Un musicista tra politica e misticismo

Franco Battiato era un affascinante e originale intellettuale che amava, con una punta di inevitabile snobismo, aprire i rubinetti della sua mentalità a costo di essere frainteso e “scomunicato”.

Il 6 novembre 2012, in una conferenza stampa, annuncia la sua disponibilità a far parte della Giunta regionale della Sicilia di centro sinistra, guidata da qualche giorno da Rosario Crocetta. Viene nominato lo stesso giorno Assessore regionale al Turismo, allo Sport e allo Spettacolo, precisando che avrebbe rinunciato al relativo compenso.  Un’esperienza che dura pochi mesi. Il 26 marzo 2013 al Parlamento europeo rilascia le seguenti parole: «Queste troie che si trovano in Parlamento farebbero qualsiasi cosa. È una cosa inaccettabile, sarebbe meglio che aprissero un casino». L’intervento desta molte polemiche e scatena l’indignazione del Presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini. L’indomani il Presidente della Regione Siciliana Crocetta gli revoca l’incarico in giunta, insieme a quello del prof. Antonino Zichichi, assessore ai Beni culturali, ufficialmente per le troppe assenze dei due nominando al suo posto la segretaria Michela Stancheris. Battiato, durante una puntata di Servizio pubblico ha ribadito di essere stato male interpretato, in quanto le frasi pronunciate non avevano affatto una matrice misogina: «È un’espressione simbolica, fatta per esprimere una corruzione dilagante. Potere pubblico e privato si mischiano a vantaggio del secondo: “Ci sono parlamentari che hanno accettato denaro per votare decreti e leggi dannose per il paese: questi devono essere espulsi». In merito, intervistato sempre dalla giornalista Gruber nel 2015 afferma: «In Sicilia avevamo un’enorme possibilità. Ho deciso di andarmene per una motivazione molto semplice: le riunioni che si tenevano con i 5 Stelle erano state tre; ognuno di loro mi diceva che i soldi appartenenti ai 5 Stelle sarebbero andati nelle mie mani. Insomma, avevano capito che non ero affatto un buffone. Questa fu l’ultima data della mia presenza in politica; avevo determinato un progetto davvero interessante che comprendeva musica quantistica, quantismo di genere politico, e tutti ne furono soddisfatti. A un certo punto, pressoché alla fine del progetto, ho detto qualcosa che, essendo accaduto quel che è successo, non avrei dovuto dire. Ciò che ho detto di per sé non concerneva soltanto le donne, o perlomeno non era per niente un’estrinsecazione misogina».

“Papa Francesco manca di spiritualità. Anzi, non ha neanche idea di cosa sia Dio”. Parole e musica di Franco Battiato, il grande cantautore siciliano recentemente scomparso e le cui esternazioni, come questa nel programma di La7 Otto e mezzo ospite di Lilli Gruber, sono tornate di colpo virali. La conduttrice gli chiede conto del giudizio estremamente severo nei confronti di Bergoglio: “Perché?”. Bisogna analizzare tutto il ragionamento, replica il compositore che nella sua lunga carriera ha spesso approfondito i temi della spiritualità e del misticismo. “Lui mi piace molto come ho sempre detto” perché è “un individuo che ha ribaltato il Vaticano e dice delle cose eccezionali. Però “manca l’aspetto spirituale di quello che dovrebbe avere un Papa”. Si occupa troppo delle cose terrene, suggerisce la Gruber. “Esattamente” conclude Battiato.

Troppo intelligente per essere capito, troppo onesto per essere tollerato, troppo schietto per essere accettato. Sottoscrivo pienamente la dichiarazione politica di cui sopra che gli costò il posto da assessore. Valeva provocatoriamente per tutti i politici e anche per le donne impegnate in politica: ognuno doveva prendersi la sua parte di ammonimento, invece, alla casta, toccata nel vivo, non parve vero buttarla sulla presunta misoginia. Fu incautamente sincero e coraggiosamente profetico, anche se probabilmente la politica non era il suo mestiere (non dovrebbe essere un mestiere per nessuno).

Quanto a papa Francesco il discorso si fa molto più difficile e complesso. Il giudizio su di lui oscilla tra chi lo considera troppo terreno e poco spirituale e chi lo vorrebbe ancor più terreno e strutturale. Papa Francesco, come afferma il ben informato padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà cattolica, l’autorevole rivista dei Gesuiti, non è un ingenuo e non è un pontefice naif: ha avviato infatti un processo di purificazione profonda. Consapevole dell’assoluta necessità di promuovere e concretizzare una grande riforma strutturale all’interno della Chiesa, preferisce però partire da una riforma spirituale mettendo il Vangelo al centro di tutto e confidando nella forza del messaggio cristiano. Il nodo della riforma incombe e incalza sempre più, considerato il fatto che le strutture vaticane sono assai impermeabili rispetto ai reiterati richiami pontifici: lascia che dica, prima o dopo si stancherà… Penso che la schematizzazione dicotomica fra riforma spirituale e riforma strutturale lasci il tempo che trova.  Effettivamente il papa sembra più orientato ad alimentare la pentola spirituale che non a scoperchiare quella strutturale. Basterà a sconfiggere l’andazzo clerico-conservatore-affaristico che imprigiona la Chiesa istituzione e “sputtana” la Chiesa comunità? La predicazione del pontefice non si ferma peraltro alle parole, ma fa risuonare la musica dei gesti eloquenti ed emblematici come non mai: quelli che affascinano il popolo di Dio.

Franco Battiato, se ho ben capito il suo pensiero, pur apprezzando il coraggio anticlericale e la verve innovativa di papa Francesco, desiderava più spiritualità. È l’appunto che viene mosso ai preti che si tuffano, vangelo alla mano, nella bagarre delle ingiustizie mondane per denunciarle e combatterle. Come se Dio fosse un’idea da coltivare e non una persona (Gesù Cristo) da imitare.

Altro discorso ancora è pretendere che la “politica dei gesti” di papa Francesco diventi sempre più incalzante, coinvolgente e penetrante. Un mio caro amico fa una forte provocazione alla Chiesa di papa Francesco: “Perché non vende un dipinto di Raffaello di proprietà del Vaticano e con il ricavato non trasforma l’ospedale Bambin Gesù in una struttura sanitaria di base a servizio di tutti, dei più deboli in particolare, oppure (aggiungo io) in una mega-struttura di prima accoglienza per i migranti?”. Sarebbero segni evangelici? Cosa ne direbbe Franco Battiato? Sinceramente però, pur con tutto il deferente rispetto per il grande ed eclettico artista, da credente, sarei più interessato al parere dello Spirito Santo.

 

 

 

 

Draghi e l’inutile fuoco di fila pirandelliano

Sono un grande appassionato della commediografia di Luigi Pirandello: mi appassiona, in modo particolare, il suo “Così è (se vi pare)”. L’opera è incentrata su un tema molto caro a Pirandello: l’inconoscibilità del reale, di cui ognuno può dare una propria interpretazione che può non coincidere con quella degli altri. Si genera così un relativismo delle forme, delle convenzioni e dell’esteriorità, un’impossibilità a conoscere la verità assoluta.

Che la Verità assoluta esista o meno è cosa tantomeno irrilevante: è questo il messaggio finale di lettura dell’opera dove Pirandello mette lo spettatore di fronte ad una sorta di ‘barriera sul palcoscenico’ costringendolo ad interrogarsi sul significato stesso di ciò che ha appena visto e l’assenza stessa di significato. Protagonista assoluto di scena, il dramma esistenziale della vita umana nella sua infinita complessità, ed in virtù del teorema, il fatto che la Verità assoluta, quella imprescindibile non esiste. A seguito dell’acceso dibattito tra i personaggi di un piccolo ambiente provincial-borghese infatti, la Verità è per ciascuno ‘come pare’.

Questa la breve premessa, scopiazzata da Wikipedia, per arrivare ad applicare il teorema pirandelliano al premierato draghiano (più che al governo presieduto da Mario Draghi). Il dibattito fra i migliori analisti ed osservatori politici finisce appunto per mettere la questione draghiana su un palcoscenico, imprigionandola nella finta diatriba fra continuismo e nuovismo, fra democrazia e tecnocrazia.

Da una parte si ritiene che Mario Draghi stia succhiando la ruota di Giuseppe Conte e non faccia altro che proseguire quanto già era in avanzato stato di costruzione nel cantiere giallo-rosso: così per la pandemia, così per il Recovery plan. Dall’altra si intravede un autorevole e notevole cambio di passo, che sta dando risultati apprezzabili sia nella lotta al coronavirus sia nella preparazione dell’enorme piano di investimenti sostenuto finanziariamente dall’Unione Europea.

Da una parte si considera che Draghi sia il prodotto di una discesa in campo dei cosiddetti “poteri forti” e di un maxi-accordo pasticciato tra soggetti troppo diversi per trovare la quadra di una seria azione riformatrice. Dall’altra parte si prende atto realisticamente del fallimento della politica a cui hanno portato gli attuali partiti e si considera Draghi come il miglior commissario straordinario possibile e immaginabile per garantire la sopravvivenza dell’azienda Italia.

Da una parte si grida allo scandalo della democrazia violata e sottratta al potere del popolo in nome della supremazia della tecnica, dall’altra si evidenzia come la gente abbia salutato con favore la salita al potere di personaggi capaci di fare il loro mestiere e quindi in grado di supplire ai limiti della politica politicante.

Da una parte si osserva con preoccupazione la discesa del Paese agli inferi dell’economia e dei suoi potentati palesi ed occulti, dall’altra si saluta con soddisfazione e fiducia la forte presenza sulla scena europea ed internazionale di un personaggio autorevole, che, come al solito, profetizza più all’estero che in patria.

Da una parte si indica pessimisticamente il bicchiere mezzo vuoto delle riforme tutte da fare, dall’altra si guarda ottimisticamente al bicchiere mezzo pieno di un governo in grado di governare il presente con sano realismo e di puntare al futuro ostentando una seria capacità di favorire ed avviare una certa ripresa economica.

Da una parte si piange sul debito pubblico in grande aumento e ci si chiede come potrà mai fare il governo Draghi ad avere il consenso necessario per una politica di sacrifici, dall’altra parte si pensa che l’ostacolo del debito pubblico possa essere aggirato e diluito con la prospettiva di una imminente e duratura crescita economica e con il mantenimento di una imprescindibile fiducia della UE e dei mercati.

Da una parte si concedono al governo Draghi i minuti contati, giusto il tempo per ricominciare i litigi fra i partiti allorquando si dovranno operare scelte impegnative e impopolari; dall’altra parte si auspica che l’attuale governo, pur con tutti i limiti e i difetti, possa durare il più a lungo possibile, almeno fino alla scadenza della legislatura prevista per il 2023.

Si potrebbe continuare, ma mi sembra di avere dato l’idea dell’approccio così frastagliato e superficiale emergente dal dibattito colto (?): tutto sommato credo che siano più obiettivi e seri i dibattiti da osteria (?), quelli della gente che va al sodo e non si perde in disquisizioni di carattere pseudo-politico. L’unico modo infatti per uscire dal labirinto pirandelliano della ricerca astratta della verità è quello di accettare la concretezza della realtà per quella che è, misurandola sulla pelle della gente che soffre e non può permettersi il lusso di sottilizzare e pontificare.

Qualcuno, Marco Travaglio tanto per non fare nomi, assimila la “cotta” verso Draghi all’infatuazione per il “ghe pensi mì” di berlusconiana memoria, al “lasciamoli lavorare” di fascistoide provenienza. Fortunatamente qualcun’altro, Massimo Giannini sempre per non fare nomi, chiarisce che Draghi non è il frutto proibito di un putsch istituzionale, ma la risultante di una difficile quadratura del cerchio operata da Sergio Mattarella nell’interesse del popolo italiano.

 

Le tute di forza per gli allenatori

Nella mia famiglia non si è mai respirata aria di comunismo. Mio padre non era anticomunista, ma era autonomo rispetto a questa ideologia ed estremamente critico verso gli aspetti più superficiali, faziosi, demagogici, anticlericali, filo sovietici del comunismo italiano. Mia madre, pur essendo devota sorella di un santo sacerdote, non era affatto una clericale, ma certamente non aveva simpatie comuniste. Mia sorella ed il sottoscritto, educati in un clima oscillante fra il paterno socialismo dal volto umano e la materna carità cristiana, non potevamo che collocarci nel solco del cattolicesimo democratico con forte propensione verso la DC di sinistra. Ciononostante, quando emergevano fatti clamorosamente portatori di ingiustizie, mi lasciavo andare e provocavo mia madre, che stava al gioco: “Un po’ ‘d comunisom al ne faris miga mäl dal tùtt: a serta génta bizognaris mettrog ‘na tuta e mandärla a lavorär…”.

Ebbene, se fosse vero quanto afferma ironicamente Ignazio La Russa, esponente di primo piano di Fratelli d’Italia” ma soprattutto interista sfegatato da sempre, vale a dire che “l’addio di Conte all’Inter è tutta colpa del comunismo cinese” in quanto “il presidente Zhang ha dovuto obbedire al diktat del suo governo…», rivaluterei i venti di austerità calcistica provenienti dalla Cina.

L’allenatore dell’Inter non ha esitato a fare le valige quando ha sentito una sacrosanta aria di austerity e se ne è andato alla ricerca spasmodica di un ingaggio favoloso e di una squadra secondo i suoi desiderata. Ciò naturalmente all’ex ministro della Difesa non è andato giù, come a tutti coloro che hanno il cuore nerazzurro fresco del diciannovesimo scudetto della squadra.

«Sì, è tutta colpa del comunismo cinese – scherza ma non troppo La Russa – perché la politica del governo di Pechino ha imposto al presidente Steven Zhang, che rispetto e ammiro, di tagliare gli investimenti nel calcio. Lui non ha colpe. Ha dovuto chiudere la squadra che aveva in Cina e che stava vincendo il campionato sempre per un diktat del suo governo. E lì in Cina non si può dire di no. Basta vedere come è finita a Jack Ma, il fondatore di Alibaba. Ora, per far quadrare i conti e risparmiare 100 milioni, è costretto a vendere gioielli come Hakimi e chissà chi altro. Continueranno a vendere, magari il prossimo anno cederanno Lukaku e Eriksen. È chiaro che Conte ha detto no. Altro che ciclo interista…».

Dunque, i “comunisti” cinesi avrebbero imposto a Zhang tagli netti al monte ingaggi e un mercato che dovrà chiudere con un forte attivo: zero nuovi investimenti e cessione di big. Condizioni che Marotta e Ausilio hanno poi messo sul tavolo a Conte, che non ha accettato di ridimensionare la squadra. Finalmente qualcuno ha cominciato a ragionare e fare due conti e ciò non è piaciuto a Conte, illustre rappresentante degli avvoltoi che volano intorno al cadavere del calcio.

L’Inter non è stata a guardare e non ha pianto sul Conte versato, ha ripiegato su Simone Inzaghi altro esimio rappresentante di una categoria che sembra mettersi l’etica sotto i piedi puntando solo e spudoratamente ai soldi.  Quando sembrava che fra Inzaghi e Lotito, presidente della Lazio, fosse scoppiata la pace a lume di candela e con una stretta di mano, si è fatta viva l’Inter con un ingaggio raddoppiato e al tecnico laziale non è parso vero di mollare tutto e tutti e di trasferirsi a Milano. Evviva la correttezza e la coerenza!!!

“I comunisti” dell’Inter hanno smesso subito i panni moralistici per vestire quelli della più spietata e assurda delle concorrenze: era necessario, dopo aver dato un colpo alla botte dei futuri bilanci, darne uno al cerchio della tifoseria infuriata per la partenza di Antonio Conte, improvvisamente diventato l’idolo della piazza interista.

Questo è il calcio, che dà un calcio ad ogni e qualsiasi regola sportiva, etica, professionale, contabile e opta per un mercato impazzito dove gli allenatori e i giocatori (vedi il portiere del milan Donnarumma) più importanti fanno i furbi, non capendo che si sta raschiando il barile. Sembra che pensino: portiamo a casa il più possibile, il resto si vedrà. Non so però fino a che punto i loro contratti pluriennali potranno essere onorati dalle società calcistiche indebitate fino al collo.  Forse i magazzinieri avranno pronte per loro anche le tute che sarcasticamente ipotizzava mia madre?

 

 

 

 

Una globale questione di forchette

Il gravissimo incidente sulla funivia del Mottarone, che ha causato 14 morti a causa del precipitare della cabina, mi lascia sbigottito per diversi motivi.  Profondamente addolorato per un’autentica strage: non bisogna mai fare l’abitudine a simili anche se ricorrenti episodi. Prevale lo stupore sul dolore e forse non è giusto, perché è il cuore che soffre mentre la mente si interroga.

Ammesso e non concesso che la prima verità emergente dalle indagini della magistratura sia attendibile e non la frettolosa smania di sbattere i mostri in prima pagina (un po’ più di prudente discrezione da parte della procura interessata non avrebbe guastato), pur considerato il fatto che l’opinione pubblica è alla ricerca acritica del capro espiatorio in modo da tacitare superficialmente le coscienze, pur  sgonfiando  il solito accanimento mediatico che naviga sullo sgomento della gente, se, come sembra a prima vista, la causa del disastro fosse riconducibile a una valutazione ottimistica eseguita dal gestore,  basata più sul calcolo delle convenienze economiche piuttosto che sulla considerazione dei rischi umani, saremmo veramente in presenza di una follia  del guadagno a tutti i costi.

I fermati hanno ammesso le responsabilità loro contestate, ha detto il comandante provinciale dei Carabinieri di Verbania, tenente colonnello Alberto Cicognani. “Il freno non è stato attivato volontariamente? Sì, sì, lo hanno ammesso”. “C’erano malfunzionamenti nella funivia – ha spiegato l’ufficiale – è stata chiamata la manutenzione, che non ha risolto il problema, o lo ha risolto solo in parte. Per evitare ulteriori interruzioni del servizio, hanno scelto di lasciare la “forchetta”, che impedisce al freno d’emergenza di entrare in funzione”. Freno disattivato per soldi, per timore del blocco della funivia.

Stento a crederci, le persone chiamate in causa daranno la loro versione. Però il dato emergente sembra proprio essere quello che assieme alla cabina sia precipitato anche un pezzo di umanità dei nostri comportamenti. Non voglio esagerare, ma non posso nemmeno circoscrivere l’accaduto a quel triste incidente. Probabilmente stiamo tutti sbagliando di grosso la scala delle priorità: prima viene l’interesse economico e poi…in subordine la vita delle persone. Rimettiamoci tutti eticamente in discussione: l’aria che tira è questa, prendiamone atto con sgomento e diamoci una scrollata.

Non mi sento di criminalizzare i gestori della funivia (è un compito della magistratura che agirà, almeno me lo auguro, con obiettività ed equilibrio), mi sento invece di colpevolizzare l’andazzo socio-economico in cui stiamo sprofondando. Non intendo fare del sociologismo datato e dell’utopismo fragile, mi basta fare del realismo umano. È già cominciata la cavalcata dei grilloparlanti: tutti sciorinano ricette politiche pronte all’uso.

È scritto nei manuali di sociologia che, quando un’azienda è sull’orlo del fallimento, si tende ad intervenire, limitando drasticamente l’uso di gomme e matite. Non vorrei che, con l’approssimarsi di un fallimento etico del nostro sistema di vita, ci illudessimo di risolvere il problema sbattendo in galera qualcuno che effettivamente l’ha fatta grossa, ma che rispecchia un male ben più largo e profondo della nostra società.

Purtroppo siamo in presenza della punta di un iceberg. Cosa ci sia sotto lo sappiamo benissimo e non facciamo finta che… I famigliari delle vittime, come al solito, opportunamente chiedono verità e giustizia: non so se saremo in grado di corrispondere positivamente a questo grido. Spero comunque che non torni d’attualità la domanda provocatoria che si faceva don Lorenzo Milani: «A cosa sarà servito avere le mani pulite se le abbiamo tenute in tasca?».  In noi scatta l’ansia di pulizia, ma, se poi non rivedessimo in profondità i meccanismi dello sporco, saremmo sempre daccapo.

 

L’Orlando poco furioso e molto debole

La partita occupazionale è obiettivamente l’altra faccia della medaglia covid: da una parte le vittime morte e sepolte, dall’altra i disoccupati in mezzo alla strada. È un accostamento di gusto piuttosto macabro, ma, volendo proseguire su questa strada, mentre i morti dovrebbero calare, i disoccupati rischiano di crescere a dismisura. Finora il problema è stato messo in frigorifero utilizzando la cassa integrazione, strumento che ha dimostrato tutta la sua utilità, ma che non basta a risolvere il problema delle numerose e non passeggere crisi aziendali.

Il discorso è estremamente delicato e ne sta facendo le spese politiche il ministro del lavoro Andrea Orlando. Da quanto sono riuscito a leggere non ho sinceramente capito se, costretto sulla difensiva, si stia facendo degli autogol, se, obbligato ad intervenire, stia rischiando di mettere il dito tra la moglie confindustriale ed il marito sindacale, se, incapace di mediare seriamente, stia dando un colpo al cerchio ed uno alla botte, se, poco autorevole e preparato in materia, stia prendendo botte da tutte le parti come nel teatro dei burattini.

Non sono un grande ammiratore di Orlando pur ritenendo che il suo valore politico non debba essere tarato sull’aria un po’ dimessa con cui si presenta in un mondo di insopportabili esibizionisti. Credo che Mario Draghi dovrà supportarlo a dovere e forse non basterà perché la materia è veramente incandescente.

Ci vorrebbe una concertazione alla Carlo Azeglio Ciampi anche se i tempi sono cambiati e le situazioni tendono a sfuggire di mano. L’importante però sarebbe che Confindustria non pretendesse una vera e propria liberistica licenza d’uccidere e che il sindacato non intendesse dichiarare una guerra comunisteggiante contro tutto e tutti. I toni non lasciano sperare niente di buono

Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, punta il dito contro il ministro del Lavoro Andrea Orlando in un’intervista al Messaggero sulla questione della proroga del blocco dei licenziamenti a fine agosto: “Avevamo incontrato il ministro ed era stato trovato un accordo per prorogare il blocco al 30 giugno. Poi ci siamo trovati di fronte a un cambio di metodo inaspettato e inaccettabile”.

Protesta sull’altro fronte della barricata anche Maurizio Landini: “Per noi la partita sul blocco dei licenziamenti non è chiusa” ha detto il segretario generale della Cgil. Secondo Landini, vi è il rischio che dal primo luglio vi saranno migliaia di persone senza lavoro e questo perché il Governo ha “ascoltato un po’ troppo Confindustria”. Il confronto tra Governo e parti sociali, spiega Landini, è avvenuto 20-30 giorni fa e si erano registrate posizioni diverse, con Confindustria contraria, Confapi che aveva proposto di prorogare il blocco fino ad agosto e i sindacati che volevano proseguisse fino ad ottobre. “Non si era arrivati a condividere una posizione – fa notare il leader sindacale – poi sui giornali si legge che Confindustria aveva un accordo con qualcuno, ma non si capisce con chi”.

In un clima simile, fatto di sfiducia, incomprensione e faziosità, non so dove si vada a finire. Insisto col dire che non si può pretendere di salvare le aziende con un bagno di sangue a livello dei lavoratori, ma non si può nemmeno pensare di continuare a tener i lavoratori in bilico ed a busta paga della collettività. Quando si dice che la pandemia ha messo in crisi il sistema economico ed il modello di sviluppo si è nel giusto. Ora però viene il bello. Penso che le parti sociali debbano rendersi disponibili a grossi sacrifici nell’ambito di una concertazione che preveda riconversioni industriali e mercantili, flessibilità occupazionale e investimenti pubblici e privati.

Non cominciamo a parlare di scioperi e non facciamo assurde polemiche contro il governo. La partita è colossale e partire col piede sbagliato potrebbe essere disastroso. Non nascondo che il Partito democratico si gioca molto della sua credibilità e capacità con il ministro Orlando: guai a lasciarlo solo e a farne una vittima sacrificale mentre magari Enrico Letta si esercita a fare il fine dicitore a latere del governo.

Da parecchio tempo il nodo essenziale della sinistra politica è proprio quello di coniugare la difesa dei diritti a livello sociale (il lavoro è quello più clamorosamente importante e decisivo) con la scarsità dei mezzi finanziari a disposizione, ristrettezza che impedisce di salvare le aziende come si poteva fare un tempo (magari sbagliando…) e di far portare certi pesi alla collettività (non c’è più trippa per i gatti). Se questa sfida era problematica prima della pandemia, immaginiamoci ora…

A livello macroeconomico vedo una politica fiscale che favorisca al massimo chi investe in settori “puliti” ed innovatici creando posti di lavoro e penalizzi i patrimoni improduttivi. Verrò immediatamente tacciato di demagogia…Ci vorrà molto tempo ed è difficile prevedere cosa potrà succedere nel frattempo. Una cosa è certa: le polemiche non servono a niente!

Il romanzo del maestro Mattarella

Il 23 maggio, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha fatto visita all’Istituto Comprensivo Fiume Giallo – Scuola Primaria Geronimo Stilton di Roma, per la presentazione dell’ottava edizione de Il Mio Diario, l’agenda scolastica della Polizia di Stato.
Mattarella ha risposto ad alcune domande poste dai piccoli studenti e tra queste ha molto colpito quella di un bambino: «Buongiorno Presidente, mi chiamo Alessio e vorrei chiederle qual è la cosa migliore che noi possiamo fare per l’Italia».

Mattarella è andato al microfono, giustamente collocato sopra una cattedra, e ha risposto: «Abitualmente si dice che la cosa importante a scuola sia “studiare”. Studiare è naturalmente importante, ma io vi dico un’altra cosa, forse la più importante: “aiutarsi reciprocamente”. Aiutarsi nelle difficoltà – non nel copiare, perché le regole vanno rispettate -, aiutarsi nelle cose in cui ognuno ha bisogno di essere sostenuto. Se qualcuno ha un problema con una materia o con qualche compito, aiutarsi vicendevolmente è molto importante. Aiutarsi, per esempio, se uno ha difficoltà a camminare per qualche problema, per un incidente: aiutarlo è importante. Questo vale all’interno di una scuola, in qualunque paese o in una grande città, vale anche in un grande Paese come l’Italia.  Se ci si aiuta vicendevolmente, si vive meglio e ciascuno sta meglio.  Vivere insieme significa che ognuno ha bisogno degli altri e quindi aiutarsi rende migliore la vita di tutti quanti. Questa è probabilmente la cosa più importante da fare. Noi stiamo passando attraverso la grave esperienza della pandemia. In questo anno, ancora una volta, abbiamo imparato che dipendiamo gli uni dagli altri, che abbiamo bisogno dell’aiuto degli altri: abbiamo avuto bisogno dei medici, degli infermieri, delle persone che lavorano per fornirci di beni, come il cibo, che conducono gli autobus per poterci muovere e così via. Abbiamo bisogno gli uni degli altri e quindi, in definitiva, aiutare gli altri significa aiutare se stessi. Quando ci si aiuta, si vive meglio. Non soltanto ne riceve un vantaggio e un beneficio la persona che viene aiutata, ma anche colui che aiuta, perché l’aiuto è sempre in direzione vicendevole. Quindi, questo è quello che vi suggerisco da bambini e…da grandi.  Ogni tanto da grandi questo si dimentica e non ci si aiuta abbastanza a vicenda e si vive peggio. Si vive insieme e quindi si deve vivere aiutandosi. Che cosa desiderate voi in casa o a scuola? L’armonia, la serenità, andar d’accordo. Aiutarsi a vicenda è quello che va fatto, è il modo in cui si vive meglio, a scuola, in città, in Italia, da bambini e da grandi. Ricordatelo sempre, vi prego: aiutarsi vicendevolmente è la cosa più importante che tiene insieme e fa vivere meglio. Auguri bambini e buono studio!».

Non è un caso che ultimamente il Presidente Mattarella abbia scelto i bambini quali interlocutori delle sue esternazioni: lo ha fatto per confidare, fuori dai pettegolezzi istituzionali, la sua intenzione di concedersi il riposo alla scadenza del suo mandato e lo ha fatto per parlare ai bambini affinché anche e soprattutto i grandi intendano. Un messaggio bellissimo e commovente nella sua essenziale ma coinvolgente semplicità, oserei dire deamicisiana. Parola d’ordine: aiutarsi!

Mi permetto di rivolgere al Presidente, assieme ad un caloroso ringraziamento, un timido invito: l’Italia, gli italiani, i bambini e i grandi hanno ancora bisogno del suo aiuto. Rimanga ancora un po’ a sostenerci perché abbiamo tanti problemi in tutte le materie, siamo in difficoltà in tutti i compiti, facciamo fatica a camminare. Ci aiuti a vivere nel segno della solidarietà, a capire che, per usare e ripetere le sue parole, “aiutarsi vicendevolmente è la cosa più importante che tiene insieme e fa vivere meglio”.

La giungla burocratica ed il leone mafioso

Il governo preannuncia misure atte a dare un taglio alla burocrazia ed a consentire cantieri più rapidi (salterebbe la soglia dei subappalti e scatterebbe l’assegnazione all’offerta più bassa), in modo da rendere più immediata e forte la spinta impressa all’economia dal Recovery Plan. Di fronte a questa prospettiva è suonato immediatamente l’allarme dei sindacati, preoccupati per l’eliminazione dei controlli e per i rischi potenzialmente provenienti dalla foresta mafiosa.

Non è la prima volta che si pone il problema di coniugare la riforma burocratica con la difesa della legalità e della correttezza nelle procedure per l’assegnazione e lo svolgimento dei lavori pubblici. C’è un equivoco di fondo da cui sgombrare il campo: non è con una giungla burocratica che si bloccano i leoni in cerca di appalti facili; non è con un labirinto di adempimenti formali che si combatte l’evasione fiscale.

La quadratura del cerchio dovrebbe consistere in un sistema virtuoso di controlli: nella confusione burocratica trova facile rifugio chi vuole lavorare nell’ombra; smascherarlo non è compito che si assolve dietro le scrivanie, ma sul campo. Altrimenti finisce che vengono colpiti gli ingenui e non gli sporcaccioni.

Sarà la volta buona per avviare una riforma burocratica di cui si parla da decenni? Non sottovaluto i rischi a cui fa riferimento il sindacato: lo snellimento non deve andare a ledere i diritti dei lavoratori e le garanzie degli utenti, ma non si può mantenere lo status quo per difendere gli occupati a scapito dei disoccupati, così come non si deve difendere la continuità di chi è comodamente seduto a scapito di chi sta precariamente in piedi.

Due caratteristiche negative della nostra società sono costituite dal peso enorme della burocrazia, che paradossalmente va d’amore e d’accordo con la presenza delle mafie. Bisogna rompere questo tacito equilibrio: è un discorso enorme che deve essere affrontato e sul quale finora la politica ha chiacchierato molto e concluso poco. L’Unione europea ha perfettamente ragione a pretendere una decisa azione italiana in tal senso quale condizione per usufruire dei fondi comunitari. Non credo che gli altri stati-membro, almeno i più evoluti, abbiano simili palle al piede, anche se mi si dice che certi Stati siano maestri nel fare apparire come luccicante ciò che oro non è. Forse il pulpito europeo non è il massimo per una giusta predica anti-burocratica: una ridondante, costosissima ed autoreferenziale tecno-struttura domina sulle istituzioni europee. Comunque l’Italia deve uscire dall’imbuto burocratico pena la neutralizzazione di ogni e qualsiasi sforzo innovativo a livello legislativo ed amministrativo e la tarpatura delle ali di ogni e qualsiasi sforzo a livello del privato e del privato-sociale.

Sia chiaro che la nostra struttura burocratica non è costituita da un esercito di incapaci allo sbaraglio, è fatta, almeno in moltissimi casi, di gente capace e preparata che respira però col solo polmone della difesa del proprio potere, mentre non funziona quello civico del servizio al cittadino ed al Paese. Finora la politica ha parlato di burocrazia senza conoscerla, finendo solo con lo scaricare su di essa il barile delle proprie responsabilità. Per combattere un male bisogna conoscerlo, altrimenti se ne resta paralizzati. Dal governo tecnico-politico di Mario Draghi mi aspetto un’inversione di tendenza ed al riguardo mi lascia ben sperare la dimestichezza burocratica di parecchi ministri collocati nei posti chiave. Qualche bastian contrario obietterà: ci illudiamo di combattere la burocrazia piazzando dei burocrati nei ministeri chiave? Nessuna illusione, solo la speranza che possa esserci qualcuno che osa prendere il toro per le corna a costo di prendere qualche (s)cornata.

 

Lo “scoprifuoco” del giro d’Italia

«Ma tu hai il coraggio di seguire il giro d’Italia di ciclismo?»: il mio alter ego è in vena di prendermi in giro e mi coglie in fallo. D’altra parte non posso passare tutto il tempo a scervellarmi sul nulla sistemico ed a piangere sul nulla esistenziale. Bisogna pur vivere…

Ragion per cui ho provato, seppure distrattamente a guardare la rai che porta in giro per l’Italia il carrozzone del giro d’Italia. Innanzitutto, vedendo il putiferio scatenato sulle strade, mi sono chiesto cosa avranno pensato i ristoratori e tutti coloro ai quali la riapertura viene giustamente somministrata col contagocce. Che senso ha chiudere la stalla alle ventidue e poi alle ventitré, se poi durante il giorno sobilliamo i buoi a scappare in strada, muggire di entusiasmo ed aggregarsi alla carovana in giro per l’Italia. È una presa in giro!

Ma non è l’unica contraddizione in termini. Durante la farneticante non stop giornaliera si assiste alle piroette del ballerino Davide Cassani: è un dirigente sportivo, ex ciclista su strada e commentatore televisivo italiano. Professionista dal 1982 al 1996, vinse due tappe al Giro d’Italia. Dal gennaio del 2014 è commissario tecnico della nazionale italiana maschile di ciclismo su strada. Altro che Fregoli! Sì, perché lui ci aggiunge anche la ciliegina e ogni tanto spunta come interprete in voce negli spot pubblicitari di Suzuki Hybrid, proponendosi come testimonial perfetto per raccontare in modo autentico e incisivo i pregi e i vantaggi della tecnologia di questa vettura. Un tempo si diceva che non si può portare la croce e cantar messa, Cassani fa tutti i mestieri possibili e immaginabili nel mondo del ciclismo alla faccia dei conflitti di interesse e del buongusto.

Poi tutti alla spasmodica ricerca della nobilitazione del carrozzone. Elia Viviani è un ciclista professionista che corre per la Cofidis ed è attualmente impegnato nel giro d’Italia dove ha raccolto 2 terzi posti: per il 32enne di Vallese di Oppeano (Verona) l’onore di essere il primo ciclista scelto come alfiere porta-bandiera ai prossimi giochi olimpici di Tokyo. Campione olimpico a Rio nell’omnium, la specialità della pista che riunisce scratch, corsa a eliminazione, cronometro e corsa a punti. Sprinter di professione, 79 vittorie in carriera, tra cui un campionato europeo, un campionato italiano, tappe al Giro, al Tour e alla Vuelta. È il vero iniziatore, con le sue imprese, dell’attuale, straordinaria epoca della pista azzurra. Complimenti a lui, ma ne hanno immediatamente fatto l’agnello sacrificale che purifica un mondo fatto di meri interessi commerciali.

Poi lasciassero in pace Gino Bartali, che è stato naturalmente tirato in ballo, rispettassero la sua fulgida memoria: lui sì che sapeva coniugare lo sport con l’etica e l’impegno civile. Gli hanno dedicato una tappa, così, tanto per mettere un po’ di affarismo sotto il tappeto e per buttare un po’ di fumo negli occhi agli allocchi (me compreso).

Poi viene il bello: la retorica del Bel Paese e delle sue bellezze naturali ed artistiche celebrate con le telecamere a volo d’uccello in parallelo alla corsa. Ricordo che mia sorella, allora presidente del Consorzio dei Boschi di Carrega, si oppose strenuamente al passaggio della carovana “girina” ritenendo che fosse un attentato alla salvaguardia del patrimonio naturale custodito in quel parco. Ma oggi più che mai tutto fa brodo, l’importante è chiacchierare e produrre fumo.

Alla fine sento una vocina che mi dice: «Te l’avevo detto di lasciare perdere, ma tu hai voluto fare di testa tua e allora…beccati il giro d’Italia e poi non lamentarti perché ti prendono in giro…».

 

 

 

 

Formigoni e cicaloni

Il Consiglio di garanzia del Senato ha confermato con tre voti favorevoli e due contrari la decisione assunta in precedenza dalla Commissione contenziosa di restituire il vitalizio ai condannati in via definitiva. La decisione riguarda anche la posizione di Roberto Formigoni condannato per corruzione. Sulla questione si è scatenato un vero e proprio scontro politico. Ha fatto molto discutere il caustico commento dell’ex ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina: “Come scatarrare sui cittadini onesti”, a cui naturalmente hanno risposto gli avversari addebitandogli figurativamente i danni dei banchi con le rotelle.

Roberto Formigoni è stato presidente della Regione Lombardia dal 22 aprile 1995 al 18 marzo 2013. Condannato in via definitiva a 5 anni e 10 mesi di reclusione per corruzione, è stato detenuto nel carcere di Bollate dal 22 febbraio al 22 luglio 2019, quando gli è stata concessa la detenzione domiciliare, in quanto ultrasettantenne, come richiesto dalla difesa.

Al movimento cinque stelle, a corto di argomenti politici, non è parso vero di sfogare la propria strumentale indignazione. “Il condannato per corruzione Formigoni riprende il vitalizio, e con lui gli altri ex senatori riconosciuti colpevoli di gravi reati. Dal Senato arriva un nuovo schiaffo ai cittadini italiani: la Lega e Forza Italia se ne assumono la responsabilità di fronte al Paese. Il Consiglio di Garanzia, in cui non siede il M5S dopo il tradimento di un nostro ex senatore, ha deciso di respingere il ricorso avanzato dall’amministrazione di Palazzo Madama contro la sentenza di primo grado con la quale la commissione Contenziosa aveva annullato la delibera Grasso del 2015” affermano in una nota gli esponenti del MoVimento 5 Stelle Paola Taverna, vice presidente del Senato, Laura Bottici, questore di Palazzo Madama e Gianluca Perilli.

“Finché c’era da assegnare i privilegi ai pochi della casta si faceva valere l’autonomia del Senato, ora che invece c’è da applicare regole di civiltà e rigore, l’autonomia non serve più e ci si appella in modo strumentale addirittura alla legge su Reddito di Cittadinanza e Quota 100 nonché a sentenze interpretate in modo forzato. Dopo decenni si sono accorti che i parlamentari potrebbero avere le stesse regole dei cittadini, ma lo fanno nell’unica volta in cui questo serve a difendere un privilegio. Evidentemente non conoscono vergogna. Noi non ci arrendiamo e domani rilanceremo la nostra battaglia con nuove proposte” dichiarano i pentastellati.

Roberto Formigoni ha diritto, per legge, alla pensione. O almeno, è quel che ha deciso già un mese fa la commissione Contenziosa del Senato, presieduta da Giacomo Caliendo (Forza Italia), accogliendo il ricorso dell’ex governatore lombardo. L’organismo guidato dall’ex sottosegretario alla Giustizia, aveva annullato la cosiddetta delibera Grasso.

La decisione della commissione contenziosa del Senato è di carattere generale, non riguarda – va specificato – solo Formigoni, che si era visto revocare la pensione e il vitalizio nel 2019, in seguito alla conferma della condanna per corruzione nell’ambito del processo Maugeri-San Raffaele (nel 2019 Formigoni e altri sono stati condannati a 47,5 milioni di risarcimento erariale). Il consiglio di presidenza di palazzo Madama aveva dato atto a una delibera approvata nel 2015 che prevede la sospensione della erogazione di pensioni e vitalizi per i parlamentari condannati in via definitiva.

La decisione di riassegnargli il vitalizio, secondo Formigoni, riconosce evidentemente la fondatezza del ricorso presentato dai suoi legali dopo il provvedimento, che aveva congelato pensione e vitalizio, portandolo a vivere, in “gravi ristrettezze economiche”. La delibera Grasso-Boldrini, approvata sei anni fa dai due rami del Parlamento, non prevede alcuna deroga per malattia o difficoltà economiche: i vitalizi devono essere sospesi a tutti quegli ex parlamentari condannati in via definitiva per “reati di particolare gravità”. La corruzione rientra tra questi.

Il discorso non mi interessa più di tanto, ma mi sembra che, giuridicamente parlando, le deliberazioni del 2015 siano state considerate contro la legge in quanto il vitalizio del parlamentare in Italia è una erogazione mensile godibile, al termine del mandato parlamentare, in base al conseguimento di alcuni requisiti di anzianità di permanenza nelle funzioni elettive. L’erogazione di un trattamento economico vitalizio, alla cessazione della carica e comunque al superamento di una soglia di età anagrafica, è un istituto che nell’ordinamento italiano è riservato ai deputati, ai senatori e ai consiglieri regionali.

Non mi unisco alle grida pentastellate: le ritengo un‘inutile modo di infierire contro un condannato. Tuttavia mi sembra ridicola l’argomentazione delle ristrettezze economiche e, se anche fosse, non me ne preoccuperei più di tanto, non per antipatia verso l’uomo, ma per serietà verso chi veramente soffre di gravi problemi economici.

Se Roberto Formigoni avesse voluto fare un auspicabile canto del cigno, avrebbe dovuto rinunciare sua sponte a questo vitalizio. Ne avremmo ricavato un beneficio tutti: lui che avrebbe ricuperato dignità al di là della pena che sta scontando; le istituzioni parlamentari impastoiate in un falso, cavilloso e vergognoso problema; i partiti politici incapaci di obiettività e di imparzialità; l’opinione pubblica costretta a scandalizzarsi come se già non ci fosse sufficiente fieno nella squalificata cascina della politica.

E poi, lasciatemelo dire, non accetto quella punta di cattiveria che si usa verso Formigoni, un uomo che sta soffrendo e quindi merita rispetto, un politico, si badi bene, che non mi piaceva, ma che avrei voluto vedere sconfitto non con delle condanne penali, ma con la dimostrazione di una politica sanitaria sbagliata. La giustizia ha fatto il suo corso, al resto ci ha pensato il coronavirus. Adesso finiamola.

 

 

Stilnovismo draghiano

Il premier Mario Draghi ha tenuto una conferenza stampa per la presentazione del decreto varato dal governo su “Imprese, lavoro, giovani e salute”. In coda al botta e risposta, a cui hanno partecipato anche i ministri Franco e Orlando per quanto di loro competenza, il giornalista Carlo Di Foggia del “Fatto quotidiano” ha posto una domanda sibillina a Draghi: «Un leader della sua maggioranza, Matteo Salvini, la candida, quasi ogni giorno a succedere a Sergio Mattarella, che di recente ha chiarito di non essere interessato ad un secondo mandato. Lei cosa si sente di rispondere a questi solleciti? Li trova inopportuni? Si sente di escludere una tale eventualità? Intende ribadire che la scadenza naturale del suo governo è la fine della legislatura nel 2023?».

Mario Draghi, sfoderando tutto il suo simpatico aplomb, ha risposto col sorriso sulle labbra: «Caro Di Foggia, trovo estremamente improprio, per essere gentile, che si discuta del capo dello Stato quando è in carica; l’unico autorizzato a parlare del capo dello Stato è il presidente della Repubblica». Una lezione di misura e di stile di cui si sente un gran bisogno.

Un amico, peraltro molto intelligente, serio e profondo nelle sue analisi socio-politiche, mi ha fulminato con una battuta provocatoria di cui lo ringrazio: “Affidarsi ad un banchiere e ad un generale dell’esercito significa certificare la fine della politica…”. In teoria ha perfettamente ragione, ma bisogna ragionare. La gravissima situazione di emergenza continua, che stiamo vivendo e vivremo per un bel pezzo di strada, ha evidenziato clamorosamente i gravissimi limiti della classe politica italiana (e non solo italiana): qualcuno a destra ci ricama sopra un de profundis anti-democratico, qualcuno a sinistra teme addirittura la caduta della democrazia. Non c’è nulla di che gioire e nulla di che disperarsi: se è vero che la politica è l’arte del possibile, niente di male se gli artisti si trovano al di fuori dei tradizionali canali della politica. Non è il momento di sottilizzare e di pontificare a vanvera, meglio accettare i supplenti di lusso piuttosto che insistere con i titolari incapaci e inaffidabili.

Mario Draghi è un banchiere fino a mezzogiorno, sta dimostrando, se ce n’era bisogno, di avere una visione politica a livello italiano, europeo e mondiale e soprattutto di avere uno stile molto affascinante e rassicurante. Mi sembra di ricordare che Walter Veltroni abbia recentemente sostenuto come sia il tempo della politica basata sulla competenza e caratterizzata dalla professionalità. Non bisogna esagerare togliendo ad essa il respiro popolare che deve avere, ma non bisogna nemmeno fare gli schizzinosi e insistere sul nulla.

La risposta che Draghi ha fornito all’incolpevole Di Foggia la dice molto più lunga di quanto possa apparire a prima vista. Innanzitutto mi pare che Draghi sottolinei il fatto di essere stato chiamato, oserei dire a furor di istituzioni e finanche di popolo, a gestire una fase in cui la politica stava annaspando.

Spesso ricorro agli aneddoti paterni per spiegarmi meglio. Questa volta lo faccio, ma a contrariis. A mio padre piaceva molto questo: durante una partita di calcio un giocatore si avvicinò all’arbitro che stava facendone obiettivamente di tutti i colori. Gli chiese sommessamente e paradossalmente: «El gnu chi lu cme lu o agh la mandè la federassion?» (Lei è stato inviato ad arbitrare questa partita dalla Federazione o è venuto qui spontaneamente, di sua iniziativa?). Si beccò due anni di squalifica. Non è possibile imbastire questa menata con Draghi: lo abbiamo chiamato noi e peraltro sa quel che fa. Il resto è fuffa demagogica di destra o di sinistra.

In secondo luogo riesce a mantenere un benefico distacco dai giochetti politici: evidentemente li conosce, perché riesce ad evitarli molto bene. È vero che Salvini è uno sbracato politicante che si sta avvicinando al tramonto, ma non c’è solo lui a disturbare il manovratore, che peraltro è capace di rinviare i disturbatori al divieto costituzionale.

In terzo luogo conosce molto bene le istituzioni per averle direttamente o indirettamente praticate e non cade certo nei tranelli che gli vengono tesi. Prima di mollare la presa ci penserà sopra due volte così come avrà certamente fatto prima di accettare l’incarico. Così come non si lascerà coinvolgere nelle asfittiche diatribe partitiche. Al riguardo mi pare che anche ad Enrico Letta abbia dato una lezione di pragmatismo fiscale assai appropriata: non si possono improvvisare battute di sacrificio a basi vuote. Resta purtroppo intatto il vizio di certa sinistra più orientata a far star male tutti anziché cercare di migliorare le condizioni di chi sta veramente male.

Concludendo, come diceva Mike Bongiorno, grappa Draghi, sigillo Mattarella. Se qualcuno, non certo il mio amico di cui sopra, sente nostalgia per i politicanti da quattro soldi, può sempre rifugiarsi in certi bar pieni di triviali polemiche o nei salotti pieni di sofisticate e impossibili alternative di sistema.