Le buone ricette di una volta

Lo studio choc: il Covid può far perdere l’olfatto per sempre. Una equipe medica italiana scopre la relazione tra la Sars Cov-2 e uno dei sintomi più comuni della malattia. «E’ a rischio l’epitelio olfattivo». Il report è il secondo al mondo: è stato pubblicato su tre riviste scientifiche internazionali. Che la perdita dell’olfatto sia uno dei sintomi più comuni riscontrato da chi contrae il Covid è ormai noto, ma che ora il rischio sia quello di smarrire in modo permanente la capacità di distinguere odori e profumi è una notizia tanto nuova quanto sconvolgente. Ci sarebbe al riguardo una ricerca, con tanto di numeri e dati.

Giusto per sdrammatizzare la impietosa notizia, potremmo azzardare l’ipotesi che la tragedia possa trasformarsi in commedia sul palcoscenico della politica, laddove “l’odore” dei partiti non si sente più e infatti si rischia di confonderli l’uno con l’altro: una sorta di qualunquismo indotto e calato dall’alto. Faccio di seguito alcuni esempi.

Nicola Zingaretti fa una sviolinata a Barbara D’Urso: cosa non si fa per una bella donna. Visto che delle donne il Pd se ne era dimenticato all’atto della segnalazione dei ministri per il governo Draghi, in fretta e furia il segretario del partito ha fatto ammenda omaggiando un simbolo del femminismo mediatico. Come quelli che entrando in chiesa non guardano all’altare maggiore con tutto quel che segue, ma cincischiano con la prima bella statua che viene loro a tiro.

Matteo Salvini incensa l’Europa: cosa non si fa per un piattino di ministeri e un piattone di sottosegretari. Visto che dei problemi veri della gente leghista se ne era dimenticato per rincorrere i sovranisti sparsi nel mondo, in fretta e furia il leader leghista ha fatto finta di convertirsi all’europeismo, mentre in realtà si è accorto di un importante treno che stava passando e che poteva anche lasciarlo a piedi.

Beppe Grillo passa con una certa disinvoltura dalle piazze del vaffa ai corridoi dei palazzi istituzionali, dalle grida delle invettive contro i poteri forti ai sussurri ammiccanti dei pittoreschi summit: cosa non si fa per quadrare il cerchio di un movimento, che, a furia di muoversi, ha perso letteralmente la bussola.

Silvio Berlusconi è diventato più mattarelliano di Mattarella: cosa non si fa per difendere le proprie aziende e per rimettersi in gioco. Forse, come è suo solito, il cavaliere sta esagerando ed ha scambiato la cortesia di Draghi (grazie di essere venuto…) con la sua surrettizia domanda di assunzione a Mediaset (un sottosegretario all’editoria per nutrirne la quota di mercato) e con un colpo di spugna sulle malefatte erotico-affaristiche del berlusconismo (un sottosegretario alla giustizia per dimenticare).

Matteo Renzi è diventato più filo-occidentale di Biden: cosa non si fa per mettersi in mostra, arrivando a confondere la opportunistica riverenza ad un principe saudita con l’omaggio paradossale al probabile complice dell’uccisione di un giornalista americano. Della serie “l’esagerazione è il mio mestiere” e “l’importante è che si parli di me”.

Alla fine della fiera, se uno entra nella cucina politica italiana odierna, viene aggredito da un vomitevole mix di odori in cui non ci si raccapezza più. Passa di brutto l’appetito e si corre il rischio dell’anoressia. Tutto sommato meglio non avere l’olfatto. Non ho capito se la perdita definitiva riguarderebbe anche il gusto. Speriamo di no, perché vorrei provare comunque a ricuperare il sapore della politica tramite le ricette della nonna “prima repubblica”.

 

 

Fusione fredda e aggregazioni gelide

“Nel regno dei ciechi anche un orbo è re”. Devono aver pensato così i dirigenti del Partito democratico, che ha proposto la nascita dell’intergruppo con Movimento 5 stelle e Liberi e uguali al Senato. L’iniziativa, lanciata dal capogruppo dem Andrea Marcucci per fare blocco comune “sulle grandi sfide del Paese”, dovrebbe essere l’occasione per rilanciare l’alleanza giallorossa con la benedizione dell’ex premier Giuseppe Conte.

Il M5S è dilaniato da contrasti interni: siamo alle carte bollate. In parecchi non hanno digerito il governo Draghi nonostante la maggioranza degli iscritti si sia pronunciata favorevolmente su un quesito peraltro proposto in modo equivoco. Chi ha votato contro la fiducia è stato espulso, chi ha votato a favore lo ha fatto con toni di sfida del tipo: vedremo se Draghi farà meglio di Conte, a cui va tutta la nostra stima e riconoscenza. I grillini sono nel pallone e quando mai non lo sono stati?

Le contraddizioni sono tuttavia esplose. Ho ascoltato, durante il dibattito in Parlamento sulla fiducia al governo Draghi, interventi al limite del delirio: penose ragazzotte, capitate per caso sugli scranni di Palazzo Madama e Montecitorio, che si permettevano il lusso di infangare il passato del premier Draghi, rifugiandosi nell’incensamento al premier Conte; presuntuosi ragazzotti, incapaci persino di fare una o con un bicchiere, che discettavano drasticamente sulle linee proposte dal nuovo presidente, limitandosi a fare il panegirico di quelle sconclusionate del movimento; deputati e senatori capaci solo di autocelebrarsi in un ridicolo atteggiamento integralista, borioso e fanatico. Non hanno più né capo (Beppe Grillo) né coda (Giuseppe Conte): hanno una piattaforma (quella Rousseau ideata da Casaleggio) da cui tuffarsi disperatamente nella melma dell’antipolitica di ritorno.

Il M5S era Grillo, finita, come sembra, l’era Grillo, il M5S non esiste più. Ci vuole solo la miopia del Pd a puntare su un simile cavallo bolso: proseguire un patto politico con un alleato inesistente, pieno di pretese e in caduta libera di consensi. L’estemporanea idea è stata, fortunatamente per il Pd, messa brutalmente in discussione all’interno del partito e probabilmente non se ne farà nulla.

Resta però una retorica curiosità: da chi è governato questo partito? Da una manica di incapaci o da un gruppo che si autolegittima alla “c…. di cane”? Uso parole forti e offensive per esprimere tutto lo sconcerto verso una forza politica, che non riesce a trovare una linea seria e credibile al di là del vivacchiare di rendita sul passato per sbarcare il lunario nel presente e giocare a mosca cieca col futuro. Scrivo queste cose con la morte nel cuore. La mia storia personale è intrecciata all’idea profetica di questo partito e vederlo finire in vacca mi mette in crisi.

Dell’anima storica comunista è rimasta solo la sua burocratica concezione egemonica, dello spirito cattolico-democratico è rimasto solo il rimpianto per una testimonianza storica fondamentale. Si è parlato a lungo di fusione fredda: siamo in presenza di una aggregazione gelida. Per dirla con Andrea Chenier, sol l’occhio di Graziano Del Rio esprime umanamente un guardo di pietà, ond’io guardato ho a lui si come a una persona seria e dissi: ecco la bellezza della politica! Ma, poi, davanti all’intergruppo, quale ultima sortita di mera sopravvivenza, un novello dolor m’ha colto in pieno petto.

Gli strapuntini della riscossa

Il numero non è dei più alti nella storia, la qualità è tutta da scoprire, il metodo della nomina è consistito nel bilancino partitico: mi riferisco alla sfornata o infornata (a seconda dei punti di vista) di sottosegretari del governo Draghi. Il premier lo metteva in conto, se l’aspettava e ha fatto buon viso a cattiva sorte: è successo coi partiti quanto capita nei confronti dei bambini insistenti e capricciosi che, anche nelle situazioni più inadatte, vogliono giocare e allora il buon papà finisce col cedere e lascia i figlioletti liberi di giocare nella loro stanza, pregandoli di non fare troppo baccano e soprattutto di non creare danni.

I partiti erano usciti piuttosto malconci dal varo della compagine ministeriale e, anziché capire la lezione e cogliere l’occasione per rivedere seriamente il loro ruolo assai compromesso, hanno colto la prima occasione per riprendersi spazio e peso. Forse si illudono, ma comunque ci stanno provando: con un po’ di sottogoverno si può rimediare e ritornare in sella.

Di fronte al Paese non hanno fatto una gran figura, quella degli arraffa-seggiole (nel caso direi seggiolini). È un’accusa che i partiti si lanciano reciprocamente, ora invece si trovano tutti d’amore e d’accordo nel cercare almeno qualche strapuntino. A proposito, c’era una mia parente alla lontana, più avara che povera, la quale, quando partecipava a una gita organizzata dalla parrocchia, prenotava e pagava uno strapuntino per il viaggio sul pullman, salvo arrivare per tempo e occupare un bel posto, magari nelle prime file e vicino al finestrino. Non c’era verso di farla alzare e di retrocederla: tutti si lamentavano, ma alla fine scuotevano il capo, lasciavano perdere e compativano questo piccolo sopruso, complice l’età avanzata e la condizione sociale dell’interessata.

Si sono quindi seduti tutti, il pullman è al gran completo e può partire col suo abbondante carico, paritetico a livello di genere, di sottosegretari e vice-ministri. E chi li schioderà mai dal…lasciamo perdere.  L’importante è che durante il viaggio i componenti politici del governo non comincino a litigare, a dare fastidio al conducente, a pretendere soste non concordate, a voler mutare il percorso, a intonare inni e canti fuori copione.

Ho provato a scorrere l’elenco e non ho trovato personaggi di primo piano, potrebbe essere un bene, ma potrebbe essere anche un segnale inquietante. Il bene verrebbe eventualmente dagli onesti artigiani della politica messi lì per lavorare a testa bassa, il male invece consisterebbe nella collocazione di personaggi di serie inferiore con la mission di guastatori o amici del giaguaro. Chi vivrà vedrà.

Il timore è che tutto rientri in un gol segnato in zona cesarini per riaprire la partita in vista del match di ritorno previsto per il dopo-Draghi. Probabilmente però i partiti non si rendono conto o fanno finta di non rendersi conto che non si gioca per vincere le elezioni, ma per salvare il Paese, anche se tutti dichiarano insistentemente di voler prescindere da interessi di parte. Mia madre, quando sentiva il solito ritornello della politica rivolta al bene della gente, aggiungeva con sarcasmo: «Am sa che li lôr i fagon pù che ätor i sò còmod…». Sono diventato qualunquista, lo so, ma non è tutta colpa mia.

 

 

Le distraenti scollature della D’Urso

“In un programma che tratta argomenti molto diversi tra loro – è il post odierno di Zingaretti indirizzato a @carmelitadurso – hai portato la voce della politica alle persone. Ce n’è bisogno!”. Non so cosa ci sia dietro questo endorsement zingarettiano a Barbara D’Urso, ma personalmente non ci vedo niente di scandaloso, si potrà eventualmente discuterne l’opportunità, ma non mi preoccupa e non mi interessa più di tanto.

Ammetto di soffrire il fascino delle belle donne: sono fatto così e quindi, siccome la D’Urso fa parte di questa categoria, sono portato ad essere particolarmente indulgente verso il suo programma, certamente non di alto livello culturale, ma di accettabile approccio popolare. Se ne vedono e sentono di peggio! Soprattutto apprezzo l’assenza di faziosità nella scelta degli ospiti con cui chiacchierare, il taglio umanamente disinvolto e il clima simpatico che viene creato. Ho avuto l’occasione di seguire questo programma solo occasionalmente incappando in esso durante i momenti di pigro zapping. Non accetto le snobistiche demonizzazioni e le sussiegose sottovalutazioni. Viviamo in questa società, che non mi piace, ma che tra le sue regole ha quella di navigare in mezzo ai talk show televisivi. Cosa ci possiamo fare!?

Se il rospo da ingoiare è Barbara D’Urso non è la fine del mondo, si può fare questo sforzo. Non capisco pertanto le reazioni stizzite e scandalizzate del popolo (?) piddino. Certo, se Zingaretti vuole recuperare appeal e identità verso il potenziale elettorato di sinistra, forse partire ingranando la marcia d’ursiana non è il massimo della credibilità e della forza di persuasione. Tuttavia non è scappando dal mondo che si cambia il mondo. Non è con la puzza sotto il naso che si migliora la società. I problemi del partito democratico sono tanti non aggiungiamocene uno falso.

Massimo D’Alema aveva, profeticamente, anche se contraddittoriamente, affermato: “La Lega c’entra moltissimo con la sinistra, non è una bestemmia. Tra la Lega e la sinistra c’è forte contiguità sociale. Il maggior partito operaio del Nord è la Lega, piaccia o non piaccia. È una nostra costola, è stato il sintomo più evidente e robusto della crisi del nostro sistema politico e si esprime attraverso un anti-statalismo democratico e anche antifascista che non ha nulla a vedere con un blocco organico di destra”.

Speriamo che Nicola Zingaretti non faccia altrettanto verso quel che rimane del popolo televisivo berlusconiano. Non credo volesse arrivare a tanto, a strizzare l’occhio ai salotti mediaset, magari per affrancarsi da quelli intellettualoidi di sinistra. Stia lontano dai salotti, di cui peraltro il suo “antenato” Massimo D’Alema è piuttosto esperto. Il mio carissimo amico Walter Torelli, comunista tutto d’un pezzo, durante una delle solite chiacchierate, molto tempo fa mi chiese, dal momento che mi sapeva piuttosto informato sulla cronaca politica, di riferirgli dell’episodio relativo a Massimo D’Alema, il quale, in occasione di una sua presenza in un salotto romano, rimbrottò vivacemente il cane di casa che gli era montato sulle scarpe. Ammise snobisticamente che gli erano costate una grossa cifra.

Se fosse ancora in vita forse mi chiederebbe conto dell’episodio di Zingaretti e del suo tweet in favore della D’Urso. L’amico Walter, che allora mi aveva confessato tutta la sua indignazione, oggi si limiterebbe a scuotere il capo e ripeterebbe con tanta convinzione: «Lé óra chi vagon a ca tùtti». Sì, caro Walter avevi ragione tu…che non eri un qualunquista, ma avevi un grave difetto, eri veramente di sinistra. Il problema infatti non è Barbara D’Urso. In fin dei conti forse Zingaretti ha solo confuso le scollature del PD rispetto alla sua storia ed alla sua identità con quelle ben più ammiccanti di una gran bella donna.

 

Ambasciator porta pena

La morte dell’ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e dell’autista Mustapha Milambo, uccisi in Congo in seguito ad un attentato, contiene molti elementi, che inducono a serie e profonde riflessioni al di là del dolore straziante per la perdita di vite umane sacrificate sull’altare del bene comune.

Innanzitutto usciamo da questa vicenda migliori o peggiori a seconda dei punti di osservazione. Ci possiamo sentire umanamente migliori, perché esistono persone che compiono il loro dovere con grande dedizione, senza fare baccano, ma sulla base di valori perseguiti anche a prezzo della propria vita. Un ambasciatore, personaggio che generalmente viene immaginato come un’appendice burocratica dello Stato e come un neutrale passacarte che non porta pena; un carabiniere, persona che collochiamo a metà strada tra il mito dell’ordine pubblico e l’ingenuo servizio della legge; un autista, opaco lavoratore che accompagna e scarrozza gli altri. Ebbene, dietro questi stereotipi, si celano persone in carne ed ossa che rischiano la vita più o meno convintamente, ma comunque esemplarmente.

Ci possiamo però sentire anche peggiori, nel senso che, quando si celebrano le esequie di queste persone, si osa dire che non sono morte invano: è vero solo se ci rendiamo conto che il loro sacrificio mette a nudo la nostra superficiale visione della vita, della società, della convivenza e della storia. Morire nell’ambito di una missione di pace in mezzo a tanti impulsi di guerra è cosa paradossalmente positiva e costruttiva.

L’occidente, quando interviene, anche con le migliori intenzioni, negli stati post-coloniali, si trascina una tragica eredità di violenza e oppressione perpetrata in passato: la storia non è una partita di calcio che termina al novantesimo minuto, ma assomiglia a un lungo campionato con partite di andata e ritorno e al ritorno anche chi stava dimenticando rischia di ricordare. Anche le missioni umanitarie finiscono con l’essere viste comunque come appendice pseudo-riparatrice delle potenze dominatrici di un tempo non del tutto passato: l’integrazione, che tuttavia trova ostacoli politici e socio-economici, non basta a placare sul nascere una memoria foriera di odio in libera uscita. La memoria storica non si può cancellare ed allora con essa bisogna farci i conti. Purtroppo a pagare questo conto sono spesso i missionari di pace.

Mio padre, quando gli capitava di ascoltare qualche notizia riguardante provocazioni fra nazioni, incidenti diplomatici, contrasti internazionali era solito commentare: “S’ag fis  Mussolini, al faris n’a guera subita. Al cominciaris subit a bombardar”. È una tentazione diabolicamente ed istintivamente sempre presente: la ritorsione. È inutile negare che la morte di persone impegnate in favore della pace grida doppiamente vendetta.

Chiedo scusa se, a questo punto ripiego inevitabilmente sul discorso religioso, ricordando le parole evangeliche: “Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica”. Oso aggiungere che bisogna innanzitutto sforzarsi di capire perché qualcuno ci maltratta, mettendo in conto che, preso dalla rabbia e dall’odio, possa sbagliare obiettivo. E allora le cose si complicano e non resta, a maggior ragione, che porgere l’altra guancia, in modo apparentemente scriteriato, ma sostanzialmente ragionato (?): il ragionamento, che hanno fatto, più o meno consapevolmente, Attanasio, Iacovacci e Milambo.

 

 

Le bacchette di Draghi

Il governo chiede “una moderazione nelle esternazioni delle nostre comunicazioni, ma niente di più. Non ci sono state istruzioni di comportamento”. Lo ha detto il coordinatore del Cts Agostino Miozzo lasciando palazzo Chigi. “C’è stata una riunione con Speranza e la Gelmini, io ho presentato la mia disponibilità al ministro Speranza”, ha spiegato Miozzo, che sull’ipotesi di un portavoce unico del Cts ha detto: “Aspettiamo che il presidente ci dica cosa fare”.

Mi sono molto irritato davanti al video, ascoltando queste dichiarazioni, al punto da inveire con parole pesanti rivolte all’indirizzo di questo illustre personaggio, che si comporta come un bambino all’asilo. La mia brava e severa maestra elementare fece osservare a mia madre che, pur essendo un bravo alunno, chiacchieravo un po’ troppo con il mio compagno di banco (allora non c’era il problema del distanziamento). Da quanto si può immaginare, Mario Draghi avrà fatto un simile ragionamento ad Agostino Miozzo: abbiamo bisogno di voi, vi stimiamo, apprezziamo il vostro lavoro, ma cercate di chiacchierare un po’ meno e semmai di parlare con una voce unica.

Possibile che questi scienziati abbiano bisogno di essere rimproverati per tenere un atteggiamento consono al loro ruolo e alla situazione che stiamo vivendo? Possibile che uomini di scienza si lascino coinvolgere dal clima mediatico al punto da passare più tempo in televisione che nei loro laboratori o nei loro reparti ospedalieri? Possibile! Ci voleva la sobrietà praticata scrupolosamente da Draghi per portare alla ragione i componenti di questo organismo dalle cui labbra pendiamo? Ebbene sì, e speriamo che il bagno di riservatezza inaugurato dal premier possa contagiare un po’ tutti, dai ministri agli scienziati.

Che la politica dovesse riprendere appieno il suo ruolo, revocando deleghe eccessive concesse sbrigativamente alla scienza sull’onda del panico da pandemia, era da tempo auspicabile, ma che Mario Draghi dovesse svolgere anche il ruolo di maestro d’asilo non era pensabile. Il presidente del Consiglio non ha la bacchetta magica per risolvere tutti i problemi, ma evidentemente e fortunatamente oltre la bacchetta con cui dirigere una assai problematica orchestra governativa, ne deve sfoderare una con cui bacchettare gli scienziati chiacchieroni (e non solo loro).

Non so se sarà più facile contenere gli sfoghi ministeriali e partitici, che peraltro sono già fastidiosamente iniziati, o le parole in libertà vomitate dagli scienziati in perpetua libera uscita. È solo una questione di stile? No, è un problema inerente il senso di responsabilità. In questi giorni ho fatto una riflessione terra-terra, del tipo di quelle che mi regalava mio padre: se tutti avessero fatto e facessero scrupolosamente il loro dovere (meno parole e più fatti), probabilmente la pandemia l’avremmo già superata per lo meno al 50%. E non sarebbe poco.

 

 

Quando manca la saggezza della testa e…del cuore

Si dice, penso sia un proverbio, che “solo gli stupidi non cambiano mai idea”. Qualcuno allora tira una colorita conclusione: “Il Parlamento dovrebbe essere pieno di geni con tutte le volte che hanno cambiato casacca”, sottintendendo che i politici cambiano continuamente idea.

La coerenza, che ho sempre ritenuto una delle migliori qualità personali, presuppone costanza logica o affettiva nel pensiero e nelle azioni. Apparentemente esiste una forte contraddizione tra i discorsi di cui sopra. Coerenza però non vuol dire rimanere fermi sulle proprie idee, ma tenere un comportamento conseguente ad esse.

La Costituzione italiana recita: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.». Conseguentemente l’assenza di vincolo di mandato rende legittimo per i parlamentari il passaggio a un gruppo parlamentare diverso da quello originario, relativo alla lista di elezione.

Il discorso è ritornato di grande attualità a margine delle clamorose e sbrigative giravolte compiute da partiti ed esponenti politici durante la fase della costituzione del governo Draghi. I commentatori osservano come l’attuale legislatura dovrebbe passare alla storia come quella del cambiamento continuo delle carte in tavola. Vediamo i passaggi più significativi.

Si è partiti da una campagna elettorale in cui tutti hanno fissato paletti identitari netti ed insuperabili (mai col tal partito), salvo poi buttarli all’aria e trovare strane combinazioni contrattuali o pattizie. M5S e Lega hanno rovinosamente governato assieme per poco più di un anno, superando reciproci e preventivi veti. Poi il leader leghista Salvini, sull’onda di un consenso crescente e di una megalomania incontenibile, ha puntato alla fine anticipata della legislatura e alle elezioni per mettere a frutto il successo delle consultazioni europee ed ottenere i “pieni poteri” con una maggioranza di destra a conduzione leghista.

Disegno miseramente fallito, che ha creato i presupposti per il connubio tra M5S e PD: due formazioni politiche alternative, che hanno cercato di creare un governo al fine di evitare le elezioni anticipate e soprattutto guadagnare tempo in vita della scadenza del mandato del presidente della Repubblica. Governo giunto al capolinea dopo aver attraversato durante l’anno e mezzo di vita l’emergenza pandemica ed essere entrato in crisi più per la debolezza giallo-rossa che per la spallata renziana. Peraltro anche Renzi, che dall’esterno era stato il più acuto e convinto ispiratore della tattica alleanza tra grillini e piddini, garantendo ad essa un appoggio decisivo, quando ha capito che il patto stava diventando qualcosa di ingombrante e paralizzante, ha fatto saltare il tavolo.

Dopo un goffo tentativo di sopravvivenza del governo Conte bis, fatto approntando una camera in sala di rianimazione affidata alle cure di un gruppuscolo di parlamentari responsabili, moderati, europeisti, liberali, socialisti, etc. etc., fallito penosamente dopo qualche giochetto trasformistico di Tizio e Caio, siamo arrivati, gira e rigira, a Mario Draghi. Molti ci pensavano da tempo e finalmente Sergio Mattarella ha messo in atto il tentativo peraltro riuscito di mandare in vacanza la politica per ossigenarsi e riprendere il proprio ruolo.

Senonché l’occasione ha fatto l’uomo ancor più ladro e i partiti si sono sbizzarriti in un vergognoso gioco trasformistico, cambiando idea come cambiar di camicia, rinnegando il passato remoto e prossimo, ricollocandosi alla ricerca di un ruolo provocatoriamente occupato dai tecnici messi in cattedra dal Quirinale su proposta del migliore, vale a dire di Mario Draghi.

Qualcuno pensa di arginare i balletti partitici istituendo il vincolo di mandato, vale a dire inchiodando i parlamentari al partito con cui sono stati eletti. È una delle tante uova di Colombo (Grillo), così come le votazioni affidate a qualche centinaio di iscritti illusi di decidere il destino italiano tramite un clic sulla piattaforma Rousseau. Ciononostante il M5S è stato ed è pieno di “voltagabbana” al centro e in periferia: uno di questi sta amministrando Parma da diversi anni.

Morale della favola: la politica è una cosa troppo seria e democratica per essere imprigionata negli schemi rigidi di una revisione Costituzionale o applicati su internet. E allora? Così come non ho mai creduto che le leggi elettorali possano risolvere i problemi politici, ritengo che le idee e i comportamenti delle persone politicamente impegnate a livello istituzionale siano dettati dal loro cervello e dal loro cuore: in essi sta la quadratura del cerchio fra dinamismo ideale, pragmatismo programmatico e sensibilità democratica.

Purtroppo nella odierna classe politica manca il cervello, vale a dire la cultura, l’esperienza, la professionalità e la preparazione e manca anche il cuore, cioè la sensibilità e la capacità di ascoltare i problemi della gente facendosene carico. Non hanno idee e quindi non le possono cambiare e non possono essere coerenti con esse. Quando uno cambia idea troppo in fretta, è un bagolone più o meno scaltro. Quando uno dice una cosa e poi ne persegue un’altra è un pagliaccio.

 

“Apericasino” all’italiana

Sono il primo a ritenere assurda l’arlecchinata regionale anti-covid. C’è tuttavia un però: se la memoria non mi tradisce, questo meccanismo è stato introdotto alcuni mesi or sono con l’assenso, un po’ stiracchiato, ma comunque concesso, da parte delle Regioni, che oggi si strappano le vesti assieme alle associazioni di categoria interessate.

In partenza l’idea di suddividere il territorio nazionale in zone rispondeva all’esigenza di non generalizzare inutilmente i sacrifici, ma di graduarli a seconda delle necessità emergenti dai territori, evitando così di procurare danni a tutti indistintamente e consentendo laddove possibile una vita più vicina alla normalità.

Gli scienziati hanno escogitato alcuni indici significativi atti a misurare il livello di rischio, applicabili territorialmente e periodicamente, rendendo quindi oggettive e inattaccabili le misure restrittive da adottare.

Fin dall’inizio ero piuttosto scettico sulla funzionalità e l’efficacia di questa regionalizzazione a zig zag, ma si diceva che poteva evitare chiusure globali e drastiche troppo incidenti sul tessuto economico-sociale del Paese. In teoria poteva essere una buona idea, in pratica si è rivelata molto discutibile da tutti i punti di vista.

Premetto che non accetto il regionalismo di governo e di lotta, vale a dire quello dei cosiddetti governatori regionali il cui atteggiamento ondivago e poco coerente rischia di aggiungere confusione a quella già esistente: collaborativi al tavolo di confronto con il governo centrale, conflittuale verso il ministero della Salute, quando si ritorna a casa e si deve fare i conti con le proteste delle categorie economiche.

Se il ministero ha peccato e sta peccando di grave incertezza, di eccessiva delega alla scienza e di pericolosa navigazione a vista (sono, al di là di tutto, i difetti del governo Conte alle prese con la pandemia), le regioni ostentano un decisionismo ed un “primadonnismo” di facciata che non porta da nessuna parte.  Ognuno dovrebbe fare il proprio mestiere con grande senso di responsabilità, invece ognuno tira l’acqua al proprio mulino. Se l’arlecchinata non dà buoni risultati e comporta assurde complicazioni applicative, si abbia il coraggio di cambiare linea concordandola seriamente e definitivamente con le Regioni e magari anche con le forze economiche e sociali.

Da tempo mi frulla in testa un ragionamento riguardo al funzionamento delle attività commerciali a contatto diretto col pubblico. Il grido di dolore che sorge dalle categorie economiche non mi lascia infatti indifferente, ma vorrei metterlo alla prova coinvolgendole pienamente nel discorso. Perché non stipulare degli accordi con le associazioni di categoria, che prevedano la scrupolosa osservanza delle regole anti-covid, eventualmente anche meglio precisate e rese ancor più severe. Poi forse si potrebbe anche consentire l’apertura, con il preciso impegno ad effettuare controlli molto pressanti e rigidi e con la previsione di sanzioni pesantissime a carico dei trasgressori.

Ricordo che in concomitanza con l’entrata in vigore degli orari anti-movide serali con tanto di apericena, alcuni bar si precipitarono a organizzare e favorire le movide mattutine con tanto di “aperipranzo”. I pianti successivi dei ristoratori e dei gestori di bar risultavano quanto meno poco credibili. Così facendo rischiamo una sceneggiata totale. Ah, dimenticavo, come al solito gli scienziati sono divisi e divisivi: alcuni ritengono sufficienti le misure adottabili, altri esorcizzano bar e ristoranti, ritenendoli comunque veicoli di quasi sicuro contagio.

In conclusione mi sembra che si stia adottando la tattica inversa a quella di cui sopra, da me modestamente ipotizzata: un esplosivo mix tra il “tira e molla” delle chiusure e aperture e il “vivi e lascia vivere” a favore di chi fa il furbo. Insomma, l’anti-covid all’italiana.

La guerra dei vaccini

Se è troppo facile e dissacrante paragonare lo scontro fra Giuseppe Conte e Matteo Renzi a quello fra Slatan Ibrahimovic e Romelo Lukaku, molto più calzante è il paragone fra una rissa da cortile senza esclusione di colpi e la vertenza giuridico-diplomatica che si è profilata fra Unione Europea, Regno Unito e aziende produttrici sull’acquisto del vaccino anti-covid, combattuta sul filo di cavilli contrattuali cuciti addosso ai moribondi.

“Renzo abbracciò molto volentieri questo parere; Lucia l’approvò; e Agnese, superba d’averlo dato, levò, a una a una, le povere bestie dalla stia, riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Renzo; il quale, date e ricevute parole di speranza, uscì dalla parte dell’orto, per non esser veduto da’ ragazzi, che gli correrebber dietro, gridando: lo sposo! lo sposo! Così, attraversando i campi o, come dicon colà, i luoghi, se n’andò per viottole, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzecca-garbugli. Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all’in giù, nella mano d’un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l’alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura”.

Alessandro Manzoni possedeva l’arte della similitudine e quella dei capponi di Renzo rende molto bene l’idea del tempo che stiamo attraversando. La sempre più grave e devastante emergenza ci sta spingendo verso i peggiori egoismi personali e nazionali. È quindi una grande mistificazione della storia quella di chi afferma che quando si viveva in miseria e povertà ci si voleva più bene e si era più disposti all’aiuto reciproco? L’ho sempre sentito dire dagli anziani e me ne ero quasi convinto, senonché…

Papa Francesco con la sua lucida vena pastorale sostiene che dalla pandemia non si esce uguali a prima, ma decisamente migliori o peggiori. Noi, tanto per non sbagliare, ce la stiamo mettendo tutta a peggiorarci. La guerra dei vaccini, che si è scatenata, è la tragica riproposizione storica della similitudine manzoniana di cui sopra.  Le premesse esistevano già, in un certo senso tutto era scritto con la folle corsa alla Brexit, con una Unione Europea molto brava a revisionare i conti dei vari Stati, ma poco incline a perseguire la solidarietà fra i partner, con trumpismo, sovranismo e nazionalismo in agguato dietro l’angolo del mondo in guerra perpetua, con l’ingiustizia fatta sistema a favore dei ricchi sempre più ricchi e dei poveri sempre più disperati.

Mettersi a litigare sulla distribuzione dei vaccini per poi non essere capaci di distribuirli con sollecitudine ed equità è veramente l’apice della follia egoistica che cova comunque dentro di noi. Meriteremmo che alla fine fosse dimostrato che i vaccini non hanno alcuna efficacia (non ci siamo molto lontani): sarebbe la giusta beffa finale di una vergognosa guerra fra poveri. È in atto un vero e proprio sciacallaggio istituzionalizzato e sofisticato seguito dalla cronica incapacità ad affrontare le emergenze, tra cui quella vaccinale è la più clamorosa. Dopo un commissariamento piuttosto inconcludente, puntiamo al riguardo su un nuovo governo: evidentemente è la struttura amministrativa e sanitaria di base che non riesce a mobilitarsi. E se provassimo a incaricare l’esercito? Forse otterremmo due piccioni con una fava: anziché prepararci, sulle orme letterarie di Dino Buzzati, alla guerra contro un nemico immaginario, ci impegneremmo in una guerra che non fa morti, ma salva vite umane.

In guerra ci siamo e stiamo rovistando tra le macerie per trarne qualche misero vantaggio: chi fa affari d’oro con la pandemia, chi specula sulle disgrazie altrui, chi litiga per la spartizione del bottino, chi le tenta tutte per salvarsi anche a costo di far morire qualcun altro. Non scandalizziamoci se qualcuno sta sfruttando le solite raccomandazioni per saltare la fila vaccinale: è solo la colorita e vomitevole punta di un iceberg molto più profondo e allargato, che coinvolge istituzioni pubbliche e private, Stati e persone, politica ed economia, governanti e governati.

Non mi resta che arroccarmi agli insegnamenti famigliari. Sì, perché stiamo arrivando al dunque che si chiama solidarietà, alla regola d’oro di mio padre, il quale combatteva aspramente la grettezza d’animo, la meschinità e la tirchieria. Nelle sue colorite espressioni, ricordo come rifiutasse la logica dell’avaro: «S’a t’ tén sarè la man, a ne t’ cäga in man gnanca ‘na mòsca». Non solo teniamo strette le mani, non solo, come diceva mio zio, le abbiamo di piombo e non riusciamo a toglierle dalle nostre tasche, ma tentiamo disperatamente di metterle nelle tasche altrui, soprattutto di coloro che le hanno vuote e allora caviamo loro anche le braghe.

Sarà qualunquismo? Non posso nascondere che la tentazione di generalizzare tutto ciò che è peraltro generalizzabile è forte. Sarà catastrofismo? Siamo in piena catastrofe umanitaria e sarebbe infantile non ammetterlo apertamente. Sarà disfattismo? Rimane poco da disfare. Un mio carissimo amico, di fronte alle cose storte di questo mondo si chiedeva: “Cosa aspetta il Padre Eterno a distruggerci?”. Forse, dopo averci salvato a caro prezzo, osserva impotente la nostra autodistruzione. Siamo sempre in tempo per ravvederci, anche se, più il tempo passa, e più è difficile.

Ma lasciatelo lavorare!

Oltre al “totodurata” è iniziato anche il “totocelafa” riferito al futuro di Mario Draghi e del suo governo. Se il dibattito parlamentare sulla fiducia è stato sconfortante per l’incapacità di deputati e senatori a mettersi in sintonia con un vero e proprio nuovo corso della politica (salvo solo l’intervento di Graziano Del Rio, un personaggio che meriterebbe un rilievo assai maggiore, ma il Pd preferisce giocherellare all’intergruppo…), il dibattito a livello giornalistico-mediatico punta sul calcolo delle probabilità che Draghi riesca a fare le riforme.

Gli viene concessa, bontà loro, la capacità di gestire l’emergenza (per la verità sarebbe già molto), ma sulle riforme strutturali si prevede la paralisi causata dalle diverse linee politiche dei partiti che lo sostengono o che lo dovrebbero sostenere. Gli esempi sono tanti. Come può fare Marta Cartabia a mettere d’accordo sulla giustizia il garantismo spinto di Forza Italia col giustizialismo identitario del M5S? Come può fare Daniele Franco a riformare il fisco tra le velleità del centro-destra ad abbassare le tasse a tutti e le preoccupazioni sull’equità fiscale della sinistra? Come potrà Patrizio Bianchi riuscire nell’impresa di riformare la scuola, obiettivo mancato storicamente da tutti i suoi, anche validi, predecessori? Come potrà il governo affrontare il gran busillis della protezione del lavoro con l’inevitabile riconversione di imprese sull’orlo del fallimento, inquinanti o comunque insostenibili a livello di mercato e di compatibilità ambientale?

Detta in positivo, per fare riforme serie e profonde occorre una volontà politica larga e forte, che non esiste nell’attuale panorama partitico al di là della salita obbligatoria sul treno di salvezza pubblica lanciato da Mattarella e guidato da Draghi. Il discorso razionalmente non fa una grinza secondo i normali criteri e schemi della politica tradizionale, senonché qualcosa sta cambiando e di questo cambiamento Mario Draghi potrebbe prendere atto o addirittura esserne l’artefice principale.

Innanzitutto la globalizzazione ci impone un ricollocamento generale sulla base degli andamenti economici, sociali ed ambientali del mondo: rimettersi in discussione è diventato obbligatorio uscendo dagli schemi di ogni tipo. Come si dice in edilizia, è più facile ed è meno costoso ricostruire dal nulla che ristrutturare l’esistente. La pandemia, lo si dice in continuazione, se non segna la fine del mondo, comporta almeno (sic!) la fine di questo mondo. Capirete se potrà non andare in crisi lo schema culturale dei grillini, abbarbicati al modernismo della piattaforma Rousseau, quello dei piddini legato ai pasticci pur di evitare il dilagare destrorso, quello di un centro alla continua e disperata ricerca di se stesso, di una destra “schifosa” (a proposito, avete ascoltato l’intervento alla Camera di Giorgia Meloni?), che parla di patria per non parlare dei problemi, etc. etc.

In secondo luogo la politica è sempre più collegata all’esigenza di mettere in campo conoscenze ed esperienze tecnico-professionali: finora era ferma agli ideali, se non alle ideologie, ora deve coniugare i valori, pur irrinunciabili, con la reimpostazione della società tecnologica, informatica, digitale e quant’altro. Si impone la competenza quale criterio selettivo della classe dirigente, quale criterio di giudizio sulle forze politiche e quale presupposto per programmare e gestire lo Stato democratico. Finora tutto avveniva con lo sguardo al passato, ora occorre guardare avanti e chi non sarà in grado di farlo prima o poi cadrà rovinosamente.

Mario Draghi è perfettamente in linea con questi nuovi presupposti strategici ed essendo fuori dalla mischia può avviare qualche processo molto interessante al riguardo: si tratta di una continua provocazione del buon governo. Voglio vedere come faranno i partiti a dire no a riforme razionali, che rispondano alle esigenze di una società in movimento: i giovani e le donne dovrebbero essere gli alleati preferenziali del governo Draghi. Non è un caso che lui abbia calcato la mano sul discorso generazionale che ci impone un cambio di passo.

Certo non sarà facile, ma cosa c’è di facile a questo mondo? Diamogli tempo e modo di provarci seriamente, senza “gufamenti” ante litteram, senza scetticismi di maniera, senza snobistiche pregiudiziali. La gente forse è molto più avanti del Parlamento e dei salotti: un primo miracolo di Mario Draghi!