La donna oltre la fatwa

La vicenda di Saman Abbas, la ragazza musulmana scomparsa nelle campagne del Reggiano e presumibilmente – allo stato attuale delle indagini non ancora concluse e quindi senza volere criminalizzare sbrigativamente alcuno – giustiziata in modo atroce dai suoi stessi famigliari per avere rifiutato un matrimonio combinato, mostra in filigrana un inquietante dubbio di legame, seppure improprio e indiretto, con la religione musulmana o almeno con certe usanze che in essa trovano un certo brodo di tolleranza.

Il noto giornalista e scrittore Corrado Augias qualche tempo fa si pose proprio questi interrogativi e avanzò laicamente una ipotesi che mi permetto di riportare e condividere pienamente: probabilmente, mentre le altre religioni hanno esaurito la loro carica di violenza e discriminazione, l’Islam fa molta più fatica, perché la cultura che sta sotto le altre religioni è evoluta, ma quella che sottende l’Islam è ferma al medio evo. Egli esprime un certo ragionato e fondato scetticismo sulla mobilitazione dei musulmani per liberare l’Islam da ogni e qualsiasi retaggio tribale: «Non credo che questo avverrà e non per tacita condivisione del gesto omicida ma perché quella cultura non è ancora arrivata alla fase in cui si manifesta pubblicamente un’istanza di rifiuto di gesti oltraggiosi». Forse qualcosa si sta muovendo anche se rimane tuttora un sottofondo di inquietante equivoco.

“È necessario un Islam italianizzato altrimenti in futuro ci saranno altre Saman Abbas…”. Lo ripete da tempo ai tavoli del ministero dell’Interno Ejaz Ahmad, giornalista pachistano e mediatore culturale, membro della Consulta Islamica. Ahmad vive in Italia – ora a Roma – da oltre 30 anni, di cui dieci a Bologna dove è stato tra le prime figure a lavorare per i processi d’integrazione dei connazionali (Quotidiano Nazionale).

Per Yassine Lafram, presidente dell’Ucoii, l’Unione delle Comunità Islamiche in Italia, nata nel 1990, l’ente religioso di rappresentanza dei musulmani più radicato nel nostro Paese, non c’è più spazio per le ambiguità sui matrimoni combinati forzati e l’usanza dell’infibulazione femminile. Il silenzio delle altre sigle del mondo musulmano italiano lascia tuttavia qualche residuo (?) dubbio sulla compattezza dei credenti islamici nei confronti di certe manifestazioni antifemminili violente e cruente.

Faccio riferimento di seguito a quanto scrive il quotidiano Avvenire. L’Ucoii ha pronunciato la parola “fatwa” a proposito della vicenda di Saman Abbas, vale a dire un parere religioso che trova le sue fondamenta nei testi sacri del Corano e nella tradizione profetica dell’islam. È successo in casi di gravità assoluta e la vicenda di Saman rientra tra questi. Lafram non vuole lasciare margini di ambiguità sulla vicenda. «Emetteremo una fatwa contro i matrimoni combinati forzati e l’altrettanto tribale usanza dell’infibulazione femminile» ha fatto sapere l’Ucoii, «in concerto con l’Associazione islamica degli imam e delle guide religiose». Inutile dire che la nota ha destato scalpore, in un contesto comunicativo abituato alle semplificazioni. In realtà, almeno per l’ente religioso più rappresentativo del mondo islamico nel nostro Paese, il principio della trasparenza è un carattere distintivo da tempo. Soprattutto dentro il mondo musulmano, a volte diviso e frammentato. «Noi ci mettiamo la faccia sempre, perché siamo a contatto con la nostra base che ci chiede proprio questo: nessun insabbiamento in vicende come queste, nessuna ambiguità». È il silenzio di altri mondi legati all’islam italiano che forse oggi colpisce il resto dell’opinione pubblica.
«Sappiamo che all’interno di alcune comunità etniche persistono ancora situazioni e comportamenti lesivi dei diritti delle persone» ha spiegato l’Ucoii, parlando di azioni che «non possono trovare alcuna giustificazione religiosa, quindi assolutamente da condannare, e ancor più da prevenire». In particolare, sul caso di Saman, il numero uno dell’Unione delle comunità islamiche ripete che «proprio dal punto di vista religioso si tratta di qualcosa di inammissibile. Non c’è nulla che possa spiegare tragedie del genere. Per questo, preghiamo per lei affinché ritorni sana e salva. E poi rivolgiamo un appello alla sua famiglia: non costruiamo odio ma amore partendo dal rispetto della vita».
Per quanto riguarda l’Ucoii, il percorso intrapreso sembra procedere in una direzione chiara. C’è un filo diretto che unisce il lavoro fatto negli anni passati da Izzedin Elzir, imam della moschea di Firenze, a ciò che sta facendo Yassine Lafram, che ha preso il suo posto. Non c’è solo l’impegno comune contro tutti i fondamentalismi, ma anche l’attenzione alla vita concreta delle comunità islamiche, i segnali di novità che si intravedono sul ruolo della donna, la presenza in situazioni difficili come il carcere, a dire che una parte importante del mondo musulmano nel nostro Paese vuole contare per ciò che realmente fa e rappresenta.

Mi preme fare qualche ulteriore considerazione oggettiva sul problema della donna nelle religioni, questione indubbiamente centrale e che, nelle prassi secolari, evidenzia una certa analogia di impostazione. Anche la posizione della donna a livello di dottrina dimostra che il cristianesimo parte in quarta con un vangelo spudoratamente femminista per poi ripiegare sul pazzesco maschilismo paolino, da cui ci sono voluti secoli per tentare di uscire e il cammino è tutt’altro che terminato. Con tutto il rispetto per la predicazione di Paolo, un cristiano dovrebbe comunque sempre rifarsi al dettato evangelico, alle parole e agli esempi di Gesù, ma purtroppo il Vangelo spesso è finito in soffitta coperto da una moltitudine di polverose scartoffie teologiche e dottrinali. Volendo concedere all’attuale dottrina cristiana un giudizio obiettivo, mi sentirei di ammettere che sulla questione femminile non siamo ancora tornati a Gesù, ma ci siamo significativamente allontanati dal pensiero paolino.

Purtroppo non è così per l’Islam che rimane saldamente ancorato ad una impostazione coranica scriteriatamente maschilista e antifemminista da cui non riesce a schiodarsi. Mentre il cristianesimo è riuscito gradualmente ad affrancarsi da una tradizione pesante e alienante, l’islamismo ne rimane vittima, anche perché non ha il riferimento evangelico (e non è poca cosa) a fargli da sponda.

In conclusione, pur ammettendo che anche il cristianesimo, non ha le carte in regola dal punto di vista teologico, dottrinale e storico sulla questione femminile, non è possibile in materia operare un parallelismo perfetto con l’Islam. Al di là dei miei dubbi, mi sembra resti aperta nell’Islam (non solo quello radicale o radicaleggiante), grande come una casa, la questione femminile che considero centrale. La portata della questione femminile e sessuale è veramente grande e decisiva nella nostra cultura, ma anche e soprattutto in quella islamica, non solo quella dei fanatici fondamentalisti, ma di tutto l’Islam a cominciare dai cosiddetti musulmani moderati: pur concedendo alla loro moderazione una significativa manifestazione di riguardo per la donna, la sua dignità, il suo ruolo, la sua persona, la sua libertà, riescono essi a trascinare tutti i credenti in Allah su un virtuoso percorso di rispetto della donna senza se e senza ma, a rischiarare l’Islam più oscuro?

Se sì, dopo esserci dati anche noi una bella e sana regolata in materia, possiamo ragionare e percorrere un tratto di strada insieme; se no, tutto diventa un ipocrita gioco delle parti e diventerà retorica (in negativo) la domanda seguente. Basterà ai musulmani formulare delle fatwe, scendere in piazza per cambiare drasticamente l’atteggiamento pseudo-religioso e anti-culturale verso il mondo femminile?

 

 

La metamorfosi poco kafkiana e molto salviniana

In questi ultimi giorni mi è capitato di incespicare ripetutamente nelle dichiarazioni rese da Matteo Salvini a livello mediatico. C’è da rimanere sbalorditi, non per le sparate populiste ma per le riflessioni austere con cui sta inondando la scena politica. Ne faccio una rapida sintesi: bisogna puntare al dialogo e all’unità; il governo Draghi sta lavorando bene, ha tutto l’appoggio della Lega e deve continuare nella sua azione; con il presidente Draghi c’è un proficuo confronto all’insegna della collaborazione anche sul discorso dell’immigrazione; nel centro-destra bisogna unificare le forze per offrire al Paese proposte riformatrici concrete; basta con le vuote polemiche, occorre confrontarsi sui problemi della gente.

Senza concedere alcuna credibilità a simili voltafaccia e senza farmi incantare ed illudere da precipitosi cambiamenti di linea, mi sono tuttavia chiesto a che gioco stia giocando sulla pelle degli italiani e, tra il serio e il faceto, sono arrivato a formulare alcune ipotesi.

Comincio dalla più fantasiosa. Tutti dicono che Mario Draghi non abbia la bacchetta magica per risolvere i problemi: vuoi vedere che l’ha tirata fuori e la sta sperimentando, con qualche risultato, su Salvini. Sim-Salvini-Bin per dirla col mago Silvan! Che Draghi abbia una forte personalità capace di condizionare i propri interlocutori penso sia indiscutibile, non fino al punto di “marionettizzarli”.

Continuo a fantasticare con una seconda ipotesi. Tutti dicono che Silvio Berlusconi sia finito e stia consegnando a malincuore i rimasugli del suo partito nelle mani di Salvini. Nonostante l’età e gli acciacchi vuoi vedere che sta dando un colpo di reni e sta subdolamente riprendendo in mano il centro-destra, facendo incazzare persino le sue servette sciocche: ha contagiato lo scomodo alleato leghista al punto da convertirlo ad una posizione politica ragionevolmente e democraticamente più centrista che destrorsa. Qualcosa di verosimile ci può anche essere, ma che il cavaliere abbia ancora tanto sprint mi sembra piuttosto improbabile.

Scendo sul terreno più realistico. Salvini si è reso conto di essere isolato all’interno del suo movimento, di essere in preoccupante calo di consensi a livello elettorale, di mettere a serio rischio la sua leadership nel centro-destra. Stretto insomma fra l’opportunismo dell’imprenditoria di riferimento, il pragmatismo “zaiano”, il “giorgettismo” governativo e il “melonismo” populista, ci sta lasciando le penne. E allora…meglio attaccarsi alla ciambella draghiana e abbozzare a trecentosessanta gradi: la sopravvivenza politica val bene una conversione pseudo-democratica.

Sto andando verso discorsi macabramente seri. Tutto forse dipende dal fatto che la politica sia diventata mera tattica di cattura mediatica del consenso a prescindere dai contenuti e  che i consiglieri di Salvini si siano probabilmente precipitati a indurlo ad una virata al limite dell’incredibile, ma necessaria per rimanere a galla, mettendo da parte ogni e qualsiasi residua coerenza e dignità. Il gioco mediatico sta funzionando a meraviglia: tutti gli stanno concedendo una vergognosa audience, fanno finta di contestargli le piroette, ma in realtà stanno al suo gioco (non si sa mai…).

Stringi-stringi l’aspetto più scandaloso e schifoso non è la metamorfosi di Salvini da leader populista a scarafaggio democratico, ma la falsa dabbenaggine con cui fior di giornalisti e commentatori politici stanno reagendo a questa colossale pagliacciata. In attesa del come reagirà la gente, che, tuttavia, ormai non si stupisce più di niente.

 

 

Il contrappasso satisfattorio

Parlare di giustizia umana di fronte ad una martire cristiana, che perdona le sue massacratrici, è (quasi) fuori luogo, mette un senso di inadeguatezza nel ripiombare sulla terra dopo aver contemplato uno squarcio di autentico Paradiso. Tuttavia siccome viviamo in questo squallido mondo dobbiamo occuparcene.

Faccio riferimento di seguito a quanto pubblicato dalla redazione di Catholica. Le giovanissime assassine di suor Maria Laura Mainetti sono libere da tempo. Le ragazze, tutte minorenni all’epoca, una di 16 anni, due diciassettenni hanno conosciuto il carcere ma ora sono libere. Quella tragedia del 06 giugno 2000, un folle delitto, consumato a detta delle protagoniste e in base ai riscontri giudiziari, nel nome di Satana, e mosso dalla noia, dal desiderio, diventato gesto criminale, di vivere emozioni forti. Un devastante mix confessato dalle stesse assassine, catturate tre settimane dopo il delitto. Le ragazze, tutte minorenni all’epoca, una di 16 anni, due diciassettenni, hanno conosciuto il carcere ma ora sono libere.

Da quel giorno di 21 anni fa le loro esistenze sono profondamente cambiate, a cominciare dall’identità. Hanno studiato, si sono sposate e sono diventate madri, la loro vita continua lontana da Chiavenna, in altre città e regioni. In particolare Veronica Pietrobelli, colei che chiamò suor Mainetti convincendola a scendere in strada per incontrarla, fu condannata a otto anni scontando metà della pena, così da uscire nel 2004.

Sorte simile per Milena De Giambattista, libera anche lei dopo quattro anni, che intraprese un itinerario di recupero frequentando anche la comunità di don Antonio Mazzi. Ambra Gianasso, infine, considerata la mente dell’agguato, fu condannata a 12 anni e quattro mesi. Riconosciuta parzialmente incapace di intendere e volere, dopo alcuni anni è passata al regime di semilibertà per poi lasciare definitivamente la reclusione. Nel frattempo si era iscritta all’università, facoltà di giurisprudenza.

Mia madre, così come era rigorosa ed implacabile con gli anziani, da cui pretendeva una condotta esemplare, era portata a giustificare chi delinqueva soprattutto se di giovane età, commentando laconicamente: “Jén dil tésti mati”. Allora mio padre, in un simpatico gioco delle parti, ricopriva il ruolo di intransigente accusatore: “J én miga mat, parchè primma äd där ‘na cortläda i guärdon se ‘l cortél al taja.  Sät chi è mat? Col che l’ätor di l’à magnè dez scatli äd lustor. Col l’é mat!”.

Matti o delinquenti? Indemoniati o malati mentali? Potremmo stare molto tempo a discuterne inutilmente. Certamente mio padre sarebbe stato durissimo con le giovanissime massacratrici di Chiavenna. Dando espressione colorita allo sfogo quasi unanime della gente comune, avrebbe sicuramente esclamato: “A chil ragasi lì g’al dag mi al demonio…”. Non c’è da scherzare, perché l’orrendo crimine di cui si erano macchiate gridava effettivamente vendetta, da cui peraltro ha sgombrato il campo preventivamente la vittima stessa concedendo il suo perdono.

Sono un convinto assertore del recupero dei condannati, figuriamoci se esse sono tre ragazzine squallidamente vittime di non si capisce quale follia omicida (la pista demoniaca mi lascia alquanto sconcertato e perplesso) Non lo so, ma rimane comunque un comportamento che temo possa essere riconducibile direttamente al demonio: se la vogliamo dire in senso laico, al gusto di fare il male per il male. Racconta Vittorino Andreoli, il noto esperto e studioso di psichiatria criminale, di avere avuto un importante e toccante incontro con papa Paolo VI, durante il quale avranno sicuramente parlato non di meteorologia ma di rapporto tra scienza e religione nel campo della psichiatria e dello studio dei comportamenti delinquenziali. Al termine del colloquio il pontefice lo accompagnò gentilmente all’uscita, gli strinse calorosamente la mano e gli disse, con quel tono a metà tra il deciso e il delicato, tipico di questo incommensurabile papa: «Si ricordi comunque, professore, che il demonio esiste!». E con esso, aggiungo io, non si può scherzare, come hanno probabilmente fatto le indemoniate di Chiavenna.

Andiamo al positivo, al recupero appunto di chi si macchia di qualsiasi reato. Colpisce, nel caso specifico (e un po’ anche in generale), la brevità del percorso riabilitativo e ancor più la sua (forse) eccessiva facilità. Dante Alighieri nella sua Divina Commedia adotta la legge del “contrappasso”. Le pene che affliggono i dannati dell’Inferno e gli espianti del Purgatorio sono assegnate in base alle colpe commesse in vita. La corrispondenza tra colpe e pene, fra peccato e punizione, è spesso regolata dalla legge del contrappasso suddivisa per analogia o per contrasto.

Non voglio arrivare a tanto, ritornare cioè alla legge del taglione, ma auspicare delle dure regole per avviare e verificare l’effettivo ravvedimento del condannato. Chi sfregia con tanta veemenza delinquenziale la vita dovrebbe impegnarsi a rimediare al male fatto col bene praticato, non dico per tutta la vita, ma nemmeno per un breve tempo. Correggerei la spietata e perbenistica espressione del “gettare via le chiavi della cella della prigione” in “gettare via un atteggiamento ed un comportamento di sbrigativa rimozione della colpa”. Non si tratta di pretendere un perpetuo senso di colpa, ma un forte, continuo e verificabile “ravvedimento operoso”.

Il petulante pulpito europeo

Secondo la corrispondenza di Claudio Tito inviato di Repubblica a Bruxelles, la Commissione europea sposa la linea Draghi sulla politica del lavoro e imprime un altolà al Pd e anche alla Lega che negli ultimi giorni si era affiancata ai Democratici nella richiesta di prorogare ulteriormente il blocco dei licenziamenti.

Nelle raccomandazioni di primavera, approvate ieri nella riunione collegiale dell’esecutivo comunitario, infatti c’è un riferimento esplicito proprio alle polemiche che si sono consumate in questi giorni in Italia. «Politiche come il divieto generale di licenziamento – si legge nel testo – tendono a influenzare la composizione ma non la portata dell’aggiustamento del mercato del lavoro». Sostanzialmente secondo l’Ue, impedire il ritorno ad una situazione fisiologica in questo settore non determina un aiuto ma favorisce semmai discriminazioni tra lavoratori. «L’Italia – osserva la Commissione in maniera diretta – è l’unico Stato membro che ha introdotto un divieto assoluto di licenziamenti all’inizio della crisi-Covid». Non solo. Gli uffici di Bruxelles sottolineano che la misura è in vigore per tutto il mese di giugno e che per alcune categorie è stata prolungata fino al prossimo ottobre. «In pratica – è l’atto di accusa più diretto rivolto contro chi sostiene il provvedimento – si avvantaggiano per lo più i lavoratori a tempo indeterminato a scapito di quelli a tempo determinato come gli interinali e gli stagionali».

Non ho capito sinceramente cosa significhi che il divieto di licenziare tenda ad influenzare la composizione del mercato del lavoro ma non la portata dell’aggiustamento del mercato stesso. Non so se la poca chiarezza dipenda da una frettolosa traduzione o dal criptico linguaggio della Ue. Mi sembra comunque di intuire che, secondo l’Unione europea, l’Italia starebbe distorcendo i meccanismi del mercato del lavoro creando oltre tutto discriminazioni tra lavoratori più o meno protetti.

Fin dall’inizio della pandemia mi sono chiesto se il blocco dei licenziamenti fosse una velleitaria forzatura socio-economica o un necessario sostegno ai lavoratori in probabile difficoltà. Volendo semplificare e sintetizzare l’azione del governo italiano, si possono individuare tre livelli di intervento: aiuto ai lavoratori autonomi; agevolazioni creditizie e fiscali alle imprese; difesa del lavoro dipendente tramite l’utilizzo della cassa integrazione e il blocco dei licenziamenti. Tutte misure congiunturali che purtroppo si sono dovute allungare ed allargare fino a mettere in progressiva difficoltà la casse erariali e ponendo il problema del recepimento dei fondi necessari alla bisogna.

L’Unione europea sale in cattedra facendo valere da una parte i propri diritti derivanti dall’apertura della borsa, consistente nel recovery plan e nella sospensione dei parametri di bilancio, dall’altra avvertendo l’Italia, l’alunno più portato alla trasgressione, che non ci si può illudere col salvataggio ante litteram di alcune categorie a scapito dell’andamento economico generale.

Mi sembrano richiami doverosi da effettuare anche se alquanto fastidiosi da ricevere. Oltre modo irritante la catalogazione dell’Italia fra gli alunni “cattivi” per aver esagerato nella difesa dei lavoratori. Non mi è piaciuta anche se tutti abbiamo sempre da imparare da tutti. Forse l’errore di fondo che rischia il nostro Paese è quello di considerare, sotto-sotto e un po’ demagogicamente, il lavoro come variabile indipendente rispetto al sistema economico, pensando che il costo, in fin dei conti, lo debba pagare lo Stato. E lo Stato dove trova le risorse, se non paradossalmente da un’economia in grave crisi? Non ci si può cioè illudere di bere il latte munto da una vacca gracile e priva di adeguata alimentazione: muore la vacca e i bevitori di latte restano a bocca asciutta.

Non si può però lasciar fare tutto al mercato del lavoro nel momento in cui manca il lavoro. Bisogna avere la fantasia, la lungimiranza e l’apertura mentale per difendere i più deboli possibilmente senza trasformarli in soggetti garantiti a tutti i costi. Nei momenti di grave crisi economica si diceva che doveva essere la sinistra politica a guidare la macchina imponendo sacrifici a fronte di precisi impegni verso l’equità e la solidarietà sociale. Forse la sinistra non è in grado di candidarsi a tale ruolo, mentre la destra si preoccupa solo di spingere la macchina a costo di buttarla fuori strada.

Riuscirà il governo Draghi ad avere una politica rigorosa ma progressista della ripartenza economica? Riuscirà l’Unione Europea a correggere definitivamente la sua visione burocratica dell’economia di mercato introducendo elementi di socialità in un contesto bloccato sulle regole liberiste?  Forse la pandemia richiede proprio una revisione realistica ma fortemente innovativa dei rapporti economici. In parole povere dovremmo essere un po’ meno capitalisti senza scadere in anacronistiche e velleitarie nostalgie comuniste. Per dirla con Mimì (Bohème, atto primo), altro di me non saprei narrare, sono un incorreggibile amico dei poveri che importuna fuori d’ora i ricchi.

Un sasso contro la “ragion di Chiesa”

Il sincero, nobile e generoso atto delle dimissioni da parte del cardinale Reinhold Marx, arcivescovo di Monaco e Frisinga, interpella e mette in crisi il papa e tutta la Chiesa. Il cardinale è spietatamente chiaro e dice: “Le indagini e le perizie degli ultimi dieci anni mi dimostrano costantemente che ci sono stati sia dei fallimenti a livello personale che errori amministrativi, ma anche un fallimento istituzionale e ‘sistematico. Le polemiche e discussioni più recenti hanno dimostrato che alcuni rappresentanti della Chiesa non vogliono accettare questa corresponsabilità e pertanto anche la co-colpa dell’Istituzione. Di conseguenza rifiutano qualsiasi tipo di riforma e innovazione per quanto riguarda la crisi legata all’abuso sessuale”.

Il discorso evidenzia come non basti rimuovere la sporcizia e nemmeno fissare delle regole per colpire chi la provoca, ma occorra cambiare il sistema che la tollera o che comunque non riesce a prevenirla. Credo che abbia messo il dito nella piaga e buttato un bel sasso in piccionaia. Era ora!

Anche papa Francesco, a cui va dato atto di avere affrontato con un certo coraggio la situazione, deve convincersi che il sistema è malato e va profondamente cambiato. Forse non bastano la sua ispirazione e impostazione evangeliche o meglio bisogna tradurle a livello strutturale e metodologico.

Il cardinale Marx si limita a richiamare l’adozione dello stile sinodale quale approccio al cambiamento. Sinodo vuol dire partecipazione, discussione, dialogo, decisioni condivise, pluralismo delle idee e delle esperienze al fine di sconfiggere clericalismo, centralismo, burocrazia, doroteismo e dogmatismo.

Esistono però a mio giudizio alcuni nodi sistemici strettamente collegati al discorso della sessualità distorta praticata dal clero. Mi riferisco all’anacronistico obbligo del celibato sacerdotale, ai tradizionali seminari di preparazione al sacerdozio, al marginale ruolo della donna nella Chiesa e nelle strutture clericali, alla insufficiente presenza dei laici, alla concezione della sessualità stessa. Ricordiamoci che presto o tardi scoppierà anche la bomba della “schiavizzazione sessuale delle suore” e probabilmente non sarà meno dirompente di quella della pedofilia.

Recentemente ho raccolto la sacrosanta lamentela di un bravissimo sacerdote, stanco di essere messo indirettamente sul banco degli imputati in una generalizzata colpevolizzazione dei preti: basta, non siamo tutti pedofili, come tutte le persone non sono criminali. Giustissimo, ma per uscire dalla genericità delle accuse e dalla faciloneria della colpevolizzazione totale, bisogna avere il coraggio di ammettere le responsabilità in lungo, in largo e in profondità e soprattutto di cambiare il sistema all’interno del quale si creano queste tremende distorsioni.

Indubbiamente papa Francesco, come dice Furio Colombo, ha sostituito l’ossessione sessuale con quella dell’uguaglianza e della protezione dei deboli: non è poco. Purtroppo però la tendenza ad esorcizzare il sesso lineare per ripiegare su quello contorto è presente e va combattuta apertamente.  Non tutti i preti sono come don Gallo che diceva: «Il sesso è anche un piacere. Fisico, intendo. E non me ne vergogno. Come prete non posso praticare la scelta del sesso, ma immaginarlo almeno un po’ praticato da altri, mi rende l’animo più gaudente e allegro».

Se non vogliamo limitarci ai “pretacci”, che peraltro mi piacciono tanto, andiamo sui cardinali e…che cardinale.  Carlo Maria Martini così ammetteva nel 1984 a Vallombrosa: “La prassi cristiana fa fatica nel trovare il giusto atteggiamento nei confronti del corpo, del sesso, della famiglia”.

Chiudo ripetendo testualmente il passaggio della lettera di dimissioni del cardinale Marx da cui sono partito: “Sostanzialmente per me si tratta di assumersi la corresponsabilità relativa alla catastrofe dell’abuso sessuale perpetrato dai rappresentanti della Chiesa negli ultimi decenni. Le indagini e le perizie degli ultimi dieci anni mi dimostrano costantemente che ci sono stati sia dei fallimenti a livello personale che errori amministrativi, ma anche un fallimento istituzionale e “sistematico”. Le polemiche e discussioni più recenti hanno dimostrato che alcuni rappresentanti della Chiesa non vogliono accettare questa corresponsabilità e pertanto anche la co-colpa dell’Istituzione. Di conseguenza rifiutano qualsiasi tipo di riforma e innovazione per quanto riguarda la crisi legata all’abuso sessuale”. Mi sento di ringraziarlo per la sua iniziativa che mira a scardinare la “ragion di Chiesa” e di augurare che il suo sasso diventi un macigno e che Davide possa sconfiggere Golia.

 

Quando la povertà sembra un’opinione

Un mio carissimo e simpatico amico sosteneva che quando si vive nelle ristrettezze economiche non c’è scelta: bisogna andare a letto presto e finirla lì, perché il solo mettere il naso fuori di casa comporta una spesa insostenibile.

Nove milioni di italiani hanno approfittato del ponte del 02 giugno per una prima vacanza, dormendo almeno una notte fuori casa. É quanto emerge dai dati di Federalberghi, che però precisa al ribasso come la quasi totalità degli italiani, pari al 99,3% rimanga nel proprio paese. Di questi, il 69,6% si muove all’interno della regione di residenza mentre il 22,5% si sposta in qualche regione vicina e il 5,5% invece fa un viaggio un po’ più lungo. «In questo momento e dopo un anno come il 2020 vissuto in totale oscurità, sembra di poter gridare al miracolo» dice il presidente Bernabò Bocca, presidente della Federalberghi. Mi fa piacere, ma questi dati mi incuriosiscono e mi insospettiscono.

In Italia cresce ancora il numero dei “nuovi poveri” che hanno fame: lo evidenzia il monitoraggio della Caritas, impegnata con le sue sedi diocesane su tutto il territorio nazionale, ma anche l’indagine sulle famiglie italiane condotta dalla Banca d’Italia. Oltre il 6% della popolazione adulta non può garantirsi un pasto.  Supera abbondantemente il 50% del totale il numero degli italiani che nel periodo compreso tra settembre 2020 e marzo 2021 si sono rivolti alla Caritas, in cerca di un aiuto – alimentare, ma non solo – per sopravvivere e sostentare la propria famiglia. Un dato significativo, non certo per fare distinzioni tra assistiti di serie A o B, ma perché evidenzia come quasi una persona su quattro, tra chi si è rivolto alla Caritas a cavallo tra il 2020 e il 2021, possa essere identificata come “nuovo povero”. Nel periodo in questione, infatti, delle 544.775 persone che hanno richiesto assistenza alla Caritas sul territorio nazionale – “in media 2.582 al giorno”, spiega il cardinal Bassetti – il 24,4% non si era mai rivolto prima alla rete assistenziale. E ampliando l’orizzonte all’intero periodo interessato dalla pandemia, nel corso di poco più di un anno, l’organizzazione ha accolto almeno 453.731 nuovi poveri. Il quadro emerge drammatico dall’ultimo monitoraggio condotto da Caritas Italiana, che registra la sofferenza delle sedi diocesane dislocate sul territorio: l’80% delle sedi diocesane della Caritas dislocate sul territorio ha registrato un aumento di situazioni legate ai bisogni fondamentali della persona (il lavoro, la casa, il cibo), ma anche di povertà educativa e di disagio psico-sociale, che colpisce soprattutto donne e giovani.

Una tendenza che trova riscontro nell’Indagine straordinaria sulle famiglie italiane ai tempi del Covid-19 condotta da Banca d’Italia e ripresa da Coldiretti per quel che riguarda i dati sulla povertà alimentare: quasi quattro italiani su dieci (38,6%) hanno smesso o ridotto gli acquisti nei negozi alimentari e di altri beni essenziali a causa dell’emergenza Covid. E dunque si torna a parlare di “nuovi poveri”, tutti coloro che hanno perso il lavoro, piccole realtà costrette ad alzare bandiera bianca, lavoratori sommersi impossibilitati a percepire i sussidi. Sono moltissime le persone che hanno conosciuto nell’ultimo anno la realtà delle mense dei poveri, ancor di più quelle che hanno fatto richiesta per ricevere pacchi alimentari. Tradotto ancora una volta in numeri, sempre secondo Coldiretti, il 6,3% della popolazione nazionale adulta ha difficoltà a garantirsi un pasto. Ma la percentuale varia dal 3,2% del centro Italia al 5,6% del nord, e sale fino al 9% nel Mezzogiorno. E secondo l’Istat, le persone affamate, in Italia, hanno superato quota 3 milioni.

I dati sulla povertà mi creano ansia e dispiacere, ma mi mettono in qualche confusione mentale. Fanno stupore infatti le reazioni degli italiani alla riapertura dei bar e dei ristoranti con possibilità di consumazione al banco e di mangiare al chiuso e all’aperto. Gli intervistati osano parlare di ritorno della felicità e di enorme sollievo. Il caffè è la bevanda nazionale degli italiani, un rito quotidiano irrinunciabile. Mi ha sempre stupito l’enorme quantità di persone che frequentano i bar: prime colazioni, coffe break, aperipranzo e apericena. Si facevano le gomitate ed ora si ricomincerà a farle.

Morale della favola: dove sta la povertà? Non credo che siano solo i ricchi ad andare al bar, al ristorante, in vacanza. E allora? C’è qualcosa che tocca? Forse si sta sempre più accentuando la netta separazione fra i veri poveri e chi povero non è. Mi auguro che chi non ha la disponibilità di un pasto non sprechi quei pochi soldi che ha accodandosi all’illusorio e costoso rito del bar. Io li chiamo i misteri della povertà.

Quando mio padre osservava il mare di automobili in viaggio per le vacanze, forse un po’ provocatoriamente ma tutto sommato sinceramente, diceva: “L’ é tutta colpa ‘dla miseria”, riconoscendo che in Italia di passi avanti se ne erano fatti. Nell’ultimo periodo abbiamo fatto molti passi indietro, almeno così si dice, salvo poi continuare a vedere un mare di automobili in coda sulle autostrade, un sacco di gente che si precipita al bar ed al ristorante, le pizzerie stracolme non solo a livello di asporto. Faranno tutti finta di essere ricchi? Ci sarà qualcuno che finge di essere povero? Due ipotesi, ugualmente agghiaccianti, da esorcizzare.

Silvio Berlusconi a chi gli poneva il problema della povertà rispondeva al limite del cinismo: vedo la gente in fila per andare al ristorante, dov’è la povertà? A suo tempo mi indignavo e credo sia ancora inaccettabile operare simili semplificazioni socio-economiche. Probabilmente c’è fila e fila: quelle davanti a bar e ristoranti e quelle davanti alle mense della Caritas. Speriamo che non ci sia confusione e interferenza tra di esse. Sarebbe il massimo!

 

 

 

Le riaperture girevoli

Fa sorridere (forse sarebbe meglio dire che fa “sbudellare dal ridere”) la questione che sta tenendo banco a latere delle cosiddette riaperture. Per i ristoranti, quattro posti a tavola: questo è il problema. Mentre scrivo si sta profilando un onorevole compromesso: nessun limite all’aperto, non più di quattro per tavolo al chiuso. Posso sfogarmi? Ridicolo! Approfondiamo, sembra, ma non è uno scherzo. Riporto di seguito quanto scritto sul sito de La stampa.

«Nelle attività dei servizi di ristorazione, il consumo al tavolo è consentito per un massimo di 4 persone per tavolo, salvo che siano tutti conviventi». Nelle linee guida per la ripresa del 28 maggio è rimasto in vigore il limite massimo di quattro commensali per la consumazione al ristorante, che sia in zona gialla o in zona bianca. Anche se, quasi certamente, sarà superata l’interpretazione almeno in zona bianca come ha ammesso anche il sottosegretario alla Salute Andrea Costa: «Almeno per i ristoranti all’aperto in zona bianca si arrivi a togliere il vincolo del limite massimo di quattro persone al tavolo: sarebbe un primo segnale di distensione. Per i locali al chiuso credo si possa anche prevedere una restrizione iniziale, ci può stare purché sia graduale». Si è però scatenato il polverone: il Governo sembra indirizzato verso la conferma del limite che danneggerebbe il settore della ristorazione. Ma intorno a quest’idea si è registrata una serie di reazioni contrarie che potrebbe portare anche ad una revisione totale. 

Molto dipenderà dall’esito del tavolo tecnico che si terrà per affrontare la questione, come appreso da fonti di governo. Ieri le Regioni e il centrodestra avevano ritenuto la misura troppo penalizzante ed è probabile che si arrivi a un compromesso mantenendo il limite solo per i ristori al chiuso. Nella stessa giornata è poi stata convocata la conferenza delle regioni dal presidente Massimiliano Fedriga. I governatori hanno chiesto la revisione. Al tavolo tecnico dovrà essere affrontata la questione relativa al limite di quattro persone al tavolo nei ristoranti.  Le Regioni sono state sorprese da un’ipotesi che non sarebbe stata condivisa con loro: «L’ipotesi del limite di 4 persone al chiuso non è stata proposta ufficialmente alle Regioni e non trova riscontro. Nelle interlocuzioni avvenute si è fatto peraltro presente che, considerato come le decisioni assunte sino ad ora (linee guida in primis) siano sempre state condivise in un clima assolutamente collaborativo e di rispetto istituzionale, ha sorpreso che l’interpretazione del governo sul tema sia avvenuta in maniera autonoma».

Sui posti a tavola al ristorante, almeno nelle zone bianche, il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri ha commentato senza incertezze: «Spero venga presto rivisto il limite dei 4 posti a tavola nei ristoranti e pubblici esercizi, credo sia arrivato il tempo e io sono tra quelli che era per più posti a tavola consentiti. Aumenterei a 8-10 posti a sedere, per poi liberalizzare ai primi di luglio». Nell’intervento a Rai Radio1, a “Un giorno da pecora”, Sileri ha aggiunto: «Metà di noi sarà vaccinato. E se vedo un po’ assurdo indossare la mascherina tra il primo e il secondo al ristorante mentre resta l’obbligo alzandosi da tavola negli spazi comuni, mi preoccupano ancora gli assembramenti, soprattutto dei più giovani, fuori dai locali. A casa dovrebbero valere le stesse regole dei ristoranti: si sta insieme a tavola ma distanziati». Idem per quanto riguarda le partite degli europei: «Raccomandiamo fortemente di riunirsi per vedere la partita tra vaccinati, ma basta la prima dose, e restano fondamentali mascherina e distanziamento. Ma riprendiamoci la vita, non credo che per baciarsi questa estate occorrerà tirar fuori il green pass». 

Stiamo veramente spaccando il cappello in quattro per salvare la capra della riapertura e i cavoli del possibile contagio. Se è veramente rischioso pranzare al ristorante, si abbia il coraggio di mantenere il divieto, lasciando perdere questi assurdi limiti quantitativi. Se ormai si ritiene superato il rischio, che senso ha continuare l’irritante gioco dell’oca sulla pelle dei ristoratori.

Un tempo si scherzava sul divieto per i parroci di avere una perpetua di età inferiore ai quarant’anni Erano tempi i cui si invecchiava molto in fretta): l’ostacolo, si dice, veniva superato ingaggiando due perpetue ampiamente under 40. Se tanto mi dà tanto, al ristorante se si presenta una compagnia di otto persone, basta suddividerla su due tavoli separati, ma confinanti nel rigoroso rispetto delle distanze. Tutto a posto! Anche se bisognerà parlare a voce piuttosto alta e i brindisi andranno parcellizzati. Ma fatemi il piacere…

La tragedia pian piano sta mutando in commedia, anzi in farsa. Aggiungiamo un tocco di assurdo buonumore alla tristezza imperante. Sento tanto la mancanza di mio padre che potrebbe sbizzarrirsi col suo battutismo alla parmigiana. Ce ne sarebbe bisogno.

La Brusca ragion di Stato

Gli italiani hanno tanti pregi, che vengono universalmente riconosciuti, ma vantano purtroppo anche tanti difetti, che vengono altrettanto universalmente bollati. Forse i secondi sono l’esatto rovescio della medaglia dei primi. Vogliamo fare un esempio? La fantasia ci aiuta anche e soprattutto nei momenti difficili: ci saltiamo (quasi) sempre fuori. Il rovescio della medaglia sta nell’irrazionalità: fantastichiamo col cuore, ma ragioniamo di pancia (anziché di mente). Detta in modo culturalmente corretto, ragioniamo sì, ma col cuore, ovverossia continuiamo sempre a lavorare di fantasia fuggendo dalla triste realtà.

Questa astrusa premessa per commentare la stucchevole polemica insorta intorno alla scarcerazione per decorrenza dei termini di Giovanni Brusca, soprannominato in lingua siciliana u verru, oppure lo scannacristiani per la sua ferocia, un mafioso e collaboratore di giustizia italiano, in passato membro di rilievo di Cosa Nostra.

Brusca ha potuto usufruire dei vantaggi accordati dalla legge ai cosiddetti pentiti, coloro cioè che forniscono alla giustizia importanti elementi per combattere la criminalità: un vomitevole scambio di favori, che tuttavia sembra sia risultato utile ed abbia consentito passi in avanti nelle indagini e nella guerra contro la delinquenza. Ho usato volutamente il termine guerra, perché di essa si tratta e in guerra, in un certo senso, tutti i mezzi sono validi pur di sconfiggere il nemico.

Si tratta di un pentitismo di comodo? Certamente sì. Non si hanno, per lo meno in molti casi, riscontri seri di un ravvedimento operoso da parte di questi delinquenti. Sono vere e proprie spie a cui si concedono protezione e sconti di pena a fronte delle utili informazioni da esse fornite. È perfettamente inutile andare alla ricerca di un pentimento di natura umana ed etica, c’è solo un calcolo di convenienza da ambo le parti. Se proprio si vuole sottilizzare, sul piano morale queste persone alla delinquenza aggiungono anche il tradimento tipico delle spie (le peggiori persone che esistano). Non facciamo pertanto discorsi di giustizia, di rieducazione del condannato (punto peraltro irrinunciabile previsto dalla Costituzione italiana per tutti i condannati) e di sfregio alle vittime.

Siamo in presenza di un mero e schifoso contratto per il quale lo Stato compra informazioni, pagando il relativo altissimo prezzo. È chiaro che, quando viene il momento del pagamento, si fa forte la tentazione di contravvenire al patto, ma sarebbe la peggiore delle soluzioni. Tali contratti sono di qualche effettiva utilità? Questo è un altro discorso! A volte me lo dichiedo: i pentiti diranno la verità o faranno finta di dirla? É un giudizio che deve essere lasciato agli organi dello Stato al fine di non regalare la libertà a chi finge di sapere, creando solo ulteriore confusione, trasformando lo scambio in una solenne presa in giro. Credo che questo sia, tutto sommato, un rischio da correre per ottenere risultati molto importanti anche se difficili da riscontrare obiettivamente e da valutare realisticamente.

Smettiamola quindi di improvvisarci giustizieri del giorno dopo, non piangiamo sul latte che abbiamo dovuto versare, non sentiamoci improvvisamente e fanaticamente implacabili vendicatori dei torti subiti. Riteniamo insostenibile questo impianto pseudo-giudiziario? Benissimo! Togliamolo di mezzo e di pentiti non se ne parli più, a costo di segnare il passo in certe inchieste riguardanti la criminalità organizzata.

Qualcuno sosterrà che i risultati sono così risibili da rendere inaccettabile il prezzo per i famigliari delle vittime e per il senso della giustizia in generale. Può darsi…però dopo non ricominciamo a recriminare irrazionalmente sul latte re-imbottigliato. So benissimo che per i parenti e gli amici dei morti ferocemente ammazzati tutto può sembrare paradossale. In un certo senso lo è: il paradosso della ragion di Stato da far quadrare con lo Stato di diritto. Una sfida improba su cui ragionare con la testa e non con la pancia.

 

 

 

Al tenór ‘d la Repubblica

Nella mia famiglia si discuteva spesso anche di politica e si arrivava persino a rivangare spassionatamente il referendum Monarchia-Repubblica tenutosi nell’immediato dopoguerra. Chiedevo conto ai miei genitori del loro comportamento. Entrambi non nascondevano il loro voto: mia madre aveva votato monarchia, mio padre repubblica. Nel 1946 vivevano insieme da dodici anni, ma ognuno, giustamente, manteneva le proprie idee politiche e le esprimeva liberamente. Mia madre così giustificava la sua difesa dell’istituto monarchico: «Insòmma, mi al re agh vräva bén!». Non un granché come motivazione politico-istituzionale, ma mio padre non aveva nulla da eccepire. Taceva. Io non mi accontentavo e, da provocatore nato, chiedevo: «E tu papa? Cos’hai votato?». Rispondeva senza girarci attorno: «J’ ò votè Repubblica!». Allora mia madre controbatteva che comunque l’opzione repubblicana vinse con l’aiuto di brogli elettorali. A quel punto mio padre si chiudeva in un eloquente silenzio e aggiungeva solo: «Sì, a gh’é ànca al cäz, ma…». Mia sorella invece girava il coltello nella piaga e rivolta polemicamente a mia madre diceva: «Il re, bella roba! Ci ha regalato il duce per vent’anni, poi, sul più bello, se l’è data a gambe. E tu hai votato per il mantenimento di questa dinastia?». Papà allora capiva che la moglie stava andando in difficoltà, gli lanciava la ciambella di salvataggio e chiudeva i discorsi con un: «J éron témp difìcil, an e s’ säva niént, adésa l’é tutt facil…». E magari aggiungeva un aneddoto ad hoc. Nella sua compagnia esisteva un amico dotato di una testa grossa. Per deriderlo bonariamente gli chiedevano: «Se ti a t’ fiss al re, pr’i frànboll con la tò tésta agh’ vriss un fój da giornäl…».

La festa della Repubblica quest’anno ha registrato molte differenze protocollari con le abitudini del passato, ma un seppur timido ritorno alla presenza di pubblico, selezionato e distanziato, dopo mesi di chiusure e contingentamenti. Il 1° di giugno il tradizionale concerto per gli ambasciatori accreditati, si è tenuto nel Cortile d’onore e non nel Salone dei Corazzieri, con l’esecuzione di musiche di compositori europei dedicate all’Italia (Britten, Berlioz, Mendelssohn, Strauss, Martinu, Cajkovskij) da parte dell’Orchestra di Santa Cecilia, diretta da Jakub Hrusa, impreziosito da una performance di Roberto Bolle con Virna Toppi (Pas de deux, da “L’altro Casanova” su musica di Vivaldi). Il concerto è stato preceduto da un breve saluto del Presidente della Repubblica agli ambasciatori stranieri. Non si è tenuto invece il tradizionale ricevimento delle personalità della politica, dell’economia e della cultura nei Giardini del Quirinale (poco male!). Il Capo dello Stato ha pronunciato l’ultimo discorso del suo settennato sulla Festa della Repubblica, della durata di venti minuti, alla presenza del premier Mario Draghi e di tutto il governo. Niente parata militare ai Fori imperiali (meglio così!), chiusi i giardini del Quirinale (un vero peccato).

Gli occhi però erano puntati su Sergio Mattarella alla ricerca di un seppur piccolo segno inerente la fine della sua presidenza. Uno degli argomenti semplici ma decisivi che distingue la repubblica dalla monarchia è proprio il fatto che, mentre il re te lo devi tenere a vita, il presidente scade e se ne torna a casa. In questo momento di grave emergenza nazionale è forte la tentazione di porre la corona sulla testa di Mattarella, investendolo di un ulteriore mandato presidenziale: confesso che ne sarei più che soddisfatto, perché lo considero l’ultimo dei giusti della politica e con lui temo di vedere tramontare un pezzo di repubblica. Sono sicuro che mia madre, convertita alla sua maniera all’istituto repubblicano direbbe: «Insòmma, mi a Matarêla agh voj bén!». Non un granché come motivazione politico-istituzionale, ma questa volta non avrei niente da ridire, anzi. Mia sorella girerebbe il coltello, questa volta nella piaga repubblicana, e aggiungerebbe: “Dopo di lui il diluvio, teniamocelo stretto!”.

Mio padre non avrebbe nulla da eccepire: “L’ha figurè bén bombén e stäma in-t-i primm dan, andäma miga a môvor dal frèdd pr’al let”. Ma non rinuncerebbe ad avanzare un ricordo del passato relativo agli anni della seconda guerra mondiale: in quel triste periodo ritornò a cantare al teatro Regio il grande tenore Francesco Merli, che aveva mietuto allori negli anni precedenti a Parma e nel resto del mondo. Al riguardo è memorabile una sua esibizione in concerto assieme a Renata Tebaldi, accompagnati al pianoforte, al ridotto del Regio: alla fine l’entusiasmo raggiunse l’isteria e voglio credere a mio padre che rammentava come una parte del pubblico fosse in piedi sopra le poltroncine ad applaudire freneticamente dopo l’esecuzione del duetto finale di Andrea Chenier. Quando ritornò alla ribalta del Regio, però, Francesco Merli, piuttosto anziano, non era più in grande forma vocale e non venne trattato con i guanti. In modo pesante ed inaccettabile, dettato più da cattiveria che da inesorabile atteggiamento critico, il loggione nei confronti del grande tenore Francesco Merli, reo di essersi presentato sul palcoscenico del Regio, nei panni di Manrico nel Trovatore di Verdi, con voce ormai piuttosto traballante, usò la pesantissima espressione: “va’ al canäl”. Era il luogo dove i parmigiani erano costretti a lavorare inutilmente dall’invasore tedesco. Mio padre raccontava questo disgustoso episodio per bollare l’esagerata ed esibizionistica verve loggionista, ma anche per significare come qualsiasi persona, quando si accorge di non essere più in grado di svolgere al meglio il proprio compito, sarebbe opportuno che si ritirasse, prima che qualcuno glielo faccia capire in malo modo.

Personalmente concluderei questa immaginaria conversazione con queste parole: “Stai tranquillo papà, Mattarella non corre questo rischio, siamo piuttosto noi che corriamo quello di rimanere senza tenore, costretti ad ascoltare quelli che la zia definiva i sot-ténor…”.

 

 

 

 

 

Sì, ma qualora…

Non faccio per vantarmi, ma sono stato facile profeta. Nel commento al tragico e sconvolgente episodio della funivia del Mottarone e alle successive prime risultanze delle indagini, ho scritto, in data non sospetta, vale a dire il 28 maggio scorso, le parole, che riporto testualmente: “Ammesso e non concesso che la prima verità emergente dalle indagini della magistratura sia attendibile e non la frettolosa smania di sbattere i mostri in prima pagina (un po’ più di prudente discrezione da parte della procura interessata non avrebbe guastato) …”.

È arrivata a stretto giro e puntuale, come un triste orologio svizzero, la notizia che il Giudice per le indagini preliminari ha smentito clamorosamente la procura, non ha convalidato il fermo, ha disposto gli arresti domiciliari per il caposervizio della struttura, ha addirittura scarcerato il gestore dell’impianto e il direttore di esercizio. La pm, anziché prendere, incassare e portare a casa, ha replicato: «Non è una sconfitta sul piano investigativo, valuteremo se altri dipendenti erano consapevoli della manomissione».

Non ne faccio una questione di merito (staremo a vedere gli ulteriori sviluppi dell’indagine senza alcuna smania giustizialista e con fame di verità), ma un problema di equilibrio e prudenza nel metodo. Detta brutalmente: se i giudici facessero il loro mestiere con maggiore riservatezza stando lontano dalle ribalte mediatiche, sarebbe una buona cosa. Si ha la sensazione che la magistratura oscilli clamorosamente fra le sbrigative accelerazioni indagatorie e le penose lungaggini processuali: della serie “ti sbatto in galera, poi col tempo si vedrà se eri colpevole o meno”.

Mi limito al discorso delle esternazioni a livello mediatico. È vero che ormai bisognerà rassegnarsi a cambiare l’articolo uno della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica fondata sulle chiacchiere”, perché non c’è categoria di persone esente dal vizio di parlare troppo e a vanvera. Gli scienziati danno continuamente aria ai denti, i politici non fanno altro che parlare senza concludere un cavolo, i magistrati, che dovrebbero parlare con provvedimenti ufficiali e sentenze, cadono nella tentazione di amministrare la giustizia davanti alle telecamere più che nelle sedi giudiziarie, facendosi condizionare dalle istintive reazioni dell’opinione pubblica. Sarebbe ora di fare un salutare bagno di autonomia e sobrietà.

Non mi si dica che il tutto rientra nel rispetto del diritto all’informazione. Mi sembra che questo andazzo non faccia tanto informazione quanto confusione. Se ad una persona vuoi togliere l’appetito ingozzala di cibo…I regimi dittatoriali o autoritari risolvono il problema applicando la censura ed orchestrando la disinformazione. I sistemi democratici dovrebbero basarsi sul senso di responsabilità, soprattutto da parte di chi svolge funzioni pubbliche. Il marcio nella nostra società esiste e sarebbe da criminali nasconderlo sotto il tappeto, ma non si pulisce nemmeno spargendolo o illudendosi di concentrarlo sulle prime esperienze che vengono a tiro.

“È palese, al momento della richiesta di convalida del fermo e di applicazione della misura cautelare, la totale mancanza di indizi a carico di Nerini e Perocchio che non siano mere, anche suggestive supposizioni”, si legge nell’ordinanza, che parla di un quadro indiziario già “scarno” e ancor più “indebolito” dagli interrogatori di garanzia.

Ho letto alcuni passaggi dell’ordinanza del gip, che peraltro mi è sembrata molto ben argomentata: come minimo, dei tre mostri sbattuti in prima pagina due non sarebbero dei mostri e le loro eventuali responsabilità sarebbero tutte da dimostrare e per uno sarebbe pacifica l’assenza del pericolo di fuga. Il provvedimento demolisce letteralmente la frettolosa indagine della procura arrivando a ritenere palesemente irrilevante il riferimento fatto dalla procura stessa al clamore mediatico sollevato dalla vicenda, che “non si può certo far ricadere sulla persona dell’indagato”. Forse sono in vena di autoincensazione (d’altra parte mio padre affermava sarcasticamente: «L’importansa s’a t’ spét ch’ a t’ la daga chiätor…bizoggna ch’a te tla dàgh da ti»), ma mi pare la canonica formulazione dei miei immediati e incompetenti dubbi sulla conduzione dell’indagine, condizionata dall’ansiosa ricerca di un capro espiatorio.

La procuratrice Bossi non ha recepito la lezione ed è tornata pedissequamente alla carica: “Non la vivo come una sconfitta sul piano investigativo, perché l’aspetto più importante è che il giudice abbia condiviso comunque la qualificazione giuridica dei fatti. Il fatto che in questo momento non ci siano sufficienti indizi per applicare la misura cautelare, non significa che non ce ne saranno in futuro, questo è il punto. Noi continueremo ad indagare in quel senso, perché anche da un punto di vista logico di dinamiche imprenditoriali mi pare veramente poco credibile che tutti fossero a conoscenza di queste prassi tranne il proprietario. Cercheremo altri riscontri. A breve potrebbero essere iscritti nel registro degli indagati nuovi dipendenti della società che gestisce la funivia. Valuteremo in che termini sapevano dell’uso dei forchettoni e se hanno consapevolmente partecipato o se si sono limitati ad eseguire indicazioni provenienti dall’alto”.

Mi è tornato alla mente un gustoso episodio della mia vita scolastica. L’insegnante di tecnica commerciale, durante un’interrogazione, aveva proposto la soluzione di un problema fornendo una serie di dati su cui costruirla. Il mio brillante compagno di classe si applicò con impegno e diede una sua articolata e plausibile risposta. Senonché la professoressa non tardò a svelare l’equivoco: la soluzione presupponeva la conoscenza di un dato che non era disponibile. L’interrogato ci rimase male e, con una reazione a metà fra l’ingenuità e la faccia tosta, si mise sulla difensiva dicendo: “Sì, d’accordo, ma qualora avessi conosciuto quel dato…”. L’insegnante fu magnanima e non interpretò la cosa come una presa in giro e si limitò a riprendere l’allievo, evocandone ripetutamente il cognome con un tono di voce fra lo spazientito e l’ironico. Da quel giorno nella mia classe, quando si voleva sgattaiolare fuori del seminato e rispondere pero per pomo, si diceva: “Sì, ma qualora…”. Mi sembra che la procuratrice Bossi abbia risposto al gip che le faceva osservare la debolezza delle indagini con un “Sì, ma qualora ci fossero le prove…”.