…e muori, vicino al Vaticano, al freddo e al gelo

Domenica scorsa, papa Francesco all’Angelus ha ricordato Edwin, un senzatetto nigeriano di 46 anni morto il 20 gennaio di freddo a Roma, vicino a San Pietro. “Preghiamo per Edwin: ci sia di motivo quanto detto da San Gregorio Magno, che, dinanzi alla morte per freddo di un mendicante, affermò che quel giorno non si sarebbero celebrate messe perché era come Venerdì Santo. Pensiamo a Edwin, a cosa sentì quest’uomo, 46 anni, nel freddo, ignorato da tutti…”.

A quel punto non ho resistito alla tentazione e mi sono chiesto: e il Vaticano, e la Chiesa dov’erano? È comodo e facile mettersi a posto la coscienza con una preghierina ad hoc. Stavo continuando la mia silenziosa invettiva e, quasi il papa mi avesse ascoltato, ha aggiunto: “…abbandonato anche da noi. Preghiamo per lui”. Va molto meglio: si chiama onestà intellettuale, prima e più che infallibilità papale. Il coraggio di ammettere le proprie colpe, i propri limiti, i propri errori e le proprie omissioni.

Di Edwin ce ne sono parecchi a Roma, in Italia e nel mondo. A volte mi chiedo come faccia un sindaco a dormire nel suo caldo letto, mentre c’è chi dorme all’addiaccio. Il discorso non vale solo per i sindaci, ma per tutti. Anche per il papa. Traggo dal Fatto Quotidiano un ricordo relativo al sindaco di Firenze Giorgio La Pira.

“Considerato che gravissima è la carenza degli alloggi nel Comune essendo pendenti richieste per alloggio in numero di 1147 da parte di sfrattati e sfrattandi, che attraverso informazioni prese attraverso normali organi di informazione risultano essere assolutamente nell’impossibilità di procurarsi un quartiere o altra sistemazione per non avere i mezzi per pagare un fitto corrente al mercato libero anche di una sola camera” il sindaco ordina “la requisizione immediata dello stabile”. 

La Pira emise l’ordinanza da cui sono tratte queste parole il 21 febbraio del 1953 dietro suggerimento del magistrato cattolico Giampaolo Meucci, il quale gli fornì l’appiglio giuridico scovando una norma del 1865 (la n. 2248) che all’art. 7 dell’allegato E prevedeva la possibilità per l’autorità amministrativa, “per grave necessità pubblica”, di disporre “della proprietà privata”. Nel 2007 l’adunanza plenaria del consiglio di Stato ha precisato che questo potere spetta al prefetto, salvo che si presentino assolute ragioni di necessità e urgenza tali da non consentire l’intervento del prefetto stesso.

La Pira si era trovato a fronteggiare una situazione disastrosa: numerosi sfratti e la povera gente che si rivolge al Comune di Firenze. E La Pira non può rimanere sordo alle grida, alla gente a cui rimane solo il mobilio, agli sfrattati e ai disoccupati. Non può tacere: 500 sfratti nel ’50, quasi 800 l’anno successivo, una previsione di 1000 per il 1952. Scrive nei suoi appunti: “Ho un solo alleato: la giustizia fraterna quale il Vangelo la presenta. Ciò significa: 1) lavoro per chi ne manca 2) casa per chi ne è privo”.

E così agisce: firma l’ordinanza che gli varrà una gragnola di critiche da ogni parte. Ma non arretra. Aveva proposto ai proprietari di immobili in città di affittare i loro quartieri, ma essi erano stati sordi all’appello. Persino Pio XII, nel suo saluto natalizio di qualche mese dopo, e giudicando senza nominare altre iniziative del sindaco, a lui si era rivolto parlando di “banditori carismatici”, e richiamando – ah, la dottrina sociale della Chiesa! – a una politica anticomunista senza cedimenti. La Pira si riconosce, e così risponde: la marea dei licenziati, degli sfrattati, “viene da me e mi chiede lavoro e assistenza! E io che potrei fare? Cosa dire? ‘Congiuntura economica’? Beatissimo Padre, quanta dolorosa menzogna sotto queste parole raffinate!”.

Per la sua politica sociale di aiuto ai disoccupati, di intervento nelle vertenze industriali (la Pignone), per le scelte drastiche per risolvere l’emergenza abitativa il sindaco è stato attaccato dai tutti, dal Corriere della Sera, dal Tempo, da Oggi. E così scrive al pontefice: “Voi sapete, Beatissimo Padre, quali sono i potentissimi organismi economici – finanziari ed industriali – che muovono le leve ‘ideali’ di questa stampa”. Roba da fare un balzo sulla sedia ancora oggi! La bella stagione del cattolicesimo radicale a Firenze, con le sue diverse figure, da La Pira appunto a Ernesto Balducci a Enzo Mazzi, oggi fa impallidire persino quelli che danno a papa Francesco del “comunista”. Se il “papa della fine del mondo” non è tenero e tuona contro le ingiustizie, i suoi detrattori, dandogli del marxista, dimenticano che Marx aveva proposto come abbattere la disuguaglianza: socializzare i mezzi di produzione, abbattere lo Stato, porre fine allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Le parole e le opere di La Pira sono in questo di una dirompenza senza pari.

“Un uomo così fatto, Beatissimo Padre” – scrive ancora al papa – “non può stare nel sistema politico attuale ed è bene che ne esca”. Urgenza dei bisogni e concretezza degli interventi, dice La Pira quando nel 1951 parla al convegno dei giuristi cattolici a proposito di Stato moderno e cristianesimo. Nelle sue parole si legge tutta la tensione di chi viene chiamato, solo, a rispondere: ognuno di noi, dice citando Giovanni Crisostomo, dovrà dar conto di tutto il mondo. Ognuno di noi. Dimensione coscienziale e dimensione politica si fondono. Ciò che la sua coscienza di uomo e di cristiano gli prescrive di fare, è quello a cui egli non può sottrarsi.

Ringrazio papa Francesco per avermi scosso la coscienza e sollecitato certi ricordi. Non imputo alcunché a lui, anzi riscontro ancora una volta che, per merito suo, nella Chiesa tira un vento diverso dal solito. Non ho niente da aggiungere, tutto da imparare e tanto da sentirmi un cristiano di merda.

 

 

 

Con l’ultimo dei giusti alla ricerca dei nuovi giusti

Non sono mai stato, e se possibile oggi lo sono ancor meno, comunista, anche se mi sono sempre impegnato e battuto a tutti i livelli per una politica di sinistra basata sui principi di libertà coniugati con quelli di equità e giustizia sociale. Non ho quindi omogeneità ideologica con Fausto Bertinotti, ma mi ritrovo culturalmente nella sua spietata analisi: non esiste la politica, non esiste classe politica, i cittadini dovrebbero riprendersi spazi di partecipazione democratica per riprendere un cammino di ricostruzione.

I primi giorni dopo lo scoppio della pandemia mi sono trovato a rimpiangere immediatamente i vecchi partiti e i loro esponenti: dentro e dietro i programmi batteva un cuore che dava la forza di proiettarsi oltre gli ostacoli nello scontro duro, ma anche nello sforzo unitario soprattutto nelle contingenze più gravi e difficili.

Parlando con un autorevole amico mi ritrovai a ripensare con estrema e commossa nostalgia ai grandi esponenti democristiani e comunisti che seppero guidare, chi dalla maggioranza di governo, chi dai banchi dell’opposizione, la ricostruzione post-bellica e la lotta al terrorismo.

E allora? Come se ne esce in un periodo ancor più complicato e delicato rispetto a quelli sopra citati? Non incartiamoci col pallottoliere alla ricerca dei numeri e delle combinazioni parlamentari. L’esempio più eclatante e significativo è l’improvvisa uscita dal cilindro contiano di un raggruppamento europeista, liberale, popolare, socialista, che dovrebbe far pendere la bilancia a favore di un governo capace di guidare il Paese. Con questi escamotage, pur legittimi ma sinceramente al limite del farsesco, non si va comunque da nessuna parte, anzi si rischia di gettare ulteriore discredito sulle Istituzioni.

Non esiste in Parlamento la capacità di esprimere un programma di governo adeguato alla situazione e soprattutto una classe dirigente in grado di portarlo avanti seriamente. Bisogna prenderne atto al di là delle alchimie in cui si stanno esercitando un po’ tutti. Le ideologie sono finite, ma non deve finire la cultura politica. I principi sembrano assenti dalla vita istituzionale, ma occorre trovare un minimo comune denominatore: l’unico punto di riferimento rimane la Carta Costituzionale con il suo garante Sergio Mattarella, che oltre tutto proviene, come l’ultimo dei giusti, come cattolico democratico, dall’esperienza post-resistenziale e post-bellica.

Su questo caposaldo irrinunciabile si può costruire una nuova cultura e prassi, basata sulla competenza, sulla responsabilità, sulla capacità di governare e amministrare. Tutti, all’entrata e all’uscita delle consultazioni al Quirinale, dichiarano di voler partire dai contenuti, tra cui spiccano la vocazione europeistica, il piano vaccinale, il rilancio economico e la difesa dell’occupazione. Non basta! Possono essere o rimanere scatole vuote, se non si individua una classe dirigente capace di riempirle.

Se il Parlamento, che è lo specchio dei partiti, non è in grado di esprimere una guida autorevole al riguardo, meglio prenderne atto e non giocare all’improvvisazione. Ecco perché in questa fase non vedo altra possibilità di un governo del Presidente, formato da personaggi di grande levatura, autorevolezza e competenza, capaci di gestire una fase così drammatica.

Con questo non voglio dire che il Parlamento debba andare in vacanza e che i partiti si ritirino in buon ordine, ma che tutti ritornino a fare umilmente il loro mestiere, ricominciando ad elaborare una cultura politica degna di tale nome. Credo che l’improvvisato gruppetto di responsabili da cui dovrebbe dipendere il futuro governativo dell’Italia finirà con l’essere la macabra goccia che farà traboccare il vaso dell’inconcludenza. Forse abbiamo raggiunto il fondo e non vale la pena di raschiare il barile. Meglio un barile nuovo da riempire ex novo. Non certo tramite il demenziale ricorso alle elezioni: non farebbero altro che constatare le manchevolezze di chi si presenta al voto dei cittadini e questi ultimi potrebbero reagire con l’astensione o con la rabbia sociale.

Mi aspetto dal Capo dello Stato non la funzione notarile di mera presa d’atto di una situazione, ma lo scatto coraggioso e la provocazione benefica verso il recupero della politica. Ha la capacità, l’autorevolezza il carisma, la credibilità e la coerenza per farci ricominciare dall’abc. Ci vuole pazienza, dice qualcuno: però non per sopportare il niente che avanza, ma per cercare il nuovo che occorre.

I nani che si atteggiano a giganti

Nei giorni scorsi è girato sui social un video di un sacerdote calabrese in opportuna vena di mixare il sacro col profano. Parlando ai fedeli, durante la messa (o alla fine della stessa), dell’importanza delle parole che usiamo nel nostro linguaggio, ha fatto riferimento ad un episodio gustoso, che però era passato sotto silenzio. Il ministro degli esteri nonché traballante leader (?) del M5S, dopo essersi incontrato con Mario Draghi, ha dichiarato, bontà sua, di avere riportato una buona impressione dall’ex governatore della Bce.

Il parroco ha provato a mettere a confronto i due curriculum di questi personaggi da cui è uscito un vero e proprio paragone impossibile. Con tutto il rispetto per i più umili mestieri non sapevo che l’eclettico Di Maio si fosse dedicato anche alla vendita di birre allo stadio san Paolo. “Ho lavorato qualche estate al San Paolo, ma stavo in giacca e cravatta, accoglievo i cosiddetti vip in tribuna autorità, tra cui il presidente del Napoli e tutti gli altri”, ha spiegato. “Fare il manovale, il cameriere, sono esperienze che ti forgiano. Come si dice dalle mie parti, saper campare te lo insegna il lavoro”, ha aggiunto il capo della Farnesina. Non credo però che fare lo steward allo stadio insegni a fare il ministro del Lavoro o degli Esteri. Ancor più ridicola del curriculum è la pretesa dimaiana di porre sotto esame Draghi. Sarebbe come se io, ha detto il prete, andassi a colloquio con papa Francesco e tornando in parrocchia riferissi di avere avuto una buona impressione. Tutti mi prenderebbero per matto, in preda ad un delirio di onnipotenza.

Tirando le conclusioni il simpatico e intelligente sacerdote ha sottolineato come dando a Di Maio notevoli responsabilità politiche sia stato fatto il suo male oltre che naturalmente il male del Paese. Se fossi giovane, ha aggiunto sconsolatamente, me ne andrei dall’Italia.

Ho raccontato male un video che è invece bellissimo, divertentissimo ed eticamente ineccepibile. La morale della favola è molto chiara e trasparente: i nani vogliono censurare Biancaneve e le ballerine vogliono imporre la loro musica. Nessuno cioè sa stare al proprio posto e tutti puntano ad occupare abusivamente il posto altrui.

Per rendere l’idea vado in prestito da mia madre, che acutamente ed ironicamente osservava, sferzando la rivoluzione avvenuta nei costumi e nei ruoli: «Il dònni i volon fär i òmmi e i òmmi i volon far il dònni: podral andär bén al mónd?».

Adésa il donni i vólon fär anca i prét!”.  Risposta laconica e spassosa: “Za il cézi j én mezi vódi, se j a vólon vudär dal tutt, chi fagon pur!”. Se di rimando incalzavo e rincaravo la dose: “Mo ti t’ andrissot a confesär da ‘na donna?”, Lavinia mi teneva bordone e coglieva al volo le mie battute di “spalla”. Rispondeva: “Ah no po’, mi putost a vagh davanti al Sgnór e ghe dmand pardón. S’ al me vól pardonär bén, senò vrà dir ch’ andrò a l’ inferon…”. Mia sorella controbatteva: “Parchè, co’ gh sariss äd straordinäri, se ‘na donna la fiss al prét?”. Ma mia madre non mollava l’osso: “Bén insomma, mi ‘na donna a fär al prét ne gh la vedd miga, vala bén!”.

Ebbene, se le donne hanno sacrosanti diritti pregressi e repressi da far valere in campo famigliare, sociale ed ecclesiale, i Di Maio dovrebbero avere il buongusto di stare al proprio posto, non dico dietro la lavagna, ma nemmeno in cattedra a giudicare i professori. Mio padre sarebbe oltremodo d’accordo ed aggiungerebbe: “Sì. I pàron coi che all’ostaria con un pcon ad gess in sima la tavla i metton a post tutt; po set ve a vedor a ca’ sova i n’en gnan bon ed far un o con un bicer…”.

Non so come finirà la crisi di governo più pazza del mondo e di tutti i tempi. Di una cosa sono certo: se Renzi vuol fare il premier senza esserlo, se Conte vuol fare il fenomeno senza averne le caratteristiche, se i parlamentari giocano a fare gli strateghi anziché preoccuparsi di varare buone leggi, se i ministri pretendono di gestire una fetta di Paese preoccupandosi solo di accaparrarsi fette di torta, se parecchi senatori puntano a dimostrare senso di responsabilità una tantum, se i politici pensano che la buona politica dipenda dal tenere competizioni elettorali ad ogni stormir di fronda, podral andär bén l’Italia?

Mio padre lasciava volentieri a mia madre il compito di tenere i rapporti con la maestra, poi il maestro, poi i diversi professori della scuola media inferiore e dell’istituto tecnico commerciale. Non se ne disinteressava, ma riteneva che mia madre fosse più adatta a svolgere questo ruolo, per il suo tratto elegante, per il suo carattere molto controllato e per la spiccata virtù di sapere stare al proprio posto. Si era imposto una inderogabile regola: “Mo vót che mi digga quél a un profesór, par poch ch’al nin sapia al nin sarà sempor pu che mi”. Se i politici avessero un po’ dell’umiltà praticata da mio padre e cedessero qualche volta il passo a chi ha esperienza amministrativa, capacità professionale e preparazione tecnica, forse non saremmo sempre in braghe di tela. Il primato della politica non si esercita con velleità tuttologhe.  Ho sempre avuto una certa antipatia per i primi della classe: li sopportavo e li sopporto solo se lo sono veramente e soprattutto se lasciano copiare il compito in classe. Ebbene, Di Maio è il capoclasse tollerato da Beppe Grillo, non è certo il primo della classe a giudicare dalle fandonie che snocciola in continuazione. Bisogna assolutamente che il preside sospenda a tempo indeterminato chi vuole trasformare l’Italia nel paese degli asini.

Il filo d’acciaio di Mattarella

Non ho memoria di una crisi di governo più assurda e incomprensibile di quella apertasi ufficialmente nella mattinata del 26 gennaio 2021 con le dimissioni di Giuseppe Conte rassegnate nelle mani del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Ho la netta sensazione che si stia creando una totale dicotomia fra politica e situazione reale del Paese: l’unico filo ancora presente, che lega le istituzioni ai cittadini, è quello del Capo dello Stato, in cui tutti dichiarano di credere, salvo fare i cavoli propri in modo disgustoso.

Mi auguro che Mattarella riesca a «tagliare il nodo gordiano», vale a dire a risolvere un problema apparentemente insormontabile con un intervento drastico. Una bella sforbiciata alla stucchevole ritualità, un bel ridimensionamento alle velleità personali e partitiche, una bella e forte iniziativa nel rispetto delle istituzioni, ma al di fuori degli schemi in cui siamo imprigionati.

Non sarà una strada facile, però Mattarella deve compiere uno sforzo nel rispetto dei cittadini e dei loro drammi. Non si tratta di violare la Costituzione, ma di applicarla fino e fondo, in tutto e per tutto. Il presidente nomina il capo del governo e su sua indicazione i ministri che poi dopo aver giurato nelle sue mani si presentano alle Camere per ottenere la fiducia. È chiaro che occorre considerare gli equilibri politici e la geografia parlamentare, ma non occorre esserne schiavi.

Personalmente non avrei incontrato i rappresentanti dei partiti per segnare una autonomia di iniziativa presidenziale nell’interesse del Paese. Spero si tratti soltanto di una breve e sbrigativa manfrina da ingoiare a fatica. Le proposte dei partiti, che presumibilmente verranno sciorinate negli incontri ufficiali al Quirinale, sono fuori dalla realtà, rispondono ad una logica che in questa fase storica non può essere accettata. Non si può disquisire su fantomatici nuovi gruppi parlamentari mentre ogni giorno muoiono centinaia di italiani. Non è possibile ipotizzare vecchie e nuove alleanze con il misurino del farmacista mentre il piano vaccini sta andando letteralmente a rotoli. Non si può litigare per poi fuggire nel proprio orto, mentre l’ortolano europeo ci guarda di sottecchi scuotendo malinconicamente il capo. Non si può pensare di dare la parola ai cittadini ammutoliti e spaventati da morte, malattia e disoccupazione.

Il Presidente Mattarella non deve scavalcare i partiti, ma prenderli per mano dopo averli opportunamente bacchettati e strigliati a dovere. Non deve trasformare la repubblica da parlamentare a presidenziale, ma da repubblica dei folli a repubblica degli assennati. Penso, anzi ne sono certo, che i cittadini lo capiranno e lo apprezzeranno ancora di più. Non è il momento di farsi degli scrupoli costituzionali, ma di adottare efficaci sostanziali procedure. Ognuno si prenderà le proprie responsabilità, messe impietosamente a nudo dal Capo dello Stato.

Aspetto con grande ansia e preoccupazione l’evolvere della situazione. Mi auguro almeno di risvegliarmi dall’assenza della vera politica per ritrovare la realtà di un presidente della Repubblica che ci rappresenta, ci tiene uniti, ci difende, ci aiuta, ci orienta per il meglio e ci aiuta a ritrovare il senso della vera politica. Buon lavoro a Lei e che Dio possa assisterLa!

Il nuovo De Coubertin è un…Pirlo

“C’è grande gioia, è qualcosa di diverso alzare il primo trofeo da allenatore, farlo in una società storica è ancora più bello. Nelle finali è difficile giocare bene, l’importante è vincere: se vai in campo con questa determinazione può girarti bene”. Si tratta di un’equivoca dichiarazione di Andrea Pirlo, il nuovo allenatore iuventino, all’indomani della vittoria nella supercoppa contro il Napoli.

Non voglio forzare il discorso, ma “l’importante è vincere” non mi piace, anche se, come si dice sempre, va contestualizzato. Mi pare che anche Arrigo Sacchi abbia criticamente ripreso questo pericoloso e scivoloso assioma durante un suo intervento all’Università di Parma. Tutto, naturalmente, è passato sotto silenzio: chi tocca la Juventus muore e Pirlo, anche se dice cazzate, va bene comunque.

Il fenomeno calcio è sempre più paradossale ed inspiegabile: tutti in difesa con le unghie e coi denti. Molti si saranno chiesti come fanno le società di calcio a quadrare i bilanci dopo la stretta imposta agli stadi. Le grandi società vendono i pacchetti di azioni agli investitori stranieri in vena di avventurismo, rinviando i loro crac ad un futuro piuttosto ravvicinato. Le società qualunque non riesco a capire come potranno sopravvivere.

È pur vero che i ricavi fondamentali non dipendono dai botteghini allo stadio, ma dalle televisioni a pagamento e dalle sponsorizzazioni. Le tv a pagamento stanno però raggiungendo il limite massimo e prima o poi anch’esse soffriranno la minore spinta pubblicitaria del mercato. E allora? Niente paura, lo spettacolo continua e…l’importante è vincere.

Prima o poi la bolla scoppierà, ma forse prima scoppieranno i poveri diavoli che perderanno la vita e quelli che perderanno il lavoro. Mi si dirà che anche il calcio ha il suo indotto da salvaguardare. Se si tratta delle schiere di fannulloni che vivono delle chiacchiere calcistiche, ben venga il loro drastico ridimensionamento. Se si tratta del parterre di trafficoni e trafficanti operanti sul mercato dei calciatori, vadano a lavorare e la smettano di speculare sui piedi d’oro di tizio e caio. Se si tratta dei giocatori superpagati a destra e manca, vadano a dar via i loro piedi. Restano le migliaia di onesti operai del pallone: mi dispiace molto, ma dovranno cominciare a pensare a qualche alternativa professionale.

In questo quadro di squallide preoccupazioni e tristi prospettive spunta, bello come il sole, il trasognato Andrea Pirlo: “l’importante è vincere”. Innanzitutto, prima di imparare ad allenare veda di imparare a parlare. Ormai sono rassegnato a considerare il calcio come uno sfogatoio delle mie crescenti frustrazioni esistenziali: non chiedo di più, ma almeno non mi si prenda per il sedere.

Un mio carissimo collega, all’indomani della strage dell’Heysel, una tragedia avvenuta il 29 maggio 1985, poco prima dell’inizio della finale di Coppa dei Campioni di calcio tra Juventus e Liverpool allo stadio Heysel di Bruxelles, in cui morirono 39 persone, di cui 32 italiane, e ne rimasero ferite oltre 600, promise di non interessarsi più al calcio e di non parlarne mai più. Tenne la promessa. Oggi si sentirà sollevato.

Voglio tentare di essere obiettivo ed equidistante. Se non sopporto le fantasie di Pirlo, non gradisco nemmeno la cattiveria di Conte (mi riferisco all’allenatore dell’Inter). Ma tant’è, l’importante è anche essere cattivi per vincere. Lo dicono quasi tutti. Sono modi di dire che vanno contestualizzati: sono stanco e non contestualizzo un bel niente e chiamo col loro nome le cazzate sparate in tribuna. Non voglio essere fra quelli che tifano…perché nel calcio l’importante è vincere.

Domandine “diccifilottine”

In una trasmissione radiofonica di tanto tempo fa (ero un curioso bambino alle prese con i primi vagiti mediatici), il conduttore usava una simpatica espressione maccheronica: “una dimandina diccifilottina”. Col poco cervello che mi è rimasto, nonostante la sbornia mediatica a cui sono stato sottoposto nel tempo, mi sono fatto in questi giorni alcune “dimandine diccifilottine”.

  1. Davanti alla triste querelle della produzione e distribuzione dei vaccini anti Covid, mi sono ricordato di Neil Armstrong. Nel compiere il primo passo sulla superficie lunare, 21 luglio 1969, disse le ormai famose parole: «Questo è un piccolo passo per [un] uomo, un gigantesco balzo per l’umanità». Siamo proprio sicuri che sia stato un grande salto per l’umanità. Forse solo un salto nel buio del progresso, che, a distanza di oltre cinquant’anni, non riesce a garantirci una semplice punturina sul braccio per difenderci dal disastro. Probabilmente arriveremo prima su Marte. Qualcosa evidentemente non ha funzionato. O lo sbarco sulla luna era il finale a sorpresa di un enorme gioco a perdere tra le potenze (?) del mondo oppure siamo rimasti sulla luna, dove non ci sono problemi, e abbiamo trascurato la terra, dove i problemi non mancano. Ammesso e non concesso che il vaccino sia efficace e possa liberarci dalla schiavitù del Covid, dovremmo essere almeno capaci di garantirlo nel più breve tempo possibile a tutti. Siamo molto lontani: chi lo ha scoperto non è sicuro del fatto suo; chi lo sta producendo pensa ai fatti suoi; chi lo dovrebbe distribuire sta facendo un gran casino nei fatti altrui; chi lo dovrebbe utilizzare comincia ad avere seri dubbi. Mi hanno risposto: è il progresso, stupido! D’altra parte pochi giorni or sono a un importante virologo è stato chiesto come mai il numero dei morti per Covid aumenti nonostante gli sforzi messi in campo. Lui ha risposto con un sorrisetto ironico fuori luogo e con un cinismo a dir poco esagerato: “È il virus, stupido!”.

 

  1. L’emergenza totale che stiamo vivendo viene affrontata sul piano politico con una paradossale e compassata ritualità. Tutti capiscono che a situazioni estremamente difficili e complesse bisognerebbe rispondere con largo e responsabile piglio fattivo e costruttivo. Come mai, di fronte ad un si salvi chi può, la politica non riesce a mobilitarsi e anziché tuffarsi in mare per salvare il salvabile, sta a disquisire sulle scialuppe di salvataggio da utilizzare? Il premier è o non è adeguato alla bisogna? Il governo giallo-rosso è o non è in grado di varare e gestire un piano sanitario di vaccinazione prima e di rilancio socio-economico poi? Perché la maggioranza parlamentare si “sbraga” e l’opposizione urla e non muove un dito per offrire qualche spunto collaborativo? Si va alla disperata ricerca di un gruppo di responsabili che salvi la situazione di crisi governativa: ma non dovrebbero essere tutti responsabili? Possibile che non esista la possibilità di trovare una soluzione tale da guidare seriamente il Paese in questa tremenda fase? Perché si parla tanto e da tanto tempo di unità nazionale e di un governo che la cavalchi, ma poi il discorso si blocca su assurde pregiudiziali? Perché si ipotizza l’utilizzo dei tecnici e dei capaci per poi nasconderli negli spogliatoi o lasciarli in panchina? È la politica, stupido! Già, è la politica. Ma quale politica? D’altra parte i leader (ma quali leader?) del cosiddetto centro-destra sono andati solennemente dal capo dello Stato con in mano l’uovo di Colombo delle elezioni politiche: in mezzo alla tempesta si suggerisce al comandante della nave di usare gli ombrelli in attesa che la tempesta si plachi. È l’idiozia fatta sistema!

Tik tok…chi muore?

Riporto di seguito un articolo apparso sul sito Team. Il meteo.it. La notizia è sconvolgente e ci deve interrogare profondamente. So già che, passato lo choc del momento, in cui tutti si sbizzarriranno a sputare analisi e sentenze, ritorneremo alla quotidiana routine informatica senza lode e con molta infamia.

“A Palermo sembra che una bimba di soli 10 anni sia morta a causa di una sfida estrema su Tik Tok, il noto social network, ambito dai giovanissimi. L’assurda prova prevedeva di stringere intorno al collo una cintura, in bagno, davanti ad uno specchio, fintantoché si poteva resistere, ma con queste premesse il rischio di soffocamento era estremamente alto. E così, la ragazzina ha preso la cinta di un accappatoio, ma la situazione è sfuggita di mano e ora, purtroppo, è stata dichiarata la morte cerebrale. Come spiega il quotidiano La Repubblica, nella edizione on-line di Palermo, la Procura dei Minori ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio contro ignoti, al fine di poter procedere con le indagini. Il cuore della piccola si è fermato per un’asfissia prolungata, dovuta alla mancanza di ossigeno al cervello, durata probabilmente diversi minuti: il superamento del livello chiamato “Hanging Challenge” prevedeva di resistere il più possibile con una corda (o qualcosa di simile) stretta al collo e di effettuare foto o video per dimostrare l’avvenuto fatto.

Al di là di quanto possa essere assurdo concepire ciò, vogliamo sottolineare un aspetto importante: il mondo di internet, che ha certamente innumerevoli pregi (tra cui le informazioni in tempo reale, il telelavoro, le chat, comunicare istantaneamente con persone lontane, ecc.) ha purtroppo anche diversi limiti e, soprattutto, può risultare davvero pericoloso soprattutto per i bambini in quanto essi non hanno ancora la piena consapevolezza dei rischi o del punto fino al quale ci si può spingere senza rischiare conseguenze personali o per gli altri.

Non è raro che i genitori abbiano timore (giustamente) di lasciare andare in giro da soli i propri figli, oppure siano molto attenti a loro rendimento scolastico, ma non ci si rende conto che il pericolo, troppo spesso è dentro le nostre case. Ecco perché l’utilizzo degli smartphone da parte dei bimbi è sempre oggetto di discussione nel mondo degli adulti, proprio perché sussistono una serie di rischi che possono condurre a episodi tragici come quello citato in questo articolo”.

Questo tragico fatto mi induce ad osservare come ormai, in qualsiasi situazione ci si trovi, il protagonista principale non sia la persona ma lo smartphone. In questi giorni tutti avranno visto in Parlamento il dibattito racchiuso tra gli applausi d’obbligo della più o meno ristretta cerchia dei colleghi di partito, le reazioni scomposte e polemiche a prescindere dai contenuti e soprattutto la marea di indifferenza occupata da una inspiegabile, continua ed assurda osservazione dello smartphone: in buona sostanza i parlamentari non si ascoltavano, non si guardavano in faccia, non comunicavano fra di loro, non per colpa delle mascherine e del distanziamento (peraltro più teorico che pratico), ma in quanto affaccendati a sbirciare e a ticchettare sul proprio telefonino alla ricerca di chissà quale notizia o messaggio.

Ormai è così in tutte le occasioni di incontro, in tutte le riunioni, in tutti i dibattiti. Non diamo la colpa dell’incomunicabilità alla pandemia, il problema preesisteva e semmai le nuove regole di comportamento lo hanno accentuato ed evidenziato ancor più. Lo smartphone è diventato il protagonista assoluto della nostra vita: tutto parte di lì e finisce lì. Questa mania collettiva colpisce indubbiamente in modo letale i soggetti psicologicamente più deboli, i bambini, che dimostrano un’abilità pazzesca nell’uso di questo strumento e si lasciano coinvolgere dagli aspetti diabolicamente ludici di questa assurda macchinetta.

Di chi è la colpa di questa sbornia collettiva? Di tutti! Non si salva nessuno da questa deriva. Se qualcuno, per positiva pigrizia, per coraggiosa scelta o per umana allergia, si azzarda a restarne fuori, rischia l’emarginazione totale. Si tratta di una deriva progressiva, coinvolgente, trascinante ed alienante. Come tutti i processi sociali negativi, la “smartphonemania” miete le sue vittime sull’altare del fasullo altare della modernità.  O siamo in grado di riportare la persona umana al centro dell’attenzione o rischiamo grosso.

Tornando al discorso delle aule parlamentari e ragionando per paradosso, mi sembra assai più negativa e censurabile la distrazione di massa che non la rissa verbale e totale. Nella prima ci si ignora reciprocamente, nella seconda ci si aggredisce: meglio la spietata guerra delle idee dichiarata apertamente rispetto alla subdola pace dei sepolcri dell’indifferenza.

 

Una bauscia di gran classe

«Io ho già parlato con il commissario Arcuri e gli ho proposto quattro criteri: le zone più colpite, la densità abitativa, il tema della mobilità e il contributo che le regioni danno al Pil. Secondo me questi criteri dovrebbero essere tenuti in considerazione non tanto per modificare la distribuzione dei vaccini perché questo non sarà possibile, ma se non altro per accelerare nei confronti di quelle regioni che corrispondono a questi criteri». A parlare è la neo vicepresidente e assessora al Welfare Letizia Moratti nella riunione coi capigruppo del Consiglio Regionale a cui ha spiegato i nuovi criteri che vorrebbe proporre al commissario per l’emergenza Domenico Arcuri il quale, ha spiegato Moratti, «si è dichiarato d’accordo con alcuni di questi criteri, gli sto preparando una lettera ma ovviamente questo sarà confronto nella conferenza Stato-Regioni». Un audio che smentirebbe Moratti su quanto dichiarato oggi in Consiglio Regionale: «Non ho mai pensato di declinare vaccini e reddito».

Non un gran debutto per Letizia Moratti. Non voglio infierire riportando il discorso a livello ideologico, preferisco considerare l’entrata estemporanea del nuovo assessore lombardo come una gaffe o meglio un lapsus freudiano di una bauscia di lusso. La mentalità affaristica dei milanesi è pesante e insopportabile. Non c’è molta differenza tra le consolidate cazzate di Giulio Gallera e quelle appena iniziate di Letizia Moratti. Mio padre, nella sua ironica e innocua verve maschilista, sosteneva che il Padre Eterno, anziché le anatre, avrebbe fatto meglio a fare mute le donne. Io allargo il discorso ai politici a tutti i livelli. Poi ragionava e aggiungeva: chi parla poco ha meno probabilità di dire sciocchezze. Come dargli torto…

Certo che il solo pensare di correlare la vaccinazione al Pil è veramente pura follia più che fredda economia. Si badi bene che Letizia Moratti, al di là della sua collocazione politica, non è una sprovveduta e mi è sempre sembrata una persona seria. Avrà modo e tempo per riscattarsi anche se il debutto non è stato dei migliori. Spero non si tratti del biglietto d’ingresso pagato al botteghino dei lumbard di stampo vetero-leghista. Sono sempre portato a concedere a tutti la buona fede almeno fino a prova contraria. Forse la Moratti voleva dire che in una zona molto produttiva esistono più possibilità di contagio e quindi più necessità di vaccino: mettiamola così e finiamola lì, perché più la si gira e più rischia di puzzare. Anche la smentita sembra piuttosto debole e imbarazzata.

Signora Moratti, facciamo finta che non sia successo niente, azzeriamo la situazione, veda di mettersi a lavorare silenziosamente (il più bel lavurà non fu mai detto), archiviamo la cazzata (una più una meno…), non abbia la smania di recuperare il primato della classe (la pandemia ci ha messo tutti alla pari…), non cerchi di strafare (basta e avanza affrontare i problemi esistenti…), metta a frutto l’esperienza amministrativa accumulata nel tempo trascorso (ce n’è un bisogno estremo…), non si lasci incantare dai commissari (spesso sono dei fanfaroni…), ricopra con umiltà e spirito di servizio il ruolo importantissimo che le è stato affidato (senza l’ansia di squalificare il predecessore…). Auguri e buon lavoro! Ho notato il suo nuovo look tutto da ammirare per la classe che caratterizza la sua persona (a me piacciono le donne, anche in politica…). Speriamo sia un antidoto contro il lockdown. Sforziamoci di sorridere nonostante tutto!

 

L’albero del trumpismo e i meloni nostrani

Riprendo testualmente dal quotidiano Avvenire e riporto di seguito quanto scrive Antonella Mariani in un pezzo da incorniciare.

Come si dice a una persona di 52 anni che oggi, tra poche ore, morirà? A Lisa Montgomery il 13 gennaio è arrivata una lettera di poche righe, in cui le si notificava che per lei era pronta l’iniezione letale. E possiamo solo immaginarla, l’altalena di sentimenti che avrà provato: ma come, solo poche ore prima un giudice aveva sospeso l’esecuzione della sua condanna a morte per consentire una perizia psichiatrica e ora, invece, questa lettera? La Corte Suprema americana, come è noto, aveva confermato a tempo di record che sì, Lisa doveva morire, e la brutale pena essere eseguita seduta stante. E lei diventare la prima donna condannata a morte per una esecuzione federale dopo 70 anni.

Ma, seppur nell’inevitabile formalismo, colpisce quel “cara” all’inizio della lettera. Davvero Ms. Montgomery è “cara” al signor T.J. Watson del carcere federale di Terre Haute, nell’Indiana? E, in fondo, anche quel “Sincerely” stona parecchio. Una formula di rito, certo, che in inglese magari suona diversa che in italiano (forse “gentile” e non “cara”, forse “cordialmente” e non “sinceramente”) ma cosa c’è di “sincero” nel mettere a morte una persona, nel punire una donna senz’altro colpevole di un brutale omicidio nel 2004, uccidendola a sua volta?

Cara Ms. Montgomery – recita la missiva – l’intento di questa lettera è informarla che è stata fissata la data per l’esecuzione della sua condanna a morte (…). Questa lettera costituirà notifica ufficiale (…) Il 13 gennaio 2021 è la data per la sua esecuzione tramite iniezione letale“. Freddo, asettico, se non fosse per quelle due parole all’inizio e alla fine: incongrue, perfino agghiaccianti visto il contesto. E se non fosse che non si riferisce all’arrivo di un pacco di Amazon o alla notifica di una promozione al lavoro. In ogni caso, addio “cara” Lisa Montgomery. “Sinceramente”, fino all’ultimo avevamo sperato che non accadesse.

Spero abbia ragione Massimo D’Alema quando afferma che negli Stati Uniti la pandemia ha significato una riscossa valoriale a livello culturale, un rigurgito di vitalità democratica, sfociati nel risultato elettorale che ha bocciato Trump riportando il mondo intero sul difficile ma giusto cammino della democrazia.

Ho seri dubbi vista la resistenza che il populismo oppone ad un ritorno alla normalità: la tragica pagliacciata di Washington lo dimostra e la lezione dovrebbe valere per tutti, Italia più che mai compresa. La Corte Suprema americana mi preoccupa. Se la giustizia americana mantiene la pena di morte e addirittura ne fa un beffardo uso burocratico, c’è da tremare. Purtroppo l’aria che tira è questa ed è un venticello subdolo che parte adagio e in lontananza, ma poi diventa un vento impetuoso e inarrestabile. Lo sappiano quanti giocano al trumpismo, quanti pensano che sia un pericolo lontano e facilmente scampabile ed anche e soprattutto coloro che ammirano Trump perché dopo aver tirato il sasso è capace di nascondere la mano.

Peraltro leggo che Donald Trump userà il potere di grazia fino all’ultimo (ne hanno abusato peraltro anche i suoi predecessori), a favore di parecchi colletti bianchi e di personaggi suoi chiacchierati alleati; e lo ha già usato in precedenza a favore del suo entourage, parenti inclusi. Per un po’ ha pure considerato di perdonare il più vicino a lui di tutti, e cioè se stesso.

Un buontempone, una di quelle persone che non si riesce mai a capire fino in fondo se “ci arrivano o ci marciano”, era uno specialista nel collocare le trappole per catturare i topi (almeno così diceva lui). Era però talmente di buon cuore che, dopo averli catturati non trovava il coraggio di ucciderli. Allora cosa faceva? Inforcava la bicicletta e li portava in aperta campagna, poi li liberava in qualche prato. Una volta ritornato frettolosamente a casa, si trovò di fronte ancora a due bei ratti in piena forma. Li guardò con stupore e disse tra sé, ma anche rivolto a loro: «Dio av maledissa, siv béle chi, iv fat pu a la zvèlta che mi a tornär indrè?».

Sempre in tema di topi, ad un conoscente di mio padre avevano appioppato il soprannome di “sorghén”. Forse perché piccolo e paffutello, forse perché aveva la bocca sempre in movimento per mangiare, forse perché abitava in una topaia. Fatto sta che una volta si trovò in compagnia di amici ad incontrare occasionalmente una bella “pónga”, che girò loro in mezzo ai piedi. Uno di essi, rivolto a sorghén, disse: «At miga visst? É pasè tò mädra…». Maleducati, ma simpatici.

Ai tempi della contestazione giovanile si gridava: “Fascisti carogne, tornate nelle fogne”. Forse è tempo di aggiornare lo slogan: “Populisti pongoni, andate a mangiare meloni”.

 

 

 

Le trombe contiane e le campane renziane

C’è differenza fra la maniacale “conferenzite” di Giuseppe Conte e la spasmodica ansia protagonistica di Matteo Renzi? Forse sono le facce della stessa medaglia mediatica che turba la vita politica italiana. Se Conte infatti esagera con le passerelle post DPCM, Renzi perde letteralmente la testa pur di tornare e stare alla ribalta. Se Conte è un “ribaltonista”, Renzi è un “ribaltista”. Se Conte è un opportunista, Renzi è uno “staiserenista”.

Sono i risultati dell’esame della situazione politica fatta al microscopio, dopo aver tentato nei giorni scorsi quella con il cannocchiale. Matteo Renzi ha fatto una impietosa analisi comportamentale di Giuseppe Conte. E fin qui niente di male, anche se un po’ più di magnanimità non avrebbe certo guastato. Tutto normale fin quando l’implacabilità dell’esame non scade nella slealtà e nella faziosità. In quel caso tutto rischia di prendere una brutta piega.

Ho ascoltato in diretta l’intervento di Renzi al Senato durante il dibattito parlamentare sulla fiducia al governo Conte: ha giudicato il premier osservandolo di sopra, di sotto, da una parte e dall’altra. È partito dalle quattro crisi che sta vivendo il Paese: quella pandemica (il numero dei morti), quella economica (il calo del pil), quella sanitaria (un sistema carente), quella dell’istruzione (una scuola a rotoli più che a rotelle).

Non ci voleva la smisurata verve polemica di Renzi per cogliere questi punti deboli e quindi non si può non essere d’accordo. Di qui a colpevolizzare a trecentosessanta gradi il governo Conte ci passa una bella differenza: la gente non muore di Covid per colpa del governo o quanto meno non solo e non tanto per colpa del governo; che poi l’Italia abbia il triste primato per le vittime da coronavirus sarebbe tutto da dimostrare. Si tratta di una semplificazione strumentale inaccettabile. Se il pil cala con tutte le conseguenze del caso, non è responsabilità primaria e assoluta di questo governo; che poi il nostro Paese sia quello messo peggio non è detto e soprattutto bisognerebbe considerare com’era messo prima della pandemia. Che la sanità sia messa male è cosa nota, ma le ragioni risalgono alla notte dei tempi di una politica dissennata di tagli, di inefficienze, di opzioni a favore del privato, di interventi inadeguati e contraddittori delle regioni (in)competenti per materia. Che la scuola soffra è altrettanto indiscutibile, ma anche per questo settore le colpe vanno ricercate e riscontrate molto più indietro rispetto alle pur insulse misure sulla “rotellizzazione” dei banchi. Renzi ha, più o meno, tenuto fede e interpretato con abilità oratoria il famoso detto “piove, governo ladro”.

Veniamo al punto di osservazione politico. Renzi ha ripreso più con masochismo che con sadismo i difetti e le incoerenze di Giuseppe Conte e del partito da cui proviene (il M5S): da filo-leghista ad anti-sovranista; da euroscettico a “euroconvintissimo”; da avvocato del popolo a difensore dei deboli; da amicone di Trump ad ammiratore di Biden; da arrendevole salvinista ad implacabile censore dell’ex alleato. Un uomo cioè buono per tutte le stagioni, un perfetto camaleonte. Senonchè questo ritratto era già perfettamente chiaro e limpido nell’estate del 2019, quando Matteo Renzi fu l’ideatore spregiudicato dell’accordo giallo-rosso. Conte era Conte anche due anni or sono e allora i casi sono due: o ci fu qualche distrazione di troppo all’inizio o c’è qualche attenzione di troppo oggi. Se Conte è un voltagabbana, lo era ex tunc e non lo è ex nunc.

Passiamo al piano programmatico: si imputa a Conte di non aver tenuto fede al libro dei sogni. Sì, perché tutto si sarebbe dovuto fare da parte del governo attuale e niente è stato fatto. Non si può sottoporre ad esame il governo Conte su tutto lo scibile ed il fattibile umano. Non si salverebbe nessuno da un simile approccio esaminatore. Cerchiamo di essere seri e ragioniamo!

Termino la rivisitazione dell’excursus renziano col discorso del metodo: Conte sarebbe stato sordo alle reiterate richieste di Italia viva, se ne sarebbe altamente fregato, proseguendo imperterrito nel suo piccolo cabotaggio. Può darsi, ma il governo era ed è un governo di coalizione, vocato per natura alla ricerca del compromesso, esposto per forza di cose alle diatribe interne, costretto alla ricerca di difficili sintesi sui diversi problemi, rassegnato ad una certa qual conflittualità interna che dovrebbe rimanere nel solco di un dialogo serrato senza svicolare nello scontro ricattatorio. Renzi ha fatto tutto il necessario per condizionare positivamente il governo oppure ha aspettato il cadavere mettendosi sulla sponda del fiume?  Se i politici imparassero a dialogare ci risparmierebbero certe menate assurde. Aldo Moro aveva nel dialogo un suo punto irrinunciabile: dialogava da democristiano col partito comunista, dialogava da professore con gli studenti, dialogava da prigioniero con i suoi carcerieri. Ha pagato a carissimo prezzo questa sua opzione, che rimane valida a tutti i livelli ed in tutti i sensi.

In conclusione mi sento di affermare: Renzi ha ragione, ma ha torto. Succede a chi mette in campo in modo sbagliato le proprie ragioni. Gran parte delle critiche rivolte a Conte sono condivisibili: non sono mai stato e non sono un contiano di ferro. Riconosco a Matteo Renzi molte qualità, ma temo che i difetti, strada facendo, gli stiano irrimediabilmente prendendo la mano. Temo che sottoponendo Giuseppe Conte a questo esagerato e sconclusionato processo critico, si finirà col rafforzarlo in tutto e per tutto, mentre invece sarebbe necessario cantargliele in musica, ma senza stonare come le campane renziane stanno facendo.