Gli squallidi grilli per la testa di Grillo

È sinceramente penosa e imbarazzante la vicenda che vede Beppe Grillo nel ruolo di padre accanitamente e sconsideratamente impegnato nella difesa del figlio accusato di un gran brutto reato. E se facessimo tutti un po’ di pur indignato silenzio intorno a questo fatto? Se ne stanno dicendo e scrivendo di tutti i colori, senza rispetto per le presunte vittime e gli eventuali colpevoli, senza alcun ritegno in attesa dei risultati giudiziari, senza comprensione per il dramma di un padre e senza pudore da parte di quel padre che, peraltro, non si comprende se sia più intento a difendere, nel peggiore e più squallido dei modi, il proprio buon nome o l’innocenza del figlio.

Beppe Grillo è un attaccante e quindi non riesce a tacere: utilizza sempre e comunque la cattiveria, tenendo fede ad un cliché costruito e vincente fino ad un certo momento, ma ormai in fase piuttosto discendente. Ha ragione quando vuole smascherare l’evidente tentativo di far ricadere sul padre le eventuali colpe del figlio. Ha ragione quando rivendica il diritto del figlio ad essere considerato innocente fino a condanna definitiva. Ha ragione quando esterna il suo dramma di padre incredulo e combattuto fra la verità e l’amore per il figlio. Ha torto quando scarica le eventuali colpe sull’eventuale vittima, quando vomita offese a destra e manca, quando sparla sul piano giuridico, quando vaneggia dal punto di vista psicologico e sociale, quando sputa veleno dopo averne sparso parecchio per parecchio tempo, quando spara autentiche cazzate inopportunamente amplificate dai media.

Agli errori di Grillo si accompagnano, anche per storica e traviante spinta grillina, gli errori di una società ciarliera, che vive di chiacchiere maligne e di polemiche assurde, di una politica che non rispetta i limiti di velocità a livello di strumentalizzazione lanciando manciate di fango contro gli avversari e portando il confronto dalle idee ai dispetti, di una impostazione mediatica che si butta a capofitto sulle più delicate situazioni personali e famigliari, di una giustizia lenta che lascia macerare gli atroci dubbi verso i protagonisti delle più squallide vicende, di una cultura che mette nel tritacarne manicheo tutto e tutti facendone un polpettone dal sapore equivoco e vomitevole, illudendosi di far progredire la società con le gogne mediatiche e con le ribalte pseudo-dialogiche.

Chi esce male da questa situazione? La ragazza che chiede giustizia e viene messa sul banco degli imputati: la confusione infatti non serve a fare giustizia ma a beffeggiarla con un tremendo gioco delle parti.  Il ragazzo che chiede di poter difendersi e si trova spiazzato da un padre scomodo e impiccione: vittima del peggiore dei paternalismi.  La magistratura che dorme sonni tranquilli a latere di quelli inquieti delle persone in attesa di giudizio: serve solo a sollecitare gli assetati di sangue e a mortificare gli affamati di verità. Le vittime della violenza sessuale che vengono messe alla berlina: si tratta del solito maschilista scaricabarile.

A Beppe Grillo concedo tutte le attenuanti del caso (più che di essere capito ha diritto ad essere compatito), ma voglio ricordare che con la cattiveria e l’arroganza non si va da nessuna parte, anche perché, prima o poi, si ritorcono, a torto o a ragione, su chi le pratica. È riuscito a portare la politica sul suo palcoscenico dello sberleffo, ma, per l’amor di Dio, non tenti di portarci anche i suoi problemi personali e famigliari. Non scherziamo col fuoco! Si taccia innanzitutto per il bene suo e di suo figlio. Trovi un rigurgito di riservatezza e di misura.

E tutti facciano un lungo minuto di rispettoso silenzio. “Un bel tacer non fu mai scritto” è un noto proverbio italiano il cui significato è: “la bellezza del saper tacere al momento opportuno non è mai stata lodata a sufficienza”. Questo proverbiale modo di dire è da molti attribuito a Dante Alighieri. Ammesso e non concesso che sia così, visto che ne stiamo celebrando l’anniversario dei 700 anni dalla morte, proviamo a celebrarlo un po’ meno e a imitarlo un po’ di più. Ne vale la pena.

 

La superlega scombina il supergiochino

“Dodici club europei di calcio annunciano congiuntamente un accordo per costituire una nuova competizione calcistica infrasettimanale, la Super League, governata dai Club Fondatori”. “AC Milan, Arsenal FC, Atlético de Madrid, Chelsea FC, FC Barcelona, FC Internazionale Milano, Juventus FC, Liverpool FC, Manchester City, Manchester United, Real Madrid CF e Tottenham Hotspur hanno tutti aderito in qualità di Club Fondatori, si legge in un comunicato.  È previsto che altri tre club aderiranno come Club Fondatori prima della stagione inaugurale, che dovrebbe iniziare non appena possibile. In futuro i Club Fondatori auspicano l’avvio di consultazioni con UEFA e FIFA al fine di lavorare insieme cooperando per il raggiungimento dei migliori risultati possibili per la nuova Lega e per il calcio nel suo complesso.

Da tempo il mondo del calcio era in profonda crisi economica in uno strabiliante squilibrio tra i costi pazzeschi, figli di un divismo esasperato ed ingiustificato, e i ricavi non aumentabili per effetto di un mercato inflazionato ed esausto. La pandemia globale non ha fatto altro che accelerare l’instabilità dell’attuale modello economico del calcio europeo.

Dal momento che non appare agibile l’ipotesi di un sano contenimento degli ingaggi e di un disboscamento del losco parterre di mediatori e procuratori avidi di ricchezze, si deve per forza ripiegare sull’obiettivo di migliorare la qualità e l’intensità delle attuali competizioni europee nel corso di ogni stagione, in modo da rendere appetibile ad un mercato sempre più saturo uno spettacolo sportivo di alto livello.

Da una parte c’è l’intenzione di far diventare gli stadi complessi ed articolati luoghi di socializzazione e divertimento, dall’altra quella di dare in pasto alla platea televisiva (in attesa di recuperare almeno parzialmente quella in presenza) una invitante occasione aggiuntiva-sostitutiva di spettacolo e divertimento.

Mi stupisce la piccata e farisaica reazione delle federazioni calcistiche nazionali: “Resteremo uniti nei nostri sforzi per fermare questo cinico progetto, si legge in una nota congiunta, e prenderemo in considerazione tutte le misure a nostra disposizione, a tutti i livelli, sia giudiziario che sportivo, al fine di evitare che ciò accada”, minacciando i club e i giocatori di vietare loro di partecipare alle competizioni internazionali. Questo persistente interesse personale di pochi va avanti da troppo tempo. Quando è troppo è troppo”.

Anche il mondo del calcio ha i suoi sovranismo e populismo. Mentre, politicamente parlando, questi due “ismi” vanno di pari passo, ragionando calcisticamente non è così: allo strumentale populismo mercatale dei grandi club fa riscontro la difesa oltranzistica di un modello nazionalistico da parte degli establishment vigenti.

Ricordo come tanti anni fa un caro e simpatico amico appassionatissimo di calcio provocasse un certo sconcerto negli ambienti della tifoseria, confessando di tifare per il Real Madrid. A chi lo criticava pesantemente rispondeva con una allusione politica inconfutabile: “Non siamo forse in Europa? E allora cosa c’è di male se io preferisco una blasonata squadra spagnola rispetto a quelle italiane?”. Discorso ineccepibile e, in un certo senso profetico, perché anche il tifo calcistico verrà rimescolato in una pentola ben più grande e ribollente di stelle calcianti.

Certamente si andrebbe verso una stratificazione nuova delle società calcistiche con l’aggiunta di una sorta di “classe di lusso” come sugli aerei. Le altre squadre verrebbero relegate in secondo piano con ovvie ripercussioni a tutti i livelli. D’altra parte il sistema capitalistico ha le sue regole che valgono per le multinazionali, per le banche, per le assicurazioni, etc. etc. Si verrebbe a creare una sorta di trust del pallone, con la conseguente rimodulazione al ribasso del mercato di tutto il contesto calcistico. Se i supermercati comportano la chiusura dei negozi tradizionali, la superlega comporterà la sparizione delle piccole e locali botteghe pallonare tanto care agli ultras di turno. Anche il tifo si dovrà adeguare e fioccheranno gemellaggi intereuropei.

Tutto cambia. Un mio cinico zio antisportivo (sopportava solo il pugilato), ipotizzava un suo interessamento al calcio solo nel caso in cui undici palloni fossero andati in cerca di un uomo, capovolgendo lo schema tradizionale. Gli undici giocatori sono effettivamente diventati sedici con la possibilità delle cinque sostituzioni. Gli arbitri sono diventati sei, quattro in campo e due in cabina cinematografica. I giornalisti sportivi non si contano più. Vuoi vedere che diminuiranno le squadre per far crescere gli spettatori? E gli spettatori cosa diranno. Allo stadio andranno sempre meno persone, si rifugeranno in salotto con tanto di video panoramico o in soffitta con tanto di smartphone a disposizione. Non ci si capirà dentro più niente e il più bel gioco del mondo andrà in malora per salvare lo stipendio a tanti professionisti dei miei stivali e creando disoccupati anche nel calcio (come se non ce ne fossero già abbastanza).

 

Preti, uomini a tutto tondo

Non ho mai capito e continuo a non capire l’insistenza pseudo-dottrinale della Chiesa Cattolica sul tema del celibato sacerdotale. La recente storia del parroco e della catechista ad Orvieto hanno riproposto la questione, fortunatamente in termini più sereni e costruttivi rispetto a quanto avveniva un tempo non lontano.

Detto in estrema sintesi sentimentale: un parroco lascia perché innamorato di una catechista, il vescovo spiega: «Rispetto per la libertà di ciascuno, ma l’impegno non può essere sottoposto al dominio del sentimento» (faccio riferimento cronachistico al quotidiano Avvenire anche di seguito).

Bisogna ammettere come sia stato compiuto un bel passo avanti. Infatti per annunciare che don Riccardo Ceccobelli, innamorato di Laura, una catechista della parrocchia, avrebbe chiesto la dispensa al Papa per lasciare lo stato clericale, il vescovo di Orvieto-Todi, Gualtiero Sigismondi, ha voluto essere presente nella chiesa di Massa Martana (provincia di Perugia). E, accanto al suo sacerdote in crisi, ha dato l’annuncio ai parrocchiani. Nessun commento, soprattutto preghiere per accompagnare quella svolta certamente costata mesi di riflessioni e di sofferenze al prete e alla ragazza. Almeno sul piano del metodo si è scelta la franchezza e la sincerità senza scandalismi e senza falsi pudori.

Nel merito però siamo alle solite. Il vescovo ha preferito affidare a un comunicato meglio dettagliato il senso della vicenda. «La Chiesa – si legge nella nota della Curia – chiede ai preti di vivere il celibato con maturità, letizia e dedizione, quale testimonianza del primato del Regno di Dio e, soprattutto, come segno e condizione di una vita pienamente donata: senza misura. Si diventa preti dopo almeno sette anni di discernimento e, attualmente, sempre più in età adulta, quando si ha maggiore coscienza e capacità di fare scelte definitive. Una delle affermazioni che, in questa circostanza, va per la maggiore – prosegue la Curia – è la seguente: “Al cuore non si comanda”. Tale opinione è indice di quanto, in un tempo segnato dal relativismo, la ragione sia sottoposta al dominio del sentimento. Si è parlato di eroismo davanti ad un prete che decide di mollare tutto perché si è innamorato di una ragazza; certamente occorre rispetto per la libertà di chi, pur avendo promesso solennemente di consacrare tutto se stesso a Cristo Gesù per il servizio alla Chiesa, non ce la fa, ma parlare di eroismo risulta davvero fuori luogo. Gli eroi sono quelli che rimangono in trincea anche quando infuria la battaglia, come, ad esempio, i mariti e le mogli o i padri e le madri che non mollano nei momenti di difficoltà, perché si sono presi un impegno e l’amore li inchioda anche nel tempo in cui i sentimenti sembrano vacillare; come i sacerdoti che, senza limiti di disponibilità e con cuore libero e ardente, vivono la fedeltà di una dedizione totale».

Non nego l’importanza della scelta celibataria nella sua valenza di servizio totale e a tempo pieno verso la comunità e non come fuga dalla vita sessuale, vista come una palla al piede o come un ostacolo per la vita cristiana. Non troppo tempo fa, durante una celebrazione eucaristica nella chiesa di Santa Cristina in cui l’allora parroco don Luciano Scaccaglia non aveva timore ad affrontare i temi sessuali apertamente e cristianamente, un simpatico membro dell’assemblea mi si avvicinò e mi sussurrò all’orecchio: “È curioso il mondo: ormai le uniche categorie di persone che desiderano sposarsi sono i preti e gli omosessuali…”. E la Chiesa glielo vuole vietare a tutti i costi. Non capisco perché un prete non possa vivere il suo sacerdozio nel contesto esistenziale in cui sia presente il rapporto matrimoniale: si tratterà di tarare l’impegno fra queste due opzioni, che comunque non vedo assolutamente in contrasto fra di loro.

Cosa c’è di strano e di anti-evangelico se un cristiano decide ex nunc o ex tunc di fare il prete pur contraendo un vincolo matrimoniale? L’impegno non può essere sottoposto al dominio del sentimento? Ma cosa vuol dire? Sono un accanito romantico e quindi ritengo che sia necessario basare la propria vita sui sentimenti: solo in essi e partendo da essi, infatti, tutto trova un senso.

Quanto al sesso voglio ricordare quanto arditamente, ma con tanta simpatica e ironica delicatezza, affermava don Andrea Gallo: «Il sesso è anche un piacere. Fisico, intendo. E non me ne vergogno. Come prete non posso praticare la scelta del sesso, ma immaginarlo almeno un po’ praticato da altri, mi rende l’animo più gaudente e allegro». E perché aprioristicamente un prete non può praticare il sesso? Forse lo potrebbe aiutare ad essere più uomo. Forse gli eviterebbe qualche vomitevole tentazione. Forse potrebbe aiutare gli altri a superare i tabù di cui è lastricato il percorso comportamentale tracciato dalla Chiesa per i suoi fedeli. Forse sarebbe un po’ meno maschilista. Forse sarebbe un po’ meno clericale. Forse troverebbe più equilibrio nella sua vita. Lasciamo che decida lui e non imponiamogli un assurdo giogo preventivo e continuativo.

Sono perfettamente d’accordo a non scomodare il discorso dell’eroismo. Non è un eroe un sacerdote che promette di vivere in castità e non è tale il prete che sceglie di vivere l’esperienza matrimoniale. Tutti i giorni leggo i profili esistenziali dei santi celebrati canonicamente: è la Chiesa che ha accreditato nei secoli l’idea della santità maschile e femminile associata (quasi) necessariamente alla verginità.

E perché poi le scelte dovrebbero sempre e comunque riguardare tutta la vita: si può benissimo partire con le più serie intenzioni per poi accorgersi che la scelta iniziale può essere seriamente (non per capriccio) rimessa in discussione, certo senza creare impatti disastrosi sugli altri. Non ci devono essere riserve mentali, ma nemmeno assolutistiche scelte una tantum, imposte dall’alto o dall’esterno. No si tratta di relativismo, ma di onesto e leale aggiustamento di tiro in corso d’opera (vale per tutte le vocazioni).

Quanto al sentimento ed al suo impatto sull’esistenza, voglio fare riferimento a quanto scrive Ermanno Olmi nella sua stupenda “Lettera alla Chiesa” (Il testamento spirituale di un maestro visionario). Dopo avere provocatoriamente ma meravigliosamente ipotizzato un amore totale, in spirito e carne, fra Gesù e Maria Maddalena, così conclude: “Questa è una storia possibile della donna che ha amato Gesù. Il Figlio di Dio che si è fatto uomo? No: egli è il Figlio dell’uomo come tutti noi, nella sua interezza e fragilità, e non uomo ma anche un po’ dio. Cara Chiesa delle liturgie, tieni Dio sugli altari e lascia libero Gesù. Liberalo dal vincolo della paternità divina e lasciagli la paternità di uomo come lo siamo noi. Un uomo incarnato nella condizione umana, coi suoi vincoli che impone la natura terrena, dalla nascita alla morte. Perché è con questo sentimento che io sento Gesù vicino a me, come un fratello, nati dalla medesima carne, vissuti del medesimo pane. E mi riconosco in Lui. Prima ancora che nelle Sue virtù, nei Suoi cedimenti come lo siamo noi, comuni e smarriti esseri umani. Solo così, cara Chiesa, potrò per sempre misurare la grandezza di Gesù e del suo insegnamento, del suo esempio, del suo sacrificio. Come potrei mai dimenticarmi di Lui?”.

 

 

 

 

L’uovo di Draghi

La strategia (forse è meglio essere prudenti e definirla tattica) del governo è dettata dal buon senso a trecentosessanta gradi. Si basa su alcuni dati, discutibili ma concreti: all’aperto il virus gira a vuoto e l’andamento stagionale con le alte temperature favorisce indubbiamente la vita all’aperto; la vaccinazione, pur in mezzo a spinte e controspinte, sta marciando con passo “militaresco” e dovrebbe aumentare le difese contro il virus; il graduale disgelo della vita dovrebbe favorire  la ripresa economica supportata da nuovi e cospicui investimenti e dalla realizzazione delle opere pubbliche da cantierare; il sempre più grande macigno del debito pubblico non dovrebbe rappresentare un incubo, ma un ostacolo superabile in tempi ragionevoli, in un nuovo contesto di sviluppismo europeo, con tassi di interesse quasi inesistenti, con investimenti ben mirati e gestiti e con il rimbalzo del pil capace di rimpinguare le tasche private e pubbliche.

Rendendomi perfettamente conto della “traballante certezza” di simili calcoli e ragionamenti, colloco la linea governativa varata da Mario Draghi in una strana combinazione tra la sconsolante storiella della “ricottina”, l’arte estrema dell’O di Giotto, l’edizione riveduta e corretta “dell’uovo di Colombo”. Draghi è riuscito a coniugare il pessimismo, basato sul persistente cimitero pandemico, con la “sperànsa di mäl vestì, ch a faga un bón invèron”, con la scommessa “sull’arte di arrangiarsi” degli italiani, sul “mal comune mezzo gaudio” a livello europeo, sul “chi la dura la vince” della campagna vaccinale, su “l’importante non è vincere ma partecipare” alla ripresa dell’economia, sulla convinzione che “i debiti sono la schiavitù degli uomini liberi”.

Ricordo un piccolo episodio della mia vita professionale. Si stava affrontando un problema difficile, complesso e delicato; al termine dell’approfondito esame, un collega sciorinò la sua proposta di soluzione. Il solito guastafeste osservo che di soluzioni alternative ce ne potevano essere almeno altre cento. Al che il primo, ironicamente stizzito, rispose: “Di queste cento vedi di trovarne una tu e proponila…”. Tutto finì lì e andò avanti la prima plausibile anche se imperfetta soluzione.

Tutti si scateneranno nelle critiche al criticabilissimo piano di Draghi, ma forse nessuno saprà trovarne uno concretamente migliore. Cosa gli era stato chiesto? Di cavarci fuori da una situazione drammatica senza vie d’uscita. Ci sta provando seriamente, tenendo insieme col suo carisma un paradossale non-governo, mettendo alla prova con la sua autorevolezza i ministri cavando dalle botti il vino che possono dare, sopportando pazientemente e compassionevolmente i politici molesti, parlando poco e facendo tutto il possibile, mettendo in campo tutta la sua esperienza per districare le più aggrovigliate matasse economico-finanziarie, tentando di suscitare fiducia negli sfiduciati cittadini.

Non so se nell’agire di Draghi ci sia discontinuità rispetto a chi lo ha recentemente preceduto: mi sembra una discussione stucchevole. Ce la farà? Ci sta mettendo la faccia ed ha perfettamente ragione chi sostiene che a Draghi non interessino per niente le smanie pseudo-politiche di Salvini: pensa a figurare bene lui di fronte agli italiani e al mondo intero che lo sta guardando con apprensione. In fin dei conti poteva restarsene in villa a godere tutto il prestigio accumulato, invece si è messo coraggiosamente in gioco, rischiando grosso. Meglio così, per lui e soprattutto per noi. Grazie comunque!

 

L’urlatore dalle riaperture facili

Dal momento che il governo Draghi ha mandato in cantina o in soffitta la politica con la “p” minuscola e dal momento che della politica con la “P” maiuscola si sono perse le tracce, la politica non riesce a fare audience e quindi ha bisogno di attaccarsi dove può e non dove sarebbe giusto e corretto. L’unico argomento che si presta alle urla ed alla peggiore delle strumentalizzazioni è quello delle riaperture.

«Scusi, Lei è favorevole o contrario?» così chiese un intervistatore al mio professore di italiano, in occasione dell’introduzione del divorzio nella legislazione italiana, con l’assurda coda del referendum voluto a tutti i costi dalla gerarchia cattolica al cui volere la Democrazia Cristiana si piegò per ovvi motivi elettoralistici. «Tu sei un cretino!» rispose laicamente stizzito il professore. Credo non ci voglia molto a capire come l’intervistato rifiutasse il modo manicheo con cui veniva affrontato il problema.

Di tempo ne è passato parecchio ed il populismo ha fatto molta strada al punto da ridurre tutta la politica, e non solo, ad un perpetuo referendum pro o contro qualcosa, ma soprattutto pro o contro qualcuno: un continuo strisciante plebiscito strumentalmente azionato, usato per ridurre a zero il dibattito sui problemi e fuorviare i cittadini con la ratifica delle finte ed illusorie soluzioni. Se non si discute, se si viene costantemente posti di fronte ad una facilona scelta di campo, lo sbocco è condizionato dai media e vince chi ha la voce più forte, vale a dire il peggiore.

Tutte le enormi problematiche della nostra società vengono ridotte al ritornello: “Scusi, Lei è favorevole o contrario?”. Noto, da parecchio tempo, come non si riesca più a discutere nel merito dei problemi: tutto viene ridotto a mera diatriba faziosa e velleitaria entro cui si rovinano persino rapporti familiari, parentali, amicali, si distrugge il dialogo rincorrendo fantomatiche certezze. La pandemia avrebbe dovuto indurre a più miti consigli, invece eccoci al dunque: “Lei è favorevole o contrario alle riaperture?”. E chi non vorrebbe far riprendere tutte le attività? Il problema è un falso problema. Serve solo a cavalcare la protesta senza valutarne le pregevoli motivazioni assieme alle difettose semplificazioni.

Vado al sodo: è inutile e infantile che Matteo Salvini strilli e pesti i piedi per far finta di avere a cuore i problemi dei commercianti reclusi, abbiamo capito tutti che sta cercando di alzare la voce per distinguersi a tutti i costi nel coro in cui è stato costretto ad entrare e cantare. Lui, pur di farsi notare, ci sta anche a stonare clamorosamente. Insiste con le riaperture. Gli è stato risposto che verranno attuate nel rispetto della massima sicurezza possibile. No, apriamo subito e senza condizioni!

Mio padre, con una certa commozione, mi raccontava come mi rapportassi a lui. Davanti alla vetrina di un negozio, davanti a un bel giocattolo, ad un dolce invitante, chiedevo: «Papà me lo compri?». Mio padre genialmente non cadeva nella capricciosa trappola del sì-no o del no-sì. Spostava la questione, mettendo in gioco la propria credibilità e mi rispondeva dolcemente: «Ne parliamo domani…». E io rispondevo: «Va bene, domani…». Non era un gioco al rinvio, né tanto meno una scappatoia illusionistica, né una furbizia per tenermi buono. Forse un po’ di tutto, ma il discorso di fondo era quello di collaudare la fiducia tra padre e figlio. Mi fidavo di mio padre e di quanto avrebbe fatto di fronte alle mie richieste!

Trasferiamo questo fanciullesco ricordo nella situazione di tensione venutasi a creare fra commercianti esasperati e governanti titubanti. La risposta alle rivendicazioni non deve essere un sì sbrigativo e deresponsabilizzante e nemmeno un no sussiegoso e pregiudiziale. Si tratta di ragionare con calma e senso di responsabilità. Siccome manca la fiducia si ricorre alle facili promesse, sperando che al momento del voto i ristoratori si ricordino di chi ha raccontato loro le balle che stanno in poco posto. Possibile che non si riesca a fare politica con la testa e non con la pancia? Sembra che Mario Draghi si stia spazientendo. Speriamo che la pazienza dei commercianti e quella di Draghi, messe a dura prova per motivi diversi, trovino comunque un punto d’incontro e lascino con un palmo di naso chi soffia vergognosamente sul fuoco.

 

Al cièl al se s’ciarìssä e l’acqua la s’infissìssä

Dal momento che purtroppo, a livello sia individuale sia sociale, la lingua batte dove il dente duole, provo a frenare la lingua, ragionando co un po’ di buon senso, ed a placare il mal di denti con un pizzico di sano realismo calmante.

Sulla base dei dati che ci vengono giornalmente forniti – ammesso e non concesso che siano effettivamente raccolti in tempo reale e che siano registrati correttamente -, l’andamento dei contagi e dei decessi da covid 19 e relative varianti è piuttosto sconfortante e non lascia ben sperare. Tutte le sere, con grande ansia, attendo le cifre della giornata e ricado regolarmente nella più angosciata delle depressioni.

Superato con grande fatica questo penoso stato d’animo, tento di analizzare con qualche lucidità i motivi della implacabile resistenza del virus a tutte le misure adottate, dal distanziamento alle precauzioni igieniche, dalle chiusure alla vaccinazione, dalla mobilitazione scientifica a quella sanitaria. Sarebbe comodo e precipitoso concludere che il progresso, tutto sommato, non ci ha portato molto lontano: siamo andati nello spazio, abbiamo messo piede sulla Luna, forse Marte è alla nostra portata, ma il coronavirus ci sta inesorabilmente distruggendo (il numero dei morti a livello mondiale è semplicemente catastrofico). Sarebbe altrettanto ingiusto e sbrigativo pensare ad una imminente apocalisse: i segni, che, anche evangelicamente, vengono previsti, effettivamente coincidono con quanto sta accadendo, ma si tratta di segni, di artifici linguistici e non di realtà profetiche in via di realizzazione. Allora stiamo coi piedi per terra e proviamo a ragionare. Evidentemente qualcosa non sta funzionando nella strategia (?) adottata per contrastare e sconfiggere il virus. Passiamo in rassegna le varie misure.

Le chiusure più o meno ermetiche non stanno funzionando o, quanto meno, non bastano a tenere lontano il contagio: di qui il crescente malumore sociale delle categorie più colpite, che al danno delle ristrettezze economiche sofferte aggiungono un senso di inutilità ed inequità dei sacrifici loro imposti. È inevitabile che il ristoratore si chieda: nonostante tutta la mia buona volontà nell’adozione di costose misure a livello logistico, mi impongono di tenere abbassate le saracinesche del mio esercizio commerciale e poi scopro che probabilmente non serve a nulla visto che i miei potenziali clienti continuano imperterriti a contagiarsi ed a morire. Loro muoiono di covid ed io, se continuo così, muoio di fame.

Forse bisognerebbe chiudere ermeticamente tutto e di più, ma rischieremmo di fare la morte del topo. Ci illudiamo di non morire asfissiati sigillando porte e finestre senza pensare che prima o poi mancherà l’aria da respirare e sarà comunque necessario spalancare i serramenti cigolanti. Forse abbiamo sbagliato ad aprire e chiudere in continuazione perdendo i benefici di una chiusura generale e prolungata (un po’ come il primo vero lock down) e quelli di riaperture troppo precarie e condizionate. Si dirà “fammi indovino che ti farò ricco”. La questione è che noi abbiamo giocato a fare gli indovini e ci ritroviamo poveri.

Quanto alle misure igienico-protettive, mi riferisco alle mascherine, ai lavaggi frequenti delle mani, alle igienizzazioni pre e post possibili contatti infettivi, avevamo e abbiamo tutti la consapevolezza di come tutto ciò abbia un valore più rituale e simbolico piuttosto che reale e significativo: cose da fare, ma come quando si esce allo scoperto sotto un diluvio aprendo un ombrellino da passeggio. Si dirà “meglio poco di niente”. Il problema è che stiamo istituzionalizzando il poco ottenendo il niente.

E veniamo al toccasana vaccinale: era ed è l’unica vera arma appuntita che si poteva sperare. Purtroppo la stiamo sprecando dopo averla confezionata al peggio. La vaccinazione va a rilento, i vaccini vanno e vengono in un assurdo andirivieni speculativo, commerciale, organizzativo e scientifico. Al momento non si vede alcun effetto significativo sui contagi. Abbiamo certamente preparato malissimo la campagna, abbiamo sprecato tempo preziosissimo, stiamo tuttora brancolando nel buio organizzativo. Forse anche la tanto enfatizzata scaletta di salvataggio varata dal governo è più demagogica che efficace. Forse non ha tutti i torti Vincenzo De Luca, frizzante governatore della Campania, quando dichiara di voler vaccinare gli operatori economici a contatto col pubblico. Si dirà “del senno di poi son piene le fosse”. Non siamo ancora arrivati al poi, quindi si può ancora correggere il tiro: “chi la dura la vince”. Una cosa è certa: i governanti hanno brillato di poca resistenza e coerenza di fronte alle difficoltà e di molta arrendevolezza verso le loro sconclusionate diatribe.

Al termine dei lavori di costruzione di una moderna chiesa periferica di Parma, così essenziale da essere definita da mio padre “l’amàs dal gràn”, gli architetti si accorsero con sorpresa che il soffitto a capanna sembrava piatto, perché la pendenza dei due lati era insufficiente (la terminologia non è precisa e chiedo scusa agli architetti, a quei due in particolare). Mio padre si scandalizzò ma non disse nulla e tra sé pensò che“l’amàs dal gràn”  stava emergendo inequivocabilmente ed irrimediabilmente. Era tardi e non si poteva ovviare, pena rifare completamente il tetto (rimedio inattuabile). La pensata per uscire dalla clamorosa impasse fu di dipingere il soffitto a due tonalità diverse di colore in modo da prendere lucciole per lanterne. Mio padre eseguì e tacque, ma non digerì la questione che divenne paradigmatica per bollare l’atteggiamento dei progettisti supponenti.  “Méstor mi e méstor vu e la zana d’indò vala su?”  direbbe mia nonna (erano due ingegneri che si scambiavano complimenti ma che si erano dimenticati l’uscio nella porcilaia).

Aggiungo un’altra chicca paterna, spostandomi al cimitero (ogni lugubre riferimento alla pandemia è puramente casuale). Mio padre andava poco a visitare le tombe dei defunti ed era solito giustificarsi così: “Al simitéri a gh’ vagh anca trop par lavorär “. Alla villetta stava lavorando per affrescare una cappella ed aveva realizzato l’idea di un architetto, ma, a dire di quest’ultimo, usando tinte un po’ troppo scure. “A pära d’ésor al simitäri” disse il professionista.  Mio padre tacque perché il più bel tacer non fu mai scritto. Io forse parlo e scrivo troppo. La posta in palio però è altissima, quindi…

Tra vaccini e candele

“La notizia che arriva dagli Usa sulla decisione della prestigiosa Fda (l’Agenzia americana del farmaco) di chiudere la sospensione del vaccino Johnson & Johnson proprio mentre le prime 184mila dosi stanno per sbarcare in Italia è una tegola che rischia di mandare in frantumi la nostra campagna vaccinale. Stanno per riunirsi il ministro Speranza e i vertici dell’Aifa, la nostra agenzia regolatoria del farmaco, per decidere il da farsi dopo la frenata degli Usa”.

In effetti “è durata più di due ore la riunione all’Aifa (agenzia del farmaco) con il ministro della Salute Roberto Speranza dopo le indicazioni Usa sul vaccino J&J. Johnson & Johnson aveva «rinviato la distribuzione» del suo vaccino anti Covid in Europa in seguito allo stop per sei casi di trombosi segnalati. Una nuova battuta d’arresto agli sforzi per affrontare la pandemia, con le 184mila dosi del vaccino arrivate in Italia che sono state stoccate nell’hub della Difesa a Pratica di Mare in attesa delle verifiche. Dopo la riunione fiume per capire come procedere dopo lo stop negli Stati Uniti sono arrivate le prime dichiarazioni del ministro Speranza: «Valuteremo nei prossimi giorni, ma Johnson & Johnson dovrà essere usato. Abbiamo fatto una riunione con Aifa e scienziati, siamo in contatto con Ema e valuteremo nei prossimi giorni appena a Ema e Usa daranno informazioni definitive quale sarà la strada migliore»”.

“Draghi cambia piano: dal 2022 solo Pfizer e Moderna; non saranno rinnovati i contratti ai farmaci a vettore virale. Penalizzati AstraZeneca, J&J, Sputnik e l’italiana ReiThera destinati solo agli over 60. È abbastanza certo ormai che il destino del vaccino Johnson&Johnson sarà lo stesso di AstraZeneca. Dopo i pochissimi casi di trombosi rilevati negli Stati Uniti e la sospensione decisa dalle autorità americane, fonti del governo italiano confermano che l’orientamento immediato è di circoscriverne l’uso solo agli over 60, come una settimana fa, a livello europeo, era stato deciso per il siero di Oxford”.

“Il direttore scientifico dell’Istituto Spallanzani, tra i più ascoltati esperti del Cts, è cauto sulla decisione dell’Fda americana di sospendere il vaccino di Johnson&Johnson, la giudica allarmismo ingiustificato in quanto i benefici sono superiori ai rischi, sostiene che l’utilizzo di tale vaccino sarà rivalutato a breve e che questa è solo una pausa: poi ripartiremo”.

Sono brevi stralci di notizie apparse sul sito del quotidiano La Stampa. Ho l’impressione che ci si voglia comunque attaccare alla scialuppa di salvataggio vaccinale anche se ci sono seri dubbi sulla sua sicurezza ed efficacia. Questa volta infatti è toccato all’Agenzia americana del farmaco adottare una inquietante misura cautelare proprio mentre si guardava allo sbarco del vaccino d’oltre oceano quale ancora di salvezza.

Da una parte stanno i “vaccinisti”, coloro che sostengono come (sintetizzo brutalmente il loro pensiero) sia meglio che qualcuno muoia o abbia gravi conseguenze piuttosto che bloccare tutto e tutti ai nastri di partenza di un lock down infinito e disastroso: insomma, si tratta di “realvaccinik”. Dall’altra parte stanno gli “scettici” (mi iscrivo a questo partito), che ritengono assai problematico l’uso di vaccini sperimentati e prodotti “alla cazzo di cane”, distribuiti sull’onda di una colossale speculazione e somministrati in base al gioco della mosca cieca. In mezzo i “possibilisti”, i “centristi vaccinali”, i quali non sanno che pesci pigliare e si destreggiano tra aprioristiche spinte alla vaccinazione di massa e pause di cautelare sospensione, una sorta di stop and go scoordinato e discontinuo.

Se andiamo avanti così mentre gli over sessanta rappresenteranno sempre più la pattumiera vaccinale, agli under sessanta non resterà altro da fare che optare, prima, dopo o in mancanza di vaccinazione, per l’accensione di una candela davanti alla statua di Maria Vergine, aggiungendo alle litanie ad essa dedicate un disperato “regina dei vaccinandi” e sperando che almeno lei sappia districarsi nella confusione che stiamo (colpevolmente) creando.

Con queste riflessioni ad alta voce, dopo l’inopinata patente di qualunquista, dopo la squalifica a vita come terrorista, mi arriverà la promozione a blasfemo disfattista. Vorrà dire che mi giustificherò, asserendo che con la pandemia cambia tutto, anche il mio povero cervello…

 

 

I terrorismi convergenti e paralleli

Le ultime notizie dal bailamme pandemico ci dicono che molte delle mascherine in commercio non proteggono, che l’Italia sbaglia gli indici per misurare la febbre del virus, che ogni governatore regionale vuol programmare la vaccinazione a suo modo, che la vaccinazione continua a suscitare perplessità disorientando i vaccinandi, che le riaperture, richieste a gran voce dai commercianti sempre più esasperati e strumentalizzati, non si sa se, come e quando avverranno, che gli ospedali continuano a scoppiare di malati, che i morti sono talmente tanti da mettere in crisi la cremazione al punto che a Roma si deve ripiegare su altre procedure di sepoltura.

Il libero mercato, uno dei presupposti del nostro sistema socio-economico, fa cilecca: gli affari sono affari e non contemplano il rispetto per le esigenze vitali delle persone; lo stato non è in grado di intervenire, perché abbiamo privatizzato tutto e indietro non si torna; lo stato imperialista delle multinazionali del farmaco non è purtroppo solo un residuato bellico del terrorismo brigatista rosso, ma una trista realtà che mette in ginocchio e paralizza i pubblici poteri.

L’Unione Europea, nata per difendere la vita dei cittadini, non riesce nemmeno a intervenire nelle situazioni estreme e getta vergognosamente la spugna lasciando tutti nelle braghe di tela dei rapporti con i produttori di vaccini. Speriamo che almeno sganci i quattrini promessi a sostegno della ripresa socio-economica, ma non ne sarei così sicuro.

La scienza è penosamente brancolante nel buio: ognuno dice la sua e tutti sbagliano regolarmente previsioni e soluzioni. Mi si dirà che è tutto molto difficile. Certo, ma allora si abbia il buongusto di centellinare le poche e relative certezze e trattenere le tante e assolute incertezze sparate a gola aperta.

I governatori regionali non abbandonano la loro verve, dicono anche cose giuste nel momento sbagliato e viceversa. Possibile che non si possa trovare un’intesa per affrontare una situazione di tale gravità? Niente da fare: dare aria ai denti e ai voti è l’imperativo principale ed imprescindibile.

La gente non ne può più, vuole riprendere a lavorare e vivere. Come darle torto? Bisognerebbe avere la credibilità e l’autorevolezza per fare ragionare i cittadini. Temo sia troppo tardi. Anche Mario Draghi sta vacillando. Sono stati commessi da parte dei governanti tutti gli errori possibili e immaginabili e allora con quale becco di ferro si va dai ristoratori a imporre di tenere le saracinesche abbassate. Magari fra un po’ salterà fuori che nei ristoranti il rischio di contagio era ed è minimo, visto oltre tutto che le mascherine danno una protezione più simbolica che effettiva e quindi si possono abbassare. Tutto paradossale.

Per rafforzare i reparti ospedalieri e di terapia intensiva non si è fatto un cazzo a suo tempo e ora ripiangiamo sul latte versato. C’era più di un anno per organizzare la vaccinazione, non abbiamo fatto un cazzo (uso questo termine brutale e volgare per meglio rendere l’idea) e ora stiamo improvvisando e recitando a soggetto, pretendendo ordine, disciplina e serietà dai cittadini sempre più confusi e stressati, quando non malati o…morti.

Persino i morti hanno problemi: sì, di sepoltura, perché la cremazione non regge i ritmi e quindi occorrerà ripiegare sulle fosse comuni. Sto esagerando? Sto facendo del terrorismo? Non lo so, sto solo esprimendo un disagio pazzesco in attesa di ammalarmi e morire solo come un cane. Faccio più terrorismo io o i governanti che ne combinano di tutti i colori e gli scienziati che ne pensano una e cento ne sparano? Non avrei mai più pensato di arrivare a questo punto di sfiducia. Spero che questo estremo imbarazzo non mi comporti l’abbassamento delle serrande umane a protezione dell’egoismo. Mi sembra che, tutto sommato, questo possa essere il rischio maggiore. Per me e per tutti.

 

Ma la vita no… e il pallone sì

Un milione di posti di lavoro andati in fumo, ben oltre 100mila persone morte, un casino pazzesco negli ospedali, migliaia di ammalati in pericolo di vita, tutti con la vita attaccata ad un chiodo, l’operazione vaccini in continuo tilt, lontane prospettive di una ripresa che ci cambierà comunque la vita…e c’è chi disserta con ansia sulla possibilità o meno di disputare in Italia le partite dell’europeo di calcio con un pezzetto di pubblico presente sugli spalti.

Già il fatto che (giustamente) siano state chiuse le scuole mentre il campionato di calcio va avanti in mezzo a tamponamenti a getto continuo grida vendetta al cospetto della nostra insulsaggine. Adesso, mentre la gente è sballottata fra un vaccino e l’altro, tra l’ansia di soccombere al virus e quella di rimanere impigliata negli effetti indesiderati degli antidoti, tra la fretta di contare sull’immunità di gregge e i colpevoli ritardi nella somministrazione dei vaccini, tra la prudenza delle sofferte chiusure e la tenue speranza delle timide riaperture, ci preoccupiamo se sarà possibile ospitare a Roma alcuni incontri rientranti nel campionato europeo di calcio.

Anche questo, e non solo questo, è segno di una società basata sul nulla e il covid ce lo sta sbattendo in faccia drammaticamente. D’altra parte non era così quando migliaia di poliziotti venivano impiegati per garantire l’ordine pubblico negli stadi, mentre mancavano le forze per garantire l’ordine a livello territoriale? Non era così quando si sopportavano i disordini provocati dai teppisti del pallone e si usava il pugno di ferro contro le manifestazioni a favore della tutela ambientale e la giustizia sociale. Non era così quando il sistema pallone navigava su un mare di (finti) soldi mentre tante imprese navigavano su un mare di (veri) debiti. Tutto un paradosso attorno a cui girano interessi di scarsissimo rilievo sociale.

E io ho ancora il coraggio di tentare di divertirmi guardando le esibizioni dei pedatori, mentre tutti aspettano con ansia le decisioni del ministro Speranza sulla fattibilità delle partite di cui sopra e magari sbuffano se il ministro osa imporre qualche spiacevole disposizione sanitaria.

La risposta alla Uefa è stata positiva, quindi si riaprirà a fette lo stadio olimpico con procedure stabilite dal comitato tecnico-scientifico: mobilitazione a livello di tamponi, quei tamponi che fino a qualche tempo fa si facevano col contagocce anche per chi correva seri rischi? Non so se il coronavirus abbia avuto origine dalla colpevole o dolosa distrazione di qualche laboratorio per poi prosperare come vendetta ambientale e sanitaria contro le nostre inadempienze, incongruenze e incompetenze. Non so se la natura si stia prendendo la rivincita inchiodandoci alle nostre enormi responsabilità di cretini anti-ecologici.

Non so se ne usciremo mai e come eventualmente ne potremo uscire. Certamente avremo in una mano un pallone a cui dare calci per divertirci e nell’altra mano un pallottoliere con cui contare i morti, i disoccupati e i poveri. Però il calcio non si deve e può fermare a costo di dare un calcio al cuore ed al cervello.

Galeotta fu la seggiola

Si potrebbe dire che tutto il mal non vien per nuocere. Il (quasi) incidente diplomatico avvenuto fra il dittatore (sic!) turco Erdogan e i massimi rappresentanti dell’Unione Europea in visita ad Ankara, che potremmo definire “la seggiola negata”, ha una sua valenza diplomatica (incautamente enfatizzata da Mario Draghi), ma ha anche un significato politico per l’Europa.

Avevamo bisogno dello sgarbo protocollare turco per capire che l’Europa è tutto meno che unita, compatta e funzionante? Tutto può servire. Un tempo sarebbe bastato a scatenare una guerra contro la Turchia, oggi sottolinea come l’Europa, che sta uscendo malridotta dall’azione scoordinata e inconcludente contro la pandemia, è assente non per colpa dei nemici che la sottovalutano, ma per colpa degli amici che la boicottano dall’interno.

Charles Michel seduto a fianco di Erdogan, Ursula von der Leyien in piedi ad attendere uno sgabello qualsiasi. Si trattava di scegliere tra la solidarietà con la presidente della Commissione europea e la difesa di lavori di distensione con un Paese di cui l’Europa ha un disperato bisogno. «Probabilmente è stato un errore, ma non mi sono alzato dalla sedia per paura di creare un incidente ancor più grave compromettendo mesi di attività diplomatica per una stabilità nelle nostre relazioni», così ha affermato Michel, presidente del Consiglio Europeo.

La versione di Michel non mi convince. Vado con la mente ad un episodio capitatomi durante la vita professionale. Accompagnai, come consulente di parte, un alto dirigente di una importante cooperativa impegnata in una delicata trattativa. All’inizio del dialogo la controparte, non ricordo bene il punto d’attacco, fece un pesante cenno alla mia incompetenza e inattendibilità. Fui tentato di alzarmi e abbandonare la riunione, ma venni trattenuto dal capo-delegazione, che intervenne drasticamente per ribadire l’assoluta fiducia nei miei confronti e nel chiedere rispetto pena l’interruzione immediata del discorso. La mossa ebbe l’effetto non di rovinare il clima, ma di riportarlo ad una dimensione dialettica non costruttiva, ma almeno accettabile.

Cosa voglio dire? Quando si tratta, non bisogna cadere nella trappola mirante a dividere l’interlocutore, ma presentarsi uniti sapendo superare anche eventuali frizioni in casa propria. Invece Charles Michel, col suo atteggiamento omertoso e dubbioso, ha finito col portare i panni sporchi europei in casa d’altri. Si sarebbe dovuto alzare per cedere il posto alla collega, dando una lezione di stile a chi stile ne ha pochissimo e fornendo soprattutto l’immagine del minimo di sopravvivenza unitaria dell’Europa. È incredibile quante conseguenze possano discendere da un banale episodio. La dimostrazione che, come diceva una importante funzionaria ministeriale di mia conoscenza, anche la forma è sostanza.

L’episodio ricorda l’ancor più grave sgarbo di Donald Trump che rifiutò di stringere la mano ad Angela Merkel ostentando indifferenza se non addirittura ostilità verso l’Unione Europea. Trump ha fortunatamente traslocato dalla Casa Bianca, mentre l’Europa è ancora lì, ma rischia di essere il barile dei pesci, i quali si mostrano indifferenti allo scopo di non compromettersi con decisioni chiare ed impegnative.

La sostanza purtroppo, al di là della dittatoriale dimensione “erdoganiana” e delle sue (eventuali) provocazioni, sta nel fatto che a livello istituzionale esistono due Europe, quella degli Stati e quella della Commissione unitaria. La prima, rappresentata dall’impettito Michel, è quella che conta e registra un sostanziale anti-europeismo fatto dell’esplicito sovranismo di alcuni e del subdolo protagonismo di altri. La seconda, incarnata dalla ridanciana Von der Leyen, è di facciata, non conta e registra i clamorosi fallimenti operativi a cui stiamo assistendo.

O ritroviamo una decente spinta unitaria o l’Europa va a farsi benedire o maledire (a seconda dei casi). Il succo della reazione individuale e sociale alla pandemia sta in poco posto etico: o ci si chiude ancor più in se stessi o si capisce che occorre collaborare e solidarizzare. A volte basta un gesto sbagliato a farci precipitare nel baratro e chi ha certe responsabilità deve esserne consapevole. Ursula von der Leyen si è alla fine seduta, se non ho visto male, su un divano a latere: è successo come nei litigi famigliari (uno dei coniugi va a dormire sul divano), che preludono al divorzio. Dio non lo voglia!