Dalli all’untore sociale

Ho seguito sulle pagine del quotidiano locale l’evoluzione della vicenda giudiziaria relativa alle presunte irregolarità nella gestione dell’accoglienza agli immigrati da parte della Onlus “Svoltare”. Innanzitutto devo rilevare come dal punto di vista giornalistico la delicata questione sia stata presentata con ignoranza giuridica, con insistente e pregiudiziale volontà di scoop scandalistico e con scarsissima chiarezza nei contenuti.

Chi legge la Gazzetta di Parma o non ci ha capito dentro niente (mi iscrivo a questo partito) oppure ha sbrigativamente concluso che trattasi di uno scandalo, l’ennesimo che si verifica con l’aggravante di vedere coinvolti personaggi ed enti impegnati nel sociale (forse era il risultato che si voleva raggiungere). Il cosiddetto privato sociale, all’interno del quale mi onoro di avere operato a livello professionale e di volontariato, è un settore difficile da comprendere e da giudicare: organi di controllo, magistratura, larghe fasce di opinione pubblica prendono lucciole per lanterne, vale a dire ritengono che una cooperativa sociale sia un ente di beneficienza tout court, mentre invece è la “paradossale” scommessa non tanto di prescindere dall’economia aziendale, ma di riuscire a coniugare economia ed equità (tutte le cooperative di tutti i settori hanno questo scopo) e, per quanto concerne le cooperative sociali, di combinare, seppure problematicamente, efficienza, lavoro e solidarietà sociale.

Faccio qualche esempio riportato dai gazzettieri nostrani, che perdono il pelo ma non il vizio (di essere forti coi deboli e deboli coi forti). Mi ero illuso che da qualche tempo il quadro editoriale parmense fosse leggermente cambiato: tutto invece è sempre uguale, ma lascio al direttore Claudio Rinaldi giudicare come i suoi collaboratori abbiano riempito tanto spazio per fare un gran casino in cui il lettore si trova provocatoriamente spiazzato e fuorviato.

Che una cooperativa sociale conceda ad un suo collaboratore/lavoratore un premio di produzione non è vietato e non deve affatto sorprendere: se ha lavorato bene, con impegno e serietà professionali, dovrebbe fare notizia il contrario.

Che una cooperativa sociale sostenga qualche spesa di rappresentanza non dovrebbe scandalizzare: nei rapporti socio-economici ci può stare anche qualche onere teso ad accreditare l’immagine della cooperativa stessa.

Che nella vita di un ente stretto in mezzo a notevoli difficoltà possano sussistere scambi finanziari tra soci e cooperativa, prestiti e loro restituzione, rimborsi spese, etc., non dovrebbe suscitare sorpresa e ancor meno prova di opacità e irregolarità.

Che una associazione di volontariato o comunque un ente non lucrativo nasca come tale per poi nel corso del tempo darsi una struttura giuridicamente più adeguata all’attività di impresa sociale, come l’abito cooperativistico può senz’altro consentire, è un percorso, oserei dire, quasi obbligato. Quindi capisco che l’associazione Svoltare possa non avere avuto inizialmente l’iscrizione all’albo regionale e che in un secondo momento il problema sia stato superato dal momento che la cooperativa sociale, iscritta come tale nell’albo delle cooperative, è considerata Onlus di diritto. L’iscrizione fasulla è sicuramente un brutto biglietto da visita, ma non mi sembra il caso di costruire un castello di pesantissime accuse su una violazione che mi sembra più dettata da ingenuità che da disegno criminoso.

Su tutto pesa il macigno delle cooperative sociali costrette ad ingigantirsi per rimanere sul mercato e nello stesso tempo a viaggiare pericolosamente sul filo del rasoio nel rispetto dei principi e dei valori identitari. D’altra parte la scommessa sul privato-sociale è fondamento essenziale di quel principio di sussidiarietà di cui tutti si riempiono la bocca. Il pubblico non è in grado di rispondere a certe necessità: di grazia che i privati si cimentino in una gara durissima anche se per certi versi invitante se non addirittura esaltante.

Fin dove la managerialità non debba scantonare nella spregiudicatezza è questione da psicologi e sociologi e non da procuratori della Repubblica. Fin dove la redditività di un’impresa sociale sia ammissibile o addirittura indispensabile non è problema della Guardia di Finanza ma del legislatore. Fin dove l’assegnazione dei pubblici appalti diventi materia di sciacallaggio politico è questione di stile democratico e di corretta dialettica nel campo della pubblica amministrazione.  Fin dove l’ente aggiudicante di un pubblico appalto debba intromettersi nell’etica gestionale dell’aggiudicatario e non limitarsi a controllare la qualità e qualità del servizio appaltato è un fatto di corretti e leali rapporti fra pubblico e privato.

Auspico che la vicenda venga riportata nei limiti concretamente giudiziari che le competono, ben lontana da forzature ideologiche, da rigorismi del cavolo, da polemiche politiche, da forzature mediatiche e da tentazioni scandalistiche. Osservando il movimento cooperativo, dal di dentro prima e dal di fuori ora, ero e sono preoccupato della salvaguardia della sua legittimazione, che trova il suo riferimento nell’articolo 45 della Costituzione e nelle leggi conseguenti. Preoccuparsi non vuol dire buttare fango, “affaristicizzare”, squalificare, cercare capri espiatori, criminalizzare, fare d’ogni erba un fascio. Sono invece molto preoccupato del contraccolpo socio-economico sui poveri cristi, che rischiano di prendere legnate da tutti senza avere alcuna colpa se non quella di trovarsi in gravissime difficoltà.

Se qualcuno si è comportato in modo irregolare lo si vedrà: non mi basta un’inchiesta della Guardia di Finanza e nemmeno un ordine di custodia cautelare emesso dalla Procura, né tanto meno i pruriti anti-immigrati scatenati dalla destra, né infine le ricostruzioni giornalistiche di comodo. Vorrei capire di più e meglio cosa sia successo, per amore di verità, per amore di cooperazione e per sensibilità sociale.

In cauda venenum. È sicuro il direttore della Gazzetta di Parma che, a parità di presunti reati, lo stesso trattamento cronachistico a cui è stata sottoposta “Svoltare” sarebbe riservato anche ad un’impresa aderente a Confindustria?  Se mi rispondesse di sì, starei pronto col fucile spianato per verificarlo alla prima inopinata occasione. Se mi rispondesse di no, lo pregherei di cambiare mestiere, anche se non saprei quale consigliargli.

 

 

 

 

 

 

 

Gli sguatteri di lusso o i cuochi provetti

Affermare che la politica è l’arte del governare è dire tutto e niente. In questo periodo il premier Giuseppe Conte si sta infatti dimostrando un artista del “possibile”: la gente lo capisce e, tutto sommato, gli concede un notevole consenso. I suoi nervi d’acciaio, la sua freddezza calcolatrice, il suo riguardoso distacco, la sua calma olimpica lo hanno collocato in una posizione ovattata, in un bozzolo da cui però rischia di non uscire mai la farfalla.

Matteo Renzi intende rompere questo guscio di impenetrabilità anche se lo sta facendo in modo sgarbato nei toni, fin troppo perentorio nei contenuti, assai confuso negli sbocchi politico-istituzionali. E Conte mostra la corda: quando la politica ha la necessità di essere anche l’arte del compromesso e della mediazione, casca il suo asino. Allora tutto rischia di diventare opaco, innescando nella gente un senso di smarrimento più che di protesta.

In questi giorni nei dialoghi fra amici, negli occasionali colloqui con persone di varia estrazione e sensibilità, nelle riflessioni a voce alta, fa capolino la consapevolezza di essere governati da personaggi inadeguati ad affrontare una situazione peraltro difficilissima, al limite dell’impossibile. L’arte del possibile si scontra quindi con la realtà che esige qualcosa di molto pressante e ficcante. Quale può essere la chiave per aprire questa porta blindata?

Sarà forse l’uovo di Colombo, la scoperta dell’acqua calda, l’innegabile evidenza, ma l’unico modo serio ed efficace per uscire dallo stallo, al di là dei rimpastini e rimpastoni, al di là delle crisi di governo più o meno pilotate, al di là di qualche aggiustamento in corsa, è interpretare la politica come competenza, come capacità di amministrare, senza privarla del pizzico di fantasia e soprattutto del retroterra valoriale ed ideale, ma fondandola sulle basi solide dell’esperienza, della professionalità, della preparazione tecnica.

Purtroppo i partiti non sono in grado di fornire esponenti che rispondano ai suddetti requisiti: la cucina è zeppa di sguatteri, ma assai vuota di cuochi e ancor più di chef. E allora i piatti non stuzzicano il tremendo appetito sociale ed economico serpeggiante nella società. Si rischia di andare avanti a furia di minestre scaldate tali da scatenare anoressia pur di evitare ricette avventuristiche tali da comportare bulimia.

“Governo dei capaci” sembra una locuzione scontata e invece purtroppo non lo è: abbiamo un governo che non brilla affatto per capacità di governare. Non resta altro che fare come le società calcistiche quando sono alle prese con una squadra che naviga nei bassifondi della classifica. Provare a rinnovare fiducia, nonostante tutto, allo staff tecnico, apportando magari qualche piccolo aggiustamento, oppure cambiare l’allenatore e andare sul mercato per rafforzare l’organico inserendo alcune nuove pedine decisive in difesa, all’attacco e soprattutto a centro-campo?

Propenderei per la seconda soluzione anche se la vedo politicamente difficile: varare un governo nuovo fatto di personaggi tecnicamente, professionalmente ed esperienzialmente affidabili provocherebbe immediatamente una sorta di rigetto da parte dei partiti, che si vedrebbero scavalcati o comunque dribblati. Bisogna che qualcuno li faccia ragionare mettendoli davanti alle loro necessità che diventino virtù.

Il M5S non può fare lo schizzinoso: è la forza politica più carente sul piano della capacità amministrativa, è in confusione al vertice ed alla base, è in drammatico calo di consensi, è in contraddizione continua tra la tentazione dell’antipolitica e il ricorso alle manfrine della peggior politica. Se si dovesse presentare alle urne, rischierebbe di sparire letteralmente dalla circolazione.

Il PD non ha un gruppo dirigente in grado di prendere in mano la situazione ed orientarla autorevolmente: è il meglio del peggio, ma non basta nel modo più assoluto. La sinistra estrema continua a fare la parte di una scheggia non tanto impazzita, ma insignificante. Italia viva, dopo il can can scatenato da Renzi, non può rifugiarsi in corner e quindi dovrebbe bere il brodo nuovo, dopo avere squalificato quello vecchio. L’opposizione si troverebbe spiazzata e divisa tra la disponibilità ante litteram di Silvio Berlusconi ad ogni e qualsiasi novità governativa varata dal presidente Mattarella e la facinorosa, testarda e tragica commedia del leghismo salviniano e del nazionalismo meloniano.

Ho introdotto surrettiziamente il ruolo del presidente della Repubblica. Sì, perché solo lui avrebbe la sensibilità, la capacità, l’autorevolezza, il carisma per varare una soluzione che ridia slancio e competenza al governo del Paese. Rientra nei suoi compiti? Credo di sì e credo che gli italiani gliene sarebbero oltre modo grati. Intravedo in lui qualche segno di insofferenza verso il tirare a campare contiano, mentre la situazione diventa sempre più grave e complessa a tutti i livelli. Matteo Renzi ha messo in moto una macchina che nemmeno lui sa dove può portare. Potrebbe però avere innescato una fase nuova, anche se, come spesso accade, gli scalmanati suscitatori del nuovo, non sono poi in grado di gestirlo.

 

Il bivacco dei manipoli trumpiani

«Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti.
Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non ci abbandona dopo la vittoria.
Con 300 mila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto»
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Sono le storiche e tragiche parole pronunciate da Benito Mussolini agli esordi del fascismo, che mi sono tornate alla mente in occasione del caos capitato a Washington, dove gruppi di manifestanti pro Donald Trump hanno fatto irruzione, alcuni armati, all’interno del complesso di Capitol Hill, dove il Congresso era riunito per certificare l’elezione di Joe Biden. Quattro persone hanno perso la vita nelle proteste a Capitol Hill dei sostenitori di Donald Trump contro la certificazione della vittoria di Joe Biden. Lo ha reso noto la polizia di Washington Dc. Tra questi, c’è anche una sostenitrice di Trump, la donna è stata colpita una pallottola al petto.

Senatori e deputati, così come il vice presidente Mike Pence, sono stati fatti uscire dall’aula, dopo avere ricevuto dagli addetti alla sicurezza l’ordine di indossare maschere antigas. I manifestanti hanno tentato di fare irruzione nell’aula della Camera dei Rappresentanti. All’ingresso della Camera, come ha riferito Fox News, sono avvenuti scontri con armi da fuoco tra membri della sicurezza e manifestanti pro Trump. All’esterno del complesso, come ha riportato la Cnn, una donna è rimasta ferita gravemente al torace da proiettili. Anche diversi agenti di polizia sono rimasti feriti e almeno uno dei poliziotti è stato ricoverato in ospedale. La Capitol Police, la forza di polizia di Washington addetta alla sicurezza di Capitol Hill, ha chiesto rinforzi, dopo essere stata sopraffatta dai manifestanti. Fonti della Cnn hanno riferito inoltre che numerosi dispositivi sospetti sono stati trovati all’interno del complesso e due edifici sono stati evacuati a seguito del ritrovamento di un pacco sospetto.

“Capisco il vostro dolore, so che state male, abbiamo avuto un’elezione che ci è stata rubata. Tutti lo sanno, soprattutto l’altra parte, ma ora dovete andare a casa. Serve pace. Serve legge e ordine. Per favore sostenete la nostra polizia e le forze dell’ordine. Sono dalla parte del nostro paese. Mantenete un atteggiamento pacifico!”. Sono gli appelli del presidente Donald Trump ai sostenitori che hanno fatto irruzione al Congresso per impedire la certificazione della vittoria di Joe Biden. Sono parole degne del peggior Mussolini e del suo discorso del “Bivacco” sopra richiamato. Il Duce le pronunciò agli inizi della carriera, Trump alla fine: il prodotto non cambia.

Pur non avendo una smisurata fiducia nella democrazia americana, pur nutrendo da sempre notevoli perplessità sulla politica della superpotenza statunitense, pur avendo capito che l’elezione di Donald Trump poteva essere una mina vagante per gli equilibri mondiali, non avrei mai più pensato che le cose volgessero al peggio e portassero ad un clima da dittatura bella e buona. Sì, perché il comportamento di Trump è tipico di un dittatore che non si rassegna, all’inizio, durante e alla fine della sua avventura, alla sconfitta e tenta disperatamente di resistere. La storia è piena di questi esempi.

Quando in qualsiasi parlamento del mondo succedono fatti violenti mi prende una grande sofferenza, perché capisco che lì la democrazia è in pericolo. Mi infastidiscono le scaramucce, i tafferugli, gli scontri tra gli eletti del popolo, immaginiamoci le azioni volte a mettere in scacco il parlamento tenendolo in balia di una folla di energumeni, scatenati da un pazzo che vuole portare il mondo sull’orlo del disastro pur di difendere la sua indifendibile posizione. È sempre più solo, ma le sta tentando proprio tutte per tenere in scacco gli Usa e condizionare il mondo intero. Un’autentica follia!

A questo punto può succedere di tutto. All’indomani della sconfitta elettorale di Donald Trump, prendendo spunto e citando a senso una lucida analisi di Massimo D’Alema, scrissi: il covid ha riportato la politica ai valori di fondo, vale a dire la difesa della vita, la sanità garantita dallo Stato, il senso comunitario e solidale, la necessità che l’economia venga guidata e non abbandonata a se stessa. Sotto i colpi della pandemia sono crollati i presupposti del trumpismo. Dopo aver negato l’esistenza del virus, a Trump non resta che provare paradossalmente a negare l’evidente sconfitta elettorale. È quanto sta succedendo. Speriamo che la riscossa valoriale tenga botta e che la pericolosissima pagliacciata imbastita dal tycoon possa essere l’americanata finale di un’esperienza disgraziata per tutti. La strumentalizzazione del suo rimasuglio (?) di sfigati è evidente e clamorosa. Speriamo bene!

 

 

Gallera e il populistico anno di galera

Quando un politico va in difficoltà e tutti lo attaccano prendendolo magari di mira sul piano personale, rinfacciandogli tutte le gaffe accumulate nel tempo, è il momento che mi diventa simpatico e tendo a difenderlo solidarizzando con lui. È il caso dell’assessore lombardo al welfare Giulio Gallera.

Sembra che di lui vogliano la testa i leghisti, lui è di Forza Italia: mi è sembrato, fin dall’inizio della pandemia, il classico bauscia lombardo prestato alla politica. La Lombardia, nel bene e nel male, è fatta così, quindi niente di nuovo e niente di scandaloso. Effettivamente Gallera ha inanellato una serie di cazzate a viva voce, che fanno più sorridere che arrabbiare. Elementi concreti dal punto di vista amministrativo, atti a giudicarlo seriamente, non sono in grado di averne. Occhio e croce non mi sembra peggio del chiacchierato presidente Fontana e di parecchi suoi colleghi lombardi ed extra-lombardi.

La sua eventuale giubilazione mi sembra quindi un fatto squisitamente politico: la Lega ha “l’autofiato” sul collo da parte di Luca Zaia, il governatore veneto sugli altari, e quindi non può permettersi il lusso di segnare il passo in Lombardia e soprattutto non può soffrire più di tanto il consenso calante di Matteo Salvini. La miglior difesa è sempre l’attacco, magari contro l’alleato debole, vale a dire Forza Italia, la quale soffre e tace e non riesce a spiaccicare parola in difesa di Gallera, suo storico esponente di primo piano.

Se andiamo a gaffe, Salvini non è secondo a nessuno, di cazzate ne spara, come minimo, una al giorno, per levare la politica di torno. Ma evidentemente lui le sa dire, c’è modo e modo di dire cazzate.  Ci sono quelle che fanno audience, che conquistano voti, che ispirano simpatia e ci sono quelle che danno un certo fastidio: evidentemente Gallera rientra nella categoria dei gaffeur negativi.

Forse anche in Lombardia faranno un rimpasto di governo, ipotesi che sta prendendo corpo anche a livello centrale. Di rimpasto in rimpasto la politica eredita dal passato i vizi senza recuperare alcuna virtù. La storia insegna che nei rimpasti vengono generalmente coinvolti non i soggetti peggiori, ma i più clamorosamente deboli. È sempre la solita storia!

Il pensiero va molto indietro nel tempo, a metà degli anni ’70, al terremoto che a Parma lo scandalo edilizio aveva procurato nella giunta comunale di allora (PCI – PSI) alla ricerca di una frettolosa rilegittimazione. Bisognava voltare pagina, cambiare uomini, ripulire la bottega: partì una sorta di caccia alle streghe in cui ci rimise le penne (se non ricordo male: l’occasione potrebbe essere stata un’altra ma la questione non cambia)  anche l’assessore alla pubblica istruzione, il prof. Aleramo Capelli, uomo di indiscussa moralità, di notevole livello culturale, di grande impegno amministrativo, col quale avevo avuto modo di collaborare e di confrontarmi pur partendo dalle mie modeste funzioni di consigliere e di presidente di quartiere. L’onda populista partì anche allora ed ebbe un effetto paradossale ed ingiusto su un uomo che seppe difendersi con dignità, ma anche con decisione culminata in un intervento infuocato e di grande spessore, durante una seduta consigliare.

Perché faccio questa puntata storica? Perché occorre porre attenzione al populismo, che, se da una parte comporta il rischio minimale di buttare lo sporco sotto il tappeto, a volte può indurre a ricercare comodi capri espiatori, talora a manovrare il sistema, svuotando la democrazia ed usandola come cortina fumogena per la copertura degli interessi di parte.

Esiste un populismo reattivo del dopo ma anche un populismo scientifico pilotato in anticipo. In una intervista Gustavo Zagrebelsky disse della lezione politica di Norberto Bobbio: “Sapeva bene che, senza sostanza, la democrazia si trasforma in un guscio vuoto che può contenere, cercando magari di nasconderla o imbellettarla, qualsiasi sozzura e che ciò, alla fine, si rivolge contro le sue regole formali, rendendole odiose ai più.  Se le procedure democratiche si riducono ad una scorciatoia per gli interessi dei potenti di turno, è facile che la frustrazione dei molti possa essere indirizzata contro la democrazia, invece che contro chi ne abusa. L’origine del populismo è questa”.     

Per un certo periodo la frustrazione dei molti trovava un argine prima ed una risposta poi nella capacità dei partiti di rigenerarsi: oggi tende purtroppo a prendere la scorciatoia del populismo centrale e periferico (interpretato da autentici fuoriclasse che stanno facendo scuola al centro ed in periferia). Forse sto dando alla vicenda di Giulio Gallera un’importanza eccessivamente emblematica, forse gli sto conferendo l’esagerata dignità di capro espiatorio, forse però non sono lontano dalla verità. L’altare di Salvini val bene una messa (in mora) di Gallera…

 

Il governo (s)balla sul filo…del rasoio

Non si potrebbe e dovrebbe prescindere dall’alto richiamo al senso di responsabilità rivolto dal presidente della Repubblica nel suo messaggio di fine anno, ma facciamo pure finta che Mattarella non abbia detto nulla e non abbia lasciato intendere che aprire crisi di governo in un periodo come quello attuale sarebbe demenziale più che delinquenziale. Il capo dello Stato è stato chiarissimo (anche se qualcuno lo vorrebbe ancor più incisivo, non so cosa dovrebbe dire di più…): “Non sono ammesse distrazioni. Non si deve perdere tempo. Non vanno sprecate energie e opportunità per inseguire illusori vantaggi di parte. È questo quel che i cittadini si attendono. La sfida che è dinanzi a quanti rivestono ruoli dirigenziali nei vari ambiti, e davanti a tutti noi, richiama l’unità morale e civile degli italiani. Non si tratta di annullare le diversità di idee, di ruoli, di interessi ma di realizzare quella convergenza di fondo che ha permesso al nostro Paese di superare momenti storici di grande, talvolta drammatica, difficoltà”.

Proviamo a fare come diceva mio padre, a valutare i pro e i contro della eventuale apertura di una crisi di governo, per la quale ci sarebbero molte ed anche valide ragioni:  la debolezza di una coalizione tenuta insieme più con lo scotch della sopravvivenza che con reali convergenze di carattere politico e programmatico; una compagine ministeriale assai debole dal punto di vista della competenza, dell’esperienza e, come sostiene Carlo Calenda, della capacità amministrativa; un premier uscito dal cappello di Beppe Grillo e dei suoi amici, che ci ha preso gusto, che sta mettendo le radici a Palazzo Chigi, che ha i nervi d’acciaio, che è un muro di gomma contro cui vanno a sbattere le critiche, che è un volpone capace di galleggiare in mezzo a mille difficoltà; un equilibrio politico clamorosamente inadeguato al momento storico; una incapacità a prendere il toro per le corna dal punto di vista dei rapporti con l’Unione Europea e dell’impostazione di un piano di rinascita concreto ed efficace; e via discorrendo.

Se esistono cinquantanove motivi per buttare all’aria il governo Conte, ne esistono sessantuno per lasciarlo sopravvivere, aiutandolo semmai a vivere: la mancanza di alternative serie a livello politico-parlamentare; le oggettive difficoltà da affrontare azzerando quel poco o tanto che l’attuale governo ha saputo imbastire; la dimostrazione della debolezza  istituzionale verso tutti gli interlocutori che si troverebbero spiazzati dal dover iniziare interlocuzioni nuove e pericolose; l’apertura di una crisi al buio senza prospettive  a livello personale e politico; l’aggiunta di incertezza alla pur già incerta e precaria situazione globale; la fornitura dell’immagine di una classe politica rissosa ed inconcludente in una fase in cui   bisognerebbe rimboccarsi le maniche e lavorare sodo; la creazione di discontinuità in un momento che richiede un minimo di continuità nell’azione di governo; etc. etc.

Non ho ancora capito se siano in atto solo schermaglie per il riposizionamento generale e particolare, se si tratti di un tiro alla fune, se alcuni stiano bluffando mentre altri stanno a guardare, se Giuseppe Conte punti al logoramento degli avversari interni alla sua coalizione o a prepararsi una via di fuga in vista di eventuali elezioni politiche anticipate, se il M5S creda davvero a questo governo o faccia solo buon viso a cattiva sorte, se il Pd voglia dare prova di senso di responsabilità o se gli manchi la spinta per ripassare il motore di una macchina che perde colpi, se, e qui forse c’è l’interrogativo principale, Matteo Renzi intenda portare la sua azione alle estreme conseguenze o si stia creando una facile e comoda via d’uscita per quando ce ne sarà l’opportunità.

Qualcuno autorevolmente sostiene che il governo traballi non tanto per colpa di Renzi, ma per sua endemica debolezza. Anche questo discorso non è destituito di fondamento: se Conte avesse veramente le carte in regola non soffrirebbe alcun bluff da qualsiasi parte proveniente. Invece forse tutti bluffano, nessuno vuole andare a scoprire le carte. Alcuni pensano che se crisi ha da essere, la si faccia, perché può essere peggio proseguire in questo tira e molla in cui ballano i miliardi del Recovery fund, ma soprattutto l’avvenire del nostro Paese.

Io personalmente, a denti stretti, preferisco un capo inadeguato piuttosto che non avere alcun capo; meglio un uovo oggi che una gallina domani; meglio tirare a campare che tirare le cuoia; putost che nient è mej putost. Certo non sarebbe il momento per calcoli minimalisti e tanto meno per sarcastiche analisi nel più puro politichese: purtroppo a fronte della situazione di una gravità pazzesca, dobbiamo fare i conti con soluzioni purchessia. Tutti lo dicono, tutti lo pensano, tutti si lamentano, ma il meglio non è assolutamente dietro l’angolo. Pu che far il nòsi coi figh sècch as trata ad färos miga incolär atach al mur cme ‘na péla ‘d figh.

 

La minestra della ministra

La ministra dell’istruzione Lucia Azzolina in questo anno di attività non ha brillato per competenza e capacità amministrativa. La caratteristica che più mi infastidisce è però un’altra, che purtroppo risulta essere un classico di molti politici investiti di responsabilità settoriali a livello governativo: il loro orto è sempre e comunque il più verde, anche se le evidenze dimostrano il contrario o almeno mettono in discussione il loro convincimento.

Come si fa a ripetere continuamente che la scuola è sicura e quindi deve essere aperta o riaperta? Da dove provengono queste certezze? Tutto sembra dimostrare il contrario: dai trasporti alla logistica, dalla scarsità numerica degli insegnanti ai difetti organizzativi. Mi sovviene un quasi aneddoto capitato nel mio condominio: ho avuto la sfortuna di incappare in rumorosi ed invasivi lavori di ristrutturazione eseguiti nell’appartamento situato sopra il mio. La proprietaria mi tranquillizzava con un “lei signor…. non si preoccupi”.  Sulla mia testa c’era un casino pazzesco e io non mi dovevo preoccupare. Quando vuoi tranquillizzare a tutti i costi una persona, finisci col preoccuparla ancor di più e col trasmettere ad essa un’ansia incontenibile.  Se vuoi agitare una persona, dille di stare calma.

Si intuisce chiaramente che la ministra Azzolina non ha assolutamente in mano la situazione della scuola, peraltro assai complessa e problematica, purtuttavia vuole tranquillizzare operatori, insegnanti, studenti e famiglie con un certificato di sicurezza a cui non può obiettivamente credere nessuno. Cerchi di fare il possibile e l’impossibile per riaprire le scuole, ma la smetta di raccontare balle che stanno in poco posto.

La riapertura autunnale fu un flop tremendo e con ogni probabilità lo stiamo ripetendo. La ministra in questione avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni da diversi mesi e invece è ancora al suo posto, “più bella e più superba che pria”. Non solo, ma ostenta sicurezza un giorno sì e l’altro pure. I faciloni mi hanno sempre dato irritazione: nella vita non c’è niente di facile. Immaginiamo se il carrozzone scolastico possa essere ritenuto sicuro in piena pandemia… Un po’ di buon senso non guasterebbe.

Non mi metto a cantare il solito ritornello: apertura o chiusura. Non sposo a priori nessuna delle due posizioni, vorrei capire e verificare. Un ministro dovrebbe aiutarci in questo senso, senza demagogia (la scuola è più importante della salute), senza comode prudenze (non rischiamo assolutamente niente), senza propaganda verso le famiglie in difficoltà nell’accudire i figli impossibilitati a recarsi a scuola, senza lisciare il pelo agli studenti che si sentono orfani di una istituzione essenziale.

Bisogna avere il coraggio di rimboccarsi le maniche al fine di riaprire i battenti, ma, se ci si accorge che i rischi non sono sopportabili, occorre avere la freddezza di tenere chiuse le porte senza peraltro illudersi che l’istruzione a distanza possa rappresentare una soluzione organica e completa.

La ministra Azzolina deve capire che non è in gioco il suo posto nel governo (se è per quello la sua seggiola balla da quel dì), ma una partita di importanza colossale da affrontare con estrema serietà. I colleghi di governo la aiutino, ma lei si metta in condizione di farsi aiutare da tutto il mondo della scuola e la finisca con questi insulsi e assurdi assiomi con cui da mesi sta inondando il Paese. Faccia la ministra e non l’imbonitrice.

 

L’arlecchinata regionalista

Non ero fra i sostenitori ante litteram dell’istituzione delle Regioni – anche se prevista dalla Costituzione – non per motivi politici (il timore che i comunisti si impossessassero del potere con una rivoluzione a macchia di leopardo), ma per dubbi e timori che si potesse scatenare un subdolo discorso di indipendentismo nonché una prevedibile dilatazione burocratica.

Siccome la pandemia ha messo a nudo tutti i difetti e le carenze della nostra società, anche l’assetto regionale è nel mirino Covid: un’autentica arlecchinata di tattiche diverse, un’assurda gara a fare i primi della classe, una esagerata attenzione alle spinte corporative, un casino pazzesco con lo Stato centrale a fare da arbitro in una partita senza esclusione di colpi.

Anche se non sono un giurista, ho notato diverse forzature legislative nei percorsi istituzionali adottati nella lotta al coronavirus. Forzatura per forzatura – mi permetto il lusso di fantasticare – avrei revocato diversi poteri inerenti la gestione della pandemia riservati alle Regioni: probabilmente sarebbe stata necessaria una modifica costituzionale con tempi lunghi e si sarebbe scatenato un putiferio istituzionale, ma forse avremmo un po’ di chiarezza e di efficacia in più nella lotta al Covid 19.

Non è possibile che ogni Regione vada per proprio conto. Mancava solo l’arcobaleno zonale varato dal governo e tiramollato dalle regioni stesse, sballottate dal rosso fuoco (?) di chiusure (quasi) rigide all’arancione pallido (?) delle porte girevoli, al giallo rosa (?) del si salvi chi può. Non è una cosa seria, che sta dando risultati molto leggeri e insufficienti (ci voleva poco a capirlo…). Questa originale trovata non si capisce se sia dovuta alla debolezza del premier Conte, assai sensibile ai ricatti corporativi, oppure al “primadonnismo” regionale di cui sopra oppure alla mente fervida e scatenata degli scienziati. Di tutto un po’!

Adesso è la volta della riapertura delle scuole: ogni regione ha la tendenza a fare di testa propria in un bailamme educativo assai peggiore rispetto ad una chiusura generalizzata e prolungata come purtroppo avvenne in tempo di guerra. Adesso infatti oltre la guerra al coronavirus, abbiamo la guerra fra le Regioni.

Si sta profilando una certa bagarre anche in campo vaccinale: è partita la classifica per misurare la tempestività dei programmi di intervento. C’è chi accelererà le procedure a costo di compromettere la sicurezza dei vaccinandi, c’è chi le burocratizzerà per non disturbare troppo le categorie professionali interessate, già tartassate a sufficienza, c’è chi scaricherà sul governo centrale ritardi e incongruenze.

Alcuni anni or sono, per fare un piacere alla Lega e toglierle un argomento di propaganda, si accentuarono malauguratamente e confusamente i poteri delle Regioni; oggi si vorrebbe ancor più allargare l’autonomia con una sorta di battaglia fra nord-regionalista e sud-centralista. I risultati ottenuti ed ottenibili sono sotto gli occhi di tutti.  Non sarà il caso di “dare un taglio” a queste menate pseudo-autonomiste per puntare a che ognuno faccia bene il suo mestiere, punto e stop?

Aggiungiamoci anche il protagonismo dei governatori (?) – già solo il titolo mi fa innervosire – i quali non si capisce se siano rigoristi quando il governo centrale è possibilista e/o possibilisti quando i ministri sono rigoristi. Lo spirito di contraddizione, che, a quanto pare, si vende nelle farmacie regionali. In un momento storico come l’attuale avremmo bisogno di molta precisione e chiarezza di ruoli, competenze e procedure, altrimenti, come sta succedendo, si rimane vittima di un ginepraio in cui il Covid la fa ancor più da padrone.

 

Le mutande berlusconiane e i salviniani pantaloni alla zuava

 

“Il Presidente Mattarella ha saputo esprimere nel modo più alto il comune sentire degli italiani al termine di un anno difficile. Siamo in perfetta sintonia con ogni parola del Capo dello Stato, che ha saputo cogliere la sofferenza di tanti italiani, le difficoltà delle imprese, le angosce delle categorie meno tutelate, donne, giovani, disabili, lavoratori autonomi, precari. Credo in particolare sia molto importante che il Presidente della Repubblica abbia ribadito, in questa occasione solenne, l’appello ad un’unità sostanziale della nazione e della sua classe dirigente, unità che non cancella le distinzioni di parte ma che le supera in nome della comune responsabilità verso il futuro del Paese e verso le nuove generazioni”. Lo ha affermato Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, commentando il discorso di fine anno del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Ho passato in rapida rassegna le stucchevoli reazioni politiche al discorso di fine anno di Mattarella e ho riscontrato come la nota più positiva e plaudente sia quella del cavaliere errante, figura della letteratura cavalleresca medievale. L’aggettivo “errante” (cioè viaggiatore, girovago) indica come il cavaliere vagabondasse per vasti territori in cerca di avventure, o allo scopo di dimostrare il proprio valore. Ebbene trovo che il discorso calzi a pennello su Silvio Berlusconi, il quale però sta vagando fuori tempo massimo, sta diventando il nonno della famiglia del centro-destra che gira per casa in mutande. Fa più tenerezza che rabbia. Peccato non conti più un cazzo, almeno per la politica (salvo una rentrée da non escludere, vista la fantasia dell’uomo), conta per gli interessi suoi e delle sue imprese.

Chi gli è rimasto intorno e gli vuole bene lo sta consigliando di smarcarsi dagli opprimenti giochi della destra italiana. Quale migliore scappatoia dell’attestarsi all’ombra dell’inquilino del Colle? Berlusconi è sempre e comunque d’accordo con Mattarella. Se il capo dello Stato lo mandasse a dar via i piedi, cosa che l’eleganza e la bonomia del presidente lo impediranno comunque, lui sarebbe d’accordo e direbbe: “Mattarella ha proprio ragione, non mi resta altro da fare”.  L’opportunismo non ha limiti, quello di Berlusconi peraltro è perfettamente in linea con tutta la sua esistenza: è come una malattia ha la fase aggressiva, poi si cronicizza, poi diventa innocua anche se non sparisce mai del tutto.

D’altra parte è tutto in coerenza con l’aspetto fisico: sembra sempre su un carro mascherato a Viareggio, recita la sua parte fino in fondo, sembra quasi chiedere scusa del disturbo arrecato (non poco per la verità), sta cercando il modo di chiudere in bellezza anche se lui non chiuderà mai a costo di diventare ridicolo. E pensare che Sergio Mattarella è stato un suo acerrimo nemico politico: il 27 luglio 1990 si dimise dall’incarico di ministro insieme ad altri esponenti della sinistra democristiana (Mino Martinazzoli, Riccardo Misasi, Carlo Fracanzani e Calogero Mannino) per protestare contro la fiducia posta dal governo sul disegno di legge Mammì di riassetto del sistema radiotelevisivo, che venne soprannominato sarcasticamente legge Polaroid in quanto, a detta dei detrattori, esso si limitava a fotografare l’esistente condizione di duopolio, legittimando la posizione dominante del gruppo televisivo Fininvest di Silvio Berlusconi. Acqua passata, tanto il cavaliere trovò un potente alleato nel popolo italiano.

Personalmente sono stato non tanto un antiberlusconiano, ma un “aberlusconiano”: per me questo personaggio non esisteva, era fuori dalla mia mentalità, ne capivo l’estrema pericolosità, non l’avrei votato nemmeno sotto tortura, ci vedevo molti tratti di fascismo riveduto e corretto, intravedevo una deriva che avrebbe portato l’Italia in malora. Molti sottovalutarono il pericolo e si allearono con lui, altri lo combatterono in modo schematico e poco incisivo.

Ebbene non vorrei mai che mi toccasse rimpiangerlo ed in effetti, quando vedo e sento Matteo Salvini e Giorgia Meloni, lo rimpiango con una certa nostalgia: è proprio vero che al peggio non c’è mai un limite. Quando si insediò il primo governo Berlusconi, dai banchi berlusconiani del parlamento gridarono a Massimo D’Alema, che stava osteggiando, in modo forte ed altezzoso, la nascita di quel governo: “Rimpiangiamo il partito comunista…”. Lui, con la sua solita vis polemica, rispose: “E io rimpiango la democrazia cristiana…”. Sì, qui è tutto un rimpianto, non si finisce mai di rimpiangere il passato. Rimpiangere Berlusconi è il non plus ultra e in parte, seppure tra il serio e il faceto, mi sta succedendo.

 

 

 

 

La vocina montiana della coscienza contiana

Si fa un gran parlare del futuro politico di Giuseppe Conte. Mentre in parecchi stanno escogitando il modo migliore per giubilarlo, lui sornionamente, forse, sta sfogliando la margherita per decidere come configurare le proprie prospettive. Fare il Cincinnato non sarebbe infatti il suo mestiere.

E allora a chi chiedere consigli più o meno leali e disinteressati? Il Corriere della Sera ci ha pensato con Mario Monti, che, nel corso di un’intervista, ha sciorinato questo percorso a livello più lapalissiano che coscienziale: «Mi interrogherei sullo strumento migliore. In che modo io Giuseppe Conte — che sono diventato premier un po’ per caso ma che in due anni e mezzo, me lo riconoscono tutti, ho accumulato grande esperienza nazionale e internazionale e ho dato prova di notevoli capacità — potrei contribuire al meglio a questo cambiamento dell’Italia? Costituendo un mio partito? Prendendo il controllo del partito che mi ha espresso come premier? Guidando una coalizione alle elezioni? O eventualmente, se ne ricorressero le circostanze, come presidente della Repubblica?».

Il pulpito non è troppo credibile: Monti scelse di improvvisare un partito, ottenne immediatamente un discreto riscontro elettorale, ma poi il suo progetto andò in fumo e lui, politicamente parlando, fece la fine della famosa contadinella. La povera Rosalina viveva nella più assoluta miseria in un paesino di campagna. Un giorno gli diedero in dono una bella ricottina: Rosalina la mise in un cestello e se ne andò al mercato. Lungo il cammino cominciò a fantasticare, facendo i suoi progetti: andrò al mercato, venderò la ricotta, con quei soldini comprerò delle uova che metterò sotto le chiocce e nasceranno i pulcini che diventeranno polli; venderò i polli e comprerò delle caprette che mi daranno i caprettini: io li venderò e comprerò una vitellina che diventerà mucca e mi darà il latte per fare tante ricottine. Diventerò ricca e la gente passando davanti alla mia bella casetta mi dirà: “Riverita signore Rosalina, riverita!”. Nel dir così la svampitella fece un profondo inchino e la ricotta andò a finire in mezzo alla strada.

In un tempo in cui gli eventi si susseguono come in una maionese impazzita, resta legato allo schema storico che prevede la nascita di un partito sulla base di una idea forte, di una storia radicata, di un’esperienza allargata, soprattutto di una cultura collaudata. I partiti personali fanno sempre una brutta fine e segnano fasi inconcludenti, confuse e pericolose nella vita politica. Molto diverso quindi sarebbe il mio consiglio a Conte rispetto a quanto gli suggerisce il suo illustre predecessore Mario Monti.

Parliamoci chiaro: di giravolte spericolate Giuseppe Conte ne ha già fatta una. Lasciamo stare il fatto che si stia dimostrando salutare per il Paese: cosa sarebbe successo infatti se Matteo Salvini fosse rimasto in sella? Non so se l’ipotesi comporti più crasse risate o salutari brividi. Adesso però basta e avanza. Non vorrei che le intemperanze del primo Matteo (Salvini) lo avessero spinto ad un rigurgito orgoglioso e dignitoso e quelle del secondo Matteo (Renzi) lo inducessero ad un triplo salto mortale per uscire da una trappola che gli stanno tendendo. Triplo perché si tratta di dribblare gli attacchi insidiosi di Italia viva, le incoerenti incertezze del M5S, le solite indecisioni del Partito democratico.

Forse siamo sempre lì a girare intorno al nulla del cosiddetto “centro” politico, inteso come area da occupare più che come stile da adottare. Il vero centro è finito (purtroppo) con la Democrazia cristiana, un centro a cui fu impedito (il modo ancor m’offende) di guardare veramente a sinistra. Dopo la Dc fu il diluvio Berlusconiano (Dio ce ne liberi per sempre) e poi ecco spuntare il montismo nato dalle ceneri tecniche dello scampato pericolo della disfatta totale (merito di Napolitano, Merkel e Obama). Il centro è la primula rossa dello schieramento politico italiano: “Lo cercan qui, lo cercan là,/ dove si trovi nessuno lo sa./ Che catturare mai non si possa,/ quel dannato Centro della fossa?”.

E poi, siamo seri: è proprio sicuro che, con tutti i problemi che abbiamo serva porsene uno sul futuro di Giuseppe Conte? È proprio opportuno in mezzo alle disgrazie, che ci stanno sommergendo da ogni parte, andare a cercare del freddo nel letto futuro di Giuseppe Conte. Non è sufficientemente insicuro il letto presente dell’avvocato del popolo per sognare quello del salvatore della patria?

 

 

La trasgressione è il mio mestiere

Ho sempre avuto un’innata simpatia per le persone trasgressive, dovuta al fatto che nella mia vita la trasgressione è stata l’arma di difesa contro le insopportabili costrizioni e il modo per affrancarmi dal perbenismo (non) ragionando con la mia testa. Fortunatamente, quasi sempre, i messaggi educativi, soprattutto quelli ricevuti da mio padre, avevano un’abbondante dose di trasgressione e provocazione, ironica, per non dire graffiante, in una gustosa miscela di anticonformismo, radicalismo, anarchia, etc: il tutto insaporito da una spruzzata di autentica parmigianità, molto soft, poco ostentata, ma sottilmente e gradevolmente percettibile e assimilabile.

Ecco perché non mi sono scandalizzato degli strani episodi che riporto di seguito: in un certo senso mi hanno sollevato il morale, schiacciato dalla solita melassa natalizia, che niente ha da spartire con la fede cristiana e la solidarietà umana. In fin dei conti cosa c’è di più trasgressivo del Natale. Pensiamo alla coppia di fatto per eccellenza da cui tutto nasce; i primi ammiratori che partecipano all’evento sono degli sporcaccioni patentati e dei brillanti fattucchieri; ed è solo l’inizio della vita del più trasgressivo di tutti gli uomini, così trasgressivo al punto da essere Figlio di Dio. Esprimo quindi tutta la mia comprensione e la mia simpatia per i protagonisti dei tre episodi che provocatoriamente riporto, sui quali non c’è da ridere, ma da riflettere.

  1. Un’ordinanza urgente per chiudere e sanificare la cattedrale di San Nicola di Mira, nel comune del Cosentino famoso per essere la capitale religiosa degli italo-albanesi continentali, sede dell’Eparchia bizantina. L’ha firmata il sindaco di Lungro, Giuseppe Santoianni, dopo aver appreso della positività al Coronavirus di uno dei fedeli presenti in chiesa nei giorni scorsi. A preoccupare è stata l’assoluta mancanza di osservanza dei protocolli antiCovid, in nome del rispetto della liturgia, che secondo il rituale bizantino prevede che tutti bevano dallo stesso calice durante l’eucaristia. A rivelarlo, un video pubblicato e poi rimosso sul profilo social del sacerdote, in cui i fedeli – con la mascherina abbassata – poggiano le labbra sullo stesso calice.

 

  1. Hanno attraversato nudi alcune strade del centro di Bitonto prima di essere bloccati dalle forze dell’ordine su segnalazione di alcuni cittadini. È accaduto venerdì mattina, il giorno di Natale. Protagonista una giovane coppia, lui di 23 anni e lei di 21, in evidente stato di alterazione forse a causa dell’assunzione di sostanze stupefacenti. L’episodio è stato immortalato da un video che in poche ore è diventato virale facendo il giro dei social e delle chat. Nelle immagini si vedono i due che camminano al centro della strada, lui completamente nudo e lei indossando solo indumenti intimi. Ad un certo punto del loro tragitto alcuni cittadini hanno fermato la coppia soccorrendo la donna che, stando ad alcune testimonianze, chiedeva aiuto, mentre il 23enne ha proseguito fino a quando, qualche centinaio di metri più avanti, è stato fermato dai carabinieri che stanno ancora indagando per ricostruire quanto accaduto, valutando con le autorità sanitarie e la Procura un eventuale ricovero. Della vicenda sono stati interessati anche il Comune e il Tribunale per i Minorenni perché la coppia ha un figlio di 3 mesi che è stato preso in carico dai servizi sociali territoriali. “Credo sia preferibile non ironizzare su quanto accaduto, prima di conoscere la storia sociale e umana sottesa a certi comportamenti” ha commentato su facebook il sindaco di Bitonto, Michele Abbaticchio, assicurando che “i servizi sociali si stanno rapportando con le forze dell’ordine su nostra preoccupata sollecitazione. Credetemi sulla parola perché non posso aggiungere altro: non c’è nulla da ridere”.

 

  1. “Vi invito oggi a mangiare bene e a bere con abbondanza, ma non la Coca-Cola! Vino buono, perché il vino è segno della vita eterna! In paradiso fratelli miei gli astemi non potranno entrare, perché si beve il vino!”. Sono parole di don Pietro Cesena, parroco della popolosa frazione di Borgotrebbia alla prima periferia di Piacenza. Il video dell’omelia di Natale – interrotta da scroscianti applausi dei fedeli presenti – è già diventato virale sui social. Don Cesena è un sacerdote molto popolare a Piacenza ed è già balzato alla ribalta delle cronache quando nell’aprile scorso pagò una multa di 400 euro per aver detto messa con i fedeli presenti in un periodo in cui era vietato. Il giorno di Santo Stefano il parroco è stato ricoverato nel reparto di pneumologia dell’ospedale di Piacenza in osservazione: gli è stata diagnosticata una polmonite bilaterale ed è risultato positivo al coronavirus.

 

Ho pagato il mio giusto tributo alla trasgressione. Morale degli episodi: trasgredire fa bene, ma il richiamo alla realtà incombe e da essa non si può scappare. Le regole possono dare fastidio, ma servono, il non osservarle non deve essere un divertimento, ma una scelta motivata e tale da metterle in discussione in modo profondo ed esistenziale. Mi si chiederà: allora che trasgressione è? Rispondo in chiave cristiana, in base alla mia fede trasgressiva. La vita di Gesù è stata tutta un’oscillazione tra l’accettazione delle regole e la loro messa in discussione: gioco possibile solo a un Dio in vena di cambiare il mondo senza cambiarlo. Sappiamo tutti come andò a finire: nella più grande trasgressione possibile, quella di morire in croce per ridare vita vera a tutti.