Dopo i fiaschi vengono i fischi

La confusione regna sovrana. Non si sa se i vaccini ci siano, quali di essi vengano utilizzati, chi li somministri e dove, quale sia l’ordine di precedenza per i vaccinandi. Un autentico ginepraio in cui l’Unione Europea ha purtroppo dimostrato parecchi limiti, stipulando contratti assurdi con l’industria del farmaco: concorrenza più o meno sleale tra le aziende produttrici e gli Stati consumatori. Personalmente ho rinunciato a capirci qualcosa.

Qualcuno grida, con qualche ragione, al definitivo fallimento della politica rispetto all’economia se la prima non riesce a tirare le fila del discorso nemmeno di fronte ad una vera e propria fine degli assetti sistemici mondiali. Qualcuno, con i toni di una ripicca peraltro non destituita di fondamento, impreca contro il baraccone europeo impegnato assurdamente in un folle dirigismo economico, ma incapace di gestire una grave emergenza: dal 2008 sono spariti i tragicomici regolamenti sui calibri dei piselli e le curvature dei cetrioli. Ma su mele, peperoni, pomodori e altri prodotti, i limiti rimangono. Complicando la vita dei produttori e non sempre aiutando i consumatori. Forse la mentalità europea è rimasta la stessa anche se ora non si tratta di mele e pomodori, ma di fialette vaccinali da cui dipende la vita e la morte delle persone.

Qualcuno rianima il sovranismo con i flop vaccinali: se avessimo fatto da soli, non avremmo certamente fatto peggio… Qualcuno impreca contro i burocrati superpagati e superdimensionati, incapaci di elaborare un contratto con un minimo di garanzie per la popolazione in sofferenza.  Qualcuno intona il de profundis per l’Europa o almeno per una certa Europa: dopo la pandemia non sarà più la stessa Unione Europea. Forse qualcuno a Bruxelles dovrebbe avere il buongusto di dimettersi e di togliere il disturbo, prima che gli eventi si incarichino di buttare tutto all’aria. Lo dico e lo scrivo da europeista convinto.

C’è chi sostiene che il problema stia nella carenza delle dosi vaccinali a disposizione, c’è chi annota che la questione stia invece nella disorganizzazione a livello logistico e del personale addetto, c’è chi scarica le colpe sull’anarchia regionale rea di aver imbastito un vero e proprio ginepraio vaccinale, c’è chi se la prende con i commissari vocati al fallimento, c’è chi ripiega sul grande Gino Bartali e la sua espressione “gli è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”.

Sull’altro fronte, quello delle mani nude contro il virus, regna altrettanta confusione: chiudere, aprire, socchiudere, riaprire; zona bianca, zona gialla, zona arancione, zona arancione scuro, zona rossa, zona rosa pallido, zona regionale, zona provinciale, zona comunale, etc. etc. Ormai mi rifiuto categoricamente di esaminare la situazione: agirò secondo il mio personale buon senso a costo di beccarmi una multa (vorrei sapere chi controlla e chi ha pagato le sanzioni comminate).

Dopo il primo vero lock down c’era tempo e modo per tentare di fare quattro cosettine (e non sono state nemmeno tentate): potenziare le strutture sanitarie ed il personale addetto (siamo tornati in colpevole emergenza); potenziare e organizzare i trasporti (sono l’anello debole della catena pandemica); organizzare un sistema serio ed articolato di controlli (tutto viene svolto in chiave burocratica ed assai poco incisiva); prevedere un sistema funzionale di somministrazione dei vaccini (siamo ancora in altissimo mare).

È il senno di poi di cui sono piene le fosse? Le fosse sono piene di cadaveri! Il senno purtroppo manca prima e manca poi. Volete una previsione pseudo-politica? Alla fine sarà tutta colpa di Mario Draghi! Doveva fare i miracoli e non ne è stato capace…: «Non voglio promettere nulla che non sia realizzabile». È già molto e grazie comunque per il coraggio di essere entrato in scena dopo le stonature di parecchi cantanti.

Il famoso e simpatico critico musicale Rodolfo Celletti ammetteva di godere, sotto sotto, allorquando i parmigiani spazzolavano qualche mostro sacro del bel canto. Però aggiungeva: «Ho la sensazione che a voi parmigiani piacciano un po’ troppo gli acuti sparati alla viva il parroco…». Sempre di più sembra calzante l’aneddoto che tutti conoscono: il baritono venne accolto da urla e fischi e, rivolgendosi al pubblico lo pregò ironicamente di pazientare ed attendere l’esibizione del tenore. Fischiate me? Sentirete il tenore! Nel nostro caso si potrebbe dire: «Fischiate me? Guardate chi c’era prima di me!».

Il presidente della Repubblica si è messo in fila per sottoporsi alla vaccinazione: aveva un’aria più rassegnata che speranzosa. Forse incarna la stressante delusione degli italiani, che però, tutto sommato, non rinunciano a comportarsi seriamente. Forse vuole essere solo uno di noi, con tutti i dubbi del caso, ma con l’orgoglio di essere italiani ed europei, nonostante tutto.

Il provocatore della domenica

“Mi propongo come segretario elevato del Pd”. Così in un lungo video sul suo blog Beppe Grillo si rivolge al Partito democratico, all’indomani delle dimissioni del segretario Nicola Zingaretti. Una scherzosa provocazione sulla sua candidatura alla guida dei dem: “Mi iscrivo al partito e portiamo avanti insieme un grande progetto comune. Tutti i partiti mettano 2050 nel simbolo”.

Molto secca e dura è stata la reazione del senatore dem Tommaso Nannicini, che su Twitter ha risposto: “Caro Beppe Grillo, per candidarsi alla guida del Pd servono due requisiti di base. 1) Iscriversi al Pd. 2) Rimangiarsi i Vaffa contro una comunità che ha una voglia matta di buona politica, non di avanspettacolo di serie C”. Troppo banale però. Non so infatti se Beppe Grillo debba essere considerato un artista o un politico. Provo comunque a prenderlo sul serio.

Nel primo caso gli risponderei con le seguenti auliche parole: “Troppo spesso la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e, invece di far uscire gli uomini da sé e aprirli ad orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto, li imprigiona in se stessi e li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia. Si tratta di una seducente ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull’altro e che si trasforma, ben presto, nel suo contrario, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa. L’autentica bellezza, invece, schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé” (Papa Benedetto XVI, Discorso in occasione dell’incontro con gli artisti, 21 Novembre 2009).

Nel secondo caso, consiglierei a Grillo di rifarsi a quello che era il genio della provocazione, Marco Pannella. Anche lui si candidò alla segreteria del partito democratico, ma sotto il suo abito provocatorio c’era un cuore, un’anima, una storia, una cultura, mentre sotto il vestito di Grillo non c’è niente se non un vaffanculo istituzionalizzato e persino doroteizzato. L’arma della provocazione è apprezzabile. Come dice lo scrittore Romain Gary, “la provocazione è la forma di legittima difesa che preferisco”. Però bisogna saperla usare nei dovuti modi e a tempo debito, altrimenti diventa una pura, semplice e ripetitiva barzelletta.

Quanto al vezzo di porre scadenze prospettiche nei loghi, preferisco richiamare le date più significative ed istruttive del passato: meglio agganciarsi al certo che viene dalle lontane battaglie democratiche che puntare sull’incerto che viene dalle pie illusioni del presente. Il 2050 non mi dice niente. Il 1948, anno dell’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana, mi ricorda invece che la politica basata sulle idealità è capace di progettare il futuro, mentre quella disancorata dai valori è capace solo di subirlo. Proporrei quindi, in controtendenza, di inserire nel simbolo di un partito serio, il 1948: una sorta di cartina di tornasole sulla sua attendibilità politica alla luce della storia.

Mio padre, che di provocazioni se ne intendeva parecchio, si fidava del prossimo, ma con una giusta punta di scetticismo. A chi gli forniva un “passaggio” in automobile era solito chiedere: “ Sit bon ad  guidar”. Naturalmente l’autista in questione rispondeva quasi risentito: “Mo scherzot?!”  E mio padre smorzava sul nascere l’ovvia rimostranza aggiungendo: “Al fag parchè se pò suceda quel, at pos dir dal bagolon”. Siamo anche qui in presenza di piccole/grandi provocazioni, in un rituale scherzoso ma non banale, sempre volte alla presa di coscienza e di responsabilità, propria ed altrui. L’esatto contrario di quanto sta facendo Beppe Grillo.

 

 

L’acne volgare della “sanremite” cronica

In una società a regime teocratico musulmano Fiorello si sarebbe beccato una sacrosanta fatwa dopo la sua penosa esibizione al festival di Sanremo con tanto di corona di spine sul capo. Ho avuto la fortuna di non vedere questa esibizione, anche se, navigando in internet a puro titolo informativo, ci sono incespicato contro.

Non mi sono scandalizzato e non ho nemmeno cercato di capire la motivazione di una simile equivoca provocazione: ad ogni giornata televisiva basta la sua pena. Non è il caso di approfondire, perché, da una parte, si rischia di portare acqua al mulino degli improvvisati e strumentali “defensor fidei”, dall’altra, si può finire con l’accettare la dissacrazione fine a se stessa spacciata per operazione culturale. Meglio tacere…

Non so se sia più blasfemo l’iceberg del festival di Sanremo in quanto tale o queste sue eclatanti punte. Propendo per la prima ipotesi: la botte dà il vino che ha.

Riprendo per l’ennesima volta un ardito concetto. Molti anni fa monsignor Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, durante una conferenza all’aula magna dell’Università di Parma, raccontò di avere scandalizzato le suore della sua diocesi esprimendo loro una preferenza verso la stampa pornografica rispetto a certe proposte televisive perbeniste nella forma e subdolamente “sporche” nella sostanza. In fin dei conti la pornografia pura si sa cos’è e la si prende per quello che è, mentre è molto più pericoloso, dal punto di vista educativo, il messaggio nascosto che colpisce quando non te l’aspetti.

Sono perfettamente d’accordo: della serie “se lo conosci lo eviti, se non lo conosci ti uccide!”. Non so dove inquadrare il festival di Sanremo. Sarei portato a considerarlo una pericolosa, subdola, fuorviante e ricorrente proposta televisiva, da schivare come le pozzanghere. Forse però, strada facendo, si sta rivelando in tutta la sua crassa ridondanza da avanspettacolo e quindi, tutto sommato, la malattia si sta sfogando ed esce dalla cronicità. Meglio così? Penso proprio di sì!

Cosa direbbe Gesù di fronte a questa insulsa gag ammiccante alla sua incoronazione di spine. Azzardo qualche pronostico. A chi piange sul latte versato di una società fasulla potrebbe girare la frase rivolta alle pie donne di Gerusalemme che piangevano lungo la via del Calvario: “Non piangete su di me, ma piangete su voi stessi e sui vostri figli”.  A chi intende ridicolizzare o relativizzare la Croce relegandola a mera consolazione degli afflitti non presterebbe la minima attenzione come a quelli che lo invitavano a scendere dal patibolo per rivelare la sua divinità. Davanti a tutti i protagonisti del festival di Sanremo, quali rappresentanti del nulla culturale vigente, rifarebbe la paradossale preghiera: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”.

Alla fine della kermesse festivaliera ci sarà pure un qualsiasi inserviente del teatro Ariston, che oserà dire: “Questo spettacolo è una vera cazzata!”. Ma la storia di questo mondo non ne terrà conto e preferirà registrare come cose comicamente serie quelle propinate da Lauro De Marinis, in arte (?) Achille Lauro, e Rosario Tindaro Fiorello, conosciuto semplicemente come Fiorello.  Anche perché i pilateschi dirigenti Rai se ne laveranno sempre le mani.

 

 

 

Le quote rosa del Vaticano

Accogliendo tali raccomandazioni, si è giunti in questi ultimi anni ad uno sviluppo dottrinale che ha messo in luce come determinati ministeri istituiti dalla Chiesa hanno per fondamento la comune condizione di battezzato e il sacerdozio regale ricevuto nel Sacramento del Battesimo; essi sono essenzialmente distinti dal ministero ordinato che si riceve con il Sacramento dell’Ordine. Anche una consolidata prassi nella Chiesa latina ha confermato, infatti, come tali ministeri laicali, essendo basati sul sacramento del Battesimo, possono essere affidati a tutti i fedeli, che risultino idonei, di sesso maschile o femminile, secondo quanto già implicitamente previsto dal can. 230 § 2.

Di conseguenza, dopo aver sentito il parere dei Dicasteri competenti, ho ritenuto di provvedere alla modifica del can. 230 § 1 del Codice di Diritto Canonico. Pertanto, dispongo che il can. 230 § 1 del Codice di Diritto Canonico abbia in avvenire la seguente redazione:

“I laici che abbiano l’età e le doti determinate con decreto dalla Conferenza Episcopale, possono essere assunti stabilmente, mediante il rito liturgico stabilito, ai ministeri di lettori e di accoliti; tuttavia tale conferimento non attribuisce loro il diritto al sostentamento o alla rimunerazione da parte della Chiesa”.

In occasione della festa della donna, ho ritenuto opportuno, per celebrare causticamente la ricorrenza, riportare testualmente i passaggi fondamentali del motu proprio “Spiritus domini”, emanato da papa Francesco, col quale viene sfondata una porta aperta circa l’accesso delle persone di sesso femminile al ministero istituito del lettorato e dell’accolitato. In parole povere le donne potranno leggere la parola di Dio durante le liturgie e insegnare il catechismo: ecco spiegato perché ho usato l’espressione dello sfondamento della porta aperta, in quanto di fatto e da tempo fortunatamente questo avviene all’interno della Chiesa cattolica.

I fini dicitori progressisti sono persino riusciti a trovare una rivoluzione in questa burocratica e sistematica elaborazione dell’ovvio ecclesiale, mentre magari i più accaniti reazionari vi troveranno l’ennesima eresia di papa Francesco. Visto da sinistra e visto da destra, per usare una semplicistica e inappropriata logica politica. In mezzo a soffrire ci stanno le donne, a dimostrazione del fatto che il problema dell’emancipazione femminile all’interno della comunità cristiana è ben altra e più coraggiosa cosa, tuttora piuttosto carente per non dire assente.

Per capire che non è sufficiente una spolverata di zucchero velo papale per coprire la torta marcia del trattamento riservato alle donne e per vedere dove sta purtroppo la triste realtà basta leggere sul numero di febbraio della rivista mensile Jesus, edita dai Paolini, lo choccante reportage intitolato “Abusi sotto il velo”, secondo il quale non sono solo i bambini le vittime di violenze nella Chiesa. Anche le religiose subiscono abusi fisici, sessuali e spirituali. I predatori sono preti, laici ma anche consorelle che detengono il potere. E le vittime faticano a denunciare perché può succedere che chi parla venga messa alla porta o non sia creduta…

Da tempo si ipotizza che possa essere la questione femminile, con la clamorosa emersione dello scandalo latente (discriminazione-emarginazione-violenza), a sconvolgere l’immagine e la sostanza di una Chiesa anti-evangelica in tanti, troppi, comportamenti. L’abuso è figlio della cattiva coscienza: la donna oggetto esiste anche nella mentalità e nella prassi cattoliche e bisognerebbe avere il coraggio di sovvertire la situazione capovolgendo i criteri e non aggiustando la mira solo per continuare ad assestare i colpi al “basso ventre delle donne”.

Per quanto concerne la condizione femminile la Chiesa è specchio fedele della società civile e viceversa. Le lamentazioni per lo scarso numero di ministre compensato frettolosamente da una notevole quantità di sottosegretarie fa il solletico al problema vero. Basta seguire i continui casi di violenza perpetrati ai danni delle donne per capire che non si cala dall’alto, con le quote rosa più o meno pallido, quel cambiamento radicale e culturale necessario ad una vera e propria inversione di tendenza. In fin dei conti anche il Vaticano ha istituito le sue quote rosa nei ministeri laicali…

 

La bassa cucina di Grillo e l’alto appetito di Conte

Giuseppe Conte era uscito nel 2018, come un coniglio, dal cappello a cilindro di Beppe Grillo per guidare un governo fatto in fretta e furia tra nemici giurati, che però avevano firmato un lungo ed articolato armistizio: doveva essere il non politico o, per meglio dire, il politico dell’antipolitica grillo-leghista. Un avvocato demagogicamente autodefinitosi “avvocato del popolo”, un professore prestato al governo della Repubblica, una risorsa, proveniente dalla cosiddetta società civile, da investire o, per meglio dire, da immolare sull’altare incestuoso del rapporto tra fratelli coltelli.

È durato poco più di uno scricchiolante anno, ma il garante sopravvisse alla misera fine dell’oggetto della garanzia e si riciclò in una nuova avventura un po’ meno contraddittoria, ma comunque assai problematica: il governo giallorosso tra M5S e PD. Questa già difficile e precaria alleanza di governo venne messa alla terribile prova della pandemia: a un iniziale approccio apprezzabile, o almeno accettabile, successe, strada facendo, un “vivacchiamento” progressivo, ben giocato mediaticamente, ma svuotato contenutisticamente.

Arriviamo alla crisi del governo Conte 2, innescata dalle intemperanze renziane, ma in realtà vittima delle proprie intrinseche debolezze: le improvvisate barricate non tengono e Giuseppe Conte, dopo qualche tentativo di rimanere a galla, è costretto alle dimissioni pur sventolando alti indici di gradimento, a dimostrazione che la politica non si fa con i sondaggi. Si mette da parte con una certa eleganza, non però con l’atteggiamento di un Cincinnato, ma con quello di un Fregoli in attesa della prossima trasformazione.

Cosa combinerà Giuseppe Conte? Tutti hanno cominciato a chiederselo e lui ha fatto finta di ritirarsi, ha compiuto un bel passo indietro in attesa di farne due in avanti. E infatti è arrivato il secondo endorsement di Beppe Grillo, che ha ritirato fuori dall’ormai frusto cappello a cilindro un coniglio già noto, piuttosto spelacchiato ma ancora vivo e vegeto. Non c’è stato l’effetto sorpresa, ma la giocata dell’unica carta rimasta in dotazione.

A Giuseppe Conte riconosco parecchi meriti e applico a lui un modo di dire alquanto indulgente di mio padre: «Al ‘n é miga un stuppid, i stuppid i s’ fermon primma!». Non merita quindi tanto accanimento, so di essere spietato nei suoi confronti, ma certe cose bisogna pur dirle. Passerà probabilmente alla storia come il protagonista delle avventure politiche contro natura. Ho accennato alla maggioranza giallo-verde e a quella giallo-rossa, ora il gioco si è fatto ancor più pesante e Grillo, come fece Bettino Craxi, giunto alla frutta, tirando fuori dal taschino Giuliano Amato, tenta una spregiudicata operazione trasformistica, passando da un movimento pentastellato, riferimento populista e radicale dell’antipolitica, a un banale partito di sfruttamento mediatico della bassa politica. Alla guida di questo improbabile esercito di reduci da battaglie impossibili viene ipotizzato un uomo specializzato in missioni impossibili: Giuseppe Conte nuovo leader pentastellato e addirittura aspirante leader di una tattica e pretenziosa coalizione tra M5S e PD.

Si tratterebbe dell’incontro tra un leader senza movimento e un movimento senza leader, nella speranza che due povertà sommate facciano una ricchezza. L’unica cosa certa è che Grillo ha individuato in questa manovra la possibilità di uscire dal suo personale cul de sac, riuscendo magari anche a riportare all’ovile le pecore sfuggitegli di mano. Poi, come si dice in dialetto parmigiano, “va avanti ti, chè a mi am scapä da riddor”.

Forse invece Giuseppe Conte la sta prendendo sul serio sulla base del famoso proverbio “l’appetito vien mangiando”. Significa che l’interesse per qualcosa cresce a mano a mano che la si sperimenta. Detto in altro modo, “da cosa nasce cosa”. Da un governo ne nasce un altro, da un partito ne nasce un altro, dall’antipolitica può nascere la bassa politica, da un avvocato di grido nasce un avvocato di Grillo. E la stella del Pd sta a guardare le cinque stelle di Conte? Tutto però dipenderà anche da quanto tempo e spazio occuperà il governo Draghi. Se queste sono le manovre per il dopo-Draghi, meglio che duri il più a lungo possibile.

 

 

La patologia dell’ipertatticismo piddino

Nel bel mezzo dei più aspri conflitti a volte viene adottata una tattica, peraltro vecchia come il cucco, ma che spesso funziona: mentre tutti spingono per sfondare la porta, la si apre improvvisamente e le spallate dei rivoltosi finiscono in una rovinosa caduta con tutto quel che ne segue. Potrebbe assomigliare a quanto sta succedendo con le improvvise dimissioni annunciate da Nicola Zingaretti, segretario del PD, nel quale si è aperto un contrasto piuttosto aspro ma altrettanto opaco sull’identità e la leadership del partito.

Parto da una nozione schematica proveniente da un corso di organizzazione aziendale, frequentato durante il mio ormai lontano percorso universitario. Qual è la differenza fra strategia e tattica? La strategia consiste negli scopi, generalmente di medio e lungo periodo, che si vogliono perseguire e per il cui raggiungimento occorre anche mettere in campo tattiche di più breve respiro comunque finalizzate all’obbiettivo di fondo. In parole povere dove ci sta il più ci sta anche il meno e quindi è la strategia che dà un senso alla tattica, diversamente, se la tattica è fine a se stessa, lascia il tempo che trova.

Temo che il partito democratico consista in un susseguirsi di tattiche senza alcuna strategia: detto in politichese, è un partito alla ricerca disperata di una identità perduta, senza un’autorevole guida e quindi avvitato su scelte di mera sopravvivenza assai poco lungimiranti.

Tattica l’alleanza con il M5S per la formazione del governo Conte 2, tattica la sopportazione dell’ondivago alleato col quale si aveva in comune proprio e solo la mancanza di strategia e di leadership, tattica la difesa ad oltranza della premiership contiana con la messa in campo di paradossali mezzucci parlamentari durati l’espace d’un matin, tattica l’adesione assai poco convinta all’operazione Mattarella-Draghi, tattico il rilancio a tutti i costi ed in extremis di un patto politico con i grillini (magari con una battuta di sacrificio a favore di Giuseppe Conte pronto a tornare in pista).

Il governo Draghi ha messo in crisi tutte le tattiche partitiche (o meglio ne ha accelerato e proclamato la caduta), soprattutto però quelle delle formazioni politiche collocabili in una non meglio definita area di sinistra.  È comprensibile che la sinistra, per le scorie ideologiche che fatica a scrollarsi di dosso, soffra più di altri di fronte alla prospettiva di equilibri di governo basati principalmente sulla concretezza e sulla competenza.   Quindi tutti alla spasmodica ricerca di un immediato riciclaggio col rischio, oltre tutto, di buttare il bambino assieme all’acqua sporca.

Il partito democratico appare prigioniero dei propri tatticismi, i contrasti interni si sfogano in fastidiose schermaglie correntizie ed in stucchevoli contrapposizioni personali. Il vero problema di questo partito è quello di non essere riuscito a fondere nella realtà ciò che esisteva nella storia: il patrimonio valoriale comunista con l’ispirazione ideale del cattolicesimo democratico. Si è fatta partire un’avventura politica che, strada facendo, ha mutuato gli aspetti negativi delle esperienze storiche di riferimento, vale a dire da una parte il tatticismo (di piazza e di governo) egemonico-burocratico dei comunisti, dall’altra parte la diaspora perpetua dei cattolici oscillanti fra sinistra e centro, tra potere e contropotere, ma soprattutto fra spinta propulsiva e moderazione. La vita politica italiana del dopo-Moro è tuttora prigioniera di questi equivoci e vedova di una esperienza (il compromesso storico) soffocata sul nascere. Occorrerebbe un secondo Aldo Moro per riprendere un discorso interrotto 45 anni or sono con tutto quel che è successo nel frattempo.

Manca cioè un minimo di leadership credibile che non sia il pur furbesco rimasuglio dell’esperienza comunista e il pur apprezzabile perbenismo dei cattolici progressisti. Non esiste cioè una strategia, non ci sono i personaggi capaci di elaborarla e portarla avanti, si vive di mera tattica. Gira e rigira anche le dimissioni di Zingaretti rientrano in questo giochino, sia che preludano ad un suo reincarico rafforzato, sia che lascino campo libero alle seconde file. Tra le due possibilità sarei, tutto sommato, pragmaticamente portato a scegliere l’apertura di uno spazio seppure al buio. Forse è meglio brancolare nel buio alla ricerca di una strada relativamente nuova piuttosto che perseverare facendosi guidare dalle luci intermittenti e fasulle del tirare a campare.

 

Ubriacature di massa

Tutti i matti hanno la loro virtù: è un proverbio a prova di Sanremo. Sì, perché il grande circo equestre della canzone (meglio sarebbe dire dello spettacolo leggero come una piuma) questa volta ha avuto un effetto paradossalmente benefico: ci ha costretto alla folle distrazione, ha portato cioè in prima linea mediatica questo evento pseudo-culturale togliendola alla pandemia. Ci voleva Sanremo per capire che la tortura informativa non informa ma deforma? Spesso occorre un male maggiore per sconfiggerne uno minore.

Per qualche giorno i media sono stati costretti (?) a virare, passando dall’ossessionante passerella di virologi a quella leggiadra dei vip dello spettacolo: il fatto la dice lunga sulla serietà delle passerelle a cui siamo costretti. Tutto sommato erano molto meglio, da ogni punto di vista, quelle che avevano come protagoniste le spogliarelliste delle riviste porno di un tempo.

Dopo la sbornia sanremese come ci risveglieremo? Ricordo con piacere una barzelletta di uno storico personaggio di Parma, Stopàj: questi, piuttosto alticcio, sale in autobus e, tonificato dall’alcool, trova il coraggio di dire impietosamente la verità in faccia ad un’altezzosa signora: «Mo sale che lè l’è brutta bombén!». La donna, colta in flagrante, sposta acidamente il discorso e risponde di getto: «E lu l’è imbariägh!». Uno a uno, si direbbe. Ma Stopaj va oltre, non si impressiona e ribatte: «Sì, mo a mi dmán la me pasäda!». Noi, smaltita l’ubriacatura del momento, ci risveglieremo e saremo uguali a prima, ma non potremo consolarci con le brutture altrui e dovremo fare i conti con le nostre: destinati, per sopravvivere, all’ubriacatura continua.

Non siamo capaci neanche di usare bene le armi di distrazione di massa: passiamo dal cinismo della valanga di notizie contraddittorie sulla pandemia al sadomasochismo della fuga sanremese, per poi tornare indietro e ricominciare tutto daccapo. L’equilibrio e la serietà informativa sono un optional della nostra società.

Mio padre, per sintetizzarmi in poche parole l’aria che tirava durante il fascismo, per delineare con estrema semplicità, ma con altrettanta incisività, il quadro che regnava a livello informativo, mi raccontava: se si accendeva la radio “Benito Mussolini ha detto che…”, se si andava al cinema con i filmati luce “il capo del governo ha inaugurato…”, se si leggeva il giornale “il Duce ha dichiarato che…”. Del fascismo mi forniva questa lettura di base, tutt’altro che dotta, ma fatta di vita vissuta. Era sufficiente trovare in tasca ad un antifascista un elenco di nomi (nel caso erano i sottoscrittori di una colletta per una corona di fiori in onore di un amico defunto) per innescare una retata di controlli, interrogatori, arresti, pestaggi. Bastava trovarsi a passare in un borgo, dove era stata frettolosamente apposta sul muro una scritta contro il regime, per essere costretti, da un gruppo di camicie nere, a ripulirla con il proprio soprabito (non c’era verso di spiegare la propria estraneità al fatto, la prepotenza voleva così): i graffitari di oggi sarebbero ben serviti, ma se, per tenere puliti i muri, qualcuno fosse mai disposto a cose simili, diventerei graffitaro anch’io; gli operatori dell’informazione odierni avrebbero di che ravvedersi, ma se, per tenere a freno la lingua mediatica, qualcuno volesse ricorrere alla censura, diventerei parolaio anch’io.

In buona sostanza meglio le sbornie a corrente alternata piuttosto delle astemie imposte dall’alto. Però, la libertà di parola e di espressione bisognerebbe saperla usare un po’ meglio. Non voglio metterla sul patetico e, Sanremo a parte, chiudo con una battutaccia per sdrammatizzare il clima che sta montando ogni giorno di più. «Parlèmma ‘d robi alégri» intimarono gli amici di mio padre alla compagnia in vena di discorsi penosi. Uno di loro, accettando il perentorio invito, rispose: «Co’ costarala ‘na càsa da mòrt?».

 

 

Il buongiorno di Draghi

Non ho mai pensato a Mario Draghi come a una sorta di superman dotato di forza, velocità, agilità, resistenza e riflessi sovrumani: qualcuno lo sta strumentalmente immaginando come tale per poi sminuirne immediatamente l’impatto governativo con la realtà.

Sento circolare con una certa crescente insistenza la scoperta dell’acqua calda, vale a dire che Draghi sarebbe un esperto di economia, ma su tutto il resto avrebbe lacune incolmabili. A parte il fatto che avere un premier preparato, esperto ed autorevole in materia economica non è cosa da poco in un momento in cui stiamo disperatamente cercando il modo di uscire da una colossale crisi tramite il miglior utilizzo dei fondi europei e rivoltando il nostro sistema come un calzino, a parte il fatto che l’economia, pur non dovendo dettare pedissequamente le proprie regole alla politica ne influenza comunque le scelte e le strategie, a parte il fatto che tutto è politica e nel tutto ci sta tranquillamente l’aver ricoperto incarichi di altissimo livello nel mondo finanziario, a parte che, come diceva mia sorella, quando una persona è intelligente lo è sempre indipendentemente dal ruolo che è stato chiamato a ricoprire, a parte tutto ciò e proprio perciò, credo che Mario Draghi sia in grado di svolgere al meglio il compito che gli affida la Costituzione: “Il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”.

Ho richiamato il dettato costituzionale perché tutta la gestazione e la nascita del governo Draghi, facendo di necessità virtù, rientrano perfettamente e, oserei dire finalmente, nella logica e nello stile previsti dalla Costituzione. Il Presidente della Repubblica ha affidato autonomamente l’incarico, la nomina dei ministri è avvenuta nel concerto tra Quirinale e Palazzo Chigi, i partiti, seppure a fatica, sono tornati al loro ruolo politico-parlamentare. Nei momenti difficili è giusto tornare allo spirito costituente: non saremo mai sufficientemente grati a chi ha pensato e scritto le regole fondamentali della nostra Repubblica.

Tornando al lavoro che aspetta Draghi, esistono come in tutti i compiti due questioni: una di merito e una di metodo. Al capo del governo non è richiesto di essere un tuttologo, capace di conoscere ed affrontare di petto tutte le problematiche; di grazia che Draghi sappia fare ciò in materia economica ed internazionale. Per il resto ricadiamo nel metodo ed anche su questo piano è attrezzatissimo per preparazione, esperienza, personalità, rigore e concretezza.

Faccio un banalissimo esempio. L’atro giorno è uscita la notizia che negli Usa è in dirittura d’arrivo il vaccino Johnson & Johnson contro il Covid-19. La Food and Drug Administration, l’agenzia federale statunitense che si occupa di farmaci, lo ha approvato dopo aver rilevato una “forte risposta immunitaria”. La principale peculiarità di questo vaccino è che prevede la somministrazione di una sola dose. Dopo averla ascoltata, mi sono alzato in piedi e ho esclamato a gran voce: “Draghi, ti supplico, telefona a Biden per vedere se ci può dare una mano a sbloccare la nostra stentata opera vaccinale. Tu ne hai l’autorevolezza. Fallo, senza fare baccano, come sei solito. Provaci. Biden dopo la tua nomina ha detto di desiderare di incontrarti al più presto. Stringi i tempi…”.

Non siamo a striscia la notizia, ma siamo disperati e ci attacchiamo a chi sa governare, non come un ormai lontano predecessore (il famoso “ghe pensi mi”, “faso tuto mi” di berlusconiana memoria), non come l’immediato predecessore (la prassi contiana di “una conferenza stampa al giorno leva il covid di torno”). Governare vuol dire anche e soprattutto saper scegliere gli interlocutori giusti (UE e Usa), saper individuare le persone adatte a ricoprire i ruoli amministrativi (da ultimo il generale Francesco Paolo Figliuolo e Fabrizio Curcio), saper utilizzare al meglio le risorse umane e materiali a disposizione (esercito e protezione civile).

In conclusione per il buon giorno economico siamo già al primo pomeriggio, per il resto siamo solo al mattino: non pretendiamo di essere già a sera.

 


Le primule rosse contro il terrore pandemico

Da sempre lo penso, da parecchio tempo lo dico e lo scrivo: se tutti (non esageriamo: quasi tutti) facessero il proprio dovere di cittadini, molti problemi si risolverebbero automaticamente. Faccio un solo esempio per rendere plasticamente l’idea di quella che può sembrare la mozione degli affetti, ma che invece si sta dimostrando l’arma più efficace per affrontare tante questioni: la scarsità di risorse pubbliche.

Se tutti pagassero regolarmente le tasse, se si eliminassero gli sprechi, se si smettesse di rubare a tutto spiano a danno dei fondi pubblici, se chi lavora nel pubblico svolgesse il proprio ruolo con correttezza, le casse dell’erario avrebbero ben altro respiro e con i soldi a disposizione si potrebbero risolvere parecchi problemi, dalla sanità all’istruzione, etc. etc.

Il discorso vale più che mai in tempo di emergenza pandemica. Assistiamo continuamente e diffusamente ad atteggiamenti e comportamenti a dir poco scriteriati: le mascherine indossate un tanto al metro, la sanificazione delle mani fatta alla carlona, il distanziamento vissuto come un optional, tutti girano per le strade come trottole, le regole vissute come uno spauracchio da esorcizzare ed un ostacolo da dribblare, gli inviti alla prudenza liquidati con un’alzata di spalle, lo scaricabarile adottato come stile di vita.

Mi sono chiesto il perché di tanto assurdo menefreghismo che si trasforma in vero e proprio autolesionismo. La risposta non è univoca. Sono in gioco fattori di carattere psicologico, sociologico, economico e politico. Sui cittadini si è scatenata un’autentica bufera di disinformazione: si dice tutto e il suo contrario, regna una confusione tremenda che mette le persone nella condizione di rassegnata indifferenza e/o di capricciosa e irresponsabile reazione negativa.

Se gli scienziati ostentano le loro diatribe sulla pelle della gente, perché mai dovrei attenermi alle loro ondivaghe indicazioni? Se il 20% dei medici, che fino a prova contraria ne dovrebbero capire qualcosa, non si sottopone alla vaccinazione, perché dovrei farlo io che non ne capisco un cavolo. Se ripercorriamo il tempo che ci separa dallo scoppio della pandemia, ci accorgiamo che le analisi scientifiche si sono succedute come quelle dei giornalisti sportivi, i quali dopo ogni turno del campionato di calcio assegnano lo scudetto virtuale ad una squadra diversa. Se ascoltiamo la prezzolata sarabanda mediatica, non ne usciamo vivi prima ancora di essere colpiti dal virus.

Arriviamo alla politica. Il non decidere o, ancor peggio, il cambiare decisione come il cambiare di casacca partitica sono un pressante invito a trasgredire regole camaleontiche e strumentali, volte più a difendere il proprio serbatoio elettorale che la salute dei cittadini. I governanti, pur considerando l’estrema complessità, difficoltà e originalità della situazione, non hanno brillato per chiarezza e univocità di intenti, hanno litigato molto e combinato poco, hanno giocato al rimpallo decisionale tra i diversi livelli istituzionali e si sono nascosti dietro la scienza come un bambino fa sotto le gonne della mamma. Ultimamente stiamo vivendo gli esordi del governo Draghi come l’arrivo del salvatore della patria che ha la ricetta per cavarci le castagne dal fuoco: passiamo con disinvoltura dal concetto di politica nemica a quello di politica chioccia. La costante è trovare un pretesto per deresponsabilizzarci.

Se le regole, nella loro equivoca origine, nella contraddittorietà degli scopi e nella confusione dei tempi, sembrano fatte apposta per non essere osservate, se nessuno controlla o, meglio, se si fa finta di controllare i comportamenti della gente, tutti si sentono autorizzati a lasciarsi andare in un sadomasochistico crescendo trasgressivo all’insegna del paradossale “mal comune mezzo gaudio”.

Qualcuno intravvede uno scontro tra buoni (coloro che cercano faticosamente e scrupolosamente di attenersi alle regole) e cattivi (quanti se ne fregano altamente dei divieti e addirittura li irridono preventivamente): i primi si starebbero stancando (e ne avrebbero mille ragioni), mentre i secondi continuano imperterriti a mettere a repentaglio la vita altrui.

La telenovela dei vaccini rappresenta la ciliegiona sulla torta: tutti parlano del quando, del chi e del come sottoporre al vaccino le persone e poi si scopre che il vaccino non c’è. È stato pubblicato un bando per la realizzazione dei padiglioni identificati da una primula dove dovrebbero essere somministrati i vaccini alla popolazione. La primula è il simbolo scelto per la comunicazione del piano vaccini ed è stato ideato dall’architetto Stefano Boeri. «È un messaggio di fiducia e di serenità», ha spiegato il commissario straordinario per l’emergenza, Domenico Arcuri.  Sì, la primula rossa, perché il vaccino non si trova… E allora si viene colti da un senso di sconforto: ammesso e non concesso che esso possa veramente e stabilmente immunizzarci, se non lo possiamo utilizzare, psicologicamente parlando tutti i sacrifici diventano inutili. È come difendersi dalla bomba atomica con un ombrellino da spiaggia, quando i rifugi non esistono o restano chiusi.

Ricordo un mio compagno di classe: durante un’esercitazione orale impostò la soluzione di un problema, dando per scontato un dato che alla fine del ragionamento si rivelò inesistente. L’insegnante la considerò quasi una presa in giro e lo rimproverò aspramente.  Assomigliamo un po’ tutti a quel mio simpatico amico: sfuggiamo dalle nostre responsabilità, addossandole agli altri e dando per scontato ciò che scontato non è.

La scena è molto complessa, preoccupante e frastornante. Alla fine ritorno al punto da dove sono partito: non resta che agire con serietà, prudenza, correttezza e…sperare bene. La speransa di mäl vesti, ch a faga un bón invèron?

 

 

La Milano-Sanremo ha cambiato sport

Anche il virus sanremese, che peraltro circola da anni colpendo milioni di persone, ha la sua “variante Ibrahimoviciana”, che lo sta rendendo ancor più contagioso. Il festival di Sanremo è da sempre non solo e non tanto un evento musicale, ma un fenomeno di costume, se vogliamo, una sorta di potente baraccone, di avvolgente circo, che attira per settimane l’attenzione più col gossip e con le sfilate di vip che con le canzoni (sono ormai ridotte a pura tappezzeria).

Premesso che il calciatore Zlatan Ibrahimovic è libero di fare quel che vuole, considerato che il permesso per questa danarosa incursione sanremese glielo ha concesso il suo datore di lavoro, vale a dire l’Associazione Calcio Milan (contenti loro…), accertato che i più importanti e quotati giocatori di calcio sono ormai diventati a tutti gli effetti delle star dello spettacolo, ci può stare che un professionista poco serio lasci i suoi impegni contrattuali per dedicarsi ad altro.

Ho sentito autorevoli e opportunisti giornalisti e commentatori fare i salti mortali etici e calcistici per giustificare una vicenda che di etico non ha proprio nulla e di calcistico ancor meno. La nostra società va così: tutti, chi più chi meno, si divertono a rubare mestiere e proscenio agli altri in mezzo a fiumi di denaro e di applausi (fino a quando non lo so). Se il mondo del calcio avesse delle regole serie Ibrahimovic, dopo il disgustoso episodio della lite furibonda con l’avversario interista Romelu Lukaku, sarebbe stato squalificato per alcuni mesi e allora sarebbe stato ancor più libero di partecipare al Festival di Sanremo. Se il calcio fosse una professione seria non dovrebbe ammettere clamorose distrazioni canore (?), ma, considerata anche l’entità degli ingaggi, dovrebbe richiedere impegno e dedizione totali. Siccome però non è una cosa seria, tutto è possibile ed ammissibile, compreso il fatto che prezzolati cronisti Rai facciano i difensori d’ufficio dell’indifendibile passeggiatore (e non palleggiatore). D’altra parte guai a disturbare il sistema, guai a soffiare sul castello di carte, potrebbe crollare tutto da un momento all’altro.

Mio padre, così come era obiettivo e comprensivo in generale, per quanto concerne il calcio sapeva essere intransigente verso le scorrettezze del pubblico, ma anche dei giocatori. Soprattutto pretendeva molto dai grandi campioni superpagati, arrivava alla paradossale esigenza del gol ad ogni tiro in porta per un fuoriclasse come Zico (col da la ghirlanda) incoronato re di Udine al suo arrivo nella città friulana: cose da pazzi! Ma non solo con Zico anche con altri cosiddetti fuoriclasse: mio padre non accettava gli ingaggi miliardari, ne avvertiva l’assurdità prima dell’ingiustizia, faceva finta di scandalizzarsi, ma in realtà coglieva le congenite contraddizioni di un sistema sbagliato. Mi riferisco al sistema calcio ma anche al sistema più in generale. E capisco mio padre che non era capace, per sua stessa ammissione, di farsi pagare per il giusto, che non osava farsi dare del “lei” dai garzoni, che aveva uno spiccato senso del dovere e non concepiva, nella sua semplicità di vita, questi lauti guadagni. Sogghignava di fronte agli scandalosi ingaggi: “Mo co’ nin farani äd tutt chi sòld li, magnarani tri galètt al di?”.  Scherzi a parte mio padre era portatore di un’etica del dovere, del servizio e reagiva, alla sua maniera, alle incongruenze clamorose della società.

Amava mettere a confronto il fanatismo delle folle di fronte ai divi dello sport e dello spettacolo con l’indifferenza o, peggio, l’irrisione verso uomini di scienza o di cultura. Diceva: “Se a Pärma a véna Sofia Loren i corron tutti, i s’ mason par piciär il man, sa gnìss a Pärma Fleming i gh’ scorèzon adrè”. E con Ibrahimovic c’è ben meno di Sophia Loren, da tutti i punti di vista.

Ma torniamo a Sanremo: mi rifiuto di cadere in questa trappola, in questo spettacolo ingannevole, giunto ormai al limite della Tv spazzatura.  Da tempo immemorabile non seguo questa assurda kermesse, quest’anno ho un motivo in più per disertarla: la presenza di Ibrahimovic. Fosse solo questione del festival di Sanremo…Il problema è anche il calcio, il più bel gioco del mondo, che sta cadendo così in basso. Me lo stanno rovinando. Pazienza, vorrà dire che mi consolerò col Parma, che con ogni probabilità retrocederà in serie B, laddove, forse, c’è un po’ meno bagarre affaristica e divistica e un po’ più calcio giocato.

Torno coi ricordi al tempo in cui il Parma era stato promosso, per la prima volta, in serie A. Dopo un campionato trascinante ed entusiasmante, finalmente salivamo nell’Olimpo: da parte mia non ripudiavo gli anni difficili, quelli gloriosi e sofferti. La partita d’esordio in serie A ci metteva in soggezione davanti alla Juventus ed un pubblico strabocchevole si preparava a varcare i cancelli del “Tardini” ampliato, ristrutturato, messo a nuovo anche se non ancora pronto per un ruolo diverso. Si respirava un’aria di attesa, ma anche di confusione e di disorganizzazione da esordio, tale da creare una ressa pazzesca all’ingresso ed una lunga coda sotto un sole ancora cocente, in un clima nuovo a cui non si era abituati. Mi venne spontanea una battuta, molto meno bella rispetto a quelle che elargiva mio padre con la sua solita nonchalance, che tuttavia risultò abbastanza buona e fu accolta con una risata generale: “Mo se stäva bén quand al Pärma l’era in serie B o C. A s’ gnäva al stadio a l’ultim minud, sensa còvvi e sensa confuzjón. Quäzi, quäzi, tornaris indrè”.