Zbrajäda continua

Durante la conferenza stampa per i lavori del Consiglio europeo, il premier Draghi è stato più volte ‘interrotto’ dal canto di un pavone che si trova nei giardini del Palacio de Cristal di Porto. Il presidente del Consiglio, sorridente sin dal primo verso dell’uccello, ha anche scherzato con i giornalisti presenti nella tensostruttura allestita per le conferenze dicendo: “questo ci accompagna da stamane”.

Il pavone è un bellissimo animale originario dell’India e in Oriente, proprio per la ruota che fa con la coda, è considerato un simbolo del Cosmo o del Sole, mentre in Occidente è il distruttore di serpenti. Secondo la leggenda, i colori cangianti delle penne della coda si spiegavano con la capacità di tramutare il veleno in sostanza solare, mentre gli occhi erano considerati simbolo dell’onniscienza di Dio. Se nella religione cristiana simboleggiava l’immortalità, a partire dal Medioevo il pavone ha iniziato a simboleggia la vanità e il lusso.

C’è un pavone politico, si chiama Salvini Matteo, che accompagna Draghi in continuazione, facendone il controcanto: ogni volta che il presidente parla in pubblico lui trova il modo di esibirsi in contrapposizione; sui diversi argomenti non manca mai di distinguersi in modo più o meno clamoroso ed eclatante; si parla addosso, o meglio, parla addosso al suo potenziale elettorato, discretamente spiazzato e, si dice, in fuga verso altri lidi.

Se Draghi intende essere cauto, lui ostenta spregiudicatezza; se Draghi spinge sull’acceleratore, lui tira il freno a mano; se Draghi pensa di tenere chiuso, lui vuole aprire a tutti i costi; se Draghi dichiara di volere spendere, lui dice di volere spandere; se Draghi strizza l’occhio agli Usa, lui punta a dialogare con la Russia; se Draghi esprime la volontà di attuare alcune riforme, lui chiede di mantenere le cose come stanno; se Draghi tiene ferma la situazione, lui minaccia di buttare tutto all’aria. Siamo arrivati al punto che il draghipensiero serve immediatamente a svelare e misurare il salvinipensiero. Siamo di fronte al leghismo di rimessa, alla Lega in costante ripartenza.

Mi chiedo fino a quando potrà durare questa assurda manfrina, fino a quando la ruota del pavone potrà incantare la gente senza trasformarsi in quella assai più modesta e penosa del tacchino.  È noto che sia i pavoni che i tacchini hanno in dotazione nella loro morfologia fisica, la bellissima “ruota di piume”, elemento di fondamentale utilizzo nel corteggiamento di coppia. Ma qual è la differenza tra i due? Mentre il pavone, orgoglioso della sua bellezza, mostra tutto il suo splendore in un primo impatto, ammaliando la femmina della sua specie con “il lato più bello” che viene esibito in modo tronfio e a testa alta, in una danza aggraziata e seducente… il povero tacchino, consapevole del suo aspetto poco attraente, deve faticare molto di più per far vedere il suo lato “bello”, facendo una serie di movimenti di gran lunga meno agili e aggraziati, impiegando tutta la sua tenacia e la sua pazienza per far emergere ciò che di bello c’è in lui.

Prima o poi succederà come nella barzelletta: una persona entra in un negozio molto ben approvvigionato e chiede una grossa quantità äd spirit äd contradisión. Il gestore tranquillizza il cliente e lo affida immediatamente alle cure della moglie specializzata in materia, chiamata immediatamente al bancone. Nell’attuale governo del Paese, come in quel negozio, non manca questo artificioso prodotto e sicuramente Draghi ha la presenza di spirito e lo humor necessario a sgonfiare il pallone o il pavone come dir si voglia.

Un tempo si parlava di stare con un piede nel governo e con l’altro all’opposizione, di occupare il potere e nello stesso tempo organizzare le proteste in piazza. Questa volta direi ancor peggio: si tratta di fare un vero e proprio doppio gioco, ma in modo clamorosamente scoperto, senza che la gente se ne accorga più di tanto. Prima o poi il gioco verrà allo scoperto, il pavone diventerà tacchino se non addirittura gabbiano, vale a dire uno strano uccello che si diverte a rovistare nella spazzatura, nel “rudo” e quindi non dimostra di essere un mostro di furbizia.

Visto che sono in vena barzellettiera chiudo con quella di quel tale che entra in farmacia per acquistare una scatola di preservativi. Volendo coprire il proprio imbarazzo, l’insolito cliente declama reiteratamente ad alta voce l’ordinazione, e prima di uscire dal negozio, in ossequio al proprio orgoglio machista e a dimostrazione delle proprie capacità amatorie, chiarisce a tutti: “Se quälcdón al n’avis miga ancòrra capì, mi sta sira a vag a …”. Il farmacista, seccato da questa penosa manfrina, ha la presenza di spirito di capovolgere il gioco, sbottando in una battuta che sotterra il cliente: “Guardi…le sue spacconate non hanno bisogno di preservativo. Non serve la museruola per un cane che abbaia e non morde”.

 

 

 

 

A scuola di ignoranza

Al dicastero dell’Istruzione si sta lavorando per creare “una scuola ‘affettuosa’, che sappia stare al fianco dei nostri bambini e ragazzi, che, partendo dai più fragili, sia punto di riferimento per tutta la comunità e le famiglie”, ha spiegato il ministro. Il numero uno del ministero dell’Istruzione è sicuro: “Avremo un’estate diversa: 510 milioni per dare continuità e per fare un ponte tra quest’anno e il prossimo. Le scuole inizieranno a valutare i ragazzi, facendo il punto di cosa sanno, su cosa devono sapere organizzando prima a giugno una valutazione che è un diritto degli alunni, ma anche un dovere. E poi a luglio e agosto, un recupero della socialità volontario”. “Stiamo dando delle opportunità come mai prima. Siamo fiduciosi, stiamo facendo una verifica, il clima è buono, si capisce che qualcosa è cambiato”, ha concluso il ministro Bianchi.

«Stiamo pensando a dei riconoscimenti per i professori che vogliono, che intendono lavorare dall’estate in avanti, per dare continuità e opportunità. Mettiamo a disposizione le risorse per la scuola e poi la scuola saprà come investirle meglio». A pensare ad un meccanismo premiale per il personale scolastico che garantirà il servizio nei mesi estivi è il Ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi. Anche se un sondaggio de «La tecnica della scuola» rivela che il Piano Estate non piace a ben l’80% degli interessati, tra docenti (67.1%), genitori (22.9 %), studenti (7.8%) e personale Ata (1.5%), e che quasi 9 insegnanti su 10 ha detto di non volere partecipare alle attività, contro appena il 7.5% dei Sì, il ministero prosegue sulla sua strada: scuole aperte dopo giugno e per i mesi successivi, per recuperare le lezioni perse con la pandemia.

Il ministro parla anche di Dad (didattica a distanza): nella scuola del futuro la didattica a distanza sarà presente, ma non sarà «quella che abbiamo visto l’anno scorso». Una delle priorità sarà «la capacità da parte di tutti di usare tutti gli strumenti, altrimenti – ha avvertito – sarà un altro modo di discriminazione». Per questo, è necessario trasmettere «il senso critico nell’uso degli strumenti, anche degli strumenti che usiamo oggi. E gli strumenti vanno usati, perché ci permettono di allargare la nostra visione».

Da tempo, ascoltando i pressanti inviti a riaprire le scuole in presenza, superando i dubbi sui rischi comunque esistenti in tal senso, mi dicevo: se fossi il ministro prorogherei l’anno scolastico in modo da recuperare, almeno in parte, il tempo e il terreno perduto. Mi chiedevo però come avrebbero reagito insegnanti e famiglie. Ebbene eccomi servito: il ministro ha elaborato proposte molto interessanti con tanto di stanziamento di fondi. Lui è stato molto democratico, facendo un discorso a livello volontario. Io sarei andato giù duro istituendo l’obbligatorietà per questi recuperi di insegnamento e apprendimento.

Purtroppo sono stato servito anche dalla reazione negativa di quanti vivono nella scuola. Tutti la vogliono e nessuno è disposto a sacrificarsi: la botte scolastica piena e la moglie didattica ubriaca. Presumo che i docenti abbiano l’incontenibile desiderio di andare in vacanza, come se non ne avessero fatto abbastanza…Le famiglie, che nei mesi scorsi erano disperate perché non sapevano dove collocare i figli, ora preferiscono averli a casa per poter programmare e vivere le ferie estive. Gli studenti, tutto sommato, sembrano i più seri e i più disponibili.

Immagino che ci sarà anche la levata di scudi degli operatori turistico-alberghieri, che si vedranno sottratta una consistente fetta di potenziali vacanzieri.  Io capisco tutti, ma non si può ragionare così! Credo che la scuola si stia rivelando sempre più irriformabile alla faccia di un ministro che fa sul serio, di fondi stanziati e di opportunità offerte. Se il dopo-pandemia è questo, stiamo freschi. Poi non lamentiamoci se oltre il virus dilagherà l’ignoranza. Preferiamo l’ignoranza ad un po’ di impegno aggiuntivo. Che vergogna!

 

 

 

Lo zucchero concorrenziale e il “pillolone” oligopolistico

Mio padre amava mettere a confronto il fanatismo delle folle di fronte ai divi dello sport e dello spettacolo con l’indifferenza o, peggio, l’irrisione verso uomini di scienza o di cultura. Diceva: “Se a Pärma a véna Sofia Loren i corron tutti, i s’ mason par piciär il man, sa gnìss a Pärma Fleming i gh’ scorèzon adrè”. Senza nulla togliere ai meriti artistici della Loren, il discorso etico di mio padre mi sembra molto chiaro e quindi non aggiungo commento. Ne faccio però l’incipit morale per affrontare a modo mio la questione dei brevetti sui vaccini, che sta tenendo banco a livello di politica internazionale, ma anche nel solito stucchevole e insopportabile dibattito mediatico.

Parto da lontano. Come ricorda Antonio Lamorte su “Il riformista”, il 3 marzo del 1993 moriva a 86 anni all’ospedale della Georgetown University di Washington Bruce Albert Sabin. È diventato famoso anche come “l’uomo della zolletta di zucchero”: era stato infatti lui a ideare il più diffuso vaccino contro la poliomielite, che veniva somministrato con una zolletta imbevuta. Il suo nome viene spesso citato in questi giorni per via della pandemia da coronavirus, dell’andamento lento della campagna vaccinale, dei brevetti: chi propone di condividerli e chi dice che è impossibile.

“È il mio regalo a tutti i bambini del mondo”, disse invece Sabin che visse una vita piuttosto rocambolesca, spesso drammatica. Non ha mai vinto il Premio Nobel per la Medicina ma è finito nel ritornello della canzone del film Mary Poppins con quel “poco di zucchero e la pillola va giù”. Un inno, allegro e inconsapevole, alla sconfitta di un’epidemia tragica.

Se Sabin così spesso viene tirato in causa in questi giorni è per la sua decisione di non brevettare la sua invenzione, rinunciando allo sfruttamento commerciale dell’industria farmaceutica. “Tanti insistevano che brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo”, disse e non guadagnò un dollaro dalla sua scoperta. Donò i ceppi virali all’Urss, superando le gare sull’orlo della Cortina di Ferro, tra Usa e Urss, in piena Guerra Fredda, e continuò a vivere del suo stipendio da professore. Molti lo tirano quindi in ballo per la campagna vaccinale, e la penuria di farmaci, contro il coronavirus che avanza a fatica in queste settimane, questi mesi.

La testimonianza esistenziale e scientifica di Sabin ci introduce, a contrariis, nella bagarre economico-sociale in cui ci dibattiamo. Come ho già avuto modo di annotare, la speculazione oligopolistica delle case farmaceutiche si è impadronita della salute degli uomini, impostandoci sopra colossali affari: sono partito citando “Il riformista” e quindi non voglio proseguire facendo il comunista fuori tempo massimo, ma che la mia salute dipenda dagli interessi delle multinazionali del farmaco non mi piace affatto. Nei miei insufficienti ma impegnati studi economici ho imparato alcune cose, che ben si attagliano al discorso brevetti sì-brevetti no in materia di vaccini anti-covid.

Semplifico a costo di fare una pessima figura e di rischiare la revoca di “quel pezzo di carta” che mi è costato “lacrime e sudore”. La libera concorrenza teorizzata da Adam Smith non esiste in concreto, perché automaticamente scade nell’oligopolio se non addirittura nel monopolio di mercato o di Stato. La proposta choc di Joe Biden tenderebbe, tramite la liberalizzazione produttiva conseguente alla eliminazione dei brevetti, a rivalutare la concorrenza, sperando che comporti benefici effetti a livello di quantità e qualità dei vaccini prodotti per sconfiggere il covid 19 così come altri vari ed eventuali virus.

Ai pubblici poteri non rimane altro da fare che tentare di arginare lo strapotere economico nella produzione e sul mercato tramite pochi e mirati interventi a salvaguardia degli irrinunciabili interessi collettivi fra cui certamente quello alla salute. Lo strumento dei brevetti non è certamente un toccasana: è l’ombrellino pubblico aperto in mezzo al diluvio privato. Se ho ben capito il presidente statunitense propone di chiudere l’ombrellino per buttarsi nella bufera, sperando che la tempesta perda d’intensità spezzettandosi in tanti temporali più facili da affrontare e da gestire. Lui sta facendo la parte del liberista tutto d’un pezzo (stavo scrivendo pazzo, ma mi sono subito corretto); molti altri governanti (?) invece fanno i programmatori dei miei stivali e si illudono di usare la stalla non tanto per bloccare i buoi, che sono scappati da tempo, ma per avere qualche vantaggio dalla macellazione e vendita dei buoi lucrando sulle joint venture e sugli introiti erariali.

Mi sembra, tutto sommato, uno scontro di retroguardia culturale e politico: una sorta di uovo-gallina, mentre il pollaio viene sbranato dalle faine. Una cosa è certa: il sistema economico non riusciamo a controllarlo neanche minimamente e neanche di fronte a catastrofi mondiali come quella della pandemia da coronavirus. Se il comunismo si illudeva di prendere in mano la produzione guidandola e gestendola dall’alto, il capitalismo vuol farci credere che basta un poco di zucchero concorrenziale per mandar giù il pillolone sistemico dell’ingiustizia. Rifiuto lo zucchero e naturalmente il pillolone!

Non basta infatti togliere i brevetti per mettere in grado le potenziali aziende farmaceutiche di produrre un vaccino di alta qualità. E gli investimenti chi li fa? E la qualità del prodotto chi la garantisce? E chi può evitare che le aziende trovino la scorciatoia di accordi per guidare produzione e mercato?

Dall’altra parte mantenere i brevetti ci porta al casino che stiamo vivendo in questo periodo: i pubblici poteri non sono stati nemmeno in grado di contrattare dignitosamente con la grande industria farmaceutica, si sono presentati con il cappello in mano e hanno accettato tutto quello che forniva la casa, vale a dire vaccini sperimentati alla “cazzo di cane” e distribuiti alla “pene di gatto”. Mi rifugio all’ombra di Sabin, che nel frattempo si scaravolterà nella tomba, ma ci guarderà dal seno di Abramo mentre noi stiamo sprofondando nei tormenti dell’inferno di una società a misura di demonio (Luca 16,19-31).

Mi scuso per la faciloneria, il pressapochismo, la demagogia e la scurrilità del mio argomentare, ma assistere all’impotenza assoluta di chi dovrebbe difendere i poveri, mi rende particolarmente nervoso verso i politici e astioso verso i ricchi. Qualsiasi regola mi andrebbe bene purché togliesse potere ai ricchi per “sollevare l’indigente dalla polvere, dall’immondizia rialzare il povero, per farlo sedere tra i principi, tra i principi del suo popolo” (salmo 112).

La politica frettolosa fa gli italiani ciechi

Si ricomincia a parlare e scrivere dell’elezione del nuovo presidente della repubblica intrecciando “retroscenicamente” discorsi di carattere istituzionale e di tipo politico. La storia insegna che le nomine del capo dello Stato sono sempre avvenute in barba alle previsioni e sulla base di accordi politici piuttosto estemporanei e al di fuori dei rigidi schieramenti partitici. Ciò non toglie che la scelta quirinalizia abbia uno forte valenza politica e possa influenzare l’evoluzione della politica stessa. La nostra non è una repubblica presidenziale, ma comunque i poteri e le aree di influenza del capo dello Stato sono molti e possono incidere in modo determinante sulla vita del Paese.

Il presidente uscente, Sergio Mattarella, ha fatto sapere da tempo che all’inizio del 2022 non intende candidarsi ad una riconferma, ritenendo addirittura opportuna al riguardo una modifica costituzionale che eviti comunque tale eventualità. Mi permetto di non essere d’accordo con Mattarella, né per questo momento storico né in linea generale. Non vedo perché si debba escludere a norma di Costituzione il rinnovo dell’incarico: capisco la preoccupazione di garantire un certo rinnovamento e di evitare la personalizzazione dei rapporti a livello istituzionale, ma anche la continuità può essere un dato positivo così come il consolidamento di certe impostazioni.  Non mettiamo quindi limiti alla parlamentare provvidenza.

L’altra pedina fondamentale sulla scacchiera è quella di Mario Draghi: di lui si parla come del successore di Mattarella, come del personaggio più attrezzato per ricoprire la massima carica dello Stato. Senza nulla togliere al valore di Draghi, sono del parere che a ricoprire l’incarico di presidente della repubblica ci voglia una persona di alta capacità e sensibilità politica, doti che non vedo spiccare dal curriculum draghiano.

Sarebbe molto meglio che Draghi rimanesse al posto che ricopre attualmente e che continuasse a presiedere l’attuale governo o un altro governo che potesse rimettere in piedi il Paese. È inutile nascondere che in molti lo considerino un inquilino scomodo di palazzo Chigi e che quindi ci sia per lui l’ipotesi del “promoveatur ut amoveatur” al fine di agevolare un ritorno della politica nell’alveo politicante. Se andasse al Quirinale, come presidente del Consiglio avrebbe i mesi contati.  I partiti si sentono vedovi dei loro riti e delle loro prerogative e quindi scalpitano per tornare alla piatta normalità a nulla valendo la considerazione del basso livello dell’attuale classe politica e della straordinarietà del periodo storico che stiamo faticosamente vivendo. In poche parole temono che la dieta draghiana possa preludere all’imposizione di un’anoressia al potere: meno si mangia e meno si mangerebbe (l’allusione al verbo mangiare è puramente casuale).

I discorsi e i progetti governativi avviati da Draghi esigono una certa continuità, sono troppo impegnativi per essere consegnati ad una nuova compagine governativa di cui al momento non si intravede la fisionomia adeguata. Draghi deve rimanere al suo posto almeno fino al 2023, vale a dire fino alla scadenza normale per le elezioni politiche. Poi si vedrà: non mi stupirei se ci fosse la necessità di un supplemento governativo pur sciacquato nell’Arno democratico elettorale. Se è vero che la gatta frettolosa fa i gattini ciechi, è molto probabile che una destra populista e sovranista faccia l’Italia miope e una sinistra inconsistente e inconcludente faccia l’Italia presbite. Lasciamo che Draghi metta gli italiani in grado di vedere distintamente vicino e lontano, operandoli di cataratta con l’inserimento di un cristallino artificiale di carattere socio-economico. La metafora può sembrare scontata e banale, ma non lo è.

Qualcuno sta ipotizzando di salvare capra e cavoli, vale a dire di piazzare Draghi al Quirinale fra un anno, sostituendolo a palazzo Chigi con Marta Cartabia, degna erede e persona capace di proseguire al meglio l’impegno della tecnica a stretto servizio della politica. Dico subito che, a prescindere dal valore dell’interessata, non vedo in lei come in nessun altro la capacità di proseguire e portare a termine il compito iniziato da Mario Draghi. In questo momento mi sento di affermare: après Draghi (e Mattarella) le déluge …

Ebbene forse abbiamo trovato la combinazione vincente, l’abbinata Mattarella-Draghi. Lasciamoli per un po’ di tempo al loro posto, non affidiamoci ai Dulcamara di destra ed ai Nemorino di sinistra, non facciamo battere il cuore a destra come se fosse un Meloni e non cerchiamo il freddo per il Letta.

 

Le mele, il cesto e il fruttivendolo

Forse per una mia innata contrarietà allo scandalismo, forse perché ho un così alto concetto della giustizia e di chi la amministra da non riuscire a concepirne eventuali malefatte, forse perché il giornalismo di denuncia si sta trasformando in macchina del fango, forse perché mi aggrappo alla magistratura come un bimbo si attacca alla gonna della mamma, fatto sta che di fronte allo scandalo della cosiddetta “loggia Ungheria” non riesco a  trovare un filo di comprensione e un modo per dipanare una matassa che si preannuncia aggrovigliata ed inquietante.

La prima reazione è quella di aspettare prima di “sputtanare” i personaggi di cui si fa temerariamente il nome e ancor più prima di squalificare tutta la magistratura generalizzandone l’immagine negativa. Ciò diventa più che mai opportuno osservando chi ha sempre chiesto a gran voce il garantismo ai giudici e non intende concederlo minimamente a loro: se avete favorito la gogna degli imputati ben prima di una sentenza definitiva, adesso bevetevi la vostra gogna in attesa di giudizio. Questo è “occhio per occhio, dente per dente” a prescindere dall’autenticità dell’occhio e del dente: è giustizia sommaria.

La seconda reazione riguarda il timore che comunque da queste vicende, reali o gonfiate che siano, esca un’immagine inaffidabile della Magistratura con tutte le conseguenze del caso: un gioco al massacro pericolosissimo per la tenuta democratica del Paese.

La terza reazione è di scoprire la Magistratura invischiata nella realtà della “massoneria” intesa come consorteria di persone legate da inconfessabili comuni interessi, protette da un geloso riserbo e tese alla conquista ed al mantenimento di un potere trasversalmente altolocato rispetto alle istituzioni democratiche.

Al momento non mi sento di fare altro che esprimere dei forti timori dettati dal terrore che si possano in qualche modo trovare riscontri nella realtà. Non sarebbe purtroppo la prima volta che certi magistrati finiscono in squallide vicende: sarà una questione di mele marce o sarà marcio o bucato il cesto delle mele? Sarebbe un oltraggio ai tanti giudici che hanno fatto e fanno il loro dovere, a volte anche a rischio della vita; sarebbe un grande favore ai delinquenti di ogni tipo; sarebbe una disillusione pazzesca per quanti attendono un po’ di giustizia.

C’è la triste probabilità che in queste vicende non si riesca a fare chiarezza lasciando tutto e tutti nel dubbio. Il Presidente della Repubblica è costituzionalmente presidente anche del Consiglio Superiore della Magistratura, organo di autogoverno di questo potere indipendente. È prassi che il Capo dello Stato non eserciti questa funzione se non in senso meramente simbolico e formale. Mi permetto di avanzare una domanda: non sarebbe il caso che cominciasse a guardarci dentro sul serio promuovendo una pulizia obiettivamente profonda, che provasse cioè a fare il fruttivendolo che sa riconoscere le mele marce? Può darsi che io, dal basso della mia ignoranza, stia facendo dell’allarmismo: meglio un allarme eccessivo piuttosto che una scrollata di spalle o una lamentazione qualunquistica.

E se per caso fossimo tutti colpevoli!?

Ha suscitato impressione e sgomento la morte di Luana D’Orazio, l’operaia 22enne risucchiata da un macchinario di un’azienda tessile in provincia di Prato. Se l’episodio colpisce per la straziante modalità dell’infortunio, per la giovane età della vittima e per la sua situazione personale e famigliare, dovrebbe angosciarci ancor di più il numero delle vittime sul lavoro: si parla di due/tre morti in media al giorno. Un’autentica carneficina davanti alla quale rimaniamo stupiti, ma, alla fine, anche indifferenti. Sono morti silenziose il cui effetto dura l’espace d’un matin, vale a dire il poco tempo che registra l’apertura di indagini da parte della magistratura, la protesta dei sindacati, la brevissima e scandalistica eco dei media, l’indignazione di facciata di molti, l’omertoso fatalismo di troppi.

Siamo tutti portati, di fronte a certi eventi apparentemente al di fuori della nostra portata, a invocare l’alibi del “caso”. Il teologo Alberto Maggi, affrontando il discorso dal punto di vista esistenziale, afferma: «Eh, sì, il caso…Ma che cos’è il caso? Tutti conoscono il celebre aforismo coniato da Anatole France, lo scrittore francese premio Nobel della letteratura: “Il caso è lo pseudonimo di Dio quando non vuole firmare”. Credo che il caso sia il contrario di un termine affine, caos, e potrei filosofeggiare dicendo che è il caso a mettere ordine nel caos…».

Probabilmente sto forzando il pensiero del suddetto teologo allargandolo a livello sociale, tuttavia dobbiamo uscire da questo irresponsabile atteggiamento del subire come inevitabili queste disgrazie più o meno annunciate. Possibile che la tecnologia ci consenta l’adozione dei più sofisticati marchingegni e non ci aiuti a proteggerci da simili incidenti? Se da una parte dobbiamo riconoscere i limiti del nostro agire, dall’altra non dobbiamo fuggire dalle nostre responsabilità individuali e collettive. I comportamenti ex post lasciano il tempo che trovano ed hanno tutto il sapore della chiusura della stalla dopo che i buoi sono scappati. L’azione della magistratura tende a cercare l’ago dei colpevoli nel pagliaio di un sistema farraginoso e burocratico di norme e adempimenti che finiscono più col complicare che difendere la vita.

“Sul posto si è subito recato anche il magistrato di turno, i carabinieri della tenenza di Montemurlo e il personale Asl per la sicurezza nei luoghi di lavoro. Il macchinario presso il quale è avvenuto l’incidente è stato posto sotto sequestro per consentire di effettuare tutti i necessari accertamenti. Le indagini sono condotte dagli ispettori della sicurezza sul lavoro della Asl che devono chiarire, sulla base dei quesiti indicati dal magistrato, alcuni elementi sulle circostanze della tragedia. C’è da capire ad esempio se esistevano dei meccanismi di sicurezza che avrebbero dovuto bloccare il macchinario, quali sono i piani di sicurezza previsti dall’azienda e le circostanze sulle presenze dei colleghi al momento dell’incidente”. Non voglio essere brutalmente pessimista, ma intravedo la solita solfa che non porta da nessuna parte.

“Ancor oggi — è l’amara considerazione dei sindacalisti pratesi — si muore per le stesse ragioni e allo stesso modo di cinquant’anni fa: per lo schiacciamento in un macchinario, per la caduta da un tetto. Non sembra cambiato niente, nonostante lo sviluppo tecnologico dei macchinari e dei sistemi di sicurezza”. “Una morte inaccettabile che addolora e indigna profondamente”, hanno dichiarato in una nota congiunta Paolo Capone, segretario generale dell’Ugl, e Giuseppe Dominici, segretario regionale Ugl Toscana che concludono: “Chiediamo alle forze dell’ordine di fare piena luce sulle cause di tale tragedia. In occasione del Primo maggio abbiamo chiesto di implementare le tutele e le garanzie per i lavoratori rafforzando i controlli, la formazione e la cultura della sicurezza soprattutto nei settori dove il rischio infortunio è maggiore. Per onorare la memoria di Luana e di tutte le vittime sul lavoro, l’Ugl continuerà a battersi sensibilizzando le istituzioni e l’opinione pubblica sul triste fenomeno delle morti bianche e ribadendo ancora una volta: basta stragi”. Non voglio essere scetticamente qualunquista, ma sento odore delle solite rituali e sterili proteste.

Che fare allora? Bisogna ripartire da una fortissima presa di coscienza della centralità del lavoro nel nostro sistema economico-sociale. “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”: così inizia la nostra Costituzione. Dobbiamo ripartire di lì e rifare l’intero percorso che ci ha portati a costruire una società basata sul profitto a tutti i costi.  Ognuno faccia la sua parte prima che succedano questi eventi tragici e non limitiamoci a piangere coccodrillescamente dopo avere inghiottito le vittime di un sistema sbagliato. Il legislatore sostiene spesso che le norme in materia esistono e sono fin troppo severe. Gli imprenditori annotano che le norme sono spesso inutili e inapplicabili: una montagna di carte sotto la quale seppellire i morti. Gli organi di controllo intervengono spesso solo a babbo morto. I giudici sembrano più cercare qualche capro espiatorio che fare veramente verità e giustizia.

Proviamo a rileggere ancora la cronaca già sopra riportata (repetita iuvant?): “Il macchinario presso il quale è avvenuto l’incidente è stato posto sotto sequestro per consentire di effettuare tutti i necessari accertamenti. Le indagini sono condotte dagli ispettori della sicurezza sul lavoro della Asl che devono chiarire, sulla base dei quesiti indicati dal magistrato, alcuni elementi sulle circostanze della tragedia. C’è da capire ad esempio se esistevano dei meccanismi di sicurezza che avrebbero dovuto bloccare il macchinario, quali sono i piani di sicurezza previsti dall’azienda e le circostanze sulle presenze dei colleghi al momento dell’incidente. La salma della giovane invece è stata trasferita all’obitorio di Pistoia per l’autopsia disposta dal sostituto procuratore di Prato Carolina Dini”. Non voglio esagerare, ma tiro la sarcastica morale della tragedia: il morto giace e il vivo fa finta di non darsi pace.

 

La superlega dei padroni e la superfesseria dei servi

Come ho già ricordato non molto tempo fa, un mio carissimo collega, all’indomani della strage dell’Heysel, una tragedia avvenuta il 29 maggio 1985, poco prima dell’inizio della finale di Coppa dei Campioni di calcio tra Juventus e Liverpool allo stadio Heysel di Bruxelles, in cui morirono 39 persone, di cui 32 italiane, e ne rimasero ferite oltre 600, promise di non interessarsi più al calcio e di non parlarne mai più. Tenne la promessa. Oggi forse si sentirà beffato dopo la vergognosa kermesse festaiola della tifoseria interista in occasione della conquista del diciannovesimo scudetto.

Vale la pena ricordare cosa successe in Belgio, a Bruxelles, allo stadio Heysel.  Ai molti tifosi italiani, buona parte dei quali proveniva da club organizzati, fu assegnata la tribuna delle curve M-N-O, che si trovava nella curva opposta a quella riservata ai tifosi inglesi; molti altri tifosi organizzatisi autonomamente, anche nell’acquisto dei biglietti, si trovavano invece nella tribuna Z, nel pieno della curva dei tifosi del Liverpool, separati da due basse reti metalliche, ai quali si unirono anche tifosi del Chelsea,  i cosiddetti Headhunters (“cacciatori di teste”) noti per la loro violenza.

Circa un’ora prima della partita (ore 19:20; l’inizio della partita era previsto alle 20:15) i tifosi inglesi più accesi — i cosiddetti hooligan — cominciarono a spingersi verso il settore Z a ondate, cercando il take an end (“prendi la curva”) e sfondando le reti divisorie: memori degli incidenti della finale di Roma di un anno prima, si aspettavano forse una reazione altrettanto violenta da parte dei tifosi juventini, reazione che non avrebbe mai potuto  esserci, dato che la tifoseria organizzata bianconera era situata nella curva opposta (settori M – N – O). Gli inglesi sostennero di aver caricato più volte a scopo intimidatorio, ma i semplici spettatori, juventini e non, impauriti, anche per il mancato intervento e per l’assoluta impreparazione delle forze dell’ordine belghe, che ingenuamente ostacolavano la fuga degli italiani verso il campo manganellandoli, furono costretti ad arretrare, ammassandosi contro il muro opposto al settore della curva occupato dai sostenitori del Liverpool.

Nella grande ressa che venne a crearsi, alcuni si lanciarono nel vuoto per evitare di rimanere schiacciati, altri cercarono di scavalcare gli ostacoli ed entrare nel settore adiacente, altri ancora si ferirono contro le recinzioni. Il muro ad un certo punto crollò per il troppo peso, moltissime persone rimasero schiacciate, calpestate dalla folla e uccise nella corsa verso una via d’uscita, per molti rappresentata da un varco aperto verso il campo da gioco. Dall’altra parte dello stadio i tifosi juventini del settore N e tutti gli altri sportivi accorsi allo stadio sentirono le voci dello speaker e dei capitani delle due squadre che invitavano alla calma, senza tuttavia capire quello che stava realmente accadendo. Un battaglione mobile della polizia belga, a un chilometro di distanza dallo stadio, giunse finalmente dopo più di mezz’ora per ristabilire l’ordine, trovando il campo e gli spalti nel caos più totale, invasi da frange inferocite di tifoseria bianconera.

Dei morti e feriti ho già detto. Quel mio collega, peraltro simpatizzante juventino (davanti a queste tragedie è meglio smetterla di parlare di tifosi), addolorato e schifato dall’accaduto, chiuse definitivamente con il calcio ritenendolo ormai solo un’occasione tragica per inaccettabili sfoghi di violenza gratuita. Io, simpatizzante storico dell’Inter, peraltro già abbondantemente schifato e separato dal fenomeno calcistico, dovrei fare altrettanto dopo aver assistito all’indegno, irresponsabile e vomitevole pandemonio milanese che ha buttato una triste e tragica ombra su una sedicente festa di sport. Il calcio non è da tempo più uno sport e quella di Milano non è stata una festa, ma un vero e proprio attentato all’ordine ed alla salute pubblici. Vedendo quelle immagini agli interisti seri si dovrebbe essere strozzato in gola il grido di giubilo, invece ho captato molta (troppa) tolleranza, da parte un po’ di tutti, verso un episodio i cui danni saranno certi anche se non troveranno mai un riscontro obiettivi e preciso.

Perché i dirigenti della squadra si sono lasciati andare ad espressioni di giubilo che sobillavano la folla a scatenarsi per le strade e le piazze di Milano anziché invitare tutti, a parole e coi fatti, a contenere al massimo una gioia peraltro piuttosto artificiosa? Perché i responsabili dell’ordine pubblico non hanno preventivamente lanciato severi, rigorosi e minacciosi appelli alla tifoseria in odore di scatenamento festaiolo? Perché gli appassionati non riescono ad uscire dall’imbuto dell’alienazione calcistica, ma al contrario vezzeggiano e scopiazzano gli ultras assumendone le sembianze e lo stile di comportamento? Perché i media non hanno il coraggio di condannare apertamente, senza pericolosi distinguo e senza perbenismi di facciata, il tifo calcistico, lasciando perdere la stucchevole separazione fra le manifestazioni goliardiche a livello di costume e la delinquenziale ed irresponsabile gara alla trasgressione sociale?

A proposito di media, i giornalisti Rai (ho visto solo quelli e penso che anche gli altri non siano da meno) hanno inseguito la piazza che andava ignorata ed esorcizzata, hanno addirittura elogiato l’uso delle mascherine in mezzo ad una calca incredibile ed assurda, hanno simpatizzato con chi metteva a repentaglio la vita altrui in nome di una fantomatica gioia calcistica, hanno scriteriatamente enfatizzato l’evento a loro uso e consumo (tutto fa brodo per difendere indegnamente il ruolo professionale e il posto di lavoro ).

Si dice che il tifo calcistico sia assimilabile alla tossicodipendenza: forse è addirittura peggio, perché è “motivozionalmente” assai più debole, socialmente più accettato e diffuso, “delinquenzialmente” più grave in quanto si ripercuote immediatamente sulla vita degli altri. Se devo fare una paradossale graduatoria di pericolosità metto in pol position tutti gli scriteriati comportamenti che favoriscono la pandemia e quindi anche chi scende in piazza sventolando insulse bandiere calcistiche: in fin dei conti chi si droga non mi costringe a drogarmi, ma chi si scatena negli assembramenti mi costringe ad ammalarmi.

Siamo ai titoli di coda di un fenomeno che sta assumendo sempre più le caratteristiche di un’alienazione di massa che alimenta una speculazione d’élite: tutti in piazza ad ammalarci, tutti allo stadio a sbraitare e menare, tutti davanti al video ad ammirare le acrobazie dei tanti facoltosi “mangiapane a tradimento”. Più che di “superlega” bisogna parlare di “superfesseria” totale. E pensare che il calcio è il gioco più bello del mondo. Lo abbiamo rovinato. Quanta nostalgia per il “fotbal” che mi ha insegnato mio padre (lui amava definirlo e sdrammatizzarlo così in una sorta di inglese parmigianizzato).

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E se provassimo ad essere seri?

Dico, come al solito, la (mia) verità: non ho mai capito perché si festeggi il primo maggio con un concertone rock trasmesso in diretta televisiva. La festa del lavoro meriterebbe qualcosa di più profondo e meno consolatorio, qualcosa che dia un senso storico e sociale alla importante ricorrenza. In tempo di pandemia le pubbliche manifestazioni diventano impossibili e quindi si deve ripiegare su eventi televisivi. Quest’anno la festa del primo maggio è diventata addirittura l’occasione per un corto circuito fra libera espressione artistica e controllo politico sui programmi Rai, discorso vecchio come il cucco, che riaffiora a seconda dei casi e dei momenti.

Fedez, pseudonimo di Federico Leonardo Lucia, è un rapper italiano, vale a dire un artista impegnato in una forma di oratoria musicale che presenta «rima, discorso ritmico e linguaggio di strada», che è eseguita o cantata in diversi modi, spesso sopra un beat o un accompagnamento musicale. Non vado oltre perché non sono appassionato di queste forme artistiche: sono vecchio (anziano per chi mi vuole bene) e non mi cimento nel tentativo di voler fare il giovane a tutti i costi.

Fatto sta che questo rapper interrompe la sua esibizione alla festa del primo maggio per leggere un lungo intervento in difesa del Ddl Zan e contro le recenti dichiarazioni di esponenti della Lega su omosessualità e libertà sessuali. La Rai smentisce il tentativo di censura, ma Fedez pubblica la telefonata che la dimostra.

Il disegno di legge proposto da Alessandro Zan ha l’obiettivo di combattere ogni tipo di discriminazione. Omotransfobia, dunque, ma non solo. “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità” si legge sul frontespizio del disegno di legge trasmesso dal presidente della Camera dei deputati alla presidenza il 5 novembre 2020. Non si parla solo di omosessualità e omofobia, quindi, come certa propaganda contraria al ddl vorrebbe far credere. Si affrontano anche temi come la violenza di genere, la discriminazione nei confronti dei disabili. Si quantificano le condanne, pesanti peraltro, per chi commette violenza o discriminazione e si propone l’istituzione di iniziative di sensibilizzazione reale.

L’argomento è politicamente caldo e Fedez lo cavalca entrando in polemica con chi esprime in modo sbracato critiche e contrarietà contro questa legislazione in itinere.

Se è vero che gli omosessuali hanno la tendenza a mettere al centro del mondo i loro sacrosanti diritti, rischiando a volte di mantenere una diversità conflittuale più che di ottenere una pacifica parità, è altrettanto vero che in materia abbondano gli atteggiamenti reazionari e conservatori che puzzano di vecchio, di stantio e di violento. Non voglio però entrare nel merito anche se sono favorevole, senza se e senza ma, ad ogni e qualsiasi legge che promuova l’uguaglianza e combatta la discriminazione.

Mi sembra però che la questione si sia spostata dal merito al metodo. Era quella la sede per innescare una polemica contro le parti politiche refrattarie ad una visione aperta e moderna della sessualità? Tutte le occasioni sono valide per portare avanti discorsi seri, anche in modo non politicamente corretto, ma nemmeno meramente provocatorio. La Rai ha il diritto di censurare o giudicare preventivamente uno spettacolo da essa ospitato? Censurare direi proprio di no, chiedere misura ed obiettività forse sì. L’argomento in questione, per la delicatezza e la serietà che lo contraddistinguono, non si dovrebbe prestare a populistiche e volgari speculazioni in cui è specializzata la Lega, ma nemmeno a propagandistici, festaioli e goliardici sostegni.

Da una parte sento odore di insopportabile e inaccettabile restaurazione a livello di costume prima ancora che in senso politico; dall’altra vedo un chiasso assordante su problemi che meritano grande e lucida attenzione coniugata con una forte apertura mentale e culturale. Non facciamo un buon servizio a chi viene discriminato sbraitando: i diritti, ce lo insegna la festa del primo maggio, si conquistano con battaglie coinvolgenti ed avvolgenti e non con sbrigative ed epidermiche spettacolarizzazioni. I rapper fanno il loro mestiere ma dovrebbero evitare un pericoloso mix vociante tra arte, cultura e politica (si fa cultura progressista anche senza fare comizi tra una canzone e l’altra); i sindacati dovrebbero allargare, approfondire e quotidianizzare le loro battaglie sui diritti di chi viene dovunque e comunque maltrattato; la politica dovrebbe smetterla di fare propaganda sulla pelle di chi soffre e tentare risposte legislative ed amministrative volte a togliere di mezzo le ingiustificate ed ingiustificabili sofferenze delle persone; la Rai dovrebbe fare meno spazzatura, perché, a furia di spazzatura nei salotti e nei talk show, non riesce forse più a distinguere le cose serie nelle piazze e nelle istituzioni.

I Galli e…i Bonaccini…nel pollaio

Il loggione di Parma ogni tanto ruggiva: il famosissimo e simpatico critico Rodolfo Celletti ammetteva di godere, sotto sotto, allorquando i parmigiani spazzolavano qualche mostro sacro del bel canto. Però aggiungeva: «Ho la sensazione che a voi parmigiani piacciano un po’ troppo gli acuti sparati alla viva il parroco…».

Ho introdotto per l’ennesima volta questo gustoso episodio in quanto lo trovo abbastanza propedeutico al recente scontro televisivo tra il governatore emiliano Stefano Bonaccini e l’infettivologo Massimo Galli, professore ordinario all’Università Statale di Milano e primario dell’ospedale Sacco. All’imbarazzata presenza di una Bianca Berlinguer, molto dalemiana e poco berlingueriana, i due se le sono date di santa ragione o meglio, mentre Galli tirava giù con colpi ai limiti della cintura, Bonaccini sembrava quel pugile che all’angolo, reagiva all’incoraggiamento dei suoi secondi, chiedendo da dove provenissero i pugni che arrivavano.

Il professor Galli, uno dei troppi scienziati habitué del video – ai quali vorrei tanto chiedere dove trovino il tempo per essere così spesso e lungamente in televisione -, ha spazzolato ben bene il malcapitato autoreferenziale ed auto-osannante Bonaccini, sparando acuti alla viva il parroco per coprire di vergogna le stonature e i “falsettoni” della politica politicante. Al che il sedicente primo della classe si è visto spiazzato e contestato e non ha potuto fare altro che imitare il baritono che venne accolto da urla e fischi e, rivolgendosi al pubblico lo pregò ironicamente di pazientare ed attendere l’esibizione del tenore. Fischiate me? Sentirete il tenore! Nel nostro caso si potrebbe dire: «Fischiate me? Guardate gli altri governatori regionali!».

Il sussiegoso ed irascibile scienziato non aveva tutti i torti: volevano convincerlo che le riaperture siano un bene, mentre lui era impegnato a dimostrare scientificamente che sono assai discutibili in considerazione dell’andamento ancora troppo limitato delle vaccinazioni e dei risultati molto relativi ottenuti dalle chiusure a macchia di leopardo. La politica voleva cioè imporgli le proprie regole, vale a dire l’impossibilità di reggere l’urto sociale della dilagante ondata protestataria di piazza e di affrontare una situazione economica sull’orlo del collasso. Bonaccini usava addirittura i toni e le parole dello scontro politico con uno scienziato, che si vedeva quindi trattato e ridicolizzato a pesci in faccia.

Il pavoneggiante Bonaccini, al quale do atto di presiedere una regione molto organizzata e strutturata ma non certo esente da difetti e lacune gravissimi, interpretava il ruolo del politico che vuol far credere a un ateo che “Cristo è morto dal freddo ai piedi”. Più dialogo fra sordi di così si muore.

Morale della favola. Gli scienziati farebbero un gran bene a tutti se rimanessero a lavorare nei loro laboratori, nelle loro cattedre e nei loro reparti invece di continuare a chiacchierare in televisione, litigando oltre tutto assai spesso fra di loro in una penosa e controproducente gara ad emergere come il primo della pista. I politici dovrebbero fare il loro mestiere con tanta umiltà, riconoscendo i propri limiti e senza pretendere di ottenere il consenso della scienza sui loro inevitabili compromessi. La scienza deve dare consigli e fermarsi lì, la politica non deve costringere la scienza a ripiegare sulle decisioni di governo.

Bianca Berlinguer, modesta routinière del giornalismo televisivo, ha perso una buona occasione per esprimere qualcosa di interessante a livello di metodo, ha lasciato fare e dire: si intuiva che era un arbitro silenziosamente partigiano, tifava per Bonaccini (io, sotto sotto, invece, tifavo, seppure a fatica, per lo scienziato di turno), mentre lui le chiedeva, quasi confidenzialmente, conto della correttezza dei pugni che arrivavano da Galli. L’ennesimo squallido dibattito che crea confusione di idee e di ruoli. Se la vogliamo chiudere in senso sportivo, non ha vinto nessuno. Il pubblico infatti ha assistito ad una discussione che ricordava la gustosa chiacchierata tra i due sordi. Uno dice all’altro: “Vät a lét?”;  l’altro risponde: ” No vagh a lét”. E l’altro ribatte: “Ah,  a m’ cardäva ch’a t’andiss a lét”.

 

 

La rozäda ‘d Santa Casellati

Le pagliuzze negli occhi dei rappresentanti delle istituzioni diventano travi per la pubblica opinione. Mi stupisce che non lo si capisca. È quanto sta succedendo alla presidente del Senato Alberti Casellati. L’aereo blu a sua disposizione si sarebbe alzato in volo 124 volte negli ultimi 11 mesi. Da maggio 2020 ad aprile 2021 è stato utilizzato il 75% delle volte per coprire la tratta da Roma a Venezia (a Padova risiede la famiglia), ma anche per volare in Sardegna ad agosto: questo racconta La Repubblica, citando il registro di volo del Falcon 900 dell’Aeronautica a disposizione della seconda carica dello Stato. Fonti di Palazzo Madama hanno spiegato al quotidiano che Casellati ha iniziato a utilizzare l’aereo blu per evitare il rischio Covid, visto che per ragioni di salute non può fare lunghi viaggi in auto.

Non condivido la bigotta e bacchettona critica alla politica, ma mi sembra giusto considerare le reazioni provenienti proprio dal mondo della politica. Non posso dare torto al senatore M5S Gianluca Perilli che in una nota commenta: “Un volo ogni tre giorni: è un numero abnorme che richiede evidentemente delle spiegazioni. Si tratta di un ingente utilizzo di denaro pubblico per spostamenti che, per lo meno in buona parte di essi, è possibile fare con i mezzi a disposizione di tutti”. Parla di eventuale “sfregio verso gli italiani” il senatore Andrea Cioffi, vice presidente vicario del gruppo M5S a Palazzo Madama. “La Presidente non può collocarsi al di sopra di tutti i cittadini – aggiunge Cioffi – e nessuno può permettersi un uso così spregiudicato dei voli di Stato, alcuni addirittura per andare in vacanza. Aspettiamo che la Presidente ci dica qualcosa sull’argomento”.

La Repubblica riferisce di 97 voli di Stato sulla rotta Roma-Venezia, la tratta casa-lavoro di Casellati. Ma i treni ad alta velocità hanno ripreso da tempo a viaggiare, con misure ad hoc per evitare il contagio: il Frecciarossa da Roma Termini impiega 3 ore e mezza per arrivare a Padova. Poi ci sono sei voli verso la Sardegna, tutti ad agosto. Altri con destinazione Milano, uno verso la Calabria. La presidente del Senato, in virtù della sua carica, in base a un decreto legge di luglio 2011 non deve giustificare i suoi viaggi né renderli pubblici. Lo stesso trattamento riservato al presidente della Repubblica, al presidente della Camera al presidente del consiglio dei ministri e al presidente della Corte costituzionale. Non lo sapevo, ma a maggior ragione credo che l’uso debba essere contenuto e seriamente motivato.

Da Palazzo Madama riferiscono che durante il primo lockdown dello scorso anno Casellati è rimasta sempre a Roma. Poi ha iniziato a utilizzare i voli di Stato per evitare il rischio di contagiarsi sui treni o sui voli di linea. “Trovo sconcertante quanto accaduto. In tempi così difficili e duri per il Paese, le Istituzioni e la politica e i loro rappresentanti devono per primi dare l’esempio”, afferma in una nota il segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni. “Spiace – conclude – che questo non sia accaduto”.

Protesta anche il coordinatore nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli: “I 124 voli – dichiara in una nota – sono costati oltre 1 milione di euro”. “Senza nulla togliere al fatto che la senatrice rappresenta un’istituzione importante, la seconda carica dello Stato avrebbe dovuto tenere un comportamento più sobrio e prudente in un momento socialmente ed economicamente di profonda crisi evitando anche di utilizzare l’aereo di stato per recarsi in Sardegna in periodo di vacanza”, commenta Bonelli. “Il silenzio della presidente del Senato dopo la denuncia del quotidiano La Repubblica non è un bel segnale per l’Italia e per chi vorrebbe leggere notizie diverse da quella di oggi”, conclude il coordinatore dei Verdi.

Le dichiarazioni sopra riportate tradiscono un minimo (?) di strumentalità e lasciano trasparire in filigrana una certa polemica politica. A maggior ragione bisognerebbe essere molto attenti a non prestare il fianco allo scandalismo a tutti i costi. La senatrice Casellati non è una sprovveduta e sa benissimo di essere, oltre che sotto la pressione della propria coscienza democratica, sotto l’occhio della pubblica opinione, dei media e degli avversari politici. Non è possibile cadere su simili bucce di banana! Non intendo infierire, ma esigo anch’io un comportamento sobrio e prudente da parte di chi ricopre alte funzioni pubbliche. Non pretendo atteggiamenti alla Quintino Sella, ma il rigore è indispensabile. Se è vero che la rozäda non riempie i fòs, è altrettanto vero che i fòs non vanno saltati a pè päri e che un presidente del Senato non può, non voglio dire essere, ma nemmeno sembrare un saltafòs qualsiasi.