Politica, politichetta, politicaccia e politicuccia

Tra i tanti insegnamenti ricevuti dai miei genitori c’è quello di “misurare le parole” quando si parla. Proprio in omaggio a questo suggerimento voglio oggi partire col misurare la parola “politica”, tanto abusata, invocata e svilita.

Secondo un’antica definizione la Politica è l’arte di governare e conseguentemente il termine politica dovrebbe essere utilizzato in riferimento all’attività ed alle modalità di governo. Venendo ai giorni nostri il principale depositario della politica dovrebbe essere Mario Draghi alle prese con l’improba opera di governare il Paese. Invece con la menata del “governo tecnico” si tende ad articolare il discorso su due piani: quello del governo presieduto da Draghi e quello delle chiacchiere sparate a casaccio dai rappresentanti dei vari partiti. Tra questi due livelli si sta creando una frattura sostanziale e temporale: mentre il governo è costretto a varare una strategia fatta di piani a breve, medio e lungo termine, i partiti elaborano “tattichette” contingenti, di brevissimo respiro e di mera combinazione elettoralistica.

Mentre Draghi pensa a governare, chi lo appoggia pensa al dopo-Draghi, mentre si presenta in Europa un piano nazionale di ripresa e resilienza (un enorme e impegnativo programma teso a rivoltare il Paese come un calzino), chi dovrebbe condividerlo e assecondarlo lo guarda di sottecchi, lo accetta con un certo scetticismo, preferendo parlare d’altro, cercando magari di approfittare in modo clientelare dei vantaggi economico-finanziari, ma interessandosi preferenzialmente del come presentarsi alle urne il prima possibile.

Si sta creando un doppio binario, quello della politica e quello della “politichetta”. Gli esempi della politichetta si sprecano. La Lega (sarebbe meglio dire Salvini) è preoccupata di non cedere la leadership della coalizione a Fratelli d’Italia (sarebbe meglio dire Giorgia Meloni): scontro fra titani della politica da osteria, fra “amici per le palle” e non per la pelle. Discorso analogo si può osservare nei rapporti tra PD e M5S: il loro problema è preservare l’identità (non si capisce quale) e quindi da una parte non appiattirsi sul governo Draghi e dall’altra non disturbarlo troppo. Il M5S è ormai un partito in cerca d’autore (Giuseppe Conte, il politico nuovo di zecca, si sta candidando al riguardo), il PD è da tempo un partito in cerca di linea retta (Enrico Letta, esperto in geometria, sta tentando di chiudere il cerchio).

Salvini spinge scriteriatamente sulla riapertura per accreditarsene i meriti (?), sottraendoli alla Meloni; Letta attacca Salvini e si erge a difensore di una linea rigorista-perbenista, aspettando grilloparlantescamente sulla sponda del fiume la terza o quarta ondata della pandemia; ci sono all’orizzonte alcune consultazioni elettorali amministrative e si è scatenata una bagarre di infimo profilo per trovare il modo di incasinare la politica facendola diventare “politicaccia” al voto.

E Massimo Cacciari, il politologo di razza, invoca la politica con la “P” maiuscola dei Moro e dei Berlinguer, facendo finta di rimanere nel libro dei sogni, rischiando di tirare la volata alla politica con la “p” minuscola, dimenticando che la politica è anche l’arte del possibile e che il miglior possibile immaginabile oggi si chiama Mario Draghi a cui bisogna augurare lunga vita.

Dal punto di vista mediatico, siccome il discorso sostanziale si è fatto difficile, meglio ridurre il PNRR a una bega antiburocratica e rifugiarsi nelle polemiche tra partiti e loro esponenti in cerca di ribalta. In molti elogiano la capacità di mediazione di Mario Draghi. A mio avviso Draghi sta dimostrando una grande capacità di indifferenza alla “politicuccia”, riesce cioè a restare in quota e non si fa distrarre dai ciarlatani di turno. Buon lavoro!

 

 

La raccolta indifferenziata della spazzatura televisiva

“Noi siamo per un cambiamento radicale, forte, per una discontinuità profonda, lo dico a Draghi che nelle prossime settimane farà proposte sulla guida dell’azienda, la Rai non può più continuare così, quello che è successo a Rai 2, con una propaganda così becera e bieca contro l’Europa è intollerabile”. Lo ha detto il segretario Pd, Enrico Letta, nella replica alla direzione Pd. Finalmente ha mirato giusto: spero soltanto che non proponga di risolvere il problema rai con le quote rosa, anche perché in rai le quote rosa abbondano di insulse “sgallonatrici” e di pedanti esibizioniste, che trattano il pubblico come un esercito di guardoni.

Mi danno un certo fastidio le passerelle, vale a dire mi disturba l’esibizione clamorosa del proprio io sbattuto in faccia agli altri per conquistarne semplicisticamente il consenso o addirittura l’elogio: sopportavo soltanto la passerella finale delle spogliarelliste nelle riviste a luci rosse anche se mi sentivo comunque un guardone, ruolo da cui ho sempre tentato di rifuggire. Volendo restare un attimo in materia di erotismo da strapazzo, ricordo quando il giovanissimo garzone del mio barbiere, in occasione delle feste natalizie, mi propose di scegliere un piccolo regalo tra un almanacco profumato grondante culi e tette e una insignificante agendina telefonica: scelsi provocatoriamente l’agendina telefonica, lasciando di stucco l’apprendista parrucchiere. Volli comunque spiegare, a scanso di equivoci, il senso della scelta: «Anziché “sgolosare” sulle piccole foto di donne nude, preferisco rischiare l’approccio con donne in carne ed ossa, annotandone il relativo numero telefonico…».

Dopo questa strana e pruriginosa divagazione, che con la televisione, rai compresa, c’entra eccome, torno a bomba. Il riferimento di Letta è ad un servizio di circa due minuti trasmesso nel talk show di Rai2 Anni 20, che rischia di diventare un nuovo caso dalle parti di Viale Mazzini. La trasmissione condotta Francesca Parisella è finita nel mirino per un filmato fortemente antieuropeista, il tutto partito dal via libera al provvedimento che consente l’uso di vermi della farina gialla essiccati come nuovo alimento: “Cosa ci offre l’Europa per fine cena? Un gustoso biscotto alla farina di vermi. Un film dell’orrore? No, ce lo chiede l’Europa di mangiare da schifo”.

Solo un pretesto per poi occuparsi di altro: “L’Europa ci ha chiesto di fidarci sul piano vaccini. Il risultato? Siamo ancora chiusi con il coprifuoco (…) Il pacchetto europeo con il Recovery fund riscrive debiti e nuove tasse, ma ci chiede anche di munirci di bavaglio raccomandando una sorta di ddl Zan in scala continentale”. Così quello dell’Europa viene definito un “delirio regolatore”. D’altra parte è anche vero che il programma è stato visto da soli 453.000 telespettatori con l’1,9% di share, un flop di ascolti che ha condannato da tempo lo spazio, definito da molti in quota Fratelli d’Italia, alla sospensione prevista stando ai rumors per giovedì 20 maggio (da “fqmagazine”).

Non ho visto questo programma – cerco da tempo di non appiattirmi nel fare il guardone televisivo (vedi sopra) – ma mi sto chiedendo se in rai ci sia più spazzatura nelle trasmissioni leggere o in quelle (che dovrebbero essere) serie. Una cosa è certa: la spazzatura abbonda. Spero possa trattarsi della goccia che fa traboccare un vaso peraltro da parecchio tempo strapieno fino all’orlo della sopportazione buongustaia.

Da qualsiasi parte la si prenda, la rai mostra limiti e difetti clamorosi e pericolosi. Il livello dell’informazione è scadente alla faccia dell’inflazione giornalistica. I talk show imperversano in modo vergognosamente autoreferenziale. Il servizio pubblico non riesce minimamente a fare breccia in un panorama squallido e talora vomitevole. Si intravedono sprechi enormi di risorse. Il clientelismo, nonostante gli sforzi di occultamento, emerge con le punte di un vecchio e spregevole iceberg. Un carrozzone inguardabile ed inascoltabile in cui rischiano di venire occultati anche i pochi lodevoli sforzi di rai cultura e rai storia. Rai sport è il carrozzone nel carrozzone: frotte di inutili commentatori e di asfittici conduttori, bieco, pedissequo e sistematico ossequio al sistema. Potrei continuare.

Alcuni giorni or sono, in corrispondenza di un talk show particolarmente futile, mi sono chiesto: e io dovrei, con il mio canone, pagare lo stipendio a questi giocherelloni che seminano zizzania culturale? Purtroppo è così. Fino a qualche tempo fa, forse più a livello teorico che pratico, la rai funzionava come un piccolo e relativo bene rifugio di fronte all’invasione barbarica delle televisioni commerciali. Non vorrei esagerare ma forse si sta capovolgendo il discorso e talora mi capita di fuggire dalla rai per ripiegare sulle tv private: lì almeno so a cosa vado incontro e mi posso premunire meglio.

Torna d’attualità un discorso, tante volte da me citato. Ricordo che, molti anni fa, monsignor Riboldi, vescovo di Acerra, durante una conferenza all’aula magna dell’Università di Parma, raccontò di avere scandalizzato le suore della sua diocesi esprimendo loro una preferenza verso la stampa pornografica rispetto a certe proposte televisive perbeniste nella forma e subdolamente “sporche” nella sostanza. In fin dei conti la pornografia pura si sa cos’è e la si prende per quello che è, mentre è molto più pericoloso, dal punto di vista educativo, il messaggio nascosto che colpisce quando non te l’aspetti.

Se Mario Draghi avesse il coraggio di mettere la mano dentro questo autentico covo di serpenti velenosi, avrebbe tutta la mia solidarietà: non abbia paura di sforbiciare, di mandare a casa parecchia gente, di ridurre la rai ad una televisione “pallosa”. Meglio rischiare di annoiarsi alle prese con qualche proposta culturale seria che distrarsi con lo sciocchezzaio di Stato.

 

L’Androclo palestinese e il leone israeliano

L’ennesima ripresa bellicistica nei rapporti fra israeliani e palestinesi mi crea un grave imbarazzo culturale prima che politico. Non ho infatti elementi seri per valutare oggettivamente le motivazioni di questa infinita guerra. Non ho mai avuto occasione di visitare quelle terre, ho letto poche analisi storiche riguardanti questa paradossale presenza di un lembo di terra ebrea in un largo contesto arabo.

Osservo con incredula sofferenza le immagini di una guerra pressoché continua tra due popoli, orgogliosamente e (forse) presuntuosamente incalliti nella propria millenaria storia, imprigionati nella propria tradizione (più che fede) religiosa, socialmente abbarbicati  alle loro integralistiche diversità, economicamente chiusi nei loro orti incomunicabili fatti di ricchezza e miseria, psicologicamente ancorati a sensi di superiorità e inferiorità che si intrecciano come fili di una matassa  inestricabile e sempre più aggrovigliata.

Temo che sotto sotto in questi popoli ci sia un masochistico intento bellicista in cui si sfogano tutte le grandissime sofferenze e frustrazioni del passato: non riescono a voltare pagina, sembra che gli uni si divertano a tirare sassi nella piccionaia da cui non partono stormi di piccioni ma grappoli di bombe, mentre gli altri non aspettano altro che le insulse provocazioni per reagire di brutto scaricando su un nemico fastidioso e impertinente l’orribile vendetta che vendica più le offese orribili del passato che i disturbi del presente.

Esiste e persiste una cultura di guerra che li avvita in una spirale di morte: da una parte i deboli, i bambini che tirano sassi contro il nemico strapotente e strafottente, gli adulti che mandano bombe a casaccio per disturbare l’avversario; dall’altra i forti che tendono a farla pagare cara a chi osa rompere certi equilibri di comodo, calcando la mano e schiacciando sul nascere ogni e qualsiasi intento violentemente “ribellista” dei deboli.

C’era una volta uno schiavo di nome Androclo che lavorava presso un ex Console romano il quale governava i territori a Nord dell’Africa. Un giorno, non potendone più della tirannia del proprio padrone, decise di scappare. Androclo vagò per giorni nel deserto, poi, stremato dalla stanchezza si rifugiò in una caverna. Nella grotta trovò un leone disteso per terra che si lamentava a causa di una grossa spina conficcata in una zampa che gli procurava un dolore atroce e non gli permetteva di camminare. Mosso dalla compassione e noncurante del pericolo a cui andava incontro, Androclo si avvicinò alla fiera e con un gesto veloce gli estrasse la spina dal piede. Il leone emise un potente ruggito che riecheggiò in tutto il deserto. Tra una smorfia di dolore e la sensazione di sollievo, il leone si rialzò e volle ringraziare lo schiavo. Gli disse che non avrebbe mai scordato ciò che aveva fatto per lui e se ne andò. Dopo un po’ lo schiavo fu catturato dai soldati romani e riportato indietro dal suo padrone che lo condannò a morte. Androclo fu portato nell’arena assieme ad altri condannati per essere sbranati dai leoni. Quando fu il suo turno, egli fu gettato in una fossa dove si aprì un cancello da cui entrò un leone che era stato tenuto a digiuno per molti giorni. Non curante del pubblico, tra cui c’era anche il Console che già pregustava di vedere il leone avventarsi sul poveretto, il feroce animale cominciò a scodinzolare. Avvicinatosi all’uomo con fare gioviale, cominciò a leccargli il viso quasi fosse un cucciolo di cane. Il leone era stato anch’egli catturato nel deserto qualche tempo prima ed aveva riconosciuto lo schiavo che lo aveva liberato dalla spina nella zampa. Memore della promessa fatta a suo tempo, il feroce animale lo aveva risparmiato. Quella scena di amicizia tra Androclo e il leone colpì favorevolmente il suo padrone. Con un gesto di magnanimità il Governatore concesse la grazia al suo schiavo e lo rese uomo libero assieme al leone”.

La favola di Fedro viene letteralmente capovolta dalla realtà israelo-palestinese: i palestinesi non hanno la magnanimità per togliere le spine dalla memoria israeliana, anzi se appena possono ne conficcano di nuove; gli israeliani continuano a comportarsi da implacabili leoni, ostinatamente pronti a sbranare e mai disposti non dico a perdonare ma nemmeno a sorvolare. Non se ne esce. La vendetta rimane il leitmotiv di una infinita sinfonia di morte. Papa Francesco alla recita del Regina Coeli, in un appello sugli scontri in Terra Santa fra israeliani e arabi, ha detto: “Mi chiedo: l’odio e la vendetta dove porteranno? Davvero pensiamo di costruire la pace distruggendo l’altro? In nome di Dio, faccio appello alla calma, e a chi ne ha la responsabilità di far cessare il frastuono delle armi, di percorrere l’avvio della pace, anche con l’aiuto della comunità internazionale”.

 

Dmanda a Vaia se ‘l vacén l’é bón

Ho avuto, mio malgrado, l’occasione di seguire, seppure parzialmente, l’intervista televisiva fatta da Mara Venier al professor Francesco Vaia, direttore dell’ospedale Spallanzani di Roma: un autentico torrente in piena di certezze, di rassicurazioni e di ottimismi. Ad un certo punto del discorso, inanellato a Domenica in, si è talmente infervorato da affermare trionfalisticamente che stiamo “massacrando il coronavirus”. A quel punto mi sono allontanato dal video per dedicarmi a qualcosa di più utile e serio.

Ma come si permette questo signore, con l’ausilio delle telecamere rai, di prendere per i fondelli tutti gli italiani, sottoponendoli ad un bagno di semplicismo e facendo loro credere che ormai ce l’abbiamo fatta!? Spargere ingiustificato ottimismo è peggio che lasciarsi bloccare dal pessimismo. In questo caso siamo ben lontani dalla teorizzazione gramsciana del pessimismo della ragione e dell’ottimismo della volontà.

Mi sembrava di essere a teatro, improvvisamente riaperto, per assistere alla performance riveduta e scorretta del dottor Dulcamara, il famoso personaggio dell’opera lirica “L’elisir d’amore”, il capolavoro di Gaetano Donizzetti: “Udite, udite, o rustici attenti non fiatate. Io già suppongo e immagino che al par di me sappiate ch’io sono quel gran medico, dottore enciclopedico chiamato Dulcamara, la cui virtù preclara e i portenti infiniti son noti in tutto il mondo… e in altri siti”.

Il suddetto professore decantava a tal punto il vaccino anti-covid, in tutte le sue marche e sottomarche, da indurmi a rammentare il bugiardino dell’elisir d’amore elaborato da Dulcamara: “È questo l’odontalgico mirabile liquore, dei topi e delle cimici possente distruttore, i cui certificati autentici, bollati toccar vedere e leggere a ciaschedun farò. Per questo mio specifico, simpatico mirifico, un uom, settuagenario e valetudinario, nonno di dieci bamboli ancora diventò. Per questo Tocca e sana in breve settimana più d’un afflitto giovine di piangere cessò. O voi, matrone rigide, ringiovanir bramate? Le vostre rughe incomode con esso cancellate. Volete voi, donzelle, ben liscia aver la pelle? Voi, giovani galanti, per sempre avere amanti? Comprate il mio specifico, per poco io ve lo do. Ei move i paralitici, spedisce gli apoplettici, gli asmatici, gli asfittici, gl’isterici, i diabetici, guarisce timpanitidi, e scrofole e rachitidi, e fino il mal di fegato, che in moda diventò”.

Proviamo a confrontare paradossalmente queste parole con quelle del bugiardino di Vaia, che ha così parlato della questione vaccini: “Non esiste una classifica di vaccini di serie A e B. Sono tutti validi ed efficaci. La classifica è stata creata da una cattiva comunicazione, dai balbettii e da improvvidi interventi anche in sede europea dove qualcuno ha detto ‘non compreremo più questo vaccino’. Ma non ha spiegato perché non lo compra”. Se si dicono queste cose, aumenta il disorientamento. Ormai è provato che i vaccini coprono le varianti e ce lo dicono gli studi avanzati e la campagna vaccinale di alcuni Paesi come Israele e Inghilterra. Chi dovesse essere di nuovo contagiato, è asintomatico, non andrà in ospedale, non rischia nulla. Ecco perché è fondamentale vaccinarsi. I cittadini devono andare in vacanza e per questo, bisogna organizzare la sanità pubblica di prossimità per vaccinarsi, arrivare anche magari a fare il vaccino in aeroporto. I vaccini ora arriveranno nelle farmacie, probabilmente quello scelto sarà il Johnson & Johnson. Figliuolo e Draghi stanno lavorando molto bene, nella direzione giusta. Quando si dice che occorre aiutare il turismo, bisogna farlo. Prima il tampone, oggi, invece diamo la possibilità di fare il vaccino in aeroporto. Lo faremo, per esempio a Fiumicino con il quale abbiamo uno stretto accordo. Abbiamo trovato molte varianti benigne perché infatti, non è detto che il virus muta sempre in peggio. Qualsiasi virus muta perché cerca di adeguarsi all’ambiente. Qualche volta lo fa in modo più pericoloso, con maggiore contagiosità o pericolosità. A volte invece fa venire la malattia in forma meno grave. Anche la variante indiana che tanto spaventa. Nell’esperienza concreta, nell’empirismo suffragato da dati certi, dico che abbiamo trovato tante varianti che sono benigne e non hanno dato aumento della contagiosità o della malattia in modo grave. Il vaccino ci salva dalle varianti? I vaccini che abbiamo in campo – ha sottolineato – ora sono tutti sufficienti per non sviluppare la malattia in forma grave o arrivare alla mortalità o ospedalizzazione. Tutti. Di converso dall’altra parte non è che esistono vaccini che ti proteggono al cento per cento, può essere che ci sia una percentuale di un 6 o 7 % che non protegga e poi ci sono i ’non responder’ quelli che non rispondono proprio al vaccino. Al momento è allo studio, allo Spallanzani, la possibilità di utilizzare i monoclonali come immunità passiva, cioè do direttamente gli anticorpi a chi non li ha prodotti con il vaccino. Il matrimonio perfetto, due strumenti che si possono integrare”.

Cosa volete che dica, sarò un disfattista, uno scettico incallito, ma trovo parecchie assonanze di stile e di toni nel paragone impossibile che mi sono permesso di proporre in senso provocatorio. C’è poco da fare, la scienza continua imperterrita a bombardarci di messaggi, oscillanti tra il catastrofismo di alcuni e il trionfalismo di altri. Molto probabilmente la verità starà nel mezzo, che però non è facile a trovarsi.

Capitan Trinchetto era il protagonista di un celebre Carosello, creato per pubblicizzare l’acqua minerale delle Terme di Recoaro. Si trattava di un simpatico marinaio che raccontava le sue fantastiche e fantasiose avventure per i sette mari… i suoi racconti erano conditi con molte esagerazioni, a dirla tutta “le sparava grosse”. E così in ogni episodio interveniva la voce fuori campo che invitava il marinaio a ridimensionare le sue storie, con la celebre frase “Cala Trinchetto”, e lui anche se a malincuore era disposto a ridimensionare le sue sparate.

Sarà perché ho vissuto e vivo con tanta preoccupazione al limite della depressione tutta la vicenda covid, che ho la triste presunzione di gridare, pur con tutto il rispetto che si deve al direttore di un importante e prestigioso ospedale: “Cala Vaia”. Anche se sono certo che lui non avrà l’umiltà di abbandonare le spacconate pseudo-scientifiche per limitarsi alle argomentazioni costruttivamente realistiche. Mi risponderà: “Ma tu chi sei per contraddirmi? Studia! Poi semmai se ne potrà parlare…”. “Ha ragione professore, mi scusi, perdoni la mia ignoranza, ma mio padre mi ha insegnato a dubitare “’d còj che all’ostaria (Domenica in) con un pcon ‘d gèss (intervista a Mara Venier) in sima la tavla (video televisivo) i metton a post tutt (stiamo massacrando il covid 19).

 

Il primo bigotto che canta ha fatto l’uovo omofobo

Innanzitutto vorrei chiamare il disegno di legge Zan, attualmente in discussione al Parlamento, con il suo vero nome, vale a dire “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”. Non è una pignoleria, ma il tentativo di togliere fin dall’inizio il discorso dalla strumentalizzazione e contrapposizione politica per portarlo alla sostanza dello scopo che la legge vuole raggiungere.

Siccome è difficile, oserei dire insostenibile, opporsi al suddetto scopo, gli oppositori sostengono alcune tesi che mi appaiono pretestuose, dopo avere letto attentamente il testo in questione. Esso violerebbe la libertà di opinione, sarebbe inutile in quanto il codice penale sarebbe in materia più che sufficiente, andrebbe addirittura contro la giusta considerazione per l’istituto familiare.

La prima contestazione è superata dall’articolo 4 del provvedimento, dedicato al pluralismo delle idee e alla libertà delle scelte, che recita testualmente: “Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla li­bertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”.

La seconda critica è smentita dall’impostazione stessa della legge che prevede una serie di modifiche e di integrazioni al codice penale al fine di rendere punibili o comunque più punibili certe condotte riconducibili alla discriminazione e alla violenza. Se mai fosse vero che le norme penali sarebbero già sufficientemente chiare e severe in materia, ripetere la condanna e ribadire la punibilità di certi reati particolarmente odiosi e gravi non sarebbe comunque inutile: repetita juvant.

Quanto alla terza critica, strumentalmente collegata all’azione di sostegno alla famiglia, la tesi piuttosto ardita e cervellotica consiste nel timore che le opinioni favorevoli alla famiglia tradizionale possano diventare omofobe alla luce delle nuove norme, in quanto escluderebbero altre forme di famiglia. Siamo alla pura follia reazionaria, alla difesa d’ufficio di una tradizione fuori dal mondo e dal tempo.

Ricordo un piccolo ma eloquente episodio. Un caro amico, molto scrupoloso nell’osservanza delle regole previste dal catechismo cattolico in materia matrimoniale, fu invitato alla cerimonia di nozze che veniva celebrata in comune e non in chiesa. Il confessore tolse ogni e qualsiasi imbarazzo: vai tranquillo, in un periodo in cui non si vuole sposare nessuno, ben venga chi lo fa indipendentemente dal come e dove.

Mi sembra, tutto sommato, il solito motivetto bigotto dei vari family day riveduti e corretti, stigmatizzato dal mio caro indimenticabile amico don Luciano Scaccaglia, che alcuni anni or sono si espresse con accenti molto incisivi e, come al solito, fuori dal coro: «Dio non si interessa delle tendenze sessuali, stima tutte le coppie, sia etero che omosessuali, perché Lui è Padre e Madre di tutte/i. È questo che non hanno capito i bigotti sostenitori del Family day. Non c’è solo la famiglia tradizionale, ma anche altre unioni dove regnano l’amore e altre forme di fecondità. Di questo amore hanno bisogno tutti i bambini: di uomini e di donne con la vocazione genitoriali presente nelle persone etero e in quelle omo. Di amore hanno bisogno: perché Dio è amore universale, per estensione e per qualità. Ama tutti, sempre, e di tutti rispetta l’identità. Non fa l’esame del sangue, ma inietta in tutti un amore viscerale, di Padre e di Madre, ci salva con il sangue del Figlio sulla croce. Anche la famiglia di Gesù non era regolare, “canonica”: la madre, si legge nei vangeli, è biologica, ma in modo misterioso; il padre (Giuseppe) non è padre, ne fa le veci, è putativo: si pensava fosse padre, ma non lo era. Dio ama tutte le famiglie e tutte le unioni, perché, dice il Libro Sacro, ha “viscere” di misericordia. Tradotto in italiano: l’utero di Dio è un infinito contenitore di misericordia. Grazie, Dio!!!».

Chiedo scusa se in conclusione giro il discorso, forse un po’ troppo, sul piano religioso: d’altra parte, sotto sotto, chi contesta la legge di cui sopra strizza l’occhio alla mentalità cattolica più chiusa e retriva, per motivi meramente elettoralistici. Il cardinale Carlo Maria Martini diceva: «Non è male che due omosessuali abbiano una certa stabilità di rapporto e quindi in questo senso lo Stato potrebbe anche favorirli. Non condivido le posizioni di chi, nella Chiesa, se la prende con le unioni civili».

 

 

 

Non posso tenere famiglia

Il Papa ha aperto i lavori, insieme al premier italiano Mario Draghi, degli Stati Generali della Natalità promossi dal Forum delle Associazioni familiari e dedicato al destino demografico dell’Italia e del mondo: da una parte, lo “smarrimento per l’incertezza del lavoro”, dall’altra, i “timori dati dai costi sempre meno sostenibili per la crescita dei figli” e la “tristezza” per le donne “che sul lavoro vengono scoraggiate ad avere figli o devono nascondere la pancia”. Sono tutte “sabbie mobili che possono far sprofondare una società” e che contribuiscono a rendere ancora più “freddo e buio” quell’inverno demografico ormai costante in Italia.

La denatalità ha indubbiamente cause strutturali, plasticamente, mirabilmente e provocatoriamente individuate dal Papa, riconducibili peraltro alla crisi dell’istituto famigliare. Mi sono chiesto spesso però se la “stitichezza procreativa” sia una variabile dipendente dagli andamenti socio-economici o indipendente da essi e strettamente connessa alla mentalità egoista ed edonista che caratterizza il nostro tempo.

Qualche tempo fa un caro amico mi comunicò una semplice ma profonda riflessione: se i nostri nonni avessero indugiato nel fare valutazioni economiche e sociali, non si sarebbero mai sposati e non avrebbero certo fatto figli: c’era una miseria nera, imperversava la disoccupazione, la casa era un optional…Non vorrei quindi che le motivazioni attualmente addotte, peraltro oggettivamente ed indiscutibilmente realistiche, fossero un alibi, una sorta di copertura rispetto alla mancanza di coraggio e di spirito di sacrificio che, comunque, occorrono per decidere di sposarsi o convivere e di mettere al mondo dei figli.

Un tempo per giustificare certi comportamenti di chiusura egoistica si ricorreva alla  strategia cognitiva del “tengo famiglia”: la giustificazione morale di comportamenti normalmente considerati esecrabili fa appello alla necessità di rendere compatibili le proprie scelte con l’esigenza di salvaguardare l’integrità o la sussistenza, fisica o economica, della cellula familiare di chi le mette in atto, anche solo per garantirne la persistenza di uno status sociale o del livello raggiunto nel tenore di vita (perfino in presenza di alti livelli di benessere materiale, come accade, in molti casi, nei fenomeni della corruzione politica e dell’evasione e della frode fiscale)). La funzione consolatoria agisce anche in condizioni più affievolite, quando le azioni poco commendevoli siano ispirate dalla volontà di tener immune la propria famiglia da generiche ricadute negative. Questo atteggiamento rientra in una retorica dell’attaccamento alla famiglia (di cui il «tengo famiglia!» è l’espressione caricaturale) con cui è possibile giustificare, di fatto, ogni “rifiuto ad assumere impegni con estranei” e permette sempre di sottrarsi a responsabilità rischiose o gravose con pretesti legate alla sfera delle responsabilità familiari.

Oggi il discorso viene prevalentemente capovolto e di fronte alle difficoltà di vario genere ci si rifugia in un “non posso tenere famiglia”, che blocca le dinamiche etiche, demografiche e sociali. Con questo non intendo togliere la responsabilità a chi governa la società e l’economia, ma l’illusione che basti una diversa politica per sbloccare la situazione di una società ripiegata su se stessa e disperatamente vocata alla propria fine ingloriosa.

L’equilibrio passato era sostanzialmente garantito dal ruolo della donna, che fungeva da spugna rispetto ai problemi famigliari e sociali: svolgeva diligentemente la funzione riproduttiva, educava i figli, gestiva la famiglia, quadrava i conti, lasciava al marito il compito professionale, qualche volta si dedicava persino a qualche lavoro artigianale svolto all’interno delle mura domestiche, tra una cucchiaiata di pappa somministrata ai bambini e una scrupolosa pulizia dell’ambiente casalingo.

Il ruolo della donna e i rapporti interpersonali all’interno della coppia sono cambiati e si è tuttora alla ricerca di nuovi equilibri con l’aiuto degli appoggi esterni, più privati (i nonni) che pubblici (asili, scuole, etc. etc.), con il peso di una vera e propria inflazione educativa (scuola di danza, di musica, di nuoto, di ginnastica, di lingue, di tutto e di più), con l’assillo del divertimento a tutti i costi (week end, vacanze invernali, vacanze estive, etc. etc.).

Ricordo di avere captato i discorsi fra mamme: si lamentavano degli eccessivi impegni appioppati da loro stesse sulle deboli spalle dei figlioletti e facevano l’elenco simile a quello di cui sopra, in fondo aggiungevano il corso di catechismo. È detto tutto sul corto circuito educativo che regna in capo ai bambini. Forse c’è effettivamente un po’ di confusione in un palleggiamento di responsabilità fra persone e istituzioni, risultato finale: niente figli o figli educati alla meno peggio. Aggiungiamoci pure la mancanza della chioccia parrocchiale che un tempo funzionava fin troppo bene.

Il discorso del destino demografico va quindi posto, ma rimettendo ordine nei valori personali, nelle priorità educative, nel ruolo dei vari soggetti operanti e nelle politiche dei governanti. Non illudiamoci di partire dal fondo.

Le rughe attiniche dell’ordinamento regionale

Nella relazione annuale, pronunciata alla presenza delle alte cariche dello Stato, il presidente della Corte Costituzionale Giancarlo Coraggio non è stato tenero ed ha criticato duramente la gestione istituzionale dell’emergenza sanitaria. Ho ripreso di seguito quanto pubblicato al riguardo da Stampa e Repubblica.

Nel 2020, dice Coraggio, la pandemia si è sommata al «numero ancora elevato del contenzioso Stato-Regioni» che «affonda le sue radici ventennali nella revisione del titolo V della Costituzione, i cui problemi applicativi ancora non si possono dire risolti». 

L’effetto è stata una gestione a coriandoli: “il fatto è che la peculiarità implicita in un servizio nazionale, ma a gestione regionale, può essere risolta solo con un esercizio forte da parte dello Stato del potere di coordinamento e di correzione delle inefficienze sanitarie», sono «inevitabili i rischi di disomogeneità», il che comporta la lesione «dei livelli essenziali delle prestazioni. Il suo esercizio inadeguato non solo comporta rischi di disomogeneità, ma può ledere gli stessi livelli essenziali delle prestazioni”.

Il governo Conte, fin da febbraio dell’anno scorso, aveva rinunciato a esercitare la competenza esclusiva, pur garantita dalla Costituzione, in materia di profilassi sanitaria. Ciò ha impedito «l’unitarietà di azione che la dimensione nazionale dell’emergenza imponeva e impone». 

Ne consegue l’invito netto a ridurre la conflittualità tra Stato e Regioni.  Che Coraggio riassume in questa frase: “Oltre all’ormai costante richiamo alla leale collaborazione dello Stato e delle Regioni nelle materie di interesse comune o in ambiti posti al crocevia di una pluralità di competenze, appare anche opportuno invitare tutti gli attori istituzionali a riflettere sulla necessità di apprestare più efficaci meccanismi di prevenzione e risoluzione dei conflitti”. 

Emerge una nitida e impietosa fotografia dell’ingorgo istituzionale fra Stato e Regioni, che purtroppo ha caratterizzato e condizionato negativamente la gestione della pandemia da parte dei pubblici poteri. Ci siamo fatti trovare impreparati su molti piani, ma anche su quello delle competenze e delle responsabilità istituzionali. Il discorso va rivisto, perché la macchina non funziona. Non so fino a che punto il corto circuito sia dovuto ad assurdi protagonismi, a paradossali personalismi, a condizionamenti politici, a “primadonnismi” centrali e/o periferici, ad appetiti di potere. Di tutto un po’! Alla base di tutto però sta un assetto legislativo che favorisce sovrapposizioni di competenze, confusione di ruoli e rimpallo di responsabilità. Mai come nel caso della emergenza pandemica queste carenze istituzionali hanno impattato sulla pelle dei cittadini al punto da rimettere in discussione i cardini dello stesso ordinamento regionale.

Se è vero che le Regioni sono partite nel 1970 con una ventina d’anni di ritardo rispetto al dettato costituzionale è altrettanto innegabile che, a distanza di oltre cinquant’anni, l’ordinamento dimostra tutti i suoi limiti e difetti, tali da imporre una revisione profonda della legislazione in materia. La Corte Costituzionale, con le parole misurate ma precise del suo presidente, non ha fatto altro che certificare autorevolmente una situazione di gravissima inefficienza.

Non vorrei che il discorso tornasse alla storica ed anacronistica diatriba fra centralismo e regionalismo: il rischio sussiste, perché effettivamente la tentazione del colpo di spugna può essere molto forte.  Non vorrei altresì che, mentre nel ventennio preparatorio il dibattito fu condizionato dallo spettro del comunismo regionale strisciante, oggi rimettere mano all’ordinamento regionale significasse scatenare una rissa pseudo-ideologica tra il centro-destra più o meno leghista, che trova nelle regioni il compromesso di potere fra secessionismo e nazionalismo, e il centro-sinistra, che cerca l’ago della perduta identità popolare nel pagliaio della sbandierata (più che reale) efficienza regionale.  Della serie le regioni non si toccano perché fanno gioco a destra e sinistra.

 

Era ora, ma è molto tardi

“Per almeno 15 giorni ho da lavorare, da studiare, da fare altro. Se non emergono fatti straordinari nuovi preferisco fare a meno non solo di andare in televisione ma anche di rilasciare interviste”. Lo ha annunciato l’infettivologo Massimo Galli a L’Aria che Tira, su La 7.

È dall’inizio della pandemia che i cosiddetti scienziati, sollecitati da una vergognosa caccia allo scoop giornalistico sulla pelle e sulla psiche degli italiani, si contendono i palcoscenici mediatici alimentando, oltre tutto, incertezze e confusione dovuti ai loro pareri sparati alla viva il covid.

Spero che Massimo Galli, che giudico peraltro un sincero e competente, anche se un po’ stizzoso, professionista, possa fare scuola e indurre tutti i colleghi ad un proficuo silenzio stampa. Se ne sentiva veramente il bisogno.

Se un buon bicchiere di informazione verace fa indubbiamente bene, una sbornia di informazione fasulla altera la mente e confonde le idee. Massimo Galli forse passerà alla storia per avere dato più una lezione di democrazia e di corretto uso della libertà di stampa che di infettivologia.

Sulle ali di una deriva mediatica “tuttologa” siamo diventati tutti esperti di tutto, vale a dire che non sappiamo più “un cazzo di niente” e, cosa ancor più grave, non sappiamo più a chi rivolgerci per avere notizie e consigli veramente utili.

La sobrietà è la più grande delle virtù: tutto deve essere detto e fatto nelle giuste dosi, pena l’ottenimento di gravi e deleteri effetti contrari. Vale per gli scienziati, vale per i politici, vale per i giornalisti, vale per tutti.

Volete un esempio concernente l’area politica? Abbiamo davanti il semestre bianco, vale a dire il periodo durante il quale il presidente della Repubblica non può sciogliere le Camere per evitare di forzare la vita politica a suo uso e consumo. I costituzionalisti la sapevano molto lunga. Per la verità Sergio Mattarella ha tenuto un comportamento da semestre bianco per tutta la durata della sua carica, ricoperta con esemplare equilibrio e senso di responsabilità. Ebbene si è già scatenata la gara del toto-quirinale: nel tritacarne sono già finiti Mario Draghi, Marta Cartabia e Pier Ferdinando Casini, ma siamo solo agli inizi. Tutte chiacchiere inutili e prospettazioni fantasiose, in cui anche il sottoscritto a volte rischia di cadere.

La società italiana si è da tempo trasformata in un mega-salotto in cui si esibiscono soprattutto nani e ballerine, alla ricerca di un autoreferenziale e comodo palcoscenico (ad esso peraltro fa riscontro il bar-sport globale della politica leghistizzante). Le televisioni offrono al riguardo occasioni mattutine, pomeridiane e serali: forse presto avremo anche i talk show in notturna per coloro che soffrono di insonnia. Su tutto questo ambaradan informativo incombe la pubblicità che non è più l’anima del commercio, ma la follia del finto benessere.

Stiamo sprecando libertà e democrazia in una corsa verso il velleitario arbitrio e la “nullocrazia”. Scrive Carlo G. Gabardini in un libro intitolato “Churchill il vizio della democrazia”: «Perché se è vero che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme che si sono sperimentate finora, è bene che diventi un vizio, nella speranza che sia difficilissimo poi smettere». Per noi purtroppo la democrazia non è né un pregio né un vizio, è diventata un divertimento innocuo (?) per cittadini da far diventare scemi.

I Raggi grillini e i diametri piddini

Che il movimento cinque stelle sia nel pallone si è capito da tempo. È rimasto senza un leader degno di questo nome. Beppe Grillo è finito nell’auto-spazzatura di una vicenda sulla quale è meglio stendere un velo di pietoso silenzio: si è squalificato a vita entrando nel peggiore dei modi in una incresciosa e gravissima situazione che ha per protagonista il figlio, gettando manciate di merda sulla presunta vittima a preventiva discolpa dei presunti colpevoli: il più brutto garantismo messo in opera da un giustizialista spinto.

Sono da sempre stato convinto che il M5S consistesse in Grillo e niente più: finito lui è finito anche il movimento da lui letteralmente inventato e malamente gestito. Considero un colpo di coda l’invenzione di un nuovo leader individuato frettolosamente e disperatamente in Giuseppe Conte: non ha il carisma e non ha la visione politica di un leader. Mi sembra solo un dignitoso commissario liquidatore di un’azienda politica in fallimento. Anche con tutte le migliori intenzioni non può ricuperare una situazione irrimediabilmente compromessa: non ci sono idee, non c’è una politica, non c’è un minimo di compattezza, non c’è classe dirigente, soprattutto non ci sono più i voti.

Stupisce l’insistenza con cui Giuseppe Conte si accanisce terapeuticamente sul movimento somministrandogli dosi da cavallo di “raggismo” scaduto, inefficace e controindicato. Non capisco l’intestardirsi nella riproposizione di una candidatura rivelatasi sbagliata fin dall’inizio o forse addirittura prima dell’inizio. Posso comprendere la volontà di attaccarsi alla ciambella piddina: quando uno sta per affogare si attacca dove può. Ma volere imporre le regole per un salvataggio (quasi) impossibile mi sembra assurdo.

Non intendo colpevolizzare Virginia Raggi per tutti i mali che opprimono da molto tempo la vita della capitale italiana, ma nemmeno beatificarla sull’altare della salvezza pentastellata. Credo che il partito democratico sia perfettamente consapevole delle gravissime difficoltà in cui versa il M5S e che abbia non pochi dubbi e perplessità sulla stipula di alleanze con tale partito ormai senza capo e senza coda. Giuseppe Conte non può permettersi il lusso di imporre niente, figuriamoci se può lanciare degli ultimatum sul nome di Virginia Raggi. Se intende buttare all’aria tutto, ce la sta facendo.

Se la Lega poteva mai essere una costola impazzita della sinistra (lo teorizzava, non senza qualche seria motivazione, un politico di razza come Massimo D’Alema), il M5S non può essere considerato il figliol prodigo della sinistra. Per di più un figlio pieno di pretese che osa porre condizioni inaccettabili per l’eventuale ritorno a casa. Forse Conte vuole difendere una dignità irrimediabilmente perduta e anziché varcare la soglia si perde a gironzolare intorno a casa accampando assurde pretese. Come si suole dire, la deve bere da botte! Non può permettersi il lusso di fare lo schizzinoso.

Non deve essere facile trattare uno straccio di alleanza con Enrico Letta: forse Conte temerà che possa rivalersi su di lui con un “Giuseppi stai sereno” di renziana memoria. Deve però avere l’umiltà (imponendola anche ai galletti spennacchiati del movimento) di pagare alti prezzi, perché il PD, pur con tutti i limiti che evidenzia, mantiene un minimo di capacità nel trovare personaggi politicamente accettabili per ricoprire il ruolo di sindaco nelle grandi città. Nel baseball esistono le battute di sacrificio e credo che il M5S, se vuole arrivare a casa-base, ne dovrà fare parecchie. Tanto per cominciare, mettendo educatamente da parte Virginia Raggi, che è un po’ il simbolo della presuntuosa incapacità di gestire il potere da parte dei grillini, anche se forse d’ora in poi si chiameranno contini o contani come dir si voglia.

Seminatori, coltivatori e raccoglitori di zizzania

“La motivazione è e deve essere la vittoria, che deve entrare nel cervello dei calciatori, deve diventare un’ossessione per superare i limiti”: è la filosofia di Antonio Conte, allenatore dell’Inter, il cui sorriso ha persino ammaliato la piccante e frizzante Paola Ferrari, conduttrice della rubrica televisiva “novantesimo minuto” (cosa si vuole di più da un uomo?).    

“Nelle finali è difficile giocare bene, l’importante è vincere: se vai in campo con questa determinazione può girarti bene”: è la consolatoria teoria di Andrea Pirlo, allenatore della Juventus, avvinghiato alla sua “supercoppetta” conquistata qualche mese fa (cosa si pretende di più da un pirla qualsiasi?).

Dalla teoria passiamo alla pratica.

Durante i festeggiamenti per la promozione della Salernitana in Seria A, avvenuta dopo 22 anni, non sono mancati assembramenti e, in preda alla euforia, anche l’uso della mascherina non è stato sempre rispettato. In tilt per ore la circolazione stradale con le forze dell’ordine che hanno provato a disporre percorsi alternativi per tentare di decongestionare il traffico. E proprio a causa di questo traffico impazzito c’è scappato il morto: una tragedia ha funestato i festeggiamenti. Un giovane di 22 anni ha perso la vita durante il carosello che si è protratto, dal pomeriggio fino a tarda sera, per le strade della città. Stando a quanto si apprende il ragazzo era alla guida del suo scooter quando, per cause ancora in corso di accertamento, ha perso il controllo del mezzo a due ruote e si è schiantato contro un’automobile in sosta.

La partita tra Salernitana e Pescara, che ha sancito la promozione della prima e la peraltro già assodata retrocessione della seconda, ha avuto un vomitevole antipasto in un gravissimo atto di violenza e intimidazione a Salerno, dove la figlia 18enne di Gianluca Grassadonia, allenatore del Pescara, è stata aggredita sotto casa da parte di alcuni esagitati. È stato un preoccupante ed inquietante prologo per la sfida calcistica. In un certo senso tutto come da copione, prima, durante e dopo la partita.

Ho messo in corrispondenza biunivoca la teorizzazione nobile e altolocata con la concretizzazione popolana, anche se non direttamente connesse, ma ugualmente riconducibili al tremendo sciocchezzaio calcistico.

Le parole smisurate degli allenatori vengono lette in positivo anche se sono autentiche e pericolose cazzate: contribuiscono a creare un clima di forte tensione emotiva nel quale ci stanno poi anche le esagitate euforie e addirittura le smargiassate violente. È coccodrillesco piangere se in mezzo alla follia collettiva succede un episodio tragico, è ipocrita circoscrivere a pochi idioti un comportamento che trova le sue radici nelle prediche dei grandi e nelle stupidità dei molti.

Se vincere diventa un’ossessione, tutto è lecito pur di vincere e, se si vince, ci si sente superuomini a cui tutto è consentito. Non c’è niente di bello e comprensibile nelle feste trasgressive di Inter e Salernitana: gli sfoghi eccessivi a livello di squadra si traducono in bagarre piazzaiola dove tutto è possibile. Finiamola una buona volta con gli atteggiamenti indulgenti, diventiamo finalmente intransigenti.

Che un signore, superpagato per fare correttamente il proprio mestiere di allenatore, arringhi direttamente o indirettamente (forse, lo voglio sperare, inconsapevolmente e/o involontariamente) la folla (con tanto di placet dei porte-coton televisivi) è una vergogna. Che il calcio, con le mani sporche di affarismo, diventi lo sfogatoio del tifo dei frustrati è una miserevole contraddizione sociale. Che i media, omertosamente ed opportunisticamente inseriti nel fenomeno calcistico, continuino a pontificare, disquisendo sul tifo cattivo dei pochi che scaccerebbe quello buono dei molti, è un’inaccettabile sociologia spicciola.

Sullo sfondo si intravede la probabile sfida all’O.K Corral, innescata “ideologicamente” da Conte e Mourinho, allenatori rispettivamente di un’Inter ringalluzzita e di una Roma impaziente, che potrebbe ulteriormente trasformare il calcio in un vero e proprio far west. Forse però si tratterà solo di una edizione riveduta e scorretta della leggenda degli Orazi e Curiazi, con buona pace di chi desidera decantare “tartufescamente” le guerre del tifo buono nei duelli del tifo cattivo.