto buono, prendendo le distanze da alleati impresentabili e inconfessabili come Salvini e Meloni, costretto però a rientrare precipitosamente nel ruolo del poliziotto cattivo per necessità e senza alcuna virtù. Questa è la politica italiana in tempo di Covid 19.

La società italiana potrebbe sicuramente esprimere qualcosa di meglio, ma per ora il convento è quello di cui sopra. Non resta che prenderne atto senza illudersi che Conte possa diventare De Gasperi e Berlusconi possa impersonificare una opposizione stimolante e convincente alla Malagodi. Relativamente alla pandemia si spera un po’ troppo nell’effetto miracoloso del vaccino, per la politica non esiste vaccino e gli anticorpi ce li dobbiamo fare da soli. Alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, allo scadere della cosiddetta prima repubblica, Gianni Agnelli disse che per ricostruire una classe dirigente sarebbero occorsi vent’anni. Ne sono passati trenta e siamo ancora ben lontani dalla metà del guado. Il craxismo sotterrò la prima repubblica, il berlusconismo partorì e soffocò nella culla la seconda repubblica, il grillismo da una parte e il salvinismo dall’altra stanno dando la spinta definitiva per buttare la repubblica nella merda. E adesso…