La cena delle beffe a vaccino nudo

Diversi Land tedeschi hanno sospeso la somministrazione agli under 60 del vaccino AstraZeneca. Dopo Berlino anche Monaco di Baviera, così come gli stati di Brandeburgo e Nord Reno-Westfalia, smettono immediatamente di vaccinare con l’agente i minori di 60 anni.

Nelle scorse ore anche il Canada ha sospeso l’uso del vaccino anti-Covid di AstraZeneca per le persone sotto i 55 anni. Una decisione che segue le indicazioni della Commissione nazionale sulle vaccinazioni che, nonostante sul territorio canadese non si siano verificati casi mortali, ha preso in considerazione i dati forniti dai vari Stati sugli effetti collaterali del vaccino.

La Sanità siciliana si risveglia travolta da uno tsunami. Che investe in pieno il governo della Regione. Un’inchiesta della procura di Trapani ha portato a tre arresti, facendo luce su alcune presunte irregolarità relative ai dati regionali sulla pandemia da Covid. Numeri falsati, morti «spalmati» su più giorni, tamponi «gonfiati», comunicazioni a Roma inesatte: questo ritengono di avere appurato gli inquirenti che tra gli altri indagano anche l’assessore regionale alla Salute; quest’ultimo ha presentato le dimissioni, subito accolte dal governatore della regione. Spero vivamente che non sia vero, anche se confesso come da parecchio tempo, in mezzo alla pioggia di dati giornalieri, a volte piuttosto strani, a volte inspiegabili, mi è venuto spontaneo pensare a qualche aggiustamento in corsa.

Fioccano i casi di totale assenza o di scriteriata gestione della vaccinazione in diverse zone del Paese: siti vaccinali deserti, prenotazioni in tilt, presunti favoritismi, inaccettabili confusioni e paradossali disfunzioni. Non sembrano casi eccezionali e isolati, ma esempi di una situazione di diffusa malasanità. Arrivano immagini di alcuni hub vaccinali deserti e di lunghe e disordinate code davanti ad altri. C’è persino l’assegnazione dei vaccini rimanenti a fine giornata previa coda ad hoc, come si fa ai mercati o come si faceva davanti a certi teatri per i biglietti destinati ai posti in piedi in loggione. Non ci stiamo proprio facendo mancare niente e non è ancora finita.

Lasciamo perdere la folle e provocatoria possibilità di fare le vacanze pasquali all’estero salvo tamponi e brevi quarantene. Disposizioni che sembrano fatte apposta per far incazzare albergatori ed operatori turistici italiani e per consolidare nell’immaginario collettivo la solita classificazione tra poveri e/o rigorosi da una parte e ricchi e/o trasgressivi dall’altra.

Forse, anzi sicuramente, ci saremo meritati un virus che scopre tutti gli altarini del nostro assurdo e disumano modo di vivere e di convivere, ma la cura si sta rivelando peggio della malattia e questo, forse, è troppo. Le autorità governative, scientifiche e culturali ci spingono a vaccinarci, a tenere un comportamento lucidamente orientato dal senso civico e dalla razionalità e fin qui niente da ridire. Tuttavia se contestualizziamo questi appelli, essi assumono (quasi) il sapore della beffa, della presa in giro, della spinta al qualunquismo.

L’altro pomeriggio mi è capitato di assistere ad un grilloparlantesco salotto televisivo (Dio ce ne scampi e liberi!) in cui i benpensanti sfogavano tutta la loro riprovazione verso chi osa nutrire dubbi e incertezze rispetto alla vaccinazione: e giù a vomitare improperi contro gli operatori sanitari recalcitranti, verso i magistrati sgomitanti, verso chiunque osi dissentire dal pensiero forte della vaccinazione a tutti i costi. Mai forse come in questo momento storico la ragione ed il torto si sovrappongono: avevano infatti ragione in teoria, ma torto marcio in pratica. Sarebbe indispensabile aiutare tutti a credere nel vaccino adottando comportamenti virtuosi e non scagliando anatemi a vanvera, che oltre tutto ottengono l’effetto contrario.

Un giorno, come ho più volte ricordato, un mio conoscente, piuttosto intelligente e attento alle cose della politica, mi chiese provocatoriamente: “Secondo te è più qualunquista l’uomo della strada che si scandalizza delle porcherie dei politici o il politico che fa le porcherie?”. Non mi iscrivo al partito dei qualunquisti, che oggi si fa chiamare no vax, ma se tutti gli operatori impegnati (si fa per dire) si dessero una regolatina non sarebbe male. La domanda di cui sopra dovrebbe essere così riveduta e corretta: “Secondo te è più qualunquista l’uomo della strada (e non solo…), che nutre seri dubbi sulla vaccinazione, o chi sta creando, da tutti i punti di vista, un casino pazzesco intorno alla procedura vaccinale?”. Giunti a questo punto ci vuole più coraggio a vaccinarsi che ad aspettare inerti e inermi l’incedere inesorabile del virus.

Come italiani abbiamo molti difetti, ma i panni sporchi tendiamo a lavarceli masochisticamente in casa ed infatti ci vomitiamo addosso una valanga di informazioni più o meno attendibili che finiscono col distrarci e disorientarci. Bisognerebbe, nel caso della pandemia, avere la freddezza di selezionare accuratamente le informazioni, scartando quelle fuorvianti. Siccome non è possibile ed è addirittura rischioso democraticamente parlando, sotto con la tortura aggiuntiva delle porcherie vaccinali. Non sarà facile riuscire ad evitare di buttare via il vaccino assieme all’acqua sporca della vaccinazione.

Don Raffaele Dagnino, un prete che sapeva essere ad un tempo rigoroso e aperto, radicale e dialogante, laico e sacerdote, sfoderando una schietta e profonda religiosità incarnata, diede un incoraggiamento sui generis ad una persona a cui era nato un figlio con una piccola imperfezioni fisica. «L’important l’è cal g’abia dal bon sens, ‘na roba ca ne’s compra miga dal bodgär» sentenziò con sano realismo umano e religioso di fronte alle ansie di una madre inquieta. In merito alla vaccinazione anti-covid ci vorrebbe tanto buon senso civico da parte di tutti, ma purtroppo i bottegai che vanno per la maggiore lo vendono a parole e non coi fatti. Risultato: un disorientamento piuttosto allargato e sofferto. Ne continueremo a vedere delle brutte.

 

La zavorra salviniana e la stabilità draghiana

Draghi valuta i nuovi ristori selettivi, sulle riaperture si tratta con la Lega: così titola La stampa. Sotto il titolo c’è, come quasi sempre, il sommario: “Il governo studia il metodo per risarcire le attività più colpite: sul tavolo uno scostamento di bilancio di 20 o 30 miliardi. Compromesso con Salvini sull’allentamento delle misure restrittive: a metà aprile si farà un bilancio della situazione”. L’incipit dell’articolo dice: “Mario Draghi deve lavorare di compromesso. Con le imprese e i dipendenti che hanno bisogno di ristori se rimangono a casa, e con i partiti della sua variegata maggioranza che chiedono una cosa e il suo opposto. Ecco perché le prossime decisioni sulle misure di contenimento del Covid segneranno un cambiamento rispetto al passato, anche alla luce dei rinforzi vaccinali attesi ad aprile e della ripartenza che ci sarà a ridosso della stagione più calda”.

Accetto che la politica debba essere considerata un compromesso, una mediazione, ai più alti livelli possibili, tra visioni e interessi diversi, legittimamente e democraticamente rappresentati. Non è un caso se la stessa Costituzione italiana venga considerata forse come il più bello e grande degli esempi di compromesso, talmente riuscito da mantenere intatta la sua validità nel tempo.

Innanzitutto però bisogna vedere chi siano coloro che trattano per raggiungere il compromesso, verificare se si tratti di personaggi veramente rappresentativi e credibili per storia e cultura. In secondo luogo non tutto è assoggettabile a compromesso e non si può quindi mediare su tutto allo stesso modo.

Ripeto quanto ho scritto più volte, anche molto recentemente: durante le animate ed approfondite discussioni con i miei amici, uomini di rara coerenza etica e politica, agli inizi degli anni novanta si constatava come alla politica stesse sfuggendo l’anima, come se ne stessero andando i valori e rischiasse di rimanerci solo la “bottega” ed al cittadino non restasse che scegliere il “negozio” in cui acquistare il prodotto adatto alla propria “pancia”. Fummo facili profeti, cassandre che dispensavano previsioni molto realistiche. Siamo arrivati a trattare sulle misure restrittive, sulle cosiddette chiusure e/o riaperture, ma, sia chiaro, non sulla base di dati scientifici e rilevabili dagli andamenti epidemiologici, bensì sulla base di meri interessi elettoralistici.

Matteo Salvini si è auto-dichiarato alfiere degli interessi economici toccati dalla pandemia e li rappresenta in modo ultra-corporativo a prescindere da tutto. Chiede la riapertura di tutto per ottenere magari quella di una parte degli esercizi commerciali: si potrà presentare al suo elettorato potenziale, dichiarando di avere fatto e ottenuto tutto il possibile. Non importa se ciò corrisponda agli interessi generali del Paese, che, in questo caso, si chiamano salute pubblica. Se questa è mediazione politica…io la chiamo pura demagogia.

Ho l’impressione che Mari Draghi da una parte stia giustamente snobbando la tattica salviniana riducendola ai capricci del bambino che strilla e pesta i piedi per avere il regalo impegnativo salvo poi accontentarsi di una manciata di caramelle, dall’altra però sta correndo il rischio di ridurre, seppure involontariamente, la politica a bottega degli incompetenti più che a laboratorio dei competenti. Certo, il tutto per tutti non c’è e quindi bisogna trattare sulla basa delle disponibilità finanziarie e soprattutto mirando alla ripresa e non alla mera sussistenza. Certo, il ritorno alla normalità non è scontato e occorre prevederlo e programmarlo sulla base dei dati emergenti dall’osservazione degli andamenti pandemici. Queste sono le mediazioni da perseguire con autorevolezza, chiarezza e trasparenza.

Il resto è fuffa leghista: d’altra parte la dimostrazione sta nel fatto che mentre Salvini sbraita, promette e rivendica in piazza, i suoi ministri stanno al governo e fanno solo il possibile. Non so fino a che punto il gioco potrà andare avanti. A Mario Draghi il gravoso compito di quadrare il cerchio sperando che non sia costretto a dare un colpo al cerchio dei veri problemi ed un colpo alla botte delle smanie salviniane: non vorrei che la politica dalle mani dei competenti finisse, direttamente o indirettamente, nelle mani dei demagoghi. Auguri!

 

 

Il suo nome è Enrico (Letta), cognome presunzione

Matteo Salvini non molla. È convinto che nel Paese cresca l’insofferenza per la clausura e insiste perché sia allentata prima possibile. Contesta la scelta di lasciare chiuso tutto fino alla fine di aprile. Così, sul tema delle riaperture, la Lega di governo si trasforma in Lega di lotta. Su Facebook, Salvini affida la sua posizione a una delle sue tipiche domande retoriche: «Se dopo Pasqua, fra dieci giorni, la situazione sanitaria in tante città italiane sarà tornata tranquilla e sotto controllo, secondo voi sarà giusto riaprire bar, ristoranti, scuole, palestre, teatri, centri sportivi e tutte le attività che possono essere riavviate in sicurezza? Secondo me sì» (La stampa del 28 marzo 2021).

Enrico Letta al riguardo scopre l’acqua calda: “Salvini illude gli italiani”. Sono anni che lo sta facendo e forse Letta si era distratto. Adesso dovrà fare i conti anche con questo gioco leghista che non si ferma nemmeno di fronte alla più immane delle tragedie: il tritacarne salviniano del consenso a tutti i costi è una velenosa caratteristica della politica italiana. È perfettamente inutile gridare al lupo, bisogna sconfiggerlo snidandolo sul suo terreno: forse è quanto sta facendo Mario Draghi, che in conferenza stampa non ha degnato di risposta chi gli faceva notare i contrasti con la Lega. Della serie “lasciamolo dire, prima o poi la gente capirà…”.

Ma il nuovo segretario PD ha fatto un’altra scoperta interessante: nella fretta assurda e strumentale di cambiare i capi-gruppo parlamentari del partito, nascondendosi dietro un deviante femminismo di facciata, ha riscontrato che il suo partito è diviso e rissoso e basta una nomina per scatenarne appetiti e contrasti. I casi sono due: o Letta intende fare esplodere le contraddizioni per poi ricostruire raccogliendo progressivamente i cocci dopo avere pagato le rotture, oppure si è illuso di avere tanto e tale carisma da risolvere sul nascere i vari contenziosi.

Terza magata: ha incontrato Giuseppe Conte lasciando chiaramente intendere che l’alleanza con il M5S sarà la sua scelta politica. Tutto qui? I tuoni e le piogge lettiani non mi scuotono e non mi convincono a tirare fuori dall’armadio l’ombrello del vero Pd, quello che sognavo da troppo tempo. Non è questione di nostalgia. È solo un doveroso omaggio alla memoria storica da cui abbiamo ancora tanto da imparare. Voglio fare quindi un tuffo del tutto personale in questi ricordi, chiamandoli anche per nome e cognome, anche a costo di ripetermi. Manderò di seguito una specie di lettera aperta a Enrico Letta, consigliandogli di smetterla di fare il “fenomeno”, di tenere un atteggiamento irritante di “saputello”, di giocare a briscola con la parità di genere, di giocare a tombola con gli organigrammi, di giocare al gioco dell’oca con il renzismo. Mi sento troppo coinvolto per lasciarlo girare a vuoto impunemente. Per favore, si fermi a riflettere, la smetta di pontificare e voli basso sui problemi o, per meglio dire, voli alto sui valori e dia un’occhiatina alla storia.

Torno, a metà degli anni sessanta, sui banchi di scuola. Con un mio compagno di classe, Mario Tanzi, l’amicizia andava oltre il sano cameratismo scolastico per allargarsi al dialogo umano, culturale e politico. Io cattolico e democristiano, lui non cattolico e comunista: di fronte alla realtà incandescente di quegli anni riuscivamo, pur partendo da culture e sensibilità diverse, a trovare un fervido terreno d’incontro, un punto di convergenza in base ai valori che ci ispiravano (la giustizia sociale, l’attenzione alle classi popolari, la laicità della politica, etc.). Ci scambiavamo esperienze, idee, ansie, preoccupazioni, dubbi e certezze. Eravamo addirittura in anticipo di dieci anni rispetto al compromesso storico. Ci ritrovammo dopo alcuni anni, impegnati entrambi nel movimento cooperativo, lui quello di matrice socialista, io quello di ispirazione cristiana: il dialogo riprendeva con una immediatezza sorprendente e con affascinante fluidità. Poi arrivammo quasi a lavorare insieme a servizio delle cooperative, prescindendo dagli schemi, che, nel nostro piccolo, eravamo stati capaci di superare coraggiosamente e, oserei dire, pionieristicamente. Quando si costituì il partito democratico andai a quelle esperienze di quarant’anni prima e mi dissi: per me e Tanzi la fusione arrivava in ritardo, meglio tardi che mai!

Poi ci sono i ricordi più strettamente politici. Nella mia vita ho cercato di esprimere l’anelito alla vera politica, aderendo all’azione della sinistra cattolica all’interno della D. C., in un impegno nel territorio, nelle sezioni di partito, nel consiglio di quartiere, laddove il dialogo col PCI si faceva sui bisogni della gente, delle persone, laddove si condividevano modeste ma significative responsabilità di governo locale, laddove la discussione, partendo dalle grandi idealità, si calava a contatto con il popolo. Quante serate impiegate a redigere documenti comuni sulle problematiche vive (l’emarginazione, la scuola elementare, l’inquinamento, la viabilità), in un clima costruttivo (ci si credeva veramente), in un rapporto di reciproca fiducia (ci si guardava in faccia prescindendo dalle tessere di partito). Mi sia permessa una caustica riflessione: forse costruivamo dal basso, senza saperlo, il vero partito democratico, molto più di quanto abbiano fatto i leader nel 2007 e soprattutto molto più di quanto stiano facendo alcuni fra quelli attuali, che rischiano di buttare a mare anche la nostra storia, confondendo ancora una volta gli ideali con le ideologie e i valori con le proprie incallite posizioni.

Ho avuto l’onore di essere allora presidente del quartiere Molinetto (io democristiano sostenuto anche dai comunisti) in un’esperienza positiva, indimenticabile, autenticamente democratica. Ricordo con grande commozione il carissimo amico Walter Torelli, scomparso da diversi anni, comunista convinto, col quale collaborai in un rapporto esemplare, sfociato in un’amicizia, che partiva dall’istituzione (quartiere) per proseguire nel dibattito fra i partiti, per arrivare alla condivisione culturale ed ideale di obiettivi al servizio della gente.

Mi sento in dovere di ripensare con gratitudine a quando Torelli, a nome del Pci, mi dichiarò la sua totale disponibilità ad appoggiare la mia candidatura a presidente di quartiere: la cosa mi riempì di orgoglio e soddisfazione. Riuscimmo infatti a collaborare in modo molto costruttivo.

Tutta la mia militanza politica e partitica è stata caratterizzata da questa convinta e costante ricerca del dialogo, a volte tutt’altro che facile, a volte aspro e serrato, ma sempre rivolto al servizio della popolazione in nome dei valori condivisi.

Durante le animate ed approfondite discussioni con questi carissimi amici, uomini di rara coerenza etica e politica, agli inizi degli anni novanta si constatava come alla politica stesse sfuggendo l’anima, come se ne stessero andando i valori e rischiasse di rimanerci solo la “bottega” ed al cittadino non restasse che scegliere il “negozio” in cui acquistare il prodotto adatto alla propria “pancia”. Fummo facili profeti.

Non serve aggiungere altro. Penso di avere già chiarito a sufficienza il mio pensiero in ordine alla politica attuale ed al PD. Ho chiamato, mi piace farlo sempre, le persone con nome e cognome. Senza esagerare, credo che un po’ tutti i protagonisti della storia del PD abbiano sottovalutato e stiano sottovalutando, con la loro insulsa presunzione, una piccola grande storia in cui mi sento personalmente coinvolto assieme ai citati amici. Caro Letta, non ho la tessera del PD, ma sappia che qui è in gioco molto di più. Ci metta il cuore o saremo sempre daccapo!

 

La fiera delle intoccabilità

Lungi da me santificare gli operatori sanitari che non intendono vaccinarsi contro il covid, ma, prima di colpevolizzarli, vorrei capire, come mai persone culturalmente attrezzate in materia, esposte notevolmente al rischio di contaminazione, pur sapendo che tanti loro colleghi ci hanno lasciato finora le penne, si intestardiscono a non volersi sottoporre a vaccinazione.

Siamo in prossimità della Pasqua e mi viene spontaneo fare riferimento a quanto disse Nicodemo agli sbrigativi colleghi colpevolisti del Sinedrio: «La nostra legge non ci permette di condannare un uomo senza prima ascoltare da lui cosa ha fatto».

Quindi prima di approvare un decreto contro gli operatori sanitari, che non si vaccinano, con la previsione di penalità consistenti nel trasferimento, nelle ferie forzate o addirittura nel licenziamento, vorrei tanto capire le motivazioni di questo atteggiamento recalcitrante al limite della legalità. Da tempo mi chiedo il perché di questo comportamento apparentemente irrazionale e irresponsabile e non riesco a trovare giustificazioni plausibile se non il generico timore delle controindicazioni del vaccino, che per la verità molti nutrono e superano, mentre parecchi non riescono a superare.

Su questo discorso si scontrano due principi: il senso civico richiesto al cittadino ed il suo diritto alla libertà di cura. Il senso civico vale per tutti, ancor più per soggetti che svolgono particolari funzioni a servizio della collettività, come è per gli operatori sanitari. Il diritto a rifiutare il vaccino è intoccabile, ma bisognerebbe coniugarlo con il diritto alla salute degli altri. Il problema è estremamente delicato e non vorrei essere nei panni della ministra della giustizia Marta Cartabia a cui è stato delegato il compito di stendere al riguardo un provvedimento. La sua competenza deriva dall’incarico ministeriale che ricopre, ma anche dalla preparazione ed esperienza giuridica acquisita anche e soprattutto a livello costituzionale. Sì, perché qui è in ballo la Costituzione nei suoi principi fondamentali.

Il decreto che dovrà sanzionare gli operatori sanitari andrà studiato molto bene ad evitare code interminabili di controversie legali facilmente immaginabili. Piove sul bagnato dei problemi che non mancano: aggiungiamoci pure anche questo. Non ho idea come potrà funzionare una soluzione giuridica che salvi capre e cavoli. Forse però sarebbe meglio affidarsi ad un tentativo serio e stringente di convincimento delle persone interessate, dopo aver capito e valutato le loro rimostranze e prima di aprire un contenzioso molto brutto da ogni punto di vista.

Siamo sul filo del rasoio. D’altra parte tutto il comportamento dei governanti centrali e periferici viaggia sul filo del rasoio. Si continua imperterriti ad adottare strumenti legislativi molto discutibili, anche se l’emergenza, che sta diventando purtroppo la normalità, impone misure drastiche e immediate. Vorrei però chiedere al presidente Mario Draghi: perché tanta prudenza e comprensione nei confronti di certi comportamenti assurdi e contraddittori da parte di certe Regioni e tanta fermezza interventista verso i medici e gli infermieri dubbiosi sugli effetti dei vaccini? Perché si esita a commissariare una Regione che gestisce la sanità “alla cazzo di cane” e si ipotizza il licenziamento per un camice, bianco o verde come dir si voglia, reo di nutrire perplessità sui vaccini anti-covid? Se è vero, come è vero, che un medico non vaccinato può infettare i suoi pazienti e causarne seppure indirettamente ed al limite anche la morte, è altrettanto innegabile che certe scelte regionali, dettate da incapacità, incompetenza, disorganizzazione e velleitarismo autonomista, possono comportare conseguenze ancor più gravi sulla salute dei cittadini.

Due pesi e due misure? Non vorrei che anche in questo caso ci fossero gli intoccabili per motivi politici. E se spuntassero gli intoccabili per motivi sindacali? Se andiamo avanti così, temo che al cittadino non resti altro da fare che toccare ferro (per non dire di peggio) e sperare bene.

La Fontana tossisce e non finisce

Tutti i membri del Consiglio di Amministrazione di Aria hanno rassegnato le loro dimissioni, richieste dal presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana. Lorenzo Gubian (ex direttore generale dell’agenzia regionale) ricoprirà il ruolo di amministratore unico. È arrivato dunque il passo indietro, auspicato da Fontana, da parte degli ormai ex amministratori di Aria, dopo le dure critiche per i disservizi informatici registrati nel corso della campagna vaccinale in tutto il territorio della regione. Parole capaci di alimentare ancor più il forte vento delle polemiche riguardanti l’efficacia della campagna vaccinale in Lombardia.

Nel gennaio 2021 si era dimesso l’assessore lombardo alla sanità Giulio Gallera dopo lunghe polemiche sul suo operato e sulle sue dichiarazioni ripetutamente sparate alla viva il parroco. La Lega aveva sacrificato l’alleato in giunta più per autodifendersi che per cambiare veramente passo. Allo scoppio dell’epidemia Fontana e Gallera apparivano frequentemente insieme in televisione e, con tono rassicurante ed efficientistico, sembravano voler dire: tranquilli, siamo qui noi, in Lombardia andrà tutto bene.

Purtroppo per i lombardi e per tutti gli italiani (siamo sulla stessa barca) non è andata così. Nell’affrontare il disastro della pandemia vale più che mai la regola evangelica del “chi è senza peccato scagli la prima pietra”, tuttavia i peccati ci sono stati e chi li ha commessi dovrebbe fare anche un po’ di penitenza. Restando in Lombardia, siamo proprio sicuri che l’istituto delle dimissioni non si applichi a chi le chiede agli altri? Mi riferisco al presidente Fontana, che mi sembra attaccato alla seggiola non tanto per orgoglio e interesse personale al mantenimento del potere (che peraltro lo ha logorato parecchio), ma per difendere il buon nome e la reputazione della Lega governante. Salvini non può permettersi il lusso di ammettere che il suo partito non è quel mostro di bravura e di attaccamento alla gente, continuamente sbattuto in faccia all’elettorato. Stando ai sondaggi si tratta del primo partito a livello di consensi e le vicende lombarde potrebbero innescare una caduta (quasi) libera.

“Caro signor Fontana…”, canta, con ironica ma ingenua supponenza, sir John Falstaff, rivolto a mastro Ford nel capolavoro di Verdi. Si era presentato a lui sotto mentite spoglie per tirarlo in un tranello in cui peraltro si era già ficcato per suo conto. Forse Salvini, inguaiato assai in casa propria mentre spara ad alzo zero contro l’inguaiata Europa, starà cantando qualcosa di simile ad Attilio Fontana, governatore leghista, ma i lombardi saranno disposti a fare con lui “più ampia conoscenza” o l’avranno già conosciuto abbastanza. Attenzione perché mastro Ford (alias signor Fontana) nell’opera verdiana resta gabbato: infatti l’opera si conclude con la famosa fuga finale culminante nel “tutti gabbati”. Per tornare alla realtà, gabbato Fontana, gabbato Salvini, gabbati i lombardi, gabbati gli italiani, soprattutto quelli che votano Salvini perché (s)parla bene.

Uno degli istituti giuridici da me preferiti è quello delle dimissioni: quando una persona si accorge di non avere svolto con la dovuta competenza la funzione assegnatale, dovrebbe avere il buongusto di farsi da parte. Non c’è niente di male nell’ammettere le proprie responsabilità ed i propri errori. Non sarebbe il caso, ad esempio, che anche Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, dopo il disastroso flop maturato nell’acquisizione e distribuzione dei vaccini anti-covid, facesse un passo indietro anziché continuare a chiedere scusa e a dispensare abbondanti sorrisi? Non sarà certo tutta colpa sua se la UE sta rischiando di perdere irrimediabilmente la faccia su una vicenda di gravità eccezionale, ma quando si ricoprono certi incarichi bisogna sapersene assumere le responsabilità.

Mi si dirà che usando questo criterio forse, in campo politico e non solo, si dovrebbe dimettere mezzo mondo. Può darsi, ma qualcuno dovrà pur dare il buon esempio e dare il via alla riscoperta di questa prassi virtuosa. Nei due casi suddetti ne guadagnerebbe la credibilità della regione Lombardia, rimessa seriamente nel suo ruolo di utile anche se non unica punta di diamante, e dell’Unione Europea, ricollocata nella sua dimensione prospettica di autentica federazione di Stati a servizio dei cittadini.

 

 

 

 

 

 

L’ammalato europeo e un brodino americano

Il primo intervento di un presidente Usa a un vertice europeo dai tempi di Obama ha fatto registrare la mano tesa di Biden alla Ue: “Appena l’America potrà condividerà con voi le dosi”. Nella prima conferenza stampa del suo mandato il presidente americano ha promesso: “Duecento milioni di vaccinati in cento giorni”. Ma per l’Europa è interessante che Biden si sia presentato all’atteso appuntamento dicendo: “La mia priorità numero uno è mettere la pandemia sotto controllo e gli Usa condivideranno i vaccini appena potranno”. Di più: “Sto lavorando per rimuovere i colli di bottiglia per aumentare la capacità produttiva di farmaci anti-Covid”.

La campagna vaccinale si sta rivelando un disastro per l’Europa e un trionfo per gli Usa: male per noi e bene per gli americani. Non sono invidioso anzi, conto che il successo statunitense possa lasciar cadere qualche “briciola” anche per noi. Il nuovo corso inaugurato da Biden nei rapporti Usa-Ue fa ben sperare. Era ora che si riaprisse un dialogo collaborativo e costruttivo.

Non sono un filo-americano, so benissimo quante e quali responsabilità negative abbiano gli Usa a livello di assetti mondiali, ma nonostante tutto resto fedelmente legato alle opzioni di fondo che l’Italia ha portato avanti da De Gasperi in poi. Qualcuno continua  a fare lo spiritoso, affermando che in Italia moriremo democristiani: capisco l’ironia con cui viene fatta questa affermazione, ma vorrei ricordare a questi signori, i quali in passato hanno strizzato l’occhio al PCI, che la Democrazia Cristiana, pur con tutti i limiti e i difetti evidenziati nei tanti anni di esercizio del potere, ha comunque imbroccato le scelte fondamentali dell’atlantismo e dell’europeismo, quando in molti gridavano contro la Nato ed esprimevano a dir poco scetticismo verso la nascita dell’Unione Europea.

Poi ci sono i qualunquisti: per loro Trump e Biden non fanno alcuna differenza, l’uno vale l’altro e magari aggiungono una cucchiaiata di insana ironia sul nuovo presidente americano ed il suo look non proprio trascinante ed entusiasmante. Giocano sul nome: Biden come versione tedesca di “bide”, che in dialetto parmigiano equivalgono agli escrementi dei bovini. Ebbene, volendo rimanere in ambito dialettale ed in stile riduttivamente satirico, a costoro rispondo per le rime, senza timore di affermare che sono sempre meglio le cacche dei bovini, utili a diversi scopi, che i “merdón”, vale a dire le persone puzzolenti, vanesie, vanitose e pericolose come Donald Trump.

Ben venga quindi una mano in nostro aiuto da parte degli Usa, senza illusioni, ma nella speranza che si ricominci un’epoca di rapporti sereni e positivi. Certo noi dobbiamo darci una bella mossa, a livello italiano ed europeo. Al tavolo Ue, come Italia, abbiamo calato la carta migliore che potevamo giocare, cerchiamo di non barare e di non fare i furbi. Cala lo spread ed è un buon segno per la credibilità italiana sui mercati finanziari. Facciamo crescere vistosamente il numero delle persone vaccinate, utilizziamo al meglio i fondi che riusciremo ad ottenere dalla Unione Europea, mettiamoci nella prospettiva di cambiare marcia nel sostegno alla nostra economia, considerando che non potremo sfondare i bilanci all’infinito. Ci sono enormi e drammatici problemi, non pensiamo di risolverli in solitudine, perché abbiamo bisogno di tutti, dell’Europa e degli Usa in particolare.

Amo sempre ricordare quanto sosteneva l’indimenticato ed indimenticabile Presidente Sandro Pertini: gli italiani non sono primi ma nemmeno secondi a nessuno. Non confondiamo però un giusto orgoglio con assurde prevenzioni e presunzioni. Ce ne potremmo pentire amaramente.

 

 

Evviva Letta segretario delle donne

Devo essere sincero: sto seguendo con una certa indifferenza le vicende in casa PD col ritorno al futuro di Enrico Letta, anche se, per (dis)onestà intellettuale, aggiungo che, tanto per (non) essere obiettivo e imparziale, Letta non mi piace. Il “fenomeno” di ritorno, al fine di impattare (in)credibilmente sull’immaginario collettivo, ha pensato bene di mettere in (s)vendita le donne PD sulla bancarella del mercato femminista mediatico.

Non ho capito se la mossa di piazzare due donne nel ruolo di capi-gruppo parlamentari del partito democratico sia dettata da una fuorviante ansia di valorizzazione femminile purchessia o, più semplicemente, dal desiderio di avere sotto controllo le pattuglie parlamentari democratiche, rafforzando una posizione di finto unanimismo e prevenendo ogni e qualsiasi tentazione di rimessa in discussione di una leadership improvvisata. “Datemi due donne e vi solleverò il PD!”.

Chiarisco il mio pensiero in ordine alla parità uomo-donna: a mio giudizio questo nodo storico-culturale non si risolve con le quote rosa calate dall’alto, spartendo cioè equamente il bottino fra maschi e femmine, ma applicando il manuale della competenza e del merito a prescindere dal sesso. Se dovessi ricoprire cinque incarichi politici, non partirei dividendo la torta in due (nel caso sarebbe oltre tutto assai difficile), ma vedendo di mettere la persona giusta al posto giusto, il che potrebbe voler dire scegliere, al limite, cinque donne o cinque uomini. Scelta quindi non di quantità, ma di qualità.

Vengo al dunque: che senso ha sacrificare sull’altare femminista l’attuale capogruppo alla Camera, quel Graziano Del Rio, che non temo di giudicare come l’uomo migliore del partito, pur di mettere al suo posto una collega donna? L’interessato, da galantuomo qual è, ha immediatamente dato la sua disponibilità a farsi da parte, dimostrando una persino eccessiva umiltà ed un esagerato spirito di servizio. È questa la valorizzazione in politica della donna o non è piuttosto il confuso rimescolamento di carte truccate?

Ma Enrico Letta gode di buona stampa, fa parte della categoria dei bravi a prescindere, un po’ come succede per Roberto Mancini commissario tecnico della nazionale di calcio. Letta è competente, preparato, moderato, equilibrato, serio, educato. Quando si piace a tutti, gatta ci cova. Ad un noto e bravo commentatore politico è stato chiesto un giudizio sulla ridiscesa in campo di Letta: secondo lui punterebbe a fare un utile partito liberale di sinistra o di sinistra liberale (come dir si voglia). Penso che abbia perfettamente ragione, probabilmente mi ha tolto la parola di bocca, infatti facevo una certa fatica a trovare il vero motivo della mia grande perplessità verso questo personaggio rientrato in pista con la superbia dell’umiltà. Troppo liberale per i miei gusti sociali, poco di sinistra per la mia irrinunciabile idealità politica. Non è né carne né pesce, anzi, come ho già scritto, è un pesce lesso che sa di poco.

Un americano a Parigi, che ritorna improvvisamente a Roma, esibendo con falsa modestia, un trolley pieno di buone intenzioni, ma sostanzialmente vuoto di prospettive politiche interessanti e innovatrici. E allora prepariamoci ad una serie di mosse fumose, manieristiche ed insignificanti, come quella sulle donne a tutti i costi. Passerà alla storia come il segretario delle donne. Personalmente – sono un incallito e incorreggibile demagogo di sinistra – preferirei un segretario dei poveri (siano donne o uomini), che però non può andar bene ai ricchi. E i voti dove li prenderebbe? Dai poveri, purtroppo in crescita esponenziale, mentre i ricchi purtroppo sono in crescita speculativa. Su Enrico Letta sono pronto a ricredermi, non a colpi sparati a salve con i cannoni mediatici, ma a colpi selettivi di strategia socio-politica.

La sanità campata in ARIA

Le gravi e clamorose deficienze lombarde emergenti dall’operazione vaccini inducono tristemente a riflessioni politiche ed istituzionali. Una serie di casini partita col difficile reperimento di mascherine e dispositivi di protezione individuale, proseguita con la vicenda dei camici parentali, col fallimento dell’app di tracciamento “made in Lombardia”, coi vaccini antiinfluenzali scarsi e costosi per culminare nel flop delle prenotazioni per i vaccini anti covid, malamente gestita da Aria, l’azienda regionale per l’innovazione e gli acquisti.

Non intendo, nel modo più assoluto, fare speculazione sulle difficoltà della regione Lombardia: lascio a chi di dovere l’obbligo di rientrare nella serietà dell’affrontare i problemi, abbandonando le assurde ed ingiustificate smanie protagonistiche. A buon intenditor poche parole! Non voglio nemmeno colpevolizzare la Lombardia per assolvere il resto dell’Italia, anche se di seguito farò riferimento prevalente ad essa per giungere a discorsi di più ampia e profonda portata: ogni regione ha dimostrato infatti i suoi limiti e i suoi difetti.

So già che la Lombardia rifiuterà lo strumentale tentativo di buttare via il bambino di una sanità qualificata assieme all’acqua sporca delle inefficienze e incongruenze burocratiche ed organizzative. So benissimo che la Lombardia tenderà a difendersi accampando il peso storico che si è scaricato sulle proprie strutture sanitarie, causa la debolezza strutturale di parecchie altre zone del Paese. Tutte verità sacrosante, che però non esimono dal fare un esame critico della situazione.

È innegabile che le scelte politiche della regione Lombardia siano andate da tempo nel verso sbagliato di una sanità centralizzata e privatizzata a scapito di una sanità decentrata e pubblica, lasciando scoperto un territorio che sta mostrando tutte le proprie lacune ed impreparazioni.

È altrettanto innegabile che la regione Lombardia sia stata una testa di ponte per la rivendicazione di scriteriate ed esagerate opzioni autonomistiche a scapito di un equilibrato e coordinato andamento istituzionale a livello nazionale. Mario Draghi ha recentemente ed ironicamente parlato di bandierine regionali da ammainare di fronte all’emergenza, che richiede unità di sforzi e di intenti.  Non ha senso interpretare e vivere l’autonomia regionale come una sorta di liberi tutti in casa propria: la casa è di tutti e la libertà deve trovare dei limiti in quella degli altri.

Tutta l’impostazione della legislazione regionalistica va rivista e riequilibrata con grande senso di responsabilità e senza paura di rimodulare la velocità di sviluppo sull’intero territorio nazionale. Non è vero che regionale sia sinonimo di bello ed efficiente, mentre nazionale comporti inefficienza e burocrazia: sono semplificazioni che stanno saltando in aria come birilli. Chi all’esordio della istituzione delle Regioni nutriva perplessità a livello di difesa dell’unità nazionale aveva torto, ma aveva ragione. Per dirla con l’allora segretario del Psi Francesco De Martino, non si verificò alcun colpo di stato regionale supportato dall’esercito dei vigili urbani, ma si è, col tempo, teorizzata e praticata un’Italia a più velocità che, alla fine, sta rallentando tutto e tutti. Urge rivedere i meccanismi istituzionali.

Il decentramento regionale non ha poi significato semplificazione e snellimento burocratico, finendo spesso con l’aggiungere burocrazia a burocrazia e creando una deleteria e incompetente burocrazia a macchia di leopardo. Il governatorato regionale, autentica macchietta di un sano e proficuo decentramento di potere, ha scatenato una rissa istituzionale nella quale il cittadino ha perso riferimenti, interlocuzioni e partecipazioni. Dulcis in fundo, anche i fenomeni di corruzione non sono stati messi in crisi, ma, al contrario, hanno trovato ulteriori punti di attacco al sistema.

L’emergenza pandemica ha fatto esplodere tutte le contraddizioni e quindi anche quelle dell’ordinamento regionale. Le carenze istituzionali italiane nell’affrontare la situazione sono state tre: la mancanza di collaborazione tra Governo e Parlamento, la conflittualità politica tra maggioranza ed opposizione, la divaricazione tra azione centrale e regionale. Non è un caso che Mario Draghi, arrivato in ritardo non per colpa sua, stia tentando disperatamente di quadrare questi tre cerchi impazziti.

Purtroppo e probabilmente ogni regione ha la sua Aria da cambiare, ma bisogna avere il coraggio di aprire le finestre e forse anche le porte. Qualcuno dovrà ritarare anche la propria strategia politica basata su falsi primati: il coronavirus non risparmia nessuno, figuriamoci chi ha fatto del perbenismo regionale uno schema d’attacco politico al sistema nazionale. Le balle regionali stanno in poco posto.

La prima della classe senza classe

«Non dobbiamo fare la gara a chi ha ragione o torto. Dobbiamo remare tutti nella stessa direzione: serve un grande patto di salvezza nazionale e le Regioni sono dentro questo schema». Per Mariastella Gelmini, ministra per gli Affari regionali, non è il momento delle polemiche ma di uno sforzo collettivo per portare il Paese fuori dall’emergenza.

Ho letto con grande piacere e con malizioso stupore queste dichiarazioni costruttive e mi sono chiesto: vuoi vedere che la Gelmini punta a fare il presidente della Repubblica alla scadenza del mandato di Mattarella? Sì, perché l’atteggiamento è talmente alto e responsabile da insospettire, soprattutto se si ricorda quanto diceva l’opposizione a proposito di emergenza covid durante il periodo del governo Conte.

Miracolo provocato dal concerto di tre personaggi: Mattarella, Draghi e…Berlusconi. Facciamoli santi subito (i primi due santi, il terzo, non esageriamo, solo beato fra i suoi affari) e non se ne parli più. Così diversi e così uguali nel provare a tirarci fuori dai guai. Lasciamo perdere che Berlusconi punti a difendere gli interessi, più o meno leciti, delle sue aziende: fatto sta che ha dato l’ordine ai suoi seguaci di cambiare registro e loro stanno ubbidendo. Però non dovrebbero esagerare perché rischiano di ridicolizzare il governo con le loro improvvisate conversioni quaresimali.

Non è mai troppo tardi, anche se certi comportamenti responsabili avrebbero dovuto essere assunti parecchio tempo fa. Chiedo umilmente scusa, ma faccio una doppia digressione, una di carattere calcistico a cui ne sovrappongo un’altra di stampo famigliare. Divaghiamo un po’, ma non tanto…

Il concetto, che aveva mio padre del fenomeno calcio, tagliava alla radice il marcio; viveva con il setaccio in mano e buttava via le scorie, era un “talebano” del pallone. Pretendeva che il dopo partita durasse i pochi minuti utili per uscire dallo stadio, scambiare le ultime impressioni, sgranocchiare le noccioline, guadagnare la strada di casa e poi…. Poi basta: “Adésa n’in parlèmma pu fìnna a domenica ch’ vén”. Si chiudeva drasticamente e precipitosamente l’avventura calcistica in modo da non lasciare spazio a code pericolose ed alienanti, a rimasticature assurde e penose.

L’unica eccezione era la lettura dell’opinione di Curti, pubblicata sul quotidiano locale del lunedì, un commento essenziale ed equilibrato che finiva, quasi sempre, con la solita sconsolata espressione “un’altra partita da dimenticare”. E mio padre chiosava: “Pri tifóz dal Pärma a gh vól la memoria curta”. Anche per chi si interessa di politica occorre la memoria corta, diversamente si riuscirebbe a salvare pochissimi esponenti dei partiti (la Gelmini sarebbe in bilico).

C’è stato un periodo della vita politica nazionale in cui il fatto centrale delle cronache era costituito dallo strappo finiano nei confronti della destra berlusconian-leghista. Era mai possibile che si facesse dipendere l’evoluzione della politica italiana da un post-fascista (per non dire ex-fascista), che “non sapeva un cazzo ma lo diceva bene” (definizione affibbiatagli da un uomo di cultura missino di cui non ricordo il nome)? Eravamo ridotti al lumicino, ci accontentavamo di poco o eravamo talmente disperati da attaccarci alla prima scialuppa di salvataggio intravista?

Ebbene oggi siamo ancor più malridotti per i noti ed ovvi motivi ed abbiamo fortunatamente scovato due scialuppe a cui attaccarci, mi riferisco a Mattarella e Draghi. Per favore li lascino lavorare e non interferiscano lanciando altre equivoche barchette: stiamo affogando e non è il caso di creare ulteriore confusione. Mariastella Gelmini non faccia la prima della classe, non ne ha la classe. Forse non sa un cazzo, ma lo dice bene.  Mi sentirei, proprio per il bene di tutti, di consigliarle: «Tóla su dólsa!».

 

Il timore della sfiga vaccinale

In ordine all’andamento della campagna vaccinale arriva un segnale negativo dal Friuli-Venezia Giulia, dove su 3.000 prenotazioni le disdette sono state mille: una su tre. Preoccupato il presidente della Regione Massimo Fedriga: «Abbiamo l’arma. Se qualcuno non la vuole usare avremo di fronte un muro insormontabile». Alta anche la percentuale delle rinunce in Sardegna, intorno al 20 per cento. E proprio ora che la regione è tornata in arancione per il rialzo dei contagi.

C’è poco da fare, la paura fa novanta e purtroppo a quella del virus si sta aggiungendo quella del vaccino, amplificata dall’emergere di casi, pochi ma piuttosto inquietanti, in fatto di reazioni negative alla somministrazione del vaccino AstraZeneca, che sta facendo, in un certo senso, da spauracchio. Piove sul bagnato e questa ulteriore pioggia ha parecchie motivazioni.

Un mio carissimo amico, per dimostrare l’imprevedibilità e la stranezza della vita, raccontava spesso uno sgradevole e curioso episodio capitatogli in giovane età. Era entrato di pomeriggio in una sala cinematografica pressoché deserta e aveva scelto, al buio ma in tutta tranquillità, la poltroncina su cui accomodarsi, pregustando una visione tranquilla e rilassante del film in programmazione. Dopo qualche istante, si mosse appena per meglio sistemarsi e si accorse di essersi seduto su una gomma americana, malignamente e goliardicamente posizionata da uno spettatore in vena di brutti scherzi: spettacolo rovinato, pantaloni da buttare, incazzatura inevitabile e persistente. Incontrai a distanza di parecchio tempo quel caro amico, che mi confidò di avere scoperto una rara e grave anomalia genetica a carico di suo figlio ancora in tenerissima età, un fatto da condizionare per sempre la vita di tutta la sua famiglia. Mi disse: «Ti ricordi quanto mi è capitato al cinema sedendomi su un chewingum?  Il pazzesco e paradossale calcolo delle probabilità si è ripresentato in modo clamoroso quanto drammatico…».

Ho ricordato questa vicenda per giustificare la reazione emotiva di parecchie persone di fronte all’eventualità remota di subire una reazione nefasta rispetto alla somministrazione del vaccino: “Va bene, le probabilità sono pochissime, ma se fossi proprio io il malcapitato…”. C’è chi riesce a superare il panico ragionando, c’è chi resta paralizzato e non riesce a vincere la paura. La cosa non mi stupisce, anche perché siamo già talmente stressati e impauriti da temere che l’arma di difesa possa esplodere nelle nostre mani. Il primo motivo rientra quindi nella sfera psicologica dell’individuo e più cerchiamo di convincere i dubbiosi, più li confermiamo nei loro dubbi. Forse sarebbe il caso di tacere e lasciare decantare un po’ la situazione senza forzature e senza squalifiche.

Anche perché chi è senza peccato scagli la prima pietra. Gli scienziati non vengano a farci la ramanzina dopo avere combinato un casino pazzesco sputando sentenze in continuo e radicale cambiamento: un autentico e devastante torrente in piena contro cui non riescono a tenere gli argini della gente comune. I governanti non facciano mostra di coraggioso ed esemplare civismo dopo avere combinato disastri organizzativi e avere mancato troppi obiettivi alla loro portata: non sono stati capaci di approvvigionarsi delle dosi di vaccino necessarie, sono arrivati molto lunghi nel mettere in atto una struttura organizzativa adeguata, continuano a balbettare dalla paura di sbagliare, non hanno saputo sconfiggere speculazioni e ingiustizie. I media la smettano di fare audience sulla pelle dei cittadini: una indegna passerella di personaggi in cerca di visibilità e notorietà, roba da vomito.

Chi si è sottoposto a vaccinazione o intende farlo non faccia il bullo, non è il caso, e chi ha paura e dubita non pretenda l’impossibile. Cerchiamo insieme, con poche chiacchiere e soprattutto con l’aiuto dei medici di base, che dovrebbero conoscere le nostre debolezze fisiche e psicologiche, di combattere una battaglia molto dura e forse infinita.