I pogiôi in stra’ méstra

Siamo soliti sbirciare la politica italiana dalla finestra sul cortile, non andiamo oltre, dimenticando che c’è anche un altro punto di osservazione più largo e globale, quello della veranda aperta sul mondo, che ci guarda con attenzione, ci giudica impietosamente e ci capisce poco.

Tutta la vicenda dei governi Conte è fortemente influenzata dagli osservatori interessati ai destini del nostro Paese più di quanto si possa immaginare. Il primo governo, quello giallo-verde, fu sopportato con ironica spocchia: dove vuoi che vadano questi apprendisti stregoni in vena di esperimenti goliardici? Infatti andò proprio così: Di Maio faceva la parte del ragazzino presuntuoso, Salvini giocava a fare il bullo da strapazzo, Conte ammetteva nei pourparler di essere a disagio e di non poterne più. Il vaso traboccò e si formò un nuovo governo all’ombra della Unione Europea, con l’equivoca simpatia di Trump, con la diplomatica benedizione del Vaticano e con la infinita pazienza di Sergio Mattarella.

Tutti pensano che a mettere in crisi il secondo governo Conte sia stato Matteo Renzi con la sua arcinota intemperanza che rischia di fare rima con petulanza. Forse ha avuto il merito di dire quello che tutti pensavano: il capolinea era ormai in vista. Negli Usa l’aria era cambiata, l’Europa era stanca dei tira e molla, i vescovi capivano che a palazzo Chigi non c’erano più De Gasperi, Moro e nemmeno Andreotti, Mattarella fiutava odore di bruciato in un Paese stremato.

Ricordo, molto tempo fa, a margine di un convegno politico, di avere indotto un carissimo amico ad intervenire in modo duramente critico, talmente duro che io stesso cominciai ad inveire contro di lui a contestarlo dopo averlo gasato: ho ancora presenti gli sguardi smarriti che mi rivolse e non vado oltre… Forse al Conte bis è successo così: lo hanno gasato, ma quando si sono accorti che il pallone si stava sgonfiando hanno pensato bene di riprendere in mano la situazione, senza creare ulteriori danni, ma sottoponendo Conte ad una sorta di stretto tutoraggio.

L’Unione Europea vuole vederci chiaro e chiede luce a Mattarella; gli Usa vogliono riprendere finalmente il discorso e chiedono appoggio a Mattarella; i vescovi si fidano solo di Mattarella. Ecco come nasce il terzo governo Conte: non lo si dice, ma lo si fa. Non per il senso di responsabilità della pattuglia improvvisata dei cosiddetti costruttori: loro fanno solo da copertura ad una manovra ben più ampia, articolata e profonda. Non per l’insistenza dei grillini alla canna del gas: si sono rapidamente trasformati da lupi dell’antipolitica ad agnelli della pseudopolitica. Non per un rigurgito di vitalità del sempre più burocratizzato e imbalsamato partito democratico: fanno la foglia di fico e danno una innocua spruzzata di sinistra. Non per fare un dispetto al centro-destra: fanno malissimo la parte dei bastian contrari e assomigliano più loro ai capponi di Renzo che non gli esponenti ufficiali del crocchio giallo-rosso (forse nessuno li ha informati che Trump sta andando a casa). Non per un bel gesto berlusconiano: è da anni che è alla ricerca del riscatto e, quando se ne profila l’occasione, qualcuno della sua parte politica lo disturba (peccato!).

Il terzo governo Conte, comunque lo si definisca, nasce sotto tutela: alla prima che mi fai ti licenzio e te ne vai. È questo il coretto che gli stanno cantando e che continueranno a cantargli e, tutto sommato, meno male che qualcuno ha avuto la freddezza di farlo. Tutti con un palmo di naso: Renzi e c. che pensavano di essere protagonisti di una svolta storica; il M5S che crede di essere il perpetuo perno della non politica; il PD che anziché liberarsi di Renzi finisce per incollarsi a Conte e rimanere in balia delle onde mondiali; il centro-destra che non riesce a capacitarsi della stranezza di “mors mea vita tua”; i media che chiacchierano molto e non capiscono un cavolo; la gente che continuerà a godersi i nervi d’acciaio di Conte, capendo, strada facendo, che si tratta in realtà di un personaggio difficile da capire, tutto da scoprire e da tenere sotto pressione.

E se succederà l’incidente, Mattarella tirerà fuori la polizza assicurativa del governo tecnico (magari il Conte-quater zeppo di personaggi illustri con tanto di avallo internazionale): sarà il meno funesto degli incidenti politici della storia. E la pandemia da Covid 19? Succederà come a quella donnetta che al rientro dalla partecipazione a un funerale andava dicendo: “Am son pràn divartidä, am son pràn divartidä!!!”

 

Il pericoloso rischio dell’inferno qualunquistico

Parecchio tempo fa, durante un periodo di scandali dilaganti, incontrai un amico che mi pose una domanda provocatoriamente culturale e programmaticamente politica: “Sono più qualunquisti i cittadini schifati e disamorati del clima devastante della corruzione o i politici che si lasciano corrompere?”. La domanda era piuttosto retorica e non esigeva risposte, ma voleva indurre alla riflessione.

Finora ero molto severo nei confronti degli atteggiamenti qualunquistici o, per meglio dire, verso gli atteggiamenti di ostentato disinteresse alle vicende politiche ed alle questioni di interesse generale. La mia forma mentale, la mia educazione, la mia esperienza mi hanno sempre portato all’impegno testardo e aprioristico ed al rifiuto dello sbrigativo ripiegamento nel privato. Mi trovo attualmente a soffrire per resistere alla tentazione di ripiegare su una  deriva che mi preoccupa molto seriamente.

Sono due i filoni imbastiti dal dibattito mediatico, due i piatti forti serviti dalla mensa culturale: la lotta al coronavirus e l’assetto politico-governativo. Per certi versi sono argomenti che si intersecano e si condizionano a vicenda. Ebbene per entrambi sto vivendo una specie di rigetto anche se sono alla ricerca dei motivi che mi spingono a questo riflusso.

Da una parte c’è la irrimediabile confusione regnante in materia di Covid: la vaccinazione sta creando più problemi di quanti ne risolva, l’arlecchinata delle zone più o meno calde è al limite della follia, gli indirizzi comportamentali sono contradditori e inattendibili, la rabbia cresce, la rassegnazione incombe. Vadano tutti a farsi fottere: se devo morire, voglio almeno morire in pace, quando sarà il momento. Di più non oso sperare.

Dall’altra parte c’è il balletto pornografico della politica che si spoglia integralmente delle sue residue capacità di governo per mostrare i suoi miserevoli attributi polemici e conflittuali. Vadano tutti a farsi fottere: la politica, in cui credevo e credo, se la sta divorando il coronavirus e io rischio di fare il guardone.

Sono più qualunquista io che reagisco sdegnato a questa situazione o sono più qualunquisti coloro che mi ci trascinano dentro senza ritegno e senza pudore. Mi sforzo di pensare positivo, ma non ci riesco. Chi ha il coraggio e la pazienza di seguire la mia rubrica sui fatti del giorno si sarà accorto che sto ripiegando sui massimi sistemi a prescindere dalle bagatelle quotidiane. Non mi era mai capitato di seguire con tanto distacco una crisi di governo: ebbene ci sono arrivato e questa crisi del governo Conte faccio fatica a interpretarla. La vivo, o meglio la subisco, come una recita parrocchiale (con tutto il rispetto per le parrocchie) di una tragedia shakespeariana. Ce la stiamo facendo! A fare cosa? A diventare tutti più “stupidi”.

Don Andrea Gallo diceva: «Non mi curo di certe sottigliezze dogmatiche perché mi importa solo una cosa: che Dio sia antifascista!». Chiedo scusa a don Gallo per la parafrasi che tento sulle sue parole: “Faccio fatica a seguire la politica. Devo accontentarmi di una cosa importante: che la destra nazionalista, populista, sovranista, in Italia, in Europa, negli Usa e nel mondo stia mettendo le pive nel sacco”.

Persino la mia ed altrui salute passano in secondo piano, tanta è la confusione regnante nella mia mente. Non ci capisco più niente. Mi sottoporrò al vaccino? Non lo so! Qualcuno deciderà e io mi adeguerò. Se negazionismo vuol dire prendere atto della inconsistenza del discorso a monte e a valle del virus, mi vanto di essere negazionista. Non sono ancora pazzo al punto da non credere al virus, ma ho la minima lucidità per capire che stiamo brancolando nel buio e giocando a mosca cieca col virus.

Papa Francesco sostiene giustamente che dalla pandemia si può uscire migliorati o peggiorati. Io non mi sento né migliore né peggiore di prima. Capisco che sta cambiando un po’ tutto, ma non riesco a trovare il bandolo della matassa. Intorno a me tutti la stanno ingarbugliando sempre più: vedo una deriva etica, scientifica e politica. Sono collocato in quel luogo dell’inferno ove la luce è muta ed il vento sibila, come muggisce il mare in tempesta, perché le onde burrascose sono in perenne agitazione. Sono assieme a Paolo e Francesca e temo che Dante Alighieri, dopo 700 anni, davanti a questa scena, possa cadere come corpo morto cade.

 

 

La ripartenza di Berlusconi e il catenaccio dei forzisti

Da tempo Silvio Berlusconi gioca a fare il liberale, alla ricerca di un ruolo europeisticamente distinto e affaristicamente connotato. Un tempo il paradossale ragionamento alla base del consenso che riusciva a raccogliere era: se è così bravo a fare i suoi interessi, saprà fare anche quelli degli italiani. Oggi il consenso si è sciolto nel vomitevole calderone del centro-destra trumpiano e allora lui tenta un altro tipo di ragionamento: i miei interessi valgono bene una opportunistica messa liberal-europeista.

Ha cambiato predica, non gli è politicamente rimasto che un pulpito traballante da cui pontifica, preparando una sorta di preventivo panegirico a suggello di una avventura a dir poco discutibile. Nella sua partita politica è sotto di parecchi gol, ma vuole sfruttare gli spazi per impostare una ripartenza che gli salvi la faccia e soprattutto il portafoglio. Ho la netta impressione però che questa tattica l’abbia escogitata in isolamento o, al massimo, con pochi ma carissimi amici: sta tentando di riaprire la gara, mentre le sue truppe cammellate di risulta non ci capiscono niente e finiscono regolarmente in fuori gioco.

Lui vuole smarcarsi dall’abbraccio mortale salviniano e meloniano, la maggior parte dei suoi amici rimane invece attaccata al treno destrorso con dichiarazioni di circostanza o con sparate populistiche senza popolo. Un teatrino in cui il burattinaio sa quel che vuole, ma non ha i burattini o almeno così sembra. Proprio nel momento in cui gli si apre un’autostrada per tornare in pista, non ha il mezzo di trasporto adatto: non dico una lussuosa automobile, ma nemmeno un monopattino. Ha il pane e non ha più i denti o, se volete, ha ancora qualche dente ma il pane è piuttosto difficile da addentare.

Mi sta diventando simpatico: un ricco e spregiudicato vecchietto, che, forse, si è stancato del bunga-bunga e intende dedicarsi allo scopone scientifico (ogni allusione sessuale è puramente casuale, sarebbe meglio dire causale). Evidentemente ha pochissima stima nell’entourage che gli è rimasto attaccato, non riesce a controllarlo a dovere o addirittura se ne frega altamente, contando, alla fine di Conte, sul proprio ascendente. Nessuno ha provveduto ad informare i forzisti che la guerra è finita, o quanto meno è cambiato il nemico, e loro continuano imperterriti a combattere.

Il personaggio emblematico di questa dicotomia fra il piccolo esercito e il grande capo è Maria Stella Gelmini.  “Conte venga in Parlamento e dica la verità agli italiani. Cosa succede adesso? Siamo l’unico Paese ad affrontare nello stesso momento una crisi sanitaria, una crisi economica e pure una crisi di governo. L’Italia non ha più tempo”. “Forza Italia non parteciperà a maggioranze eterogenee con il M5S che ha la sua bandiera nel reddito di cittadinanza e non nelle politiche liberali”. Nessuno le ha detto che Berlusconi si sta preparando ad entrare, di riffa o di raffa, in una maggioranza dove ci sono i grillini, i quali sembrano disposti a ingoiare il rospo? Nessuno l’ha invitata a dimenticare il periodo in cui i pentastellati dovevano andare a pulire i cessi di mediaset, mentre adesso rischia di andare lei a pulire le stanze di palazzo Grazioli con tanto di grembiulino nero?

Da piccolo mi mettevano in piedi sulla tavola per farmi recitare la poesia di Natale, che avevo imparato all’asilo. Era un rito a cui ero abituato ed a cui mi dedicavo con una certa diligenza e disponibilità.  Venne il giorno in cui partecipai al pranzo di nozze di una mia carissima cugina. Al termine mi prelevarono e mi collocarono sulla tavola in mezzo agli sposi per la fotografia di rito. Non mi feci pregare, partii con la recita della poesia di Natale che c’entrava come i cavoli a merenda, ma che mi fece conquistare un grosso successo di pubblico. Maria Stella Gelmini e i suoi colleghi rischiano di continuare a recitare la parte dei fegatosi antagonisti in una commedia in cui è loro riservata quella di responsabili consociati. Figuratevi i buu! di disapprovazione.

La puzza della melina cattolica

In questi giorni nell’ambito di una ansiosa, confusa e tardiva ricerca di nuove e fattive combinazioni politiche a supporto di un governo che, al di là delle strampalate tattiche renziane, sta dimostrando tutti i suoi limiti programmatici, spunta un patto con l’Udc per porre le basi di un partito di Conte che sia un contenitore di moderati di ispirazione cattolica, europeista e liberale, una costola italiana del Ppe. Se la vogliamo dire in modo brutale, “quando il 31 mi batte”, riecco la voglia anacronistica ma impellente di una riedizione purchessia della Democrazia Cristiana.

Mia sorella Lucia era implacabilmente severa nei confronti dei cattolici nel loro approccio alla politica: sintetizzava il giudizio con una espressione colorita, esagerata e disinibita come era nel suo carattere. Non andava per il sottile e li definiva “cattolici di merda”.

Innanzitutto non sopportava i grilloparlanteschi atteggiamenti della gerarchia nelle sue varie espressioni, centrali e periferiche, volti ad esprimere forti e generiche critiche ai politici, con cui peraltro non era affatto tenera. Rinviava però al mittente parecchi rilievi: “Sarebbe molto meglio che si guardassero loro, che ne fanno di tutti i colori, anziché scandalizzarsi delle malefatte delle persone impegnate in politica”. Punto e a capo.

In secondo luogo diffidava degli integralismi cattolici: quello di chi pensa di poter fare politica come si usa fare in sagrestia, bisbigliando calunnie e ostentando un insopportabile e stucchevole perbenismo; quello di chi ritiene di fare peccato scendendo a compromessi e negando quindi il senso stesso della politica per rifugiarsi nella difesa aprioristica, teorica per non dire astratta dei principi religiosi; quello di chi ritiene la politica qualcosa di demoniaco da esorcizzare, lavandosene le mani e finendo col lasciare campo ancor più libero a chi intende la politica come l’arte dei propri affari; quello di chi pensa di coniugare al meglio fede e politica confabulando con i preti, difendendo il potere della Chiesa e assicurandosi succulente fette di consenso elettorale; quello di chi pensa che i cattolici siano i migliori fichi del bigoncio e quindi li ritiene per ciò stesso i più adatti a ricoprire le cariche pubbliche.

In terzo luogo, così come non sopportava il clericalismo ad oltranza, a rovescio non digeriva i giudizi sommari contro i cattolici investiti di incarichi pubblici; così come non sopportava i bigotti del tempio, non gradiva i bigotti della cellula di partito. Si riteneva una cattolica adulta, capace pur con tutti i suoi limiti e difetti, di discernere in campo politico, senza fare ricorso agli ordini provenienti dal clero, soprattutto quello di alto bordo.

Perché ho rispolverato questa lezione di vita: “Mia sorella mi ha fatto da battistrada e da esempio sulla via della non facile e tutt’altro che scontata combinazione tra dedizione ed autonomia nell’ambito familiare, sul sentiero impervio dell’impegno politico lontano da ogni compromesso col potere, sulla partecipazione convinta ma critica alla vita ecclesiale, sul forte legame con la schietta e generosa gente dell’Oltretorrente”. Così ho scritto sull’ultima pagina di copertina del libro a lei dedicato e quando le situazioni diventano particolarmente problematiche attingo a piene mani ai suoi insegnamenti.

La contingenza politica mi spinge a farlo e quindi tento di leggere la situazione inforcando a contrariis gli occhiali del cosiddetto “cattolicesimo di merda”. Giuseppe Conte mette il certificato di Battesimo nel suo scarso e scarno pedigree e riesce così a trovare consensi e appoggi nel mondo clericale. Matteo Renzi cavalca la tigre del cattolicesimo democratico ai cui esponenti storici tenta di fare il verso: assomiglia a loro solo nel pisciare. Matteo Salvini sfodera rosari e professioni di fede a livello di comizi elettorali, pensando che sedendo alla destra del Padre Gesù abbia fatto una scelta di schieramento politico. Sono i tre filoni aberranti del cattolicesimo mal coniugato con la politica.

E pensare che ci sarebbe tanto bisogno di riprendere i principi evangelici per tentare di tradurli non tanto in senso partitico o correntizio, ma in senso ideale e comportamentale. Ultimamente qualcuno ha fatto un timido e velleitario tentativo “terzaforzista”, vale a dire di ricollocare lo stile moderato ed equilibrato dei cattolici al centro dello schieramento politico. È un discorso che ciclicamente rispunta, ma che regolarmente abortisce. Adesso nasce la tentazione di appiccicare l’etichetta di “responsabili-costruttori” ad un manipolo di nostalgici moderati riciclati in salsa euro-liberale in soccorso bianco a Giuseppe Conte. Si dirà: sempre meglio che andare alle elezioni politiche anticipate nel casino totale. D’accordo, ma non mi basta. Il mio benaltrismo prende corpo, si trasforma in scetticismo e rischia di sfociare in qualunquismo. La politica, così facendo, non è l’arte del possibile, ma l’artigianato dell’impossibile.

Tornando ai cattolici, lo scenario pandemico dovrebbe aiutare a ripulirli da ogni e qualsiasi scoria integralista, bigottista, clerico-fascista e opportunista. Niente da fare, anche il coronavirus induce in tentazione e il più anticlericale dei papi della storia passata, presente e futura ha un bel daffare a predicare bene: i cattolici continuano imperterriti a razzolare male. Quando il santo sindaco di Firenze Giorgio La Pira affrontava delle sfide pazzesche al fine di testimoniare i valori fondanti del cristianesimo a livello degli equilibri politici internazionali, faceva il giro dei conventi delle suore di clausura mobilitandole nella preghiera di sostegno alle battaglie per la pace e la giustizia. Forse bisognerebbe fare altrettanto e più che mai oggi. Aldo Moro durante i giorni della prigionia, stando alle strazianti lettere inviate alla moglie, pregava Giorgio La Pira. In questo periodo preghino insieme per l’Italia e per il mondo intero. È troppo grande l’ispirazione cristiana per appiattirsi sulle beghe politiche, ma è anche troppo importante per essere sprecata in irrilevanti meline politiche.

 

 

L’esercito degli incapaci

Non so se Matteo Renzi avesse l’intenzione penelopiana di disfare la tela che lui stesso aveva, seppure confusamente, imbastito: mi riferisco alla combinazione giallo-rossa di cui fu equivoco ispiratore. Forse il vero obiettivo di Renzi è quello di creare zizzania in casa governativa per togliere scena e consenso soprattutto ai grillini, ritenuti terreno da dissodare alla conquista di una riedizione dell’antipolitica riveduta e corretta in salsa centrista. Magari finisce col rinverdire l’orgoglio pentastellato convertendolo alla politica politicante.

L’exploit pentastellato alle elezioni politiche del marzo 2018 aveva comportato l’elezione di 222 deputati e 112 senatori per un totale di 334 parlamentari. Da allora si è avuta una emorragia assai più che fisiologica, dovuta a dimissioni ed espulsioni, di 42 parlamentari a cui si potrebbero aggiungere qualcun altro dei tredici che hanno votato no alla riforma del Mes. Siamo al 13% di fuorusciti dal movimento: mi risulta che siano confluiti in altri gruppi parlamentari. Se non erro nessuno ha rinunciato alla carica, nonostante che il vincolo di mandato sia un cavallo di battaglia del M5S.

A parziale giustificazione di queste defezioni più o meno volontarie c’è indubbiamente la giovane età del movimento e soprattutto il meccanismo selettivo piuttosto approssimativo e improvvisato. Il calo però sta a dimostrare una certa qual incertezza di linea politica, che non solo si è tradotta in alleanze di governo altalenanti, ma anche in confusioni programmatiche su temi rilevanti come l’immigrazione e i rapporti con l’Europa. Le fuoruscite infatti non sono che la punta dell’iceberg rispetto alle divisioni interne ed ai personalismi a cui non è riuscito a porre rimedio il carismatico ma sempre più recalcitrante capo Beppe Grillo.

L’elettorato italiano ha dato la maggioranza relativa al movimento dell’antipolitica finendo col riconoscergli tutti i difetti e i pochissimi pregi della politica stessa. Stando ai sondaggi di opinione il consenso ai cinque stelle si sarebbe pressoché dimezzato e anche le elezioni regionali e locali hanno segnato la perdita di milioni di consensi. Questo pseudo-partito è un equivoco fin dalla sua nascita. Ha raccolto e incanalato politicamente ed istituzionalmente gran parte della protesta, ma non l’ha saputa gestire e tradurre in programmi concreti di rinnovamento, fermandosi ad una coltivazione populistica del consistente orto conquistato. L’equivoco continua e non bastano la pigra pazienza dell’alleato piddino, il fastidioso e pretestuoso pressing renziano, la bassa mediazione del premier Conte, costola quasi impazzita del movimento, la mancanza di alternative credibili ed agibili a livello di maggioranza parlamentare e di governo, la frastornata opinione pubblica pre e post Covid, a rendere accettabile il presuntuoso e inconcludente praticantato politico dei grillini.

Sul piano oggettivo ci sarebbero i presupposti per elezioni politiche anticipate: il partito pilastro della legislatura rischia di portare tutti al crollo. Siccome però la politica non si esaurisce con le elezioni, la situazione le sconsiglia di brutto e costringe a tenere in piedi un castello di sabbia, sempre meglio di un salto nel buio pesto.

Purtroppo su tutto prevale la penosa qualità degli esponenti politici pentastellati, autentici dilettanti allo sbaraglio, insopportabili mestieranti che si ergono a moralizzatori con la loro sostanziale immoralità fatta di incapacità. Non so infatti se faccia più danno chi ruba nelle casse erariali o chi non sa fare il proprio mestiere di parlamentare, di ministro, di amministratore pubblico in genere.

Marco Travaglio ha stigmatizzato in modo pesantissimo il comportamento di Matteo Renzi (l’innominabile) e della sua Italia viva in merito al Mes ed al Recovery fund: “Da che mondo è mondo, quando l’Anonima Sequestri prende qualcuno in ostaggio, chiama i famigliari per chiedere il riscatto. Invece l’Innominabile e gli altri italomorenti sequestrano Conte, ma non dicono cosa vogliono in cambio del suo rilascio”. Travaglio la definisce “una nuova fattispecie di banditismo politico: il sequestro di governo a scopo di estorsione imprecisata”.

Se Italia viva è politicamente assimilabile all’Anonima Sequestri, il M5S lo possiamo tranquillamente paragonare all’esercito degli incapaci (arruola anche personaggi provenienti da altre formazioni politiche, ma i grillini ne hanno la maggioranza qualificata), che Berlusconi voleva ingaggiare per la pulizia dei cessi di Mediaset senza contare che proprio lui aveva trasformato l’Italia in un cesso globale bisognoso di un esercito di pulitori.

Ci vuole solo l’abilità diabolica di Grillo a tenere in piedi una simile armata Brancaleone: l’ha voluta e adesso non riesce a disfarsene, anche se dà crescenti segni di intolleranza e insoddisfazione. In conclusione siamo nelle mani di Beppe Grillo e dobbiamo sperare nel suo carisma (?). Preferisco sperare nell’equilibrio del presidente della Repubblica, che non invidio e che con garbo e signorilità cerca di tenere in riga questi bamboccini e bamboccioni caduti dalle stelle.

 

Vaghi protettori per autorevoli personaggi

L’espressione potenze dell’Asse, o semplicemente Asse, è usata per indicare l’insieme delle nazioni che parteciparono alla seconda guerra mondiale in opposizione agli Alleati. A dare popolarità al termine fu Benito Mussolini che, durante un discorso tenuto a Milano il 1º novembre 1936, definì «asse» l’intesa stipulata il precedente 24 ottobre tra la Germania e il Regno d’Italia, chiamata per questo motivo «Asse Roma-Berlino». Il successivo Patto d’Acciaio, stipulato dalle due potenze il 22 maggio 1939, rappresentò il primo nucleo dell’alleanza militare, poi estesa anche al Giappone con il Patto tripartito del 27 settembre 1940 (detto anche «Asse Roma-Berlino-Tokio»).

La storia per certi versi si ripete, in grande o in piccolo, e per altri versi sorprende. In questi giorni in Italia si stanno configurando due anacronistici, stranissimi, imprevisti e imprevedibili assi a rendere ancora più complicata e aggrovigliata la matassa politico-governativa.

Papa Francesco in una intervista televisiva ha dichiarato, autorevolmente e credibilmente: “La parola chiave per pensare le vie di uscita dalla crisi è la parola vicinanza”. Se non c’è unità, vicinanza, ammonisce il Papa, “si possono creare delle tensioni sociali anche all’interno degli Stati”. Parla così della “classe dirigenziale” nella Chiesa come nella vita politica. In questo momento di crisi, è la sua esortazione, “tutta la classe dirigenziale non ha diritto di dire ‘io’ … deve dire ‘noi’ e cercare una unità di fronte alla crisi”. In questo momento, riafferma con forza, “un politico, un pastore, un cristiano, un cattolico anche un vescovo, un sacerdote, che non ha la capacità di dire ‘noi’ invece di ‘io’ non è all’altezza della situazione”. E soggiunge che i “conflitti nella vita sono necessari, perché ce ne sono, ma in questo momento devono fare vacanza”, fare spazio all’unità “del Paese, della Chiesa, della società”.

A questo appello, volenti o nolenti, direttamente o indirettamente, ha risposto Beppe Grillo, fondatore del Movimento 5 Stelle, che, su Facebook, ha lanciato un “patto tra tutti i partiti per il bene dell’Italia“: “Tutti i rappresentanti del popolo devono contribuire uniti a sostenere, in uno dei momenti più bui della sua storia, il Paese. Nessuno cerchi scuse o pretesti per sottrarsi a questa grande responsabilità o ancor peggio faccia in questo momento biechi calcoli elettorali sul proprio futuro”.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo messaggio di fine anno ha richiamato tutti al senso di responsabilità: “Questo è tempo di costruttori. I prossimi mesi rappresentano un passaggio decisivo per uscire dall’emergenza e per porre le basi di una stagione nuova. Non sono ammesse distrazioni. Non si deve perdere tempo. Non vanno sprecate energie e opportunità per inseguire illusori vantaggi di parte. È questo quel che i cittadini si attendono. La sfida che è dinanzi a quanti rivestono ruoli dirigenziali nei vari ambiti, e davanti a tutti noi, richiama l’unità morale e civile degli italiani. Non si tratta di annullare le diversità di idee, di ruoli, di interessi ma di realizzare quella convergenza di fondo che ha permesso al nostro Paese di superare momenti storici di grande, talvolta drammatica, difficoltà”.

Al capo dello Stato ha risposto, in tempo reale e con una tempestività e convinzione disarmanti, Silvio Berlusconi: “Il Presidente Mattarella ha saputo esprimere nel modo più alto il comune sentire degli italiani al termine di un anno difficile. Siamo in perfetta sintonia con ogni parola del Capo dello Stato, che ha saputo cogliere la sofferenza di tanti italiani, le difficoltà delle imprese, le angosce delle categorie meno tutelate, donne, giovani, disabili, lavoratori autonomi, precari. Credo in particolare sia molto importante che il Presidente della Repubblica abbia ribadito, in questa occasione solenne, l’appello ad un’unità sostanziale della nazione e della sua classe dirigente, unità che non cancella le distinzioni di parte ma che le supera in nome della comune responsabilità verso il futuro del Paese e verso le nuove generazioni”.

Un ballo in maschera è un’opera di Giuseppe Verdi su libretto di Antonio Somma, la cui fonte è il libretto di Eugène Scribe per Daniel Auber Gustave III, ou Le Bal masqué (1833). La vicenda prende avvio da uno strano episodio collocabile, come del resto tutta la vicenda, tra il tragico e il faceto. Un giudice chiede al conte Riccardo, il saggio e illuminato governatore della colonia inglese di Boston, sotto il regno di Carlo II, di firmare l’atto di condanna a morte della maga Ulrica, ma il governatore, cede alle simpatiche insistenze del suo paggio Oscar, il quale si schiera in difesa della innocua maga, e preferisce conoscerla di persona visitando il suo macabro antro. La trama prende poi ben altra piega anche se la maga viene assolta e addirittura generosamente omaggiata dal conte, che, riflettendo ad alta voce, mette insieme la maga e il suo paggio e dice: “Che vaga coppia…Che protettor!”. Il conte Riccardo mi toglie le parole di bocca.

Sant’Ilario pensaci tu

Stupisce che il filosofo Massimo Cacciari abbia un debole per Maria, la madre di Gesù. Questa strana ma stupenda attenzione cacciariana prese in contropiede anche Corrado Augias, il quale ne chiese conto all’interessato durante una trasmissione televisiva in cui veniva appunto presentato il libro di Cacciari “Generare Dio”.

Questo libro prende in considerazione la figura della Vergine col suo bambino, che ha svolto un ruolo straordinario nella civiltà europea. Attraverso questa immagine, che assume forme diversissime, che è chiamata e invocata con nomi anche contrastanti, questa civiltà non ha pensato soltanto il proprio rapporto col divino, la relazione di Dio con la storia umana, ma l’essenza stessa di Dio. Perché Dio è generato da una donna? Pensare quella Donna costituisce una via necessaria per cogliere quell’essenza. E le grandi icone di quella Donna, come la Madonna Poldi Pezzoli del Mantegna, non sono illustrazioni di idee già in sé definite, bensì tracce del nostro procedere verso il problema che la sua presenza incarna.

Ho scopiazzato una breve sintesi del contenuto di questo libro, ma non è di questo che intendo occuparmi in questa sede. Torno infatti al dialogo fra Augias e Cacciari: il primo fingeva di stupirsi, il secondo rincarava la dose affermando di preferire occuparsi di Maria piuttosto che degli squallidi personaggi che si aggirano sulla scena politica attuale. Ben detto, anche se poi Cacciari finisce col farsi spesso e volentieri trascinare nel dibattito: lo fa con stizzito atteggiamento critico, ma comunque cade nel tranello. Augias infatti si permise di consigliarli di lasciare perdere i discorsi di basso profilo seppur velleitariamente affrontati con piglio contestatore per dedicarsi a questioni di ben altra e più alta consistenza culturale ed esistenziale.

Non voglio fare il verso a Cacciari, non sono degno neppure di sciogliere il legaccio dei suoi sandali; non ho la presunzione di cogliere l’invito di Augias, peraltro condivisibile e utile a tutti; tuttavia in questi giorni di bagarre politica messa in scena da penosi nani e squallide ballerine, mi è venuto spontaneo (sarebbe meglio dire “spintaneo”) pensare a sant’Ilario piuttosto che a Conte, Renzi, Zingaretti, Di Maio e compagnia stonando.

Mentre a Roma si litiga o, ancor peggio, si fa finta di litigare sul governo del Paese (del Paese ho l’impressione che non freghi niente a nessuno, tanto che i cittadini vengono (ri)mandati a quel Paese…), a Parma si blatera per mettere in crisi la giunta Pizzarotti, rea di avere tenuto rapporti contrattuali con una onlus chiacchierata operante nel campo dell’accoglienza agli immigrati (tutto da dimostrare, ma tutto serve a fare un po’ di casino…).

E chi era sant’Ilario? Riporto un breve profilo tracciato da Matteo Liut su Avvenire. Solo per rendere l’idea del personaggio: “La fede cristiana non è semplice atteggiamento dell’animo fatto di gentilezza e accoglienza, ma un mistero profondo che scava nell’anima e lì trova il Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo. E proprio quella della Trinità è una delle realtà più complesse da comprendere, una dimensione che fin dai primi secoli è stata approfondita e studiata dai Padri della Chiesa, come sant’Ilario di Poitiers, vescovo e dottore della Chiesa. Il suo “De Trinitate” è un’opera affascinante e complessa, espressione di una profonda conoscenza delle Scritture, pensata per contrastare il diffondersi delle eresie come l’arianesimo, che negava la divinità di Cristo. Uno scritto che testimonia la profonda preparazione dell’autore, nato forse nel 315 da famiglia pagana, e formatosi alla luce della filosofia neoplatonica. Affascinato dalla Bibbia, Ilario chiese il Battesimo e subito dopo, attorno al 353, venne scelto come vescovo di Poitiers. A causa dell’odio dei teologi eretici subì sei anni di esilio, ma dagli studi coltivati in questo periodo nacque proprio il “De Trinitate”. Morì nel 367”.

Ebbene ammetto di essere molto più interessato agli studi di sant’Ilario che non alle menate della politica parmense e persino alle dissertazioni programmatiche del sindaco, ai voli pindarici dell’assessore alla cultura e finanche alle proposte pastorali del vescovo.  Tutto sommato mi risulta meno misteriosa la Santissima Trinità rispetto ai giochi di una città perennemente alla spasmodica ricerca di se stessa. E più ci si affanna in questa autoreferenziale ricerca più si resta emarginati dal resto del mondo. Ora almeno sappiamo con chi prendercela: il coronavirus ci ha tarpato le ali proprio quando stavamo per spiccare il volo culturale e, come succede alle rondini, se si cade in terra non ci si rialza più. A meno che non ci aiuti sant’Ilario, solo a questo livello possiamo uscire dal pantano in cui stiamo sprofondando.

 

 

 

In contradditoria difesa del governo del non governo

Mentre il fantasma di Mario Draghi continua a volteggiare sulle teste cocciute dei politici alle prese con la più insulsa e inconcludente crisi di governo possibile, ricordabile ed immaginabile, le lucide ed allarmanti analisi dell’ex presidente della Bce continuano a tenere banco seppure discretamente e seppure mediate dal gruppo dei trenta, vale a dire  quale co-presidente del “gruppo dei trenta” (un’associazione di consiglieri di governi, istituzioni internazionali e imprese), che ha presentato l’ultimo rapporto lanciando l’allarme su una possibile ed imminente crisi finanziaria non solo italiana ma di gran parte dei Paesi Ocse.

Due sarebbero i fattori determinanti e scatenanti: l’indebitamento “privato” (di famiglie, banche ed imprese) ed il crescente divario tra andamenti delle Borse ed economia reale. Come riporta Giuseppe Pennisi in un articolo su Avvenire di cui riportiamo di seguito ampi stralci, Mario Draghi ha detto, nel presentare l’ultimo rapporto del “gruppo”, che «siamo sull’orlo del precipizio» a ragione dell’alto livello dell’indebitamento (circa il 300% del Pil). Il rapporto ha dieci proposte specifiche; a) dare priorità alla crisi delle imprese; b) ottimizzare l’impiego delle risorse pubbliche per aiutare le economie ad uscire dalla crisi; c) adattarsi alla nuova realtà invece di tentare di preservare lo status quo; d) utilizzare l’intervento pubblico solo in caso di alti costi sociali ed evidenti “fallimenti di mercato”; e) impiegare il più possibile l’esperienza del settore privato per ottimizzare l’allocazione delle risorse; f) trovare un equilibrio tra obiettivi nazionali ed esigenze di settore; g) minimizzare il rischio per i contribuenti; h) attenzione ai pericoli di “azzardo morale”; i) ottimizzare la tempistica degli interventi; l) anticipare effetti non desiderati e tamponarli.

Il rischio di una crisi innescata dall’indebitamento del settore privato viene aggravato da quella che il Financial Times chiama “The Great Disconnect”, ossia la grande sfasatura tra mercati finanziari ed economia reale. Secondo gli ultimi dati del Fondo monetario internazionale (Fmi), il Pil mondiale ha subito una contrazione del 4,5% circa (quello dell’Italia quasi del 13%), ma i mercati finanziari, altalenanti per buona parte degli ultimi 12 mesi, chiudono con aumenti significativi della valorizzazione delle loro quotazioni: negli Stati Uniti, il cui Pil si è contratto del 5% circa, l’indice Standard & Poor 500 riporta un aumento complessivo di oltre il 14% e il Nasdaq di oltre il 40%. Dal 1990 il valore delle azioni nel mercato degli Stati Uniti è aumentato di ben sei volte, mentre il Pil Usa è raddoppiato. Avvertimenti di pericoli su questo fronte vengono anche dal Premio Nobel Robert Shiller.

Interessanti, le proposte dell’economista austriaco, Kurt Bayer, il quale dopo una carriera accademica in Austria è stato consigliere d’amministrazione sia della Banca mondiale (Bm) sia della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers). Le autorità di regolazione, quali la nostra Consob possono impedire operazioni arrischiate che, in una fase come l’attuale, alcuni operatori sono indotti a fare: «Imporre un adeguamento dei libri contabili per le imprese quotate in modo che il valore delle attività rispecchi quello “di sostituzione”, ossia il prezzo di mercato». È una proposta che molte imprese avranno difficoltà ad accettare.

Cosa possono fare i governi, già alle prese con la pandemia e con il conseguente aumento del loro indebitamento? Studiare, e se del caso attuare (auspicabilmente su base Ocse e Ue) suggerimenti innovativi, la cui attuazione non sarà comunque immediata, e soprattutto trasmettere fiducia, tenendo la barra dritta, in una fase così incerta per tutti.

Dopo aver letto le sintetiche ma chiare osservazioni contenute nell’analisi di Draghi e nelle ulteriori considerazioni annesse e connesse, sulle quali non mi sento degno di fare discussioni ed approfondimenti, ma solo umilmente capace di riflettere, viene spontanea una domanda: “Perché la classe politica italiana ed europea tende a snobbare con eccessiva disinvoltura questi contributi scientifici, insistendo a brancolare nel buio dei ristori a pioggia, degli aiuti fuori bilancio, di programmi varati alla “sperindio”, della stucchevole dicotomia tra difesa della salute pubblica e salvaguardia degli interessi economici?”.

È pur vero, come sostiene il caro amico professor Giorgio Pagliari, in merito all’equivoco venutosi a creare tra azione di governo e contributo della scienza in materia sanitaria, che la forzatura di attestarsi a meri esecutori degli indirizzi fissati dal comitato tecnico-scientifico è in netto contrasto anche con la scienza giuridica, che si è posta il problema delle scelte pubbliche, le quali devono fondarsi su dati tecnici, ma non essere la pura eco di tali elementi. “In questa prospettiva, sul presupposto che la decisione è del titolare  del potere scelto dalla legge (e non di altri), la scienza giuridica ha coniato le categorie della discrezionalità mista e di quella tecnica, che inquadrano  due fattispecie caratterizzate dall’elevata tecnicità delle questioni da decidere, che impone che la scelta sia congiunta tenendo conto anche dei profili tecnici, sul presupposto, implicito epperò non meno chiaro, che il titolare della decisione non può mai negarsi la complessità, non può rinunciare alla sintesi, non può appiattirsi sul tecnico, ma deve governare sempre tenendo conto della complessità. Chi governa, in altri termini, non può mai diventare il passacarte di un ramo della scienza; non può ignorare i risultati e i consigli scientifici, ma non può nemmeno appiattirsi acriticamente su questi, non assumendo la responsabilità della risposta politica”.

Ritorno alla domanda di cui sopra. Da una parte, sul fronte sanitario, c’è la innegabile e sbagliata tendenza della politica a farsi mero esecutore degli ordini impartiti dalla folta e peraltro piuttosto contradditoria schiera di scienziati, messa in campo in modo confuso e raffazzonato, a costo di prescindere dal contesto socio-economico in cui si vive e si colloca la pandemia. Dall’altra parte c’è una testarda riottosità rispetto alla scienza economica, vista come una vuota, accademica e burocratica interferenza, nel segno del “lasciateci governare”.

Da una parte c’è la subdola e strisciante concretizzazione del governo dei tecnici sanitari, dall’altra c’è il rifiuto del governo dei tecnici e degli esperti dell’economia e dell’amministrazione: alla salute pensaci tu che al portafoglio ci penso io. Conclusione: una gran confusione di ruoli in cui scienza e pubblici poteri si scavalcano e finiscono col non collaborare.

Nicola Zingaretti, segretario del Partito democratico, dice un netto no ad un governo tecnico, che aprirebbe le porte alla destra, o a elezioni. Non ci sarebbe nulla di buono per l’Italia. E non è un governo tecnico quello attuale che finge di governare, ma in realtà si fa dettare le decisioni dal Comitato tecnico-scientifico e dai consulenti ministeriali? E che fastidio sarebbe per l’Italia avere ministri del calibro di Draghi, Cottarelli, Cartabia etc. etc. Non farebbero certo peggio rispetto agli attuali! Quanto al primato della politica, mi sembra che sia un falso problema, smentito ampiamente nei fatti avvenuti in questi mesi, durante i quali la politica ha salvato solo le apparenze.

Scrive ancora Giorgio Pagliari: “L’alternativa non era – come ha voluto lasciar intendere l’ufficio stampa di Palazzo Chigi – il caos, ma il governo (e non il non governo) della situazione nella sua complessità. Il che avrebbe richiesto meno DPCM, meno conferenze stampa, meno formalismi giuridici, meno banchi a rotelle e più idee, progetti e misure – ad esempio – sui trasporti, sulla regolamentazione dell’accesso agli esercizi commerciali e alle piste di sci”.

Vogliamo continuare con i DPCM, con le conferenze stampa a getto continuo, con le porte girevoli nelle scuole, con i bar e i ristoranti a zi-zag? La politica abbia il coraggio di battere un colpo e, se necessario e solo Dio sa quanto lo sia, abbia il buongusto di farsi aiutare dalle competenze e dalle esperienze scientifiche e professionali senza però il cattivo gusto di nascondersi dietro di esse. Tutto sommato meglio andare a mamma, che continuare a governare a babbo morto.

 

La grandezza delle piccole cose

Ho seguito l’intervista a papa Francesco, andata in onda su canale 5. Fa notizia? Direi di no ed è un bene che sia così, per diversi motivi. Questo papa ci ha giustamente abituati alla continua discesa dal soglio pontificio al punto che le sue solenni incursioni liturgiche rischiano di essere stonate rispetto al suo stile fatto di estrema semplicità ed immediatezza: durante le celebrazioni proposte dal Vaticano si nota una netta frattura fra il cerimoniale, che non rinuncia mai, nemmeno in parte, alle sue regole più formali che simbologiche, e lo sforzo di proporre l’esperienza di fede come qualcosa di accessibile a tutti (il dono raggiunge tutti coloro che, a loro modo, rispondono all’invito di Dio, il quale bussa alla porta delle coscienze).

In secondo luogo papa Francesco parla a cuore e vangelo aperti: è questa la sua cifra caratteristica e questa è la sua capacità di mettersi in sintonia con le persone. Un dialogo aperto e costante pieno di sommessi ma provocatori inviti alla riflessione, frutto del suo carisma della semplicità. Si suole affermare che non esistano risposte facili a domande difficili: ebbene il papa dimostra il contrario e snocciola risposte di una semplicità disarmante di fronte a problemi enormi. Ciò non significa banalità o superficialità, ma al contrario profondità e radicalità di pensiero e soprattutto di azione.

Nel corso della suddetta intervista gli sono stati sottoposti quesiti di enorme portata a cui ha cercato di rispondere con estrema concretezza e grande realismo, quasi si sentisse pregiudizialmente addosso le spontanee obiezioni contro il buonismo e il pietismo di maniera. Ricordo ad esempio che mio padre, con la sua solita e sarcastica verve critica, di fronte agli insistenti messaggi statistici sulla morte di un bambino per fame ad ogni nostro respiro, si chiedeva: «E mi alóra co’ dovrissja fär? Lasär lì ‘d tirär al fiè?». Il papa non ci chiede l’impossibile o comunque ciò che è al di fuori della nostra portata, ci invita, paradossalmente per il periodo che stiamo vivendo, alla “vicinanza”, a ragionare con la mentalità del “noi”, superando quella dell’io, sconfiggendo la tentazione dell’indifferenza, che è ancor più bestiale della violenza.

Non possiamo restare indifferenti e sentirci a posto con la coscienza di fronte al dramma dell’infanzia senza cibo e senza istruzione, davanti alla guerra che domina nel mondo. Non possiamo lasciar morire affogati in mare le persone che tentano disperatamente di fuggire da situazioni umanamente invivibili e insopportabili: bisogna salvarle, poi verrà il discorso di organizzare il loro futuro, capovolgendo lo schema culturale che siamo soliti adottare, vale a dire il principio secondo il quale accogliere solo se ed in quanto ci sia la possibilità di farsene carico in base ai meccanismi economici del nostro benessere.

Sul discorso della vaccinazione papa Francesco non entra in valutazioni di carattere scientifico, ma si limita a definirla una imprescindibile opzione etica, come del resto fa per tutto quanto concerne la difesa della vita e il rifiuto della cultura dello scarto: non si tratta di principi religiosi, ma di dettami provenienti dalla coscienza dell’uomo in quanto tale. Quindi mi permetto di aggiungere (forse opero una forzatura…) che al di là delle norme giuridiche, dei dogmi e delle regole, deve valere il rispetto per la persona umana in tutto e per tutto.   Mi fermo perché non è il caso di avventurarmi in disquisizioni etiche: preferisco rimanere coscienziosamente al sodo.

Tutta la classe dirigente, in qualsiasi campo e settore, ha diritto di avere idee e punti di vista diversi, talora contrapposti, ma più che mai in questo tempo di crisi pandemica deve prevalere l’intento unitario: messaggio chiarissimo per quanti giocano con la democrazia per stabilire da chi e come deve essere spento l’incendio mentre la casa brucia.

A buon intenditor poche parole. Ce n’è per tutti. Il papa parte infatti dall’impegno ad uscire dalle situazioni gravissime in cui siamo imprigionati non illudendosi di ricominciare la solita vita o addirittura cambiandola in peggio, ma sforzandosi di migliorare concretamente e realisticamente. I valori restano sempre tali, occorre saperli tradurre nella storia, è necessario tentare seriamente di “inculturarli”: non ci salviamo da soli e non ci salviamo rimanendo incalliti nei nostri difetti.

L’intervistatore ha ringraziato il papa per la sua disponibilità. Lui con rara spontaneità e sincerità ha contraccambiato: grazie a te che ti sei disturbato per venire fin qui ad ascoltarmi. Può sembrare un fatto di ovvia cortesia. No, c’è di più, c’è la voglia papale di dialogare con tutti e nell’interesse di tutti. Con semplicità, il genio evangelico della semplicità.

 

 

 

 

Il gattone Donald e la cuginetta Ursula

Un mio simpatico cuginetto, era stato dolcemente bloccato sull’uscio del soggiorno da mio padre, il quale più a gesti che a parole gli aveva fatto credere che oltre la porta ci fosse un “gattone cattivo e feroce”. Quando dopo qualche tempo ritornò, si fermò di fronte a quella porta ancora chiusa e si mise a grattarla con le unghie accompagnando quel gesto con un “…tone…tone…”, che stava per gattone (si ricordava perfettamente del pericolo che gli era stato prospettato).

“Quello che è successo ieri a Washington è tanto spaventoso quanto oltraggioso. Tuttavia, il fatto che nella stessa notte Joe Biden sia stato confermato come prossimo presidente americano mostra quanto sia resiliente la democrazia americana. Joe Biden ha ora un compito arduo davanti a sé. Deve portare pace e unità; deve superare profonde divisioni e deve affrontare le grandi questioni del futuro: superare la pandemia, come affrontare la crisi economica globale a seguito di questa pandemia, come proteggere il nostro pianeta dai cambiamenti climatici, come far progredire la digitalizzazione e soprattutto tutto, come rafforzare la democrazia. L’Europa è pronta a lavorare a stretto contatto con il nuovo presidente americano su tutte queste questioni. Dopo questi quattro anni molto aridi che abbiamo vissuto, aspettiamo ora quattro anni fruttuosi di dialogo, cooperazione e buona collaborazione”. Così la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen.

Sono capaci tutti di scandalizzarsi a cose fatte, di brindare al nuovo quando il vecchio sta fortunatamente togliendo il disturbo, di cavalcare la situazione a babbo morto. “Abbiamo vissuto quattro anni molto aridi” afferma con un respiro di sollievo Ursula von der Leyen. Certo, ma lei e tutta la classe dirigente europea dov’erano mentre Trump ne faceva di tutti i colori? Hanno taciuto per il quieto vivere o hanno parlato talmente sotto traccia da non essere sentiti? Si è trattato di realpolitik, di diplomazia o di colpevole omertà? Siamo proprio sicuri che non si potesse fare qualcosa di più per evitare di lasciare il mondo in mano ad un pazzo scatenato? È davvero così debole l’Europa da sopportare i continui sgarbi di un presidente Usa prestato alla Russia? Non abbiamo piuttosto certificato la pigrizia e la inconsistenza di una leadership europea di basso profilo ideale e politico?

Si potrebbe continuare, ma mi interrompo per carità di patria italiana ed europea. C’è voluta la pandemia per risvegliare le coscienze americane e le opinioni nostrane. Basterà lo scampato pericolo per smuovere il pantano internazionale? Non resta che guardare avanti con un filo di speranza in più. Non illudiamoci però che voltare pagina sia così facile: le macerie accumulate in quest’ultimo periodo devono essere sgombrate, i guasti devono essere riparati.

Mentre gli Usa trovano una nuova leadership, che lascia sperare pur con tutte le cautele del caso, mentre gli americani sembrano destarsi bruscamente da un brutto sogno, mentre gli sfigati fanno fatica a rassegnarsi per tornare a ragionare di politica, l’Europa resta sostanzialmente senza guida (Angela Merkel se ne sta andando e la rimpiangeremo…), gli sfigati europei non demordono e, da un certo punto di vista, sono ancora più pericolosi di quelli statunitensi, perché sono politicamente strutturati e fortemente (mal) rappresentati.

Il mondo sembra essere privo di riferimenti positivi e costruttivi: la paura del covid 19 non sarà sufficiente a promuovere virtuose novità. Bisognerà puntare sull’unto di gomito della politica quotidiana. Ci sarebbe necessità di guida, ma le guide non ci sono, accontentiamoci di quel che passa il convento! Il priore pazzo se ne sta andando, sotto a chi tocca! Visto che il gatto sembra schiacciato in mezzo all’uscio, i topi possono cominciare a ballare (non troppo però). Ce ne potrebbero essere altri nelle stanze accanto. Non scherziamo coi “gattoni”, prendiamo lezione da quel mio ingenuo ma acuto (sic!) cuginetto. Buon lavoro Ursula!