Letta ad una piazza

Il segretario del Pd Enrico Letta va all’attacco di Matteo Salvini dopo lo scontro nella maggioranza sul tema della rottamazione delle cartelle esattoriali. Scontro che ha visto unito l’asse Lega-M5S, favorevoli a un condono totale, contro Pd e Leu propensi a un intervento più misurato.

“Molto bene – scrive Letta su Twitter – Il Decreto Sostegni interviene su salute, scuola, turismo, cultura e aiuta lavoratori e imprese. Bene Draghi. Bene i Ministri. Male, molto male che un segretario di partito tenga in ostaggio per un pomeriggio il cdm (senza peraltro risultati). Pessimo inizio Salvini”. Dopo qualche ora arriva la replica del leader leghista: “C’è chi pensa allo ius soli e c’è chi pensa ad aiutare gli italiani in difficoltà con un decreto da 32 miliardi. Basta con le polemiche, Enrico stai sereno”.

Se Enrico Letta è tornato in campo per innescare simili scaramucce, poteva tranquillamente starsene a Parigi a fare il finto notabile. Volenti o nolenti, col governo Draghi, Salvini è stato costretto a scendere a più miti consigli rispetto alle sue solite sbruffonate. Non andiamo a stuzzicarlo in un nostalgico gioco di cui l’Italia può fare a meno. Non mi sembra proprio il caso di vivere con la strumentale paura politica che Draghi finisca col darla su a Salvini per il quieto vivere, spostando l’asse governativo a destra.

Capisco l’esigenza identitaria del Pd, ma non partiamo col piede sbagliato, cercandola nello scontro a tutti i costi con un traballante Salvini, offrendogli demenziali assist che lo rafforzano agli occhi del suo elettorato assai spiazzato e perplesso sul nuovo corso leghista. Non confondiamo la strategia con la tattica e la tattica con la polemichetta spicciola.

Provo ad andare al merito della compatibilità di un condono fiscale, consistente in un colpo di spugna sulle cartelle esattoriali passate, con l’esigenza di non premiare l’evasione. In linea teorica appare come un premio ai furbi e l’ennesima botta ai coglioni. Non è però il momento di sottilizzare e un segnale, seppure equivoco, di disponibilità ad alleggerire le tasse non mi sembra del tutto sbagliato. Siamo in un momento talmente drammatico da rendere giuste le cose ingiuste, pur di galleggiare sul mare di cacca che ci inonda. Non credo che Draghi abbia solo voluto dare un contentino a Salvini, ma offrire una ragionevole via d’uscita a contribuenti probabilmente scorretti ma attualmente in gravi difficoltà.

E poi non resta altro che continuare a fidarsi di Draghi: lo abbiamo giustamente invocato ed ora teniamocelo stretto e diamogli una mano senza creargli grane politiche. In altri tweet il segretario dem ha lodato l’azione dei suoi ministri, Dario Franceschini e Andrea Orlando, per gli interventi a favore rispettivamente della Cultura e della protezione dei lavoratori. E ha concluso: “Il Pd unito rende efficace e forte il governo”. Politica di bassa macelleria. Appaiono fuori luogo questi giochetti a mettere il cappello sul governo Draghi quando fa comodo e scaricare le colpe sulla Lega quando il governo adotta provvedimenti non del tutto condivisibili.

In casa PD sento uno strano odore di improvvisazione con un vogliamoci bene vuoto e inconcludente. Scaricare le incertezze e contraddizioni interne facendo guerra al nemico esterno è un vecchio trucco, che lascia il tempo che trova. Non sto capendo niente di quel che succede nel partito democratico: non pensi Enrico Letta di emozionare gli elettori, sventolando qualche sacrosanta seppur logora bandierina identitaria (mi riferisco allo ius soli). Se voleva fare incazzare Salvini, non c’è riuscito perché il leader leghista non aspettava altro. Se intendeva ricompattare l’area di sinistra, sappia che non sarà così semplice in vista del dopo Draghi e delle prossime elezioni. Se voleva tracciare una strada, temo che il vento disperda in fretta un simile segnale direzionale. Aspetto e spero qualcosa di più.

 

Il rigorismo irride al rigore

A leggere le regole dettate per i comportamenti dei cittadini in zona rossa, c’è di che rimanere sbalorditi, non tanto per i sacrifici imposti dalle restrizioni, ma per le incongruenze e le assurdità che si intravedono. Ne prendo una a caso, a mio giudizio una delle più clamorose ed assurde.

Non si possono visitare parenti e amici residenti in altri ambiti territoriali: se ho mia madre che abita sola ed ha bisogno di conforto e di aiuto, cosa faccio? Rientra nei casi di necessità? A stretto rigore direi di no! Usando il buon senso direi di sì. Mentre il rigore della legge (?) è scritto, il buonsenso è lasciato alla discrezionalità di chi controlla. Non voglio offendere nessuno, tanto meno chi si fa il mazzo per contenere le cazzate dei “furbetti della zona rossa”. Però mio padre, che la sapeva lunga, con una simpatica ed “anarchica” battuta fucilava l’autoritarismo dall’alto al basso e dal basso all’alto: “A un òmm, anca al pu bräv dal mónd, a t’ ghe mètt in testa un bonètt, al dventa un stuppid”.

La responsabilità tuttavia non è di chi ha il berretto in testa, ma di chi gli carica la testa. In occasione di un torneo di calcio giovanile giocato in notturna allo stadio Tardini, gli organizzatori posero all’ingresso una persona molto rigorosa con la mission di non fare entrare nessun estraneo e per nessun motivo. Detto e fatto.  Quando cominciò a scendere la sera, si presentò l’addetto all’impianto di illuminazione: non ci fu verso di convincere il controllore a lasciarlo entrare. L’operaio piuttosto irritato disse: “Ebbene, io me ne vado al bar qui di fronte e aspetto; se avete bisogno mi venite a chiamare…”. Cominciò a farsi scuro e dagli spalti piovvero non poche grida del tipo: “Pioción…il  luzi… o vriv ‘na candela…”. È facilmente immaginabile l’imbarazzo degli organizzatori del torneo, messi alla berlina e beffeggiati. Si scatenarono i rimproveri sulla testa del povero controllore dell’accesso allo stadio: si prese lui la colpa, ma in realtà la responsabilità dell’accaduto era ascrivibile a ben altri soggetti più altolocati, comodamente seduti in tribuna vip.

Il governo dei tecnici mi sta, tutto sommato, simpatico, ma, in un certo senso, comincia a “rampärom su par ‘na bräga”. Marta Cartabia è una costituzionalista, giurista e accademica: dal 13 febbraio 2021 è ministro della giustizia nel governo Draghi. Dal 2019 al 2020 è stata presidente della Corte costituzionale, diventando la prima donna a ricoprire tale carica. Prima di occuparsi del sesso degli angeli (forse sarebbe meglio dire degli angoli) della riforma della giustizia, non poteva almeno sciacquare in Arno le regole del finto lock down, cercando di renderle agibili prima di darle in pasto ai cittadini sempre più indispettiti ed ai controllori sempre più spazientiti? Bastava poco… mai come nella situazione in cui stiamo vivendo è opportuno abbandonare i massimi sistemi per affrontare le questioni elementari, quelle che ci lasciano vivere.

Già comunque le autodichiarazioni mi irritano, figuriamoci se dovessi scrivervi sopra che vado a casa di mia madre che sta male e ha bisogno di assistenza. Chi controlla mi crederà? Mi farà perdere un sacco di tempo prezioso? Mi scorterà fino all’abitazione di mia madre? La interrogherà? Magari lei, per non disturbare, negherà di avere bisogno. E allora? O merda o brétta rossa!!! Cosa significa? Non mi resterà che inoltrare una richiesta di risoluzione ministeriale al riguardo. Chissà che la ministra Cartabia non scenda dall’olimpo e cominci ad interessarsi di noi poveri mortali in zona rossa.

Mio padre si divertiva a raccontare uno strano e paradossale episodio che lo aveva visto quale malcapitato protagonista alla stazione di Parma. Vorrei ricordarlo, perché merita una certa attenzione. Da zio affettuoso e premuroso aveva accompagnato in stazione una nipote di Genova che ci era venuta a far visita per qualche giorno con i suoi figli ancora molto piccoli. Valigie e bambini avevano consigliato mio padre a salire sul treno in partenza per poter meglio collocare il bagaglio e salutare i nipoti. Tutto fatto, scende dal treno.  Ed ecco un addetto della polizia ferroviaria si avvicina e chiede il biglietto. Risposta ovvia: “Non ho biglietto perché non ho viaggiato, sono salito solo per aiutare mia nipote.” Replica: “Per me lei è un viaggiatore che scende dal treno senza biglietto, favorisca i documenti.” Spazientito, ma corretto, si reca con il poliziotto nel piazzale antistante la stazione, dove aveva parcheggiato la motocicletta, per esibire la patente. Verbale redatto nonostante le resistenze. Dopo qualche giorno arriva a casa una sonora contravvenzione e mio padre, inizialmente orientato a pagare e tacere si lascia convincere a ricorrere al pretore. Processo bello e buono. Il giudice capisce la situazione quasi da farsa e chiede al poliziotto: “Ma a lei non è venuto in mente che, avendo la motocicletta nel piazzale, l’imputato potesse avere raccontato una verità piuttosto plausibile?” Risposta: “Per me era un viaggiatore che scendeva dal treno ed era senza biglietto!  “Assoluzione con formula piena”, nemmeno la sanzione per non aver pagato il biglietto entrando in stazione (allora per il solo fatto di varcare la soglia della stazione si doveva corrispondere un piccolo obolo), perché ormai tutti non osservavano tale obbligo (cominciando dai nonni che conducevano i nipotini a vedere il treno). Mio padre si pavoneggiava, assai divertito, per aver provato l’emozione di sedersi sul banco degli imputati, ma la morale dell’episodio la lascio tirare ai lettori.

Papà, sia chiaro, non infieriva sul poliziotto, non era nel suo stile, traduceva l’episodio in stile di vita: far del bene, a volte, costa doppiamente caro, mentre chi vuol fare i cazzi suoi può continuare a farli senza timore di essere disturbato. Quanto al berretto in testa (autorità), ho già detto anche troppo. D’altra parte i controlli non sono forse uno dei punti deboli della strategia anti-pandemica?

 

 

L’unica risposta alle bestemmie della disperazione

Il 18 marzo 2020 a Bergamo i camion dell’esercito portarono via centinaia di bare con morti destinati alla cremazione fuori città. Negli occhi di tutti quell’immagine straziante fu percepita e rimarrà come simbolo della tragedia provocata dal covid, una tragedia in cui purtroppo siamo ancora immersi e solo Dio sa se e come potremo mai uscirne.

Giusta e opportuna l’idea di eleggerla come giornata del ricordo delle vittime. Speriamo non diventi mai l’occasione per celebrazioni di mera circostanza. Ho il massimo rispetto per le parole pronunciate dalle autorità civili, condivido pienamente il senso di commozione e di solidarietà espresso nelle diverse sedi istituzionali e sociali.

Proprio in data 18 marzo 2020 scrivevo in un mio commento ai fatti del giorno: è angosciante pensare ai malati confinati, nella migliore delle ipotesi, nel proprio appartamento o addirittura in una stanza della propria abitazione, ben peggio in una camera ospedaliera, o peggio ancora in un letto di un reparto di terapia intensiva o peggio ancora in una solitaria agonia. La solitudine è rotta dalla presenza dell’eroico personale ospedaliero, costretto ad un lavoro massacrante, a rischiare la pelle per aiutare i malati, a vederli morire, a fare scelte terapeutiche probabilmente drammatiche e paradossali. L’isolamento riguarda e paralizza i rapporti umani con i propri famigliari, con i propri amici ed anche con la comunità cristiana di appartenenza. Quanti fratelli e quante sorelle sono morti e stanno morendo senza nemmeno “un cane che gli lecchi le ferite”, ancor più soli del povero Lazzaro, senza il conforto delle persone amate, senza il viatico sacramentale, senza un sacerdote che li assolva dai peccati, senza qualcuno che li accompagni nell’ultimo viaggio, persino senza un rito esequiale dopo la morte. Ho pensato a questo e ne sono rimasto letteralmente sconvolto. È il più brutto aspetto di questa tremenda epidemia.

In una successiva occasione mi sono permesso di aggiungere una (quasi) bestemmia (?), proveniente dall’angoscia e dalla paradossale contraddizione della sofferenza, che porta sempre alla solitudine, ma non totale. Gesù sulla croce si sente solo e abbandonato, ma c’è sua madre Maria, sua zia Maria di Cleofa, c’è la Maddalena che lo ama svisceratamente, c’è il discepolo amato, c’è la sua umana famiglia da cui Lui fa scaturire la Chiesa. Anche allora vi era il divieto di avvicinare i condannati a morte, di toccare i cadaveri, in un mix umano-etico-religioso di regole per evitare un diverso, ma ben più paradossale, contagio. Il dolore dei moribondi covid rischia pertanto di andare oltre quello di Cristo.  È tutto dire.

Ecco perché personalmente resto alla ricerca di un senso profondo da dare a tale interminabile evento di dolore, sofferenza, lutto e pianto.  In questi giorni ho ascoltato su internet parole che mi hanno umanamente, culturalmente e cristianamente, rasserenato: la lectio del cardinale Gianfranco Ravasi, tenuta il 25 giugno 2017 al Policlinico Gemelli in occasione della XXV Giornata Mondiale del Malato, sul tema: “Il dolore innocente: sfida per la fede”.

In essa è contenuto qualcosa di fondamentale, che peraltro torna di grande attualità nel clima di sofferenza che stiamo vivendo: senza presunzioni teologiche e senza scappatoie clericali, viene avanzata l’unica vera ragione del credere, in base a Cristo, il Dio che paradossalmente decide di soffrire con e come noi.

Ravasi è un gigante – peraltro riesce ad esprimere concetti di una profondità pazzesca con una proprietà di linguaggio unica, con una semplicità di esposizione disarmante e con un approccio laico molto invitante ed esauriente – davanti al quale mi sento meno di un nano, ma ha la capacità di sollevarmi dalle mie miserie e povertà umane, morali, culturali e religiose.

Il porporato ha articolato la sua riflessione partendo dall’oscurità e dalla mancanza di senso, il cardinale Ravasi osserva: «Il dolore spesso genera disperazione; non bisogna giudicare questo stato d’animo». Da qui l’affermazione di Martin Lutero: «Dio, probabilmente gradisce molto di più le bestemmie dell’uomo disperato, che non le lodi compassate del borghese benestante la domenica mattina durante il culto». E dall’oscurità che ogni tanto attanaglia il credente e il non credente, non è esente l’uomo di Chiesa.

Di fronte alla questione della presunta impotenza/ostilità di Dio, riassunta nell’interrogativo che spesso suscita ribellione “Dio non toglie il male perché non può o non vuole?”, il porporato ha poi spiegato che male e sofferenza sono strutturali alla creatura che di sua natura comprende questo limite: «Ma la risposta – aggiunge Ravasi – risiede nella “cristologia della sofferenza”. Dio decide di entrare attraverso il Figlio in questa qualità che non è sua, nella nostra carta d’identità, la realtà umana. E nel racconto della passione, gli evangelisti si sforzano di far patire a Cristo tutti i mali possibili, paura della morte, solitudine, tradimento degli amici, tortura, crocifissione e morte per asfissia, ed è una gran brutta morte, ma l’apice è il silenzio del Padre».

Secondo la tesi di Ravasi, il dolore umano viene attraversato dal divino: «Per questo – aggiunge – non è più come prima. Proprio perché Cristo non cessa di essere Figlio di Dio, Egli assumendo il dolore e la morte lascia in essi un germe di divino e di luce. Grazie a questa condivisione per amore, Dio non ci guarisce dal dolore, ma ci sostiene in ogni sofferenza».

Per approfondire ancora meglio il concetto, il cardinale ha citato Dietrich Bonhoeffer, l’oppositore di Hitler ucciso in un lager: “Dio è impotente e debole nel mondo e così e soltanto così rimane con noi e ci aiuta… Cristo non ci aiuta in virtù della sua onnipotenza ma in virtù della sua sofferenza”. Nella sua lectio sul dolore innocente, il porporato ha poi affermato: «Dio soffre in Cristo, che nella sua vita terrena è diventato fratello dei sofferenti».

A conclusione Ravasi ha ricordato la commovente testimonianza di un ateo, agnostico e anticlericale come Ennio Flaiano, padre di una bambina colpita a otto anni da encefalopatia. Dopo la morte dello scrittore, venne trovato tra le sue carte l’abbozzo di una sceneggiatura per un film dedicato al ritorno di Cristo sulla terra, circondato e infastidito da tv e giornalisti, attento solo ai malati e agli ultimi: “Non voglio che tu la guarisca – chiede nel film a Gesù un uomo portando con sé la sua bambina malata che cammina a fatica –, ma voglio solo che tu l’ami”. Gesù, scrive Flaiano, baciò quella ragazza e disse: “In verità, quest’uomo ha chiesto ciò che io posso dare”.

Non trovo altro senso alla sofferenza in genere ed all’immane tragedia che ci ha colpito, tale da togliermi dalla disperazione. A chi osa contestare questa mia convinzione, considerandola magari una pia illusione, rispondo con rispetto ma con altrettanta convinzione alla maniera di mio padre. Quando qualcuno definiva assurda e meramente consolatoria la risposta cristiana ai misteri della vita, della morte e del dolore, mio padre era capace di fare da laico un passo indietro e rispondere: “Alóra, catni vùnna ti !!!”.

Per me quindi la risposta all’immagine della tragica sfilata dei camion con le bare dei morti da covid non può che essere la scena eloquente e coinvolgente di papa Francesco, che tocca il Crocifisso in una piazza san Pietro svuotata di tutto e piena solo di paura. La paura tende a crescere, ma solo il Crocifisso è sempre lì a rassicurarci. A gridare per noi e con noi: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.

Gli amici del giaguaro-vaccino

In piena bagarre AstraZeneca, esce un documento stilato da Inail, Iss, ministero della Salute e Aifa contenente nuove raccomandazioni per i vaccinati: un autentico rompicapo, che sembra fatto apposta per scoraggiare l’adesione dei cittadini alla vaccinazione, peraltro già fortemente compromessa dalle allarmanti o allarmistiche (come di si voglia) notizie sui potenziali rischi conseguenti alla vaccinazione stessa (per ora si parla solo di AstraZeneca).

La prima reazione è stata quella di non leggere questo documento per evitare di aggiungere ansia ad ansia, poi mi sono fatto forza e l’ho letto e riporto di seguito le impressioni senza entrare nel merito (non ne ho le capacità). In buona sostanza si butta una secchiata di acqua gelida sulle pur timide speranze di un ritorno alla normalità post-vaccinale.

Mi si perdonerà la seguente digressione evangelica. “Si avvicinarono a lui (Gesù) alcuni che erano del gruppo dei farisei. Essi volevano metterlo in difficoltà, perciò gli domandarono: «Un uomo può divorziare dalla propria moglie per un motivo qualsiasi?». Gesù rispose: «Non avete letto ciò che dice la Bibbia? Dice che Dio fin dal principio maschio e femmina li creò. Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due saranno una cosa sola. Così essi non sono più due ma un unico essere. Perciò l’uomo non separi ciò che Dio ha unito». I farisei gli domandarono: «Perché dunque Mosè ha comandato di mandar via la moglie dopo averle dato una dichiarazione scritta di divorzio?». Gesù rispose: «Mosè vi ha permesso di mandar via le vostre donne perché voi avete il cuore duro; ma al principio non era così. Ora io vi dico: se uno manda via la propria donna – salvo il caso di una relazione illegale – e poi ne sposa un’altra, costui commette adulterio». Allora i suoi discepoli gli dissero: «Se questa è la condizione dell’uomo che si sposa, è meglio non sposarsi»”.

Qualcuno, forse a ragione, penserà che questa citazione c’entri come i cavoli a merenda. L’ho introdotta solo per rendere l’idea della durezza delle regole post vaccinazione, tale da mettere seriamente in dubbio la convenienza a vaccinarsi. Oserei dire in azzardata similitudine: “Se questa è la condizione del vaccinato, è meglio non vaccinarsi!”. Già in partenza occorre fare un bilancio preventivo e presuntivo tra rischi e benefici. Superato questo primo ostacolo psicologico, se ne pone quindi un altro: vale la pena vaccinarsi per poi dover continuare ad osservare dure regole di comportamento come se non si fosse vaccinati? Tutto perché la copertura è assai incerta e la prudenza non è mai troppa. Infatti in concomitanza con il varo di questo documento arriva la notizia che il vaccino AstraZeneca non sarebbe efficace contro la variante sud-africana del virus: la ciliegina sulla torta.

Verrebbe da chiedersi: a che gioco giochiamo? Da una parte incoraggiamenti e rassicurazioni, dall’altra messaggi chiaramente non solo cautelari ma oserei dire scoraggianti e paralizzanti. La vicenda sta assumendo sempre più toni pirandelliani.

Chi ci assiste dal punto di vista medico-sanitario dovrebbe aiutarci a risolvere i nostri problemi di salute e possibilmente non complicarceli ed implementarceli, introducendo dubbi e paure nel nostro già precario equilibrio psicologico. La strada della vaccinazione si fa sempre più ripida e problematica. Nessuno ci sta aiutando a decidere, si stanno scaricando sulle nostre spalle i problemi che la scienza non ha il coraggio di risolvere (sarebbe chiedere troppo), ma nemmeno di affrontare? Ed ecco un’altra citazione evangelica. “In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Quanto vi dicono, fatelo e osservatelo, ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno. Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini: allargano i loro filattèri e allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare “rabbì” dalla gente».

C’era un mio amico che si preoccupava molto dei toni da usare nei confronti delle persone altolocate, in particolare dei suoi superiori gerarchici a livello professionale, al punto da chiedersi: «Sónja stè pòch complimentôz con la mojéra dal mè diretór?». Non ho simili scrupoli e forse a volte esagero, ma lo faccio a fin di bene (sic!). E non mi interessa un cavolo di indispettire le mogli (o i mariti) di scienziati, virologi, microbiologi, infettivologi, primari ospedalieri, medici di base, capi di governo, ministri, sottosegretari, parlamentari etc. etc. Loro non si scompongono e continuano imperterriti a sputare le loro sentenze. Mia sorella era forse ancor più caustica di me e chiosava sarcasticamente: «Tant, se i sbaglion, at mór ti…e miga lôr».

 

Quer pasticciaccio brutto de AstraZeneca

Come si suole dire in dialetto parmigiano, l’ho tôta su dólsa: ho reagito cioè in modo semiserio all’incipiente casino della vaccinazione AstraZeneca. Poi però, vuoi per la crescente dimensione del fenomeno, vuoi per le ripercussioni che si sono giustamente estese, vuoi soprattutto per le reazioni degli addetti ai lavori, ho dovuto riflettere seriamente su quello che sta diventando un vero e proprio pasticciaccio.

La politica, come al solito – non c’è Draghi che tenga – ha balbettato giocando da una parte penosamente di rimessa e dall’altra gridando strumentalmente al reiterato scandalo europeo. Fatto sta che con grave ritardo e con il solito mancato concerto l’Unione Europea si è mossa a rimorchio degli eventi dando l’impressione alla gente di essere abbandonata a se stessa. Dopo la inqualificabile contrattazione è arrivata la colpevole fuga dalle responsabilità. Lungi da me fare il verso ai salvinisti di turno, ma la UE ha perso due occasioni storiche per battere un colpo ed ha brillato per la propria inconcludenza: una ferita non facile da rimarginare.

La scienza, come al solito, ha parlato lingue diverse: si è andati e si va dalla cautela grilloparlantesca alla sicumera pinocchiesca. Si continua a (s)parlare bene. Le reazioni metodologicamente più intelligenti hanno registrato una certa soddisfazione per la pausa di riflessione, più subita che adottata con l’illusione di poter riprendere nel giro di pochi giorni a pontificare come e meglio (si fa per dire) di prima. Non sarà più come prima, il terreno è stato inquinato e non potrà mai più essere veramente bonificato: la perdita di credibilità della campagna vaccinale sarà irrimediabile con enormi ripercussioni sulla già drammatica situazione. Abbiamo sprecato in tutto o almeno in parte l’arma più importante che avevamo in mano. A tutti, come minimo, anche nella migliore delle ipotesi, rimarrà il dubbio sulla innocuità del vaccino e sui pronunciamenti scientifici futuri resterà l’ombra dell’opportunismo, vale a dire della “ragion di vaccino”. Oltre tutto varrà la regola del vaccino cattivo che scaccia quello buono: AstraZeneca trascinerà nel dubbio e nella perplessità anche tutti gli altri vaccini presenti e futuri, fornendo un assist incontenibile al dilagamento del “no vax”.

Le autorità scientifiche – c’è da perdere la testa con tutte le sigle che si sovrappongono ai vari livelli – inizialmente restie a prendere il toro per le corna, hanno ripiegato su un burocratico atteggiamento di rimessa, della serie “accertiamo e rassicuriamo tutti”, senza ammettere che non si accerterà un bel niente e si rassicurerà ancor meno. La frittata è fatta e anche il più serio ed equilibrato cittadino avrà sempre l’atroce dubbio che tutto sia dovuto alla fretta poco scientifica e molto concorrenziale con cui è stata gestita la ricerca e la produzione dei vaccini in presenza di controlli insufficienti da parte delle stesse autorità scientifiche e in assenza totale di controlli da parte delle autorità di governo nazionali, europee e mondiali. Se lo Stato non ha il potere di intervenire sulla strategia delle grandi imprese farmaceutiche in un simile drammatico frangente, mi chiedo cosa ci stia a fare. Qualcuno dirà che sto diventando comunista, magari un comunista di sagrestia come sono sempre stato considerato. Mi sovviene al riguardo una frase di dom Helder Camara, vescovo brasiliano: «Quando do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo, ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista».

I più intelligenti ed equilibrati commentatori di politica economica si limitano a registrare la soddisfazione per essere, tutto sommato, arrivati in tempi brevi ad un vaccino capace di tirarci fuori dai guai e rimettere in carreggiata lo sviluppo economico. Sono i benpensanti sistemici, che non hanno capito niente o meglio fingono di non capire che l’economia, se e quando ripartirà, lo dovrà fare con un treno totalmente diverso. Non c’è vaccino che tenga, figuriamoci se potrà tenere AstraZeneca…

Si fa un gran discutere della terza ondata pandemica, a che punto sia e se farà ulteriori danni. Ebbene siamo riusciti a inventare la quarta ondata, quella del dubbio e della paura vaccinale: temo che purtroppo non abbia ritorno. Avete presente rimettere il dentifricio nel tubetto dopo averlo sprecato nel lavandino? Comunista e pessimista!

 

I vacén dal tramlòn

“Un’altra morte sospetta, a Biella, di un insegnante di musica, 57 anni, che il giorno prima aveva ricevuto il vaccino di AstraZeneca. E una volta di più scatta il cortocircuito. Le autorità sanitarie del Piemonte si precipitano a bloccare il siero anglo-svedese (salvo precisare due ore dopo che si sospenderà solo un lotto). Non sono le sole, peraltro, visto che anche l’Irlanda ieri ha sospeso le vaccinazioni con AstraZeneca, allineandosi alla Norvegia, e seguendo i timori di Danimarca, Islanda, e Bulgaria” (la Stampa del 15 marzo 2021). Seppure in ritardo anche Francia, Spagna, Germania e Italia hanno interrotto le somministrazioni di AstraZeneca.

“Stai sereno” disse il conte Renzi e dopo qualche giorno vomitò nell’ampia scollatura della contessa Letta. Ci sono voluti alcuni anni per ricomporre quella imbarazzante scollatura: la rivincita della serenità è arrivata, ma c’è voluto il suo tempo e poi…le cose non sono comunque più le stesse.

Nella mia classe avevo uno stupendo compagno di banco insieme al quale ho fatto tutto il cammino scolastico: era bravo, studioso, collaborativo, paziente, coraggioso. Era però piuttosto emotivo e, quando veniva interpellato dagli insegnanti, andava un po’ in agitazione. Agli altri compagni non pareva vero metterlo in qualche ulteriore difficoltà allorquando un professore chiedeva chi volesse leggere il brano oggetto della lezione: «… legge molto bene!». Poi, non contenti di averlo messo in imbarazzo, si rivolgevano a lui e lo infastidivano dicendo: «Su, mi raccomando, stai calmo…». E lui naturalmente si agitava ancor di più.

È una storia vecchia come il cucco: se vuoi mettere in ulteriore agitazione una persona, a prescindere dal motivo che la sta assillando, dille continuamente di stare calma e otterrai immancabilmente il risultato consistente in una irrefrenabile, incontenibile e paralizzante apprensione. Detta con la gustosa acutezza di mio padre: «Se du i s’ dan dil plati par rìddor, a n’è basta che vón ch’a guarda al digga “che patonón” par färia tacagnär dabón».

Tutti i giorni purtroppo da AstraZeneca arriva un patonón vaccinale, fatto di misteriose morti di persone sottoposte a vaccinazione: partono i sequestri dei lotti di vaccino da cui provenivano le dosi sospette (‘L è mei stär in-t-i primm dan), partono gli alt ampi e cautelativi in alcuni Stati, fra cui, seppure in ritardo, anche l’Italia (I stan da la pärta dal mánogh); l’azienda produttrice smentisce categoricamente ogni e qualsiasi collegamento con la qualità del prodotto (e fin qui la cosa potrebbe essere addirittura ovvia: “Dmanda a l’òst s’al ga dal vén bón”); le autorità scientifiche, come al solito in ordine sparso, lanciano messaggi tranquillizzanti (non fosse altro che per evitare pessime figure dopo avere testato la validità di questo vaccino: “Méstor mi e méstor vu e la zana d’indò vala su?”); le autorità di governo, per tutte il ministro Speranza, che forse ci ha piantato un pisolino – il cui nome in questo caso rischia di suscitare più ilarità che tranquillità (“La sperànsa di malvestìi ca faga un bón invèron”) – affermano apoditticamente che “in Italia i vaccini utilizzati sono efficaci e sicuri”(I nin san cmè un pòvor butér); le autorità giudiziarie aprono inchieste a babbo morto previe autopsie (con eserciti di periti dispiegati sul campo: “Scampa caval che l’èrba la crèssa”).

Il minimo che possa succedere è un attacco generalizzato di panico: vai a far capire che forse tutto è puramente occasionale, che tutti i farmaci possono avere reazioni letali, che, insomma, una rondine mortale non guasta la primavera vaccinale.

In mezzo alle delinquenziali gufate dei no-vax, agli ironici sorrisetti demenziali dei negazionisti, ai supponenti e ultimativi messaggi degli addetti alla scienza, ai soliti burocratici pronunciamenti dei governanti, ci dovrebbe stare il silenzio dettato dal buonsenso assieme alla paura della gente, che fa novanta ed alla reazione composta e rassegnata delle persone, che, allargando le braccia, sussurrano “speriamo bene…”. Siamo ben lontani dagli assurdi inviti dell’“andrà tutto bene”. La serenità (?) è l’anima della sopravvivenza.

 

 

 

 

 

Il primadonnismo scientifico

Stakanovista è chi dimostra un esagerato attaccamento al lavoro, o chi lavora con un’intensità esasperata. Sulla piazza non ce ne sono molti, anche se gli operatori sanitari sono rientrati, un po’ per necessità e un po’ per virtù, in questa categoria impegnata al massimo sul fronte della lotta al coronavirus.

Un mio grande insegnante, quando sentiva parlare di “gloriosa marina” si innervosiva e aggiungeva: «Siamo tutti gloriosi nella misura in cui facciamo il nostro dovere…». In quest’ultimo periodo sono in prima linea i medici, gli infermieri, i becchini, etc. etc. anche se non sono gli unici a fare faticosamente e pericolosamente il proprio dovere. Basta pensare alle statistiche relative agli infortuni sul lavoro per rendersi conto di quanta gente lavora mettendo a rischio la propria vita.

L’intervista a Matteo Renzi, leader di Italia Viva, a Cartabianca è durata più del previsto e l’infettivologo invitato alla trasmissione, Massimo Galli, ha espresso il suo disappunto. “Un po’ scocciato? Un po’ troppo scocciato, abbia pazienza. Sono in piedi a lavorare dalle 6 di stamattina, posso capire tutto, ma faccio a meno”, ha detto Galli piccato a Bianca Berlinguer, la quale immediatamente per stemperare la tensione gli ha domandato se fosse preoccupato per la crisi di governo in atto: “Ma sono preoccupato anche dalla serqua di luoghi comuni che ho sentito, oltretutto, mi perdoni: forse è il caso che ne parliamo un’altra sera, con più calma e con più tranquillità”, la risposta dell’infettivologo. Poi, fortunatamente, è tornata la serenità e l’intervista è andata avanti.

Massimo rispetto per il professor Galli. La scena mediatica è spettacolarmente inflazionata: troppe trasmissioni futili, che sfornano chiacchiere a vanvera; troppi personaggi, che si fanno intervistare senza avere niente da dire; troppa politica parlata e poca politica “giocata” e via di questo passo. Purtroppo però questa malattia non ha risparmiato gli “scienziati”, che passano con eccessiva disinvoltura da uno studio televisivo all’altro, rubando tempo al proprio principale mestiere e finendo col creare parecchia confusione di idee addosso al povero telespettatore, che non sa più a chi credere e come comportarsi. In questo periodo è aperta una gara alla conquista del video: non partecipano solo i politici, ma anche i virologi, gli infettivologi, i medici specialisti. Quindi chi è senza peccato scagli la prima pietra.

Forse sono succube di una concezione seriosa e misteriosa che vede necessariamente gli scienziati chiusi nei loro blindati laboratori di analisi: ammetto di essere un retrogrado ed un misantropo, ma un po’ più di discrezione e di silenzio non guasterebbe.

Mi permetto di dare un suggerimento ai giornalisti e agli stakanovisti del covid parlato. Siamo in mezzo alle tensioni inerenti alla vaccinazione: anche qui purtroppo ci si capisce sempre meno. Il discorso si sta impantanando fra il senso civico e la libertà di coscienza. Prima di criminalizzare coloro i quali nutrono perplessità e paure e scelgono, non penso a cuor leggero o per partito preso, di non sottoporsi alla vaccinazione – fra di essi risultano peraltro esservi parecchi operatori sanitari – vorrei sapere quali sono le argomentazioni sulla base delle quali un medico o un infermiere si rifiuta alla vaccinazione attiva e passiva. Non saranno tutti stupidi, non saranno tutti amici del giaguaro, non saranno tutti chiacchieroni da osteria.

Già che ci sono pongo alla comunità scientifica un’altra questione. In conseguenza degli episodi allarmanti di possibili reazioni negative al vaccino astrazeneca, risulta che alcuni Stati (se non erro Bulgaria, Danimarca, Norvegia e Islanda) abbiano sospeso cautelativamente la somministrazione di questo vaccino. Saranno tutti allarmisti, fifoni d’occasione, esibizionisti della prudenza?

Mentre si stanno verificando altri inquietanti casi di soggetti colpiti da gravissime reazioni patologiche dopo essersi sottoposti alla vaccinazione con astrazeneca, bisogna registrare anche un presunto caso a rovescio, vale a dire lo scoppio di un focolaio di infezione in un reparto ospedaliero dove un’infermiera non si sarebbe vaccinata (tutti naturalmente pronti a criminalizzare questa operatrice sanitaria prima di sapere se effettivamente sia lei l’untrice di turno e soprattutto prima di sapere perché questa persona abbia fatto la scelta controcorrente).

Se non disturbo e senza togliere il meritato riposo agli stakanovisti del covid chiacchierato, vorrei capirne un po’ di più e ottenere, se possibile, risposte, non dico precise (la scienza medica non è come la matematica), ma almeno convincenti. Penso sia nell’interesse di tutti affrontare questi aspetti problematici, anche perché andare avanti con la testa nel sacco del dogmatismo vaccinale potrebbe avere serie ripercussioni sulla disponibilità della gente a vaccinarsi.

 

 

 

Quelli che fuggono per poi mordere

In riferimento all’atteggiamento verso gli incarichi rivestiti esistono quattro categorie di persone: quelle che rifuggono da ogni e qualsiasi tipo di incombenza ( nella nostra società in cui regna sovrano il protagonismo a tutti i costi, sono sempre meno questi soggetti recalcitranti); quelle che puntano spasmodicamente all’accaparramento di ogni e qualsiasi ruolo, meglio se ben remunerato e/o se ben in vista (sono gli arrampicatori sociali ante litteram); quelle che fanno finta di essere disinteressate e distaccate (si dimettono con la riserva mentale di tornare in sella più belli e più superbi che pria, sono parecchi e ancor più fastidiosi degli arrivisti dichiarati); quelle che hanno quasi la libidine della rinuncia, in essa si autoesaltano e trovano soddisfazione (faccio parte di quest’ultima categoria, un po’ per celia e un po’per non morir).

Non ho intenzione di improvvisare un saggio di psico-sociologia spicciola, ma solo di estrarre dal mio armamentario dialettico lo strumento utile a interpretare certi passaggi politici piuttosto strani e opachi. Mi riferisco a due personaggi che non si assomigliano al punto da essere venuti ai ferri corti. Enrico Letta venne letteralmente fatto fuori da Matteo Renzi dopo la ormai famosa battuta dello “stai sereno”: rimase così mortificato che decise di abbandonare la politica per dedicarsi all’insegnamento della politica (uno strano modo di cavarsene fuori, rimanendo attaccati al settore tramite un filo di acciaio inossidabile). Matteo Renzi dichiarò di volersi ritirare a vita privata qualora avesse perduto il referendum sulle riforme costituzionali: lo perse, si ritirò però fino a mezzogiorno. Questi due signori rientrano entrambi nella categoria dei finti-Cincinnato, che non tornano ad arare il loro terreno (anche perché, tutto sommato, non ce l’hanno) e condurre una vita fuori dall’agone politico (forse non ne sono capaci), ma si accontentano di svoltare l’angolo e di nascondersi dietro una comoda colonna in attesa di tempi migliori per rientrare in pista.

Renzi ha fatto un suo partitino (Italia viva) per riconquistare spazio di manovra, ha manovrato e sta manovrando contro tutto e tutti e forse non ci sta capendo più niente nemmeno lui. Probabilmente voleva distruggere il su ex partito (il PD, la sindrome dello spretato), voleva mandare in frantumi il M5S (dopo aver teorizzato e realizzato un accordo tattico con esso), voleva far fuori Giuseppe Conte (che stava prendendo troppo piede, intingendo la penna nel calamaio di centro a cui mirava lo stesso Renzi), voleva mandare in vacanza la politica (col governo Draghi) per guadagnare tempo. Obiettivi apparentemente tutti raggiunti, ma per costruire non basta distruggere, a volte serve, però prima o poi bisogna avere in testa un progetto e cercare di realizzarlo (mi sembra un discorso molto lontano dall’attuale orizzonte renziano).

Anche perché sta rispuntando il fantasma di Banco, quell’Enrico Letta a suo tempo defenestrato senza troppi riguardi. Anche lui ha fatto finta di abbandonare la politica, vive a Parigi dove insegna alla prestigiosa facoltà di Sciences Politiques e dirige la Scuola di affari internazionali. È bastato un timido richiamo proveniente dalla foresta piddina, sempre in gran subbuglio, per fargli cambiare repentinamente idea e farlo tornare sui suoi passi. Gli hanno chiesto il sacrificio di portare il Pd in salvo (come si fa con gli allenatori di una certa esperienza) e lui non si è fatto pregare più di tanto ed è tornato in sella.

La vita politica è piena di dualismi, più o meno seri: quello tra Renzi e Letta non mi sembra il massimo della serietà. Staremo a vedere. Quel PD, che Renzi voleva distruggere o comunque depredare suonando le sue trombe, si ripresenta suonando le campane di una enigmatica festa lettiana. Il cliente scomodo, che molti ritenevano uscito per sempre dall’orizzonte piddino, è sempre tra i piedi come una sorta di perpetua pietra d’inciampo.

Matteo Renzi parla molto, chiacchiera troppo, spesso a sproposito; Enrico Letta parla poco, tace fin troppo. Entrambi non si riesce a capire cosa vogliano e dove vogliano andare. Il primo lo definirei un pesce in barile, il secondo un pesce lesso. Ogni simile, in fin dei conti, ama il suo simile. Vuoi vedere che troveranno un modus vivendi? Per ora sembra addirittura che si prefiguri al contrario un rientro nel PD della fazione antirenziana per eccellenza (Leu), però mai dire mai. Magari tutti insieme appassionatamente in un partito democratico ricompattato con Letta alla segreteria, Renzi alla presidenza del Consiglio, Bersani e D’Alema a tirare i fili (ruolo che non hanno mai smesso di svolgere) di un teatrino fallimentare. E pensare che nel PD ci credevo e lo ritengo, nonostante tutto, l’unico vero partito esistente in Italia. Peccato che dei partiti tradizionali abbia tutti i difetti, ma ben pochi pregi.

Aspettando il vaccino-godot

Piove il virus, governo ladro! Era questo il ritornello prevalente da quando è scoppiata la pandemia. Più volte ho tentato di passare in rassegna i diversi fattori incidenti sul fenomeno alla ricerca di responsabilità e soprattutto di speranze a cui attaccarmi.

Una mia carissima amica, fin dall’inizio, ha teorizzato che l’unico antidoto decisivo potesse essere il vaccino: tutto il resto non poteva che essere una spasmodica e fiduciosa attesa dell’arrivo in pompa magna della scienza, che ci avrebbe finalmente liberato dall’incubo. Non potevo darle tutti i torti, anche se il mio innato pessimismo mi portava a dubitare che una “punturina” sul braccio potesse cambiare il mondo facendolo tornare alla normalità.

Mi chiedevo: quanto tempo ci vorrà? una volta scoperto e sperimentato, funzionerà davvero? avrà, come tutti i farmaci, delle controindicazioni? chi lo produrrà? interverranno speculazioni affaristiche? sarà opportuno renderlo obbligatorio? saremo capaci di somministrarlo in tempi stretti e in modo equo e razionale? Dubbi atroci ai quali la mia interlocutrice ribatteva: la scienza fa miracoli, attacchiamoci ad essa, tutto il resto è fuffa!

Aveva ragione, ma aveva torto. Colpiva nel segno in riferimento alla fuffa: la politica incapace di governare un’emergenza ingovernabile; i media capaci di trasformare un dramma incalcolabile in una spettacolare, sadica e masochistica contabilità; la gente capace di stupirsi, ma sostanzialmente incapace di reagire o meglio capace di agire secondo il noto criterio “io, speriamo che me la cavo”.

Si sbagliava riguardo alla scienza: affaccendata in diatribe personalistiche, in dibattiti fumosi, nel lancio a ripetizione di messaggi confusi e fuorvianti, nella gara a chi la spara più grossa, nella dimostrazione di avere la verità in tasca, nella logorroica sarabanda di pareri e consigli inutili. La politica sbagliava ad affidarsi ciecamente agli scienziati, la gente sbagliava a riporre in essi la fiducia assoluta. Tuttora viene spontaneo domandarsi come facciano certi virologi, epidemiologi (ci siamo capiti…)  ad eseguire i loro studi e le loro ricerche, impegnati come sono a passare da uno studio televisivo all’altro per sputare improbabili e camaleontiche sentenze.

E adesso? Ci sono i vaccini, per la verità ce ne sono di tanti tipi e vai a capire quale possa essere il migliore. Ce ne sono pochi, perché le case farmaceutiche stanno giocando a nascondino per lucrare sulle loro rendite di posizione. Non abbiamo una rete distributiva affidabile ed efficiente: ogni regione è partita in quarta e sta combinando il suo casino e purtroppo la sommatoria di casini non fa ordine.

Sul più bello, proprio mentre sembrava che prendesse corpo un piano nazionale tale da mettere un po’ di ordine, spuntano episodi inquietanti che sembrano fatti apposta per buttare benzina sul fuoco dei dubbi e delle perplessità dei vaccinandi, che si aggiungono peraltro a quelli di quote significative di addetti ai lavori (saranno tutti disfattisti, allarmisti e menagramo?). Qualche morte assai sospetta, controindicazioni molto preoccupanti col seguito di inchieste giudiziarie ed approfondimenti scientifici: un modo per giustificare una falsa partenza ed ipotizzare una ripartenza riveduta e corretta. Capisco il panico conseguente e dilagante.

Magari sarà tutta una questione di una partita avariata: generalmente finiscono così le inchieste su ben altri beni di consumo, tese più a salvare capra e cavoli che ad appurare la verità. Magari si tratta di episodi, che, pur nella loro marginale drammaticità, non possono fare testo. Quando mio padre commentava la morte di una persona, di cui non si riusciva a trovare (o non si voleva trovare) la causa, concludeva sarcasticamente: «As védda che quälcdòn al gà preghè un cólp…». Campa cavallo…che la scienza cresce…e la paura ci blocca. Morale della favola: noi cerchiamo disperatamente qualcosa di assolutamente certo, mentre la pandemia ci insegna ad ogni piè sospinto che di tutto ciò non esiste nulla o meglio, se ci rattrista la certezza di dover morire, ben venga la scienza (mancherebbe altro…), ma l’unica cosa che può consolarci è la speranza dell’immortalità futura.

Siamo messi proprio male, anzi malissimo

Quattro episodi inquietanti, che la dicono lunga sul clima a dir poco confuso, regnante in materia di Covid. Li riporto letteralmente, prendendoli dal sito internet de La Repubblica, non per creare zizzania, ma per dimostrare che ci vogliono i nervi saldi per vivere seriamente in questo periodo. Troppe parole in libertà, troppi comportamenti faciloni, troppe basse insinuazioni, troppe contraddizioni, in una parola sola, troppo casino.

Lavoravo da circa due mesi ed ebbi l’occasione di incontrare un utente dei servizi erogati dall’organizzazione (non ne faccio il nome per ovvi motivi di riservatezza e correttezza) in cui prestavo la mia opera professionale: persona calma, piuttosto distinta, abbastanza simpatica. Scambiammo qualche impressione e, alla fine del breve colloquio, mi fulminò con una lapidaria battuta: «Sa cosa le devo dire dottore, concluse amaramente, che quell’organizzazione lì è un gran casino». Allargai le braccia, balbettai qualche scusa, promisi di fare del mio meglio per migliorare la situazione. Dovessi oggi, per caso, andare a colloquio con Mario Draghi, gli ripeterei pedissequamente le parole spicce di quel mio lontano interlocutore. Mi augurerei che avesse qualche risposta più convincente di quelle da me vergognosamente sciorinate nel caso di cui sopra.

  • La dietrologia?

Secondo il direttore dell’istituto Spallanzani, c’è chi si starebbe adoperando affinché la piaga del Covid non si rimargini. Ma si allarghi sempre più. “Non inseguiamo le varianti, studiamole; non assecondiamo chi auspica e lavora perché non abbia mai fine”. Poche e pesanti parole quelle scritte in un post su Facebook da Francesco Vaia, direttore sanitario dell’istituto Spallanzani di Roma, tali da lasciar sospettare che il manager accusasse qualcuno, a livello nazionale e non solo, di operare affinché l’emergenza coronavirus prosegua anziché impegnarsi per far sì che si possa uscire il prima possibile dalla pandemia. Abbastanza per scatenare un terremoto.

Vaia ha inizialmente scelto di mantenere il silenzio richiesto ai medici in giornate così delicate. Poi, però, visti i troppi e inquietanti interrogativi sollevati da quel post ha accettato di chiarire, specificando che non pensa minimamente a oscuri personaggi che di notte diffondono il virus, a qualcuno che briga per impedire a tutti di uscire dal tunnel, ma ha voluto, seppure in maniera forte, semplicemente indicare quella che è a suo avviso la strada da seguire con urgenza, considerando anche le tante preoccupazioni suscitate dalle varianti.

“Varianti – precisa il direttore sanitario dello Spallanzani – ci saranno sempre, il virus cerca di adattarsi alle diverse condizioni, ma adesso c’è una corsa contro il tempo, una partita a scacchi tra noi e il virus, e la mossa del cavallo è solo una: vaccinare, vaccinare, vaccinare”. Per Vaia è fondamentale infatti abbattere in fretta la mortalità e tutelare i più fragili. E per farlo ritiene che si debba arrivare il prima possibile a una vaccinazione di massa.

La linea in pratica seguita da Israele. Per riuscirci, secondo il manager, diventa quindi fondamentale superare sui vaccini sia la logica di brevetto che quella geopolitica, facendo rispettare da un lato in sede europea i patti sottoscritti e dall’altro consentendo alle aziende italiane e laziali, dove c’è il più importante distretto farmaceutico d’Italia, di produrre i vaccini, imprimendo contestualmente un’accelerata da parte delle autorità regolatorie alle autorizzazioni: “Le regole vanno rispettate ma non è tempo di burocratismi”.

Se vi sono altri vaccini efficaci bene dunque utilizzarli. Tutto senza un lockdown come quello del marzo scorso e senza una chiusura generalizzata delle scuole di cui si discute con sempre maggiore frequenza. Vaia non ha dubbi: “Le stesse varianti si manifestano per focolai e quel che occorre sono i lockdown chirurgici”. “Il mio – assicura il manager tornando a quanto scritto nel post – è un invito a fare in modo che chi ha di più dia una mano. A vaccinare e vaccinare in modo che le varianti non producano gli effetti più dannosi”.

  • I vaccini inquinati?

AstraZeneca, casi di trombosi: sospeso un lotto di vaccini in Danimarca. Stop di un altro lotto anche in Italia. Due eventi simili in Austria. Anche Vienna, con Estonia, Lituania, Lettonia e Lussemburgo, aveva deciso per precauzione di interrompere le somministrazioni. L’Ema aveva escluso la correlazione con la somministrazione del prodotto, ma avviate indagini. Vagliata l’ipotesi di impurità nelle fiale. Due casi sospetti anche in Sicilia.

  • Le morti sospette?

Militare morto dopo il vaccino: almeno dieci indagati, l’Aifa sospende il lotto di dosi. Sul decesso la procura di Siracusa ha aperto un’inchiesta. Domani l’autopsia. Sono una decina gli indagati dalla procura di Siracusa che dovrà accertare eventuali criticità sulla corretta conservazione e sull’utilizzo della dose di vaccino somministrata lunedì mattina al sottufficiale della Marina Stefano Paternò, morto per arresto cardiocircolatorio tra le mani dei medici rianimatori del 118 ventiquattr’ore dopo avere ricevuto l’immunizzazione. Per tutti l’accusa è omicidio colposo. Sul caso si muove anche il ministero della Salute che invierà i suoi ispettori. Visiteranno l’Asp di Siracusa, il reparto medico della base militare della Marina nel quale è stato somministrato il vaccino e sentiranno i medici del 118 che per 45 minuti sono intervenuti la notte tra lunedì e martedì nel momento in cui Stefano Paternò con la febbre alta ha iniziato ad avere le convulsioni, prima del decesso per arresto cardiocircolatorio.

In seguito alla morte di Paternò e a quella avvenuta in precedenza di un poliziotto, l’Aifa, Autorità italiana del farmaco, ha sospeso il lotto con cui i due uomini erano stati vaccinati. Bisognerà fare luce sulla conservazione delle dosi del vaccino nella sede Asp di Siracusa, sino alle fasi dell’inoculazione nella base militare di Augusta. Per tutto questo sarà indispensabile l’esito dell’autopsia che verrà effettuata domani pomeriggio nell’obitorio dell’ospedale Cannizzaro di Catania da un’equipe composta da un medico legale, un infettivologo, un tossicologo e uno specialista che dovrà studiare l’anamnesi di Stefano Paternò.

  • I soliti raccomandati?

Coronavirus: “Lo Spallanzani favorisce i parlamentari”. Il dottor Codacci Pisanelli dell’Umberto I accusa l’istituto romano e la sua politica dei ricoveri: “Un mio paziente, gravissimo, ha dovuto attendere due mesi, mentre leggo di onorevoli parlamentari ricoverati direttamente dal proprio domicilio”. La replica: “Nostro compito è togliere dai Pronti soccorsi i pazienti che vanno trattati qui, non quelli che sono già in cura presso altri ospedali come l’Umberto l”.

“È poco trasparente la gestione dei ricoveri nell’ospedale Lazzaro Spallanzani, eccellenza mondiale per la cura delle malattie infettive: ci sono voluti due mesi per far trasferire lì, dall’Umberto l, un paziente colpito dal coronavirus e affetto da altre patologie gravi, mentre si legge di onorevoli parlamentari, ai quali auguro una pronta guarigione, che allo Spallanzani arrivano direttamente dalle loro dimore”. La replica dello Spallanzani è affidata dalla direzione dell’istituto al “bed manager”, Emanuele Nicastri, primario della divisione Alta intensità di cura: “Nostro compito è togliere dai Pronti soccorsi i pazienti che vanno trattati qui, non quelli che sono già in cura presso altri ospedali come l’Umberto l che, al pari del nostro, sono dotati di reparti di Malattie infettive”.

“Dai primi del novembre scorso – racconta Codacci Pisanelli – ho seguito un paziente affetto da linfoma non Hodgkin, positivo al Covid 19”.  “In dicembre è stato ricoverato d’urgenza presso l’Umberto l per una polmonite bilaterale grave, documentata da ripetute Tac, da una severa ipossia (carenza di ossigeno; ndr) che ha costretto i medici a ricorrere all’ossigeno”. “Ricoverato in un reparto Covid, il paziente ha contratto anche una pericolosa infezione ospedaliera”. “Considerata la gravità delle sue condizioni cliniche – continua Codacci Pisanelli – ho contattato i colleghi dello Spallanzani che, sempre cordialissimi, mi hanno spiegato che il paziente andava curato presso l’Umberto l; non ritenevano, insomma, giustificabile un trasferimento allo Spallanzani”. “Il policlinico universitario – risponde Nicastri – ha competenze e ruolo istituzionale per trattare casi come quello in questione, perciò, ritenendola irrituale, non abbiamo accolto subito la richiesta del trasferimento”.