A me Salvini (non) mi piace

“Mi autodenuncio: se la scelta del governo sarà che non si può uscire di casa il 24, il 25 e il 26 neanche per portare un piatto caldo a chi dorme in strada, bene io lo farò lo stesso come da anni sono abituato a fare, per portare dei doni ai bimbi più sfortunati. Non potete chiudere in casa il cuore degli italiani. Lo preannuncio, se ci sarà il tutti chiusi in casa io esco, io aiuto, io porto un pasto caldo, una coperta. Non potete congelare il cuore degli italiani. Dividere le famiglie non ha senso, non c’è decreto che esista che possa impedire agli italiani di aiutare gli altri italiani”, dichiara il leader leghista Matteo Salvini.

Mia madre mi raccontava che ai tempi della sua infanzia, quando ci si confessava in vista delle grandi feste religiose, si andava a letto subito dopo per evitare di cadere in peccato e mettere a repentaglio la propria riconquistata purezza con cui vivere il Natale o la Pasqua. Per non parlare male di Salvini bisognerebbe stare sempre a letto soli soletti a dormire il sonno dei giusti. Lui invece, che sbandiera la sua fede, perde continuamente l’occasione per tacere e induce tutti in tentazione, senza avere la benché minima intenzione di liberarci una volta per tutte dalla sua ingombrante e insopportabile presenza.

Questo illustre (?) signore però può (s)parlare perché qualcuno ha avuto il cattivo gusto di mandarlo in Parlamento con una valanga di voti al punto da fargli fare per un anno e più il ministro degli Interni. Spesso ricorro agli aneddoti paterni per spiegarmi meglio. A mio padre piaceva molto questo: durante una partita di calcio un giocatore si avvicinò all’arbitro che stava facendone obiettivamente di tutti i colori. Gli chiese sommessamente e paradossalmente: «El gnu chi lu cme lu o agh la mandè la federassion » (Lei è stato inviato ad arbitrare questa partita dalla Federazione o è venuto qui spontaneamente, di sua iniziativa?). Si beccò due anni di squalifica.

Pensate se avesse gestito lui a livello governativo la pandemia, se avesse lui la responsabilità dei rapporti con l’Unione Europea, se fosse ancora in sella a dettare l’agenda politica del nostro Paese. C’è da farsi venire i brividi e da accendere una candela a (san)Giuseppe Conte che nella sua voltata di gabbana ha trovato il coraggio di mandare clamorosamente Salvini a fare un altro mestiere. Ma torno alla dichiarazione resa in concomitanza con il varo del mini-lock down natalizio.

È difficile condensare in così poche righe un campionario così vasto ed esauriente di cazzate. Vi ricordate quando Salvini mangiava le ciliegie durante la conferenza stampa del governatore veneto Luca Zaia? Le ciliegie sono come le cazzate: una tira l’altra. Il problema però non sono tanto le cazzate del leader leghista (qualcuno sostiene che sia in declino a favore di Gianluca Giorgetti: se la vedranno in via Bellerio e sarà una bella gara), ma il numero degli sprovveduti che lo godono e lo votano. La Lega, stando ai sondaggi, sarebbe il partito di maggioranza relativa, ben oltre il già cospicuo bottino fatto alle elezioni politiche del 2018. Conosco gente che lo ha votato per prova, altri forse per scherzo, altri perché (s)parla bene, altri ancora (forse i più) perché vuol mandare a casa gli immigrati. Ognuno è libero di votare come crede, mancherebbe altro. Sarebbe lungo e difficile capire perché tanta svogliatezza e tanta approssimazione.

Tutto però a un limite: inviterei coloro che sono ancora del parere di votarlo a leggere adagio le dichiarazioni di cui sopra, centellinando le parole. Anche il più sprovveduto dei cittadini dovrebbe capire che Salvini ci sta prendendo tutti in giro. Berlusconi lo votavano perché sapeva fare i propri interessi e quindi speravano che sapesse fare anche quelli del Paese: prova miseramente fallita. All’estero lo avevano capito e quindi il “bunga-bunga” era diventato il nostro marchio di fabbrica. Adesso, in buona parte gli stessi soggetti, votano Salvini perché sa interpretare al meglio la parte dell’italiano che confonde il parlamento con il bar all’angolo. C’è poco da fare: piace! Il verbo salviniano, nonostante tutto, funziona.

Il casino di gregge

Quando scrivo questo commento non conosco ancora se il periodo delle festività natalizie sarà giallo, arancione, rosso o variopinto. Una cosa so: che il governo, complici le pressioni delle forze economiche e sociali, complici le sbandate regionali, complici gli ambigui pronunciamenti scientifici, complici i deliranti comportamenti di troppa gente, arriverà tardi e male a varare misure restrittive per contenere l’assurda smania gaudente degli italiani.

Ricordo per l’ennesima volta, da arteriosclerotico quale sono, un episodio/aneddoto piuttosto emblematico della confusione creata tra un DPCM e l’altro, tra un pronunciamento ministeriale e l’altro, tra una conferenza stampa e l’altra, tra un’intervista e l’altra. C’era una volta un funzionario pubblico così incapace e confusionario da meritare una reprimenda, da parte del suo superiore, al massimo dell’umiliazione possibile: “Lei d’ora in poi non faccia niente, legga, pensi ai fatti suoi e, se proprio non sa come trascorrere il tempo in ufficio, dorma”.

Arriviamo alle feste di Natale nell’incertezza riguardo ai comportamenti consentiti o meno. Nel frattempo un milione di persone sono già in viaggio e questo fatto rende perfettamente l’idea di come si finisca per chiudere la stalla quando i buoi se ne sono andati. Può darsi che queste persone abbiano brutte sorprese per la loro permanenza nei posti scelti e per il ritorno a casa; soprattutto saranno da considerare cani sciolti con la mascherina, ma senza museruola.

La confusione, che ha regnato sovrana prima delle feste, quella che regnerà durante il periodo delle feste, integrale o spezzettato, quella che regnerà all’indomani delle feste col rientro alla vita normale (?), contribuisce a creare l’idea di una sorta di strisciante impunità, di lasciapassare conseguenziale, di alzata collettiva di spalle.

La politica degli annunci – uno al giorno leva il governo di torno – è un invito subliminale alla trasgressione: non si potrà uscire, bene, allora tutti in pista intanto che si può; non si potrà viaggiare, bene, allora tutti in viaggio scompagnati e scoperti con la logica stringente ed esimente del fatto compiuto; non si potranno frequentare bar e ristoranti, bene, sfoghiamoci a più non posso con colazioni, aperitivi, spuntini, intasando i locali pubblici. Se è vero come è vero che fatta la legge fatto l’inganno, figuriamoci quanti inganni verranno escogitati all’annuncio di una legge.

So benissimo come possa essere difficile governare una situazione pandemica, ma è meglio decidere in fretta con il rischio di prendere qualche solenne cantonata, piuttosto che discutere all’infinito per poi non decidere o per partorire il topolino dopo che la montagna è crollata. Posso immaginare quali e quante pressioni avrà il governo per non chiudere o limitare al massimo le chiusure, ma ad un certo punto occorre interrompere il balletto dei pro e contro e assumersi certe spiacevoli responsabilità.

Nella mia vita professionale non potevo sopportare i superiori che facevano i pesci in barile, meglio una cazzata oggi che un casino domani. Io cittadino devo sapere di qual morte devo morire: già devo fare i conti con il Covid che pende sulla mia testa, preferirei non aggiungerci mille altri dubbi e incertezze di clima socio-politico. Sì, perché alle titubanze governative sui tempi e modi delle misure anti-Covid si sono aggiunte le diatribe politiche interne al governo: non si sa cosa deciderà il governo e magari, se dopo aver deciso, riuscirà o meno a rimanere in carica.  Lasciamo perdere l’opposizione per carità di gregge. È vero che i guai non vengono mai da soli, ma non esageriamo.

“Il concetto vi dissi… Or ascoltate com’egli è svolto: andiam, incominciate!” A fare cosa non so… L’opera da cui ho tratto questa frase è “I pagliacci” di Leoncavallo. Attenzione però, lo dico per chi non ha dimestichezza con questa opera lirica: non tragga in inganno il titolo, perché trattasi di una tragedia che finisce assai male come peraltro il drammatico fatto di cronaca nera a cui si è ispirato l’autore. La pagliacciata c’è, ma come dice Canio all’inizio, “un tal gioco, credetemi, è meglio non giocarlo”.

 

Le contraddizioni sono il pane quotidiano

C’è assembramento e assembramento: ci sono le interminabili file di chi chiede un pasto e ci sono le code per lo shopping natalizio. Non voglio fare demagogia, ma mentre alle prime, vale a dire quelle delle persone in chiara difficoltà economica, bisognerebbe dare serie ed organiche risposte in termini di ristoro pubblico, non lasciando il problema al volontariato, sulle seconde farei cadere la mannaia dei controlli senza pietà, ricorrendo, se necessario, al lanciafiamme.

Mi si dirà che rischio di aggiungere contraddizione a contraddizione. Sì, perché abbiamo costruito una società basata sulle contraddizioni. Il vomitevole shopping natalizio infatti serve a garantire lavoro e reddito in modo da evitare il ricorso alla beneficienza pubblica e privata. Anche questo è vero, devo ammetterlo. Ma siamo purtroppo agli estremi mali che richiedono estremi rimedi. Gli estremi mali sono le migliaia di morti a cui stiamo facendo l’abitudine, gli estremi rimedi sarebbero darsi una regolata nella sarabanda di rapporti tre le persone, evitando almeno quelli superflui e non mi si dica che il bailamme del regalino o regalone è necessario.

Tra chi muore di Covid e chi rischia di chiudere il negozio, mi schiero, in modo manicheo, dalla parte dei morituri: i negozi si possono riaprire, le bare no (se non ricorrendo alla Risurrezione dei morti, in cui peraltro credo fermamente). Bisogna operare delle dolorose scelte prioritarie, scegliere, in questo caso, il male minore. Ci sarà tempo e modo di fare altre scelte. Se lasciamo morire la gente pur di non sacrificare le nostre consumistiche abitudini, a parte il rimorso etico che morderà le nostre coscienze, ci troveremo a vivere in una società sempre più ristretta e povera. Si proverà a rilanciare i consumi, ma non ci saranno più i consumatori.

Non ho grande simpatia ed ammirazione per Michele Guerra, assessore alla cultura del Comune di Parma, ma devo ammettere che, nella recente logorroica (è il suo incontenibile vizio) intervista rilasciata alla Gazzetta di Parma, ha imbroccato una sacrosanta provocazione: «Ci sono delle incongruenze: sabato mattina ho fatto un’intervista per Rai 3 davanti al Battistero chiuso, mentre nello stesso orario c’era il mercato in Ghiaia. È possibile?».

La nostra società ed i suoi governanti continuano a sbagliare la scala delle priorità. Prima i mercatini o prima la cultura?  I mercatini non si toccano, i musei, le mostre, i teatri si possono chiudere tranquillamente. E pensare che sarebbe molto più facile evitare gli assembramenti e gestire i rapporti tra le persone in un museo pieno di opere d’arte piuttosto che in un piazzale pieno di bancarelle.

Mi si dirà che rischio di aggiungere contraddizione a contraddizione. Sì, perché abbiamo costruito una società basata sulle contraddizioni. Nei mercatini si spaccia cibo materiale, nei musei si offre cibo spirituale: è più necessario il primo. Se lasciamo la gente nell’ignoranza pur di non sacrificare le nostre consumistiche abitudini, a parte il rimorso etico che morderà le nostre coscienze, ci troveremo a vivere in una società sempre più asfittica e disumana. Si proverà a riaprire i teatri, ma la gente preferirà i ristoranti. Il turismo culturale non è un’opportunità anche per i ristoratori? Ed ecco che il cane si morde la coda.

Nei giorni scorsi, quando ho visto installare le luminarie nelle vie del centro, non credevo ai miei occhi: ho protestato fra me e me e gli operai addetti hanno scosso il capo ed allargato le braccia. Morale della favola: alle luminarie non si può rinunciare. Ma vi sembra il caso di imbastire una sorta di festa collettiva coi morti in casa? Alla morte non si può ovviare alla mancanza di allegria si può rimediare! Ed ecco che il cane non si morde la coda, ma morde le nostre gambe corte.

Luci nelle strade e buio nelle prospettive del governo. Ma chi se ne frega del governo, l’importante è festeggiare. Festeggiare cosa? Qualsiasi cosa pur di distrarsi dalla triste realtà. E finita la festa? Gabbato lo santo e andremo a seppellire i morti.

 

Vana illusion la mia!

Una crisi che deve ancora mostrarsi fino in fondo, con le conseguenze della pandemia che, dopo nove mesi di emergenza sanitaria, ancora non sono arrivate in superficie sul terreno dell’economia. Mario Draghi, intervenuto ieri nella veste di co-presidente del gruppo di lavoro del G30 in un rapporto preliminare dell’organizzazione sugli effetti del Covid-19, lancia un allarme largo e accorato. In gioco c’è la tenuta del sistema: «Le autorità devono agire urgentemente, perché in molti settori e Paesi siamo sull’orlo del precipizio in termini di solvibilità, specialmente per le piccole e medie imprese, con i programmi di sostegno in scadenza e il patrimonio esistente che viene eroso dalle perdite – rimarca l’ex numero uno della Banca centrale europea, che è anche nel comitato di direzione del think tank di consulenza su questioni di economia monetaria e internazionale –. Il problema è peggiore di quel che appare perché il massiccio aiuto in termini di liquidità, e la vera e propria confusione causata dalla natura senza precedenti di questa crisi che stiamo vivendo, ne stanno mascherando le vere dimensioni». 

Un allarme da ascoltare attentamente, che però non deve indurre nell’errore di sopravvalutare le questioni economiche rispetto a quelle sanitarie. Quando ho letto il titolo della notizia sopra riportata, vale a dire “Draghi dice che andiamo a finire male” o roba del genere, da una parte mi sono preoccupato per l’autorevolezza della fonte da cui provengono queste gravi previsioni, dall’altra ho sperato che fosse un convincente richiamo a governare con più fermezza e decidere con assoluta urgenza. Vuoi vedere che Mario Draghi si è stufato di stare in panchina e sta svestendo la tuta per entrare in campo? L’illusione è durata pochi istanti, perché la sintetica e catastrofica analisi draghiana era molto parziale e tecnicistica e quindi non poteva essere letta in chiave squisitamente politica. Peccato!

Ho avuto modo di riportare più volte quanto mi disse un carissimo amico esperto di politica all’indomani dello scoppio della pandemia: sono due i personaggi che possono prendere per mano l’Europa e condurla lungo i sentieri impervi della lotta al coronavirus, Angela Merkel e Mario Draghi. Mentre la prima sta dimostrando di essere più che mai in sella e di avere lucidità e decisionismo da vendere, il secondo è defilato e non si smuove dal suo splendido isolamento. Due personaggi molto diversi per cultura, professionalità, esperienza e provenienza, per due Stati altrettanto diversi per storia, mentalità e peso economico.

La Germania ha il vantaggio di avere una finanza pubblica in ordine che le concede la possibilità di aiutare e sostenere le categorie colpite dalle reiterate chiusure; ha una burocrazia efficiente; ha minori gravami a livello di corruzione e di delinquenza organizzata; ha una politica meno rissosa; ha una società più disciplinata (nel bene e nel male); ha una forza d’urto notevole a livello europeo ed internazionale. Noi partiamo in svantaggio, ma abbiamo risorse da mettere in campo e poi…l’Italia è sempre l’Italia. Sarebbe interessante vedere all’opera un collegamento tra Angela Merkel e Ursula von der Leyen da una parte e Mario Draghi e Sergio Mattarella dall’altra parte. Non è il caso di sognare ad occhi aperti, anche perché nessuno ha la bacchetta magica per uscire indenni dalla pandemia.

L’altra sera, durante il dibattito televisivo proposto dalla trasmissione “Otto e mezzo”, l’ingegner Carlo De Benedetti, rispondendo alla domanda della conduttrice sull’eventualità di una salita al potere in Italia del centro-destra, ha detto con simpatica supponenza che non vedeva possibile un Salvini col cappello in mano a chiedere fondi all’Europa, cioè a chi, secondo Salvini, ci vuole solo dominare e soggiogare; così come riteneva improbabile che Joe Biden, dopo avere battuto un mastino come Trump, si buttasse nelle braccia di Matteo Salvini. Risposta un po’ semplicistica, ma assai colorita e realistica.

Siamo in Europa, ci vogliamo e dobbiamo rimanere, ci apprestiamo a prendere da essa una barca di soldi, ritroviamo un partner affidabile e disponibile negli Usa di Biden e rischiamo di consegnare l’Italia a squallidi personaggi della più squallida e pericolosa destra. Un caro amico, durante le discussioni politiche, quando il dibattito assumeva contorni paradossali, era solito interrompere con una frase detta con intonazione nasale: “Stiamo scherzando o vogliamo scherzare”. Sembrano due ipotesi analoghe, ma non proprio. Nel caso di Salvini-Meloni propenderei per “stiamo scherzando”. Se dovesse profilarsi veramente una simile eventualità spero che Sergio Mattarella abbia qualche carta segreta da giocare correttamente. Nonostante la comprensibile riottosità della persona, penso che una di queste carte, forse la più decisiva, possa essere Mario Draghi. Continuo a sognare: si spende poco…

 

Il miraggio dello shopping nel deserto politico

“Le persone sono un po’ stanche e vorrebbero venirne fuori, anche se qualcuno morirà, pazienza”. È la frase choc pronunciata dal presidente di Confindustria Macerata, Domenico Guzzini, parlando di Covid durante un evento on line dedicato alla moda.

Di cazzate se ne sentono tante che una più una meno non fa una gran differenza. Il problema è che la stragrande maggioranza degli italiani la pensa, direttamente o indirettamente, così e soprattutto si comporta in base a questo cinico e baro criterio. Ci si chiede se l’atteggiamento irresponsabile della gente, alla ricerca del freddo per il letto nello shopping natalizio e nell’affrontare la logistica delle prossime festività, sia causato dalla inconcludenza e dalla contraddittorietà della politica o se sia una dimostrazione autonoma e precisa di assoluta insensibilità civica.

“Nel lungo periodo ogni governo è l’immagine esatta del suo popolo, con tutta la sua saggezza e stupidità”: così afferma Thomas Carlyle, storico, saggista e filosofo scozzese. Non è passato molto tempo, ma il popolo italiano alle ultime elezioni politiche ha concesso una enormità di voti al M5S che ha espresso l’attuale presidente del Consiglio e che, dopo aver governato con il partner/antagonista del populismo italiano, la Lega, è sceso a più miti consigli governando con la sinistra. Quindi forse il M5S è l’immagine esatta della confusione mentale che regna nella testa degli italiani.

“La gente ha il governo che si merita col proprio comportamento, ma si meriterebbe di meglio”: è una espressione di Richard Stallman, programmatore informatico e attivista statunitense. Gli italiani brancolano nel buio e quindi vanno continuamente a sbattere, giocano a mosca cieca col coronavirus, vogliono tornare alla normalità di vita anche a costo di molti che perdono la vita. Difficile, partendo da questi presupposti comportamentali, pretendere un governo lucido, coerente e democratico. Forse un governo migliore, rispetto alle dimostrazioni di demenza prenatalizia fornite dalla gente in preda alla sbornia consumistica, non sarebbe neanche impossibile da ottenere. Come noto spesso le ubriacature servono a dimenticare i propri guai, che ritornano regolarmente ingigantiti a brevissimo termine.

La risposta sembrerebbe quindi orientarsi sulla primaria (ir)responsabilità popolare, causa e non effetto di un modo di governare inadeguato. Bisogna però dare un’occhiata alla storia. Stiamo vivendo, in un certo senso, il terzo dopo-guerra: il primo è quello degli anni successivi alla grande guerra, dal 1918 in poi; il secondo è quello post seconda guerra mondiale, dal 1946 in avanti; il terzo è quello che stiamo vivendo in conseguenza del disastro causato dalla pandemia.

La classe politica italiana dopo la prima guerra mondiale ha inanellato una serie pazzesca di errori nell’affrontare i gravi disagi popolari finendo col regalarci il ventennio fascista. I gravissimi disagi e le gravi problematiche socio-economiche esistevano ancor più dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale eppure la classe politica riuscì a metabolizzarli, partorendo, per merito soprattutto della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista, un assetto istituzionale autenticamente democratico, una Costituzione avanzata sul piano sociale, una politica di rinascita e di ripresa economica sfruttando anche l’aiuto del mondo occidentale in cui ci siamo giustamente inquadrati. I momenti difficili vanno dunque governati con autorevolezza, credibilità e coerenza: in poche parole bisogna essere capaci di chiedere i sacrifici prospettando soddisfacenti risultati per il futuro.

Una classe politica, all’altezza dell’improbo compito di governare un’emergenza che sta diventando ordinarietà, capace di indirizzare, incanalare e rassicurare la gente, purtroppo ci manca e quindi la bilancia sembrerebbe pendere dalla parte delle manchevolezze e delle colpe della politica la quale indurrebbe in errore i cittadini allo sbaraglio. Sembra un po’ la questione dell’uovo e della gallina: la è se ci lasciamo da essa imprigionare dallo scaricabarile tra potere pubblico e comportamenti privati. C’è un’area di razionalità e sensibilità privata che prescinde da ogni e qualsiasi deficienza pubblica. Precipitarsi disordinatamente nei bar per consumare a bocca piena e a gola aperta, come se si arrivasse finalmente in un’oasi dopo la traversata del deserto, è roba inaccettabile anche se a governare ci fosse il più assurdo dei dittatori o il più cretino dei presidenti eletti democraticamente. Chiedere, nei dovuti modi, anche con asprezza, a chi governa regole precise, chiare e ragionevoli è invece cosa non solo accettabile ma auspicabile.

 

 

 

 

Il rischio di un governo solo, perduto e abbandonato

Ho seguito in televisione il concerto di Natale trasmesso da Palazzo Madama in un’atmosfera surreale per non dire spettrale: sugli scranni erano presenti solo i massimi rappresentanti delle istituzioni a notevole distanza l’uno dall’altro. Sembrava una veglia funebre per i tanti morti di Covid più che un evento culturale per gli auguri rivolto agli italiani. Le due valenze non si escludono anche se così sovrapposte possono creare un senso di sgomento e di sconforto.

In effetti mi sono commosso pensando anche alla solitudine di chi riveste incarichi politici e si trova isolato, criticato e incompreso. Considero la politica come una missione a servizio della comunità e quindi nella missione ci sta anche l’aggiuntiva sofferenza della solitudine, tuttavia è ingiusto, pericoloso e controproducente al limite del qualunquismo, considerare un estraneo chi governa, collocandolo in una torre più simile ad una prigione che ad una reggia.

Se da una parte i cittadini corrono questo rischio, dall’altra i governanti spesso si auto-isolano, rinunciando a decidere per paura di sbagliare e di scontentare i governati. È quanto sta succedendo in Italia nella gestione della pandemia. La gente spinge a vanvera per ottenere trattamenti differenziati e di favore, chi governa non ha il coraggio di prendere decisioni impopolari e di mantenerle nel tempo. Alla fine la confusione regna sovrana, gli effetti desiderati non si producono, si vive in un clima di incertezza e di precarietà che aggiunge ulteriori danni alla situazione già di per se stessa assai difficile.

Il tormentone degli spostamenti natalizi fra un comune e l’altro è diventato l’elemento emblematico della insostenibilità della situazione: si abbia il coraggio di chiedere i sacrifici con chiarezza, trasparenza ed equità e di mantenere una linea di estremo rigore anche di fronte alle eventuali (quasi inevitabili) levate di scudi.

In questi giorni in Germania è stata varata una linea dura per tutto il periodo delle feste natalizie: è inutile nascondercelo, i dati emergenti sono molto preoccupanti e le misure fin qui adottate hanno avuto poco più dell’effetto dell’acqua fresca. La linea articolata e differenziata nel territorio non sta dando i risultati sperati e quindi, costi quel che costi, bisogna appesantire le chiusure, ma senza aprire interminabili dibattiti e discussioni. Il ceffone, quando ci vuole, va dato immediatamente e seccamente, altrimenti al danno della protesta si aggiunge la beffa dell’inutilità.

L’orto germanico non è necessariamente più verde del nostro. Qualcosa da insegnarci però ce l’hanno: sono più disciplinati di noi; hanno un modo di governare più deciso e tranchant; operano in un complesso istituzionale più preciso e lineare; hanno un quadro politico meno frastagliato e complicato. Mentre Angela Merkel, bene o male, decide, noi apriamo al buio una verifica di governo in cui ognuno tira l’acqua al suo mulino ed in cui si perde come minimo tempo prezioso oltre che credibilità e autorevolezza nei confronti della cittadinanza.

Giuseppe Conte ha tanti limiti, tanti difetti ed ha commesso tanti errori. Innanzitutto però vorrei sapere chi al suo posto non ne avrebbe commessi. Inoltre vorrei capire quale possa essere l’alternativa all’attuale governo: un governo Conte rimpastato (per fare una pasta diversa occorrerebbero ingredienti diversi e non un miscuglio ancor peggiore)? Un governo Conte ter (diventerebbe la fola dell’oca)? Un governo Conte senza Conte (presieduto da un pentastellato doc o da un piddino nuovo di zecca)?  Un governo tecnico (ma se dà fastidio persino una cabina di regia sul Recovery fund, immaginiamoci un governo di manager al di fuori degli schieramenti politici)? Un governo di unità nazionale (ma quale unità, se tutti sono contro tutti)? Un governo del Presidente (il nome di Mario Draghi si fa da quel dì, ma non è personaggio da buttare allo sbaraglio)? Un governo di transizione (figuriamoci con quale autorevolezza) che porti il Paese ad elezioni anticipate?

La gente e la classe politica si stanno comportando come se il Covid non esistesse: una sorta di negazionismo strisciante ancor più pericoloso di quello spudoratamente dichiarato. A volte nella politica italiana certi governi nati per caso, tenuti insieme con lo scotch, hanno finito per non figurare male del tutto. Questa volta non mi sembra proprio possibile. Allora andiamo avanti con chi c’è, stimoliamolo, aiutiamolo, ma non buttiamolo a mare per il gusto di cambiare.

La botte politica e la moglie manageriale

Facciamo finta che la questione della “cabina di regia” per la gestione delle risorse derivanti dal Recovery fund non sia strumentale (temo purtroppo che sia l’occasione per sfogare l’avversità a Conte) e sia di importanza vitale (credo abbia una certa rilevanza, ma non certamente tale da mettere in discussione un governo).

Questo organismo tecnico-manageriale avrebbe il compito di coordinare nei modi e nei tempi l’assegnazione e la gestione dei fondi proveniente dall’Ue fra le vari istituzioni e i vari enti compartecipi dei progetti presentati dal governo italiano, accettati dalla Commissione europea e finanziati dalla stessa.

La proposta formulata dal presidente del Consiglio risponderebbe all’esigenza di mettere al lavoro le migliori competenze tecniche e le migliori capacità manageriali al fine di utilizzare al meglio e in tempi adeguati le risorse consistenti in ben 209 miliardi di euro a fondo perduto. Un gruppo di lavoro che supporterebbe governo e parlamento, garantendo una gestione ottimale di un così grande e importante pacchetto di progetti e di soldi pubblici.

La critica principale è quella di bypassare le istituzioni competenti per delegare compiti e funzioni ad un organismo improvvisato ed operante a latere delle istituzioni stesse. La seconda conseguente critica è quella di creare una sorta di burocrazia aggiuntiva, ritenendo in partenza incapace quella già esistente ai vari livelli. In poche parole si finirebbe col togliere impropriamente potere e responsabilità al governo e nello stesso tempo con l’aggiungere burocrazia a burocrazia: un capolavoro di confusione istituzionale ed amministrativa.

In Italia siamo specialisti per dire e disdire continuamente, anche e soprattutto in campo politico. Non si afferma forse che i politici sono degli incompetenti e che quindi hanno bisogno di essere supportati da tecnici preparati ed esperti? Poi, quando si arriva al dunque, si teme che i tecnici possano diventare autoreferenziali, prendere la mano ai politici ed occupare uno spazio di autonomia eccessiva e pericolosa.

Non si dice forse che abbiamo una burocrazia pigra e inconcludente che spegne sul nascere tutte le più buone intenzioni della politica? Poi, quando si tratta di farle una flebo ricostituente, si ritiene che non valga la pena, puntando ad una sorta di autorigenerazione della stessa. I burocrati, se sono inerti e inconcludenti, peste li colga, se sono competenti e “sgaggi” fanno ombra e paura. La solita storia della botte piena e della moglie ubriaca.

Concludendo su un argomento, che peraltro non ho approfondito, ritengo che ci possa essere modo di trovare una soluzione corretta che salvi capra e cavoli: un compromesso, sissignori, ma un compromesso ai livelli più alti possibili, sempre meglio di una stupida, fastidiosa e negativa rissa su questioni di principio, che lasciano il tempo che trovano.

Le grida che fanno tenerezza

In questo periodo mi viene spontanea la domanda su “cosa direbbe mio padre” se fosse ancora vivente e alle prese con la problematica realtà del Covid 19. Certamente a lui, che credeva così fermamente alle regole ed alla necessità di rispettarle, molti comportamenti della gente andrebbero di traverso, soffrirebbe molto nell’assistere impotente alle disinvolte scorribande in barba ai divieti, a lui, che ingenuamente si illudeva di risolvere il problema dell’evasione carceraria apponendo un cartello “chi scappa sarà ucciso”, toccherebbe constatare che i Dpcm con i vari divieti hanno un effetto poco diverso dal nulla.

È giusto criticare i provvedimenti governativi, sfornati a raffica in un ginepraio in cui è obiettivamente difficile districarsi, ma occorre premettere che nessun decreto è utile se lo si vuole comunque aggirare per comodità o per disfattismo. Il primo lock down ebbe un certo effetto per la drastica generalizzazione dei divieti e non tanto per il senso civico dei cittadini, ma per la paura e per la sorpresa che costrinsero la gente a chiudersi in casa. Siccome si fa l’abitudine a tutto, cammin facendo si è giunti alla conclusione che bisogna convivere col virus, non nel senso di combatterlo costantemente, ma ignorandolo e/o sperando che colpisca solo gli altri.

Ormai siamo al punto che non fa effetto nemmeno il numero spropositato di decessi giornalieri: è scattato il meccanismo psicanalitico della rimozione, quel meccanismo psichico inconscio che allontana dalla consapevolezza del soggetto, nel senso quasi fisico del termine, quei desideri, pensieri o residui di memoria considerati inaccettabili e intollerabili dall’Io, e la cui presenza provocherebbe ansia ed angoscia.

Se il clima è questo i Dpcm di Giuseppe Conte, pur comprensibili, accettabili e finanche apprezzabili, diventano simili alle grida manzoniane: si trattava di disposizioni emesse con titoli altisonanti, con linguaggio contorto e articolato anche in dettagli e dove venivano annunciate pene assai severe per coloro che non le avessero rispettate, ma che poi, nella realtà, venivano ampiamente disattese. In effetti c’è una sorta di bulimia legislativa che sembra fatta apposta per incasinare la situazione, facilitando chiunque voglia farla franca fregandosene altamente delle prescrizioni. Le norme varate sono spesso di problematica applicazione: servirebbe il buon senso da parte di chi le deve osservare e da parte di chi le deve fare rispettare. Ma il buon senso, come noto, non si compra nel negozio all’angolo.

Poi occorrerebbe la consapevolezza dell’utilità delle disposizioni adottate dai governanti, invece purtroppo prevale erroneamente la sensazione dell’effetto “acqua fresca”, complici la logorroica e contraddittoria posizione della scienza e la sistematica disinformazione mediatica.

Ragion per cui se dal 21 dicembre al 06 gennaio scatta il divieto di viaggiare fra le diverse regioni, ebbene poco male, si parte il 20 dicembre e si torna il 07 gennaio, facendo entrare dalla finestra il casino che si voleva tenere lontano dalla porta. Se si ha in testa il concetto che festa equivale a casino, ebbene si troverà comunque il modo di fare casino. Mi fanno sorridere le preoccupazioni sui viaggi intercomunali o sulle rimpatriate famigliari: ma chi volete che vada a controllare se la sera della vigilia di Natale io mi sposto e vado a cena dai miei genitori o dai miei nonni. Improvvisamente poi tutti sono diventati cattolici osservanti e non possono rinunciare alla messa di mezzanotte, salvo spostarla alle ore venti o giù di lì, anticipando il caos di alcune ore e magari ampliandolo.

L’altro giorno mi è capitato di vedere in televisione la ressa in un centro commerciale: una coppia di persone piuttosto anziane ammetteva di essere lì solo per curiosare e di mantenere le distanze solo restando vicini al proprio coniuge. Non c’è Dpcm che tenga! Ci stiamo prendendo in giro.

Le opposizioni politiche fanno il diavolo a quattro e cavalcano indiscriminatamente la protesta e il malcontento: non so se questa tattica frutterà loro qualche consenso in più. Le statistiche dicono che la gente è prevalentemente d’accordo sulla linea rigida adottata dal governo, salvo poi comportarsi alla viva il parroco. Le Regioni sono nel pallone, non si capisce cosa vogliano fare se non ributtare continuamente la palla nella metà campo del governo centrale. In questo contesto anche le più stentoree urla di Conte e c. rischiano di rimanere inascoltate. Poi arriverà il vaccino e scoppierà un altro casino. La rima è voluta.   Qui, se non fuggo, abbraccio il caporale Conte, colla su’ brava scarica di decreti, molle ma piantato lì come un piolo.

 

Vincoli o sparpagliati

“Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: e soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa considerare come imputato e l’essere citato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione.

Non corro io il rischio di apparire come uno spirito angusto e perturbatore, che si fa portavoce di egoismi nazionali e di interessi unilaterali?

Signori, è vero: ho il dovere innanzi alla coscienza del mio Paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano; ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universaliste del cristianesimo e le speranze internazionaliste dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire”.

È l’incipit del discorso di Alcide De Gasperi alla Conferenza di Pace del 1946. L’Italia che si presentava a quella conferenza di fronte alle potenze vincitrici non era solo un Paese in miseria e devastato dal conflitto mondiale, ma anche un Paese portatore di una fama non certo ragguardevole: voltagabbana, incapace di “servare i pacta” e, per di più, anche ex-alleato dei nazisti.

A ben pensarci la situazione attuale non è molto diversa da quella del 1946. Siamo in guerra, una guerra strana ma ancor più drammatica, contro un nemico comune pronto ad approfittare delle divisioni altrui. Ed è proprio quello che scriteriatamente, a tutti i livelli e in tutti i campi, stiamo facendo di fronte all’aggressione del Covid 19. Divisi nel mondo, divisi in Europa, divisi in Italia, divisi nel governo italiano, divisi nelle opposizioni al governo, divisi nella comunità scientifica, divisi sui media e sui social, divisi nel modo di affrontare la pandemia, divisi tra ricchi e poveri, divisi tra difesa della salute e difesa del lavoro, divisi sulla vaccinazione, divisi su tutto.

Siamo prigionieri della precarietà: la nostra vita è più che mai appesa ad un filo che può essere strappato da un momento all’altro; il nostro lavoro, per chi ce l’ha, traballa e chi lo cerca non lo trova; persino i nostri rapporti famigliari sono messi a dura prova per non parlare di quelli umani in genere; tutto è rimesso in discussione, dai negozi alle fabbriche, dai teatri alle scuole, dalle chiese alle case. Tutto è precarietà!

A questo stato di assoluta insicurezza rispondiamo dividendoci a più non posso. Quanto De Gasperi aveva capito, gli attuali governanti di tutto il mondo non l’hanno capito. In Italia, come ho già avuto modo di scrivere, ai mali endemici e storici del Paese – evasione fiscale, corruzione, burocrazia, mafie – aggiungiamo l’incapacità della classe politica a trovare un denominatore comune e a mostrare un minimo di dignità. È quello che sta succedendo nei rapporti tra Italia ed Europa: ai tavoli che contano ci presenteremo divisi e presuntuosi, l’esatto contrario rispetto alla lezione storica degasperiana di cui sopra. Non solo abbiamo le serpi in seno dell’antieuropeismo, ma siamo sparpagliati e andiamo a gara per indebolire i nostri rappresentanti istituzionali.

Bettino Craxi sosteneva che ogni volta che si sedeva ad un tavolo europeo notava intorno a sé la sorpresa per una certa continuità del suo governo. Gli europei ci guardano, forse ci stimano più di quanto meritiamo, ma non sopportano la nostra incapacità di lavarci i panni sporchi in casa. Non lamentiamoci poi se ci trattano a pesci in faccia o se ci considerano partner inaffidabili e imprevedibili. Ce lo siamo voluto!

Possibile che Matteo Renzi faccia esplodere le contraddizioni esistenti all’interno del governo Conte proprio alla vigilia di un importantissimo appuntamento europeo durante il quale verranno poste le premesse per distribuire una enorme quantità di fondi? Non mi convince il pur significativo rischio di contrapposizione tra manager e ministri: quando si vuole rompere e creare problemi tutte le occasioni sono buone. Se non è masochismo è settarismo. Se qualcosa di nuovo sta bollendo in pentola, diciamolo e portiamolo a veloce cottura, e non teniamo l’attuale governo a bagnomaria con un irresponsabile e folle gioco al massacro.

Per quel poco che ho ascoltato del dibattito parlamentare sulla riforma del Mes e sul Recovery fund, ho notato che molti rimproveravano a Giuseppe Conte di presentarsi in Europa con debolezza programmatica e scarsa autorevolezza, salvo poi fare di tutto per attaccarlo, screditarlo e indebolirlo preventivamente ed ulteriormente. Non è il momento delle divisioni più o meno giustificate, è il momento delle unioni più o meno convinte. I conti con Conte ci sarà tempo e modo di farli fra qualche tempo, a pandemia superata.

La madre dei razzisti è sempre incinta

Il pulpito più spontaneamente praticato da mio padre per le sue simpatiche e colorite prediche era lo stadio. Ho cominciato a frequentare lo stadio (il Tardini in particolare), sotto lo sguardo benevolo ma intransigente di mio padre, all’età di appena cinque anni. Il bello non consisteva tanto nello spettacolo offerto in campo, molto spesso assai scarso per i risultati, quasi sempre insoddisfacenti se non mortificanti del Parma, la squadra del cuore, ma nelle lezioni che ne scaturivano: mio padre saliva in cattedra e sciorinava i suoi commenti che diventavano insegnamenti di vita. Proprio lì dove quasi tutti si lasciano andare a sfoghi smisurati se non indecenti, a comportamenti scorretti se non violenti, ad atteggiamenti trasgressivi se non provocatori, mio padre riusciva a tifare sdrammatizzando il tifo, a criticare rispettando chi gioca, chi arbitra e chi allena, a gioire senza irridere l’avversario, a soffrire senza esagerare. Non è poco e non è facile. Ma soprattutto il comportamento a livello di tifo calcistico diventava metafora del comportamento nella vita, le espressioni erano occasione per passare dal pallone al cervello e finanche al cuore.

Raramente la lezione veniva dai protagonisti sul campo o sugli spalti. Solo una volta ho assistito al caso in cui il messaggio positivo veniva dai tifosi. Durante una partita di serie A tra Parma e Sampdoria, la tensione in campo stava assumendo dimensioni pericolose, l’arbitro stentava a controllare la gara, i giocatori tra falli e reazioni stavano veramente esagerando. C’era di che preoccuparsi, ma entrarono in campo (si fa per dire) le due tifoserie che dalle curve contrapposte si scambiarono cori di incitamento e di simpatia reciproci (i sampdoriani gridavano: Parma! Parma e i parmensi rispondevano: Sampdoria! Sampdoria!). Tutto il pubblico capì ed applaudì intensamente. I giocatori furono contagiati da tanto fair play e la partita si incanalò sui binari dell’assoluta correttezza. Confesso di essere rimasto colpito ed emozionato dall’episodio.

Ebbene in questi giorni l’eccezione si è ripetuta e la lezione è venuta dai giocatori. La partita di Champions league tra il Paris Saint Germain e il Basaksehir Istanbul è stata sospesa per una frase razzista del quarto uomo all’indirizzo di un giocatore o di un vice-allenatore (non ho capito bene, ma poco importa): le due squadre hanno lasciato il campo in segno di protesta. Era ora che l’etica entrasse di diritto nello sport. La gravità è aumentata per il fatto che l’epiteto razzista non è partito dagli spalti, peraltro vuoti causa Covid, ma da uno degli arbitri (ce ne sono ormai tanti che ne ho perso il conto): chi dovrebbe garantire la correttezza dell’evento sportivo, lo ha sporcato in modo vergognoso. Si sono invertiti i ruoli e i calciatori, auto-espellendosi in toto, hanno in realtà espulso il “quarto uomo”.

C’è poco da fare e da dire: il razzismo è annidato ovunque e viene a galla in vari e imprevedibili modi. Se trova la sua principale espressione nei confronti delle persone di colore, purtroppo non si esaurisce lì. Sono tante le forme di razzismo, di intolleranza, di discriminazione: riguardano l’etnia, la religione, la condizione sociale, il sesso, etc. etc. È molto importante che la reazione a tutto ciò avvenga da parte di personaggi in grado di enfatizzare e pubblicizzare la protesta. Speriamo che l’episodio, tale da fare invidia a Edmondo De Amicis, non venga strumentalizzato e rovinato dalla speculazione politica. Al gesto dei calciatori non c’è da aggiungere niente, parla da sé, è di un’eloquenza straordinaria. Complimenti!

Mio padre sarebbe oltre modo soddisfatto. Lui riusciva a portare rispetto all’arbitro ed anche ai suoi colleghi segnalinee: all’epoca non esisteva ancora il quarto uomo, invenzione recente, di cui non ho ancora capito bene lo scopo se non quello di ammortizzare su quattro teste (anziché tre) gli immancabili improperi del pubblico. Quando frequentavo lo stadio assieme a mio padre anche gli arbitri erano un po’ meno divi, erano dilettanti più o meno allo sbaraglio, sbagliavano forse più di quelli di oggi, ma erano sicuramente più in buona fede. Ebbene, mio padre dell’arbitro non parlava mai, lo ignorava, lo riteneva un protagonista necessario ma ininfluente, un elemento esterno da prendere per quello che è (come la pioggia per i contadini, a volte come la grandine). Capiva perfettamente quando l’arbitro sbagliava, ma riteneva inutile, oltre che sconveniente, urlare contro di lui: è come abbaiare alla luna. C’era in questo atteggiamento un qualcosa di aristocratico: può fare quel che vuole e meno male che è così, altrimenti sarebbe una bolgia. Era solito dire: “S’al spéta ch’a sbraja mi, al spéta un pés, l’arbitro. Al pól fisciär anca dez rigór…”. Di fronte ad un arbitro razzista il discorso sarebbe cambiato e avrebbe escamato: “Bizòggna ésor stuppid bombén, a ne s’ pól miga där dil cozi compagni.”