La società a rischio impazzimento

In Italia si rischia di morire di povertà per mancanza di lavoro e si rischia di morire sul lavoro: è un doppio e paradossale rischio, che fissa i confini drammatici entro cui si colloca il problema. Non manca altro che si cominci a morire anche per manifestazioni in difesa del lavoro.

Riprendo le note di cronaca (dal quotidiano La Stampa) di un increscioso ed inquietante fatto verificatosi a Biandrate nel Novarese, dove è morto un sindacalista travolto da un camion, che ha forzato il blocco stradale conseguente ad una manifestazione davanti al deposito territoriale della lidl. Adil Belakhdim, 37 anni, era responsabile Si Cobas del Novarese. L’autista è stato fermato per omicidio stradale, resistenza e omissione di soccorso. I sindacati hanno proclamato due giorni di sciopero.

Adil Belakhdim aveva lavorato alla Tnt di Peschiera Borromeo, dove era già inserito nel sindacato, e da un paio d’anni era coordinatore dei Si Cobas per il Novarese. Era andato a Biandrate, davanti al magazzino della Lidl, con i colleghi per coordinare la manifestazione. «Il camion ha forzato il presidio all’esterno del magazzino investendo i lavoratori, tra cui il coordinatore» hanno scritto su Facebook i SiCobas poco dopo l’incidente. E la stessa ricostruzione si apprende dai colleghi e dai sindacalisti presenti sul posto.

Ci sarebbe stato un diverbio tra il conducente del camion che ha poi investito e ucciso il sindacalista e i manifestanti – sembra una ventina in tutto – che si trovavano davanti al cancello del deposito della Lidl questa mattina. Poi il conducente, racconta uno dei manifestanti, ha ingranato la marcia.

Secondo quanto ricostruito da polizia e carabinieri, il camion incolonnato dietro ad altri mezzi dentro l’area del centro distribuzione Lidl ha improvvisamente sterzato prendendo contromano la corsia di entrata, «nonostante i manifestanti fossero davanti al veicolo e visibili dall’abitacolo». Non si è fermato nonostante le proteste dei manifestanti e l’intervento degli agenti della Digos che hanno mostrato il tesserino. Superando i cancelli, ha curvato a destra per immettersi sulla carreggiata costringendo i manifestanti davanti al mezzo a scansarsi e ha travolto Adil Belakhdim. Si è poi allontanato e solo al casello di Novara Ovest si è fermato per chiamare il 112.

«Filcams, Fisascat e Uiltucs hanno denunciato alla Lidl da tempo le condizioni lavorative chiedendo risposte e soluzioni che sono state puntualmente disattese e questo ha influito sul clima di esasperazione, ma non si può morire mentre si esercita il diritto a manifestare e non si devono mettere i lavoratori contro i lavoratori» scrivono i sindacati novaresi in una nota.

Si registra anche una nota della Lidl: «Siamo estremamente dispiaciuti per il drammatico incidente e vogliamo esprimere il nostro più’ sincero e profondo cordoglio alla sua famiglia in questo triste momento». L’azienda precisa che l’incidente «ha visto coinvolto un mezzo e un autista di un fornitore di merci terzo, non dell’azienda, nei pressi del centro logistico di Biandrate. La manifestazione nazionale alla quale il funzionario dei Si Cobas stava partecipando era stata indetta per rivendicazioni nel settore logistico. In questo contesto, l’azienda ricorda che applica a tutti i circa 2.500 lavoratori delle 10 piattaforme logistiche in Italia non il contratto della logistica, ma il Ccnl della distribuzione moderna organizzata, insieme ad un ulteriore contratto integrativo. L’azienda ribadisce che da sempre sono in essere costanti relazioni con le principali organizzazioni sindacali, orientate al dialogo e al confronto reciproco».

Il fatto è gravissimo in sé e per quanto significa, vale a dire un rischio di impazzimento vero e proprio della situazione sociale. Non intendo criminalizzare nessuno, né soffiare sul fuoco, ma solo sfoderare tutta la mia sensibilità sociale. Era prevedibile che il post-pandemia, toccando nel vivo della carne lavorativa della gente, sfociasse in un clima di esasperata e confusa protesta. Bisogna che tutti si adoperino per creare un clima di dialogo entro cui affrontare gli enormi problemi del lavoro. Al riguardo vale la pena rispolverare, magari anche sconclusionatamente, un po’ di memoria storica.

Ricordiamoci della strage di Reggio Emilia: è un fatto di sangue avvenuto il 7 luglio 1960 nel corso di una manifestazione sindacale durante la quale cinque operai reggiani, i cosiddetti morti di Reggio Emilia, Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri e Afro Tondelli, tutti iscritti al PCI, furono uccisi dalle forze dell’ordine.

Ricordiamoci della “Cacciata di Lama”, vale a dire della contestazione che il 17 febbraio 1977 il movimento degli studenti rivolse al segretario della CGIL Luciano Lama durante un comizio sindacale, che questi stava tenendo presso l’Università La Sapienza di Roma.

Ricordiamoci dell’uccisione a tradimento di Guido Rossa, operaio sindacalista dell’Italsider di Cornigliano (GE). Nel 1979 venne ucciso al volante della sua auto da un commando di tre terroristi, appartati nei pressi. Militante della Cgil, circa tre mesi prima Guido Rossa aveva denunciato e fatto arrestare un fiancheggiatore delle Brigate rosse, attivo all’interno dell’azienda. L’omicidio venne rivendicato dalle Brigate rosse con una telefonata al «Secolo XIX». Ricordiamoci dei sindacalisti uccisi nelle lotte in favore dei lavoratori sfruttati e anche di quelli considerati collaborazionisti del regima capitalistico.

Ricordiamoci degli infortuni sul lavoro: 306 morti nel primo quadrimestre del 2021, il 9,3% in più rispetto allo stesso periodo del 2020. Ricordiamo che dal 2020 sono in condizione di povertà assoluta poco più di due milioni di famiglie (7,7% del totale da 6,4% del 2019) e oltre 5,6 milioni di individui (9,4% da 7,7%). Per quanto riguarda la povertà relativa, le famiglie sotto la soglia sono poco più di 2,6 milioni (10,1%, da 11,4% del 2019). Ricordiamo che Il numero di persone in cerca di lavoro cresce continuamente e in modo generalizzato. Il tasso di disoccupazione sale soprattutto tra i giovani e le donne.

«Sono molto addolorato per la morte di Adil Belakhdim. É necessario che si faccia subito luce sull’accaduto». Così il premier Mario Draghi, a margine del suo arrivo a Barcellona dove ha meritatamente ricevuto il «Premio alla costruzione europea». Ho la netta impressione che non basti e che serva avviare una maxi-concertazione tra governanti e parti sociali. Nei passaggi storici fondamentali occorrono grandi interventi prima che sia troppo tardi.

 

 

 

Sindaci alias cosmetici magistrali

L’art. 49 della Costituzione Italiana dice che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Pertanto il metodo democratico sembra riferito alla sola competizione esterna fra partiti ed in effetti al di là del tira e molla dei movimentismi vari, al di là delle ricorrenti allergie verso il sistema piuttosto autoreferenziale messo in piedi nel tempo, i partiti rimangono la strada maestra per camminare su un sentiero realistico ed affidabile di partecipazione democratica.

In questo periodo si fa un gran parlare delle prossime elezioni amministrative in vari ed importanti comuni. Le elezioni comunali 2021 si terranno in una data compresa tra il 15 settembre e il 15 ottobre nei comuni con scadenza naturale del mandato degli organi eletti nel 2016 ed in quelli alle elezioni anticipate perché commissariati o per altri motivi. Andranno alle urne gli elettori di 1.335 comuni, di cui 1.147 appartenenti a regioni a statuto ordinario e 188 a regioni a statuto speciale. Alle urne ventuno comuni capoluogo di provincia (Benevento, Bologna, Carbonia, Caserta, Cosenza, Foggia, Grosseto, Isernia, Latina, Milano, Napoli, Novara, Pordenone, Ravenna, Rimini, Roma, Salerno, Savona, Torino, Trieste e Varese), di cui sei sono anche capoluogo di regione (Bologna, Milano, Napoli, Roma, Torino e Trieste). Superano i 100.000 abitanti le seguenti città: Bologna, Foggia, Latina, Milano, Napoli, Novara, Ravenna, Rimini, Roma, Salerno, Torino e Trieste.

Siamo in presenza di un campione elettorale molto significativo e di un test piuttosto attendibile per le forze politiche in campo. Non ho idea di quanto influirà il clima pandemico su questa consultazione a livello di partecipazione e di orientamento nel voto. Partiti e coalizioni sono alla spasmodica ricerca delle candidature a sindaco. I sindaci infatti vengono eletti direttamente dal popolo e quindi occorre trovare personaggi dotati di particolare appeal verso gli elettori.

Molti commentatori ritengono l’elezione diretta dei sindaci una importante riforma capace di ammodernare e potenziare il sistema democratico al punto da proporla come paradigma per la revisione complessiva della legge elettorale. Sono sempre stato, e lo sono tuttora, molto scettico sulla portata politica del sistema elettorale e sulla sua taumaturgica influenza. Mi sento legato al dettato costituzionale e ritengo che la politica la debbano fare sostanzialmente i partiti, prima e al di là degli schemi elettorali mutevoli nel tempo e nello spazio.

Non mi convincono ad esempio i discorsi su “preferenza sì- preferenza no”, su “maggioritario o proporzionale”: la questione fondamentale è la capacità dei partiti di esprimere e proporre ai cittadini una classe dirigente all’altezza della situazione. Scegliere tra una ventina di candidati buoni a nulla non risolve il problema dei buoni a nulla. Preferisco giudicare e scegliere il partito sulla base delle candidature che esprime e non bypassare il partito andando dritto sulla scelta del candidato di turno. Essere costretti a votare fra due coalizioni contrapposte, magari raffazzonate per l’occasione, non risolve il problema della frammentazione partitica, lo nasconde al momento del voto per esserne pesantemente condizionati durante la legislatura.

Anche la tanto osannata e invasiva scelta dei sindaci la giudico un escamotage per mettere a posto la coscienza sporca dei partiti: lo dimostrano le grandi manovre di mero carattere cosmetico volte a trovare non le persone migliori, ma quelle che meglio camuffano e coprono le insufficienze dei partiti  e che confondono la politica con la mera rappresentanza delle istanze della società civile andando alla ricerca di personaggi capaci di mettere d’accordo le capre partitiche con i cavoli pseudo-sociali.

Sia destra che a sinistra si è alla ricerca di candidature che confondano le carte e buttino negli occhi sbarrati dei cittadini il fumo di impossibili personaggi nuovi di zecca, capaci di risolvere più la competizione interna ai partiti ed alle loro coalizioni che il confronto aperto sui programmi e sulle idee. La personalizzazione dei discorsi politici va benissimo quando va di pari passo con la statura dei leader, ma è rischiosa quando serve a deviare e concentrare sui parvenu un dibattito che dovrebbe essere ben più ampio e profondo dell’appeal elettorale di tizio o caio.

Ecco perché seguo con molto scetticismo e poca fiducia il bailamme delle candidature a sindaco: il centro-destra le sta utilizzando per risolvere in qualche modo il dissidio latente sull’identità programmatica di un coacervo di forze così diverse, ma, tutto sommato, così simili. Il centro-sinistra sta cercando l’ago sindacale nel pagliaio di un patto elettorale tra un PD evanescente ed un M5S sempre più inesistente e allo sbaraglio.  A destra si sta cercando la quadra tra la incredibile conversione moderata di Matteo Salvini e la populistica verve di Giorgia Meloni, come se bastasse un magistrato in Campidoglio per placare il dissidio esistenziale di una destra in perenne confusione democratica. A sinistra Enrico Letta e Giuseppe Conte stanno cercando di andare d’accordo bisticciando sulle candidature, come se bastasse confermare o rottamare Virginia Raggi per trovare un minimo comune denominatore fra troppe f(r)azioni partitiche.

 

L’esame di (im)maturità alla scuola

Ha fatto benissimo il ministro Bianchi a rassicurare gli studenti affermando che per la maturità 2021 non è previsto un esame facilitato di serie b, modificato nelle sue procedure a causa dell’emergenza sanitaria. Per la verità il discorso delle continue modifiche è in atto da parecchio tempo: la quadratura del cerchio di una scuola che necessiterebbe di una profonda riforma per la quale si continua imperterriti a partire dalla fine.

I maturandi di quest’anno, come i ragazzi che hanno affrontato la prova lo scorso giugno, non dovranno passare per le due prove scritte – una di italiano e una sulle materie di indirizzo – ma si ritroveranno a dover superare soltanto l’esame orale, soprannominato “maxi-orale” per enfatizzare la sua rilevanza in quanto unica prova dell’esame di Maturità 2021.

Se ho ben compreso, lo studente porterà all’attenzione della commissione d’esame una sorta di tesina inerente la specificità del suo indirizzo di studi e farà un colloquio di circa un’ora, che oltre approfondire i contenuti di tale elaborato, verterà sui nodi concettuali caratterizzanti le diverse discipline, sulle eventuali esperienze didattiche particolari effettuate, sulle competenze e conoscenze acquisite nell’ambito dell’educazione civica e su tutto il curriculum ed il percorso scolastico.

Anche se non voglio passare da nostalgico della scuola e dell’esame di maturità di vecchia maniera, non posso esimermi dal rammentare come alla verifica finale si arrivasse portando i programmi, talora pluriennali, di tutte le materie di insegnamento sui quali si affrontavano ben quattro prove scritte (un tema di italiano, esercizi sulle discipline tipiche, una prova di lingua straniera) per poi fare colloqui sulle singole discipline (per ognuna circa mezz’ora). Un vero e proprio redde rationem articolato, approfondito, anche se molto nozionistico, sull’intero percorso scolastico: un esame massacrante!

Poi, strada facendo, il tutto è stato via via semplificato ben prima e al di là dell’emergenza sanitaria del 2020 e 2021. Se era molto discutibile la vecchia impostazione selettiva e nozionistica, che, per la verità, rispecchiava la scuola che si frequentava in quel periodo, altrettanto e ancor più discutibile è la nuova impostazione dell’esame, che, per la verità rispecchia la scuola attuale, che non saprei come definire se non un compromesso fra nozionismo alleggerito, banale approfondimento culturale e fantomatica preparazione professionale.

La montagna quindi non può che partorire un topolino: non è l’esame di maturità ad essere a rischio, ma tutta la scuola che lo precede. È pur vero che la scuola non la fanno le leggi, i ministri ed i programmi, bensì gli insegnanti che dovrebbero essere degli educatori veri e propri sulla base delle materie di loro competenza e nella combinazione fra di loro. Sono loro i protagonisti di una commedia col copione piuttosto debole, con registi preoccupati della burocrazia, con gli studenti distratti e deconcentrati da una società facilona, con le famiglie a fucile spianato, con uno stipendio (quasi) ridicolo, con i sindacati della scuola che difendono gli assenteisti e i fannulloni, etc. etc.

I giovani devono mettersi in testa alcune idee precise e scomode. Come ha recentemente ricordato il Presidente della Repubblica, innanzitutto a scuola si va per studiare con impegno e spirito di sacrificio. In secondo luogo per aiutarsi reciprocamente, vale a dire per imparare a vivere e solidarizzare seriamente e non cameratescamente in comunità: è questo l’imperativo culturale e civico che dovrebbe costituire il respiro del polmone scolastico. Di conseguenza ci si dovrebbe prepararsi a svolgere una professione con la quale acquisire un’autonomia socio-economica e prestare un servizio all’intera società.

Studiare quindi per imparare a vivere ed a lavorare, senza inseguire sogni di gloria, ma finalizzando il tutto ad un effettivo inserimento nel mondo del lavoro e, tramite esso, in tutti i rapporti umani e sociali. La scelta dell’indirizzo di studi non deve essere una mera rincorsa alle proprie fantasie, ma una ragionata predisposizione al vivere civile in tutti i suoi aspetti (lavoro innanzitutto). Se la scuola riuscirà ad aiutare e accompagnare i giovani in tal senso, avrà svolto il suo fondamentale compito, diversamente sarà una scuola di serie b, con maturità di serie b e con cittadini di serie b.

 

La teo-politica dei cattolici di destra

Riporto di seguito un pezzo ricavato da ATS ed elaborato da Patrick Stopper. “Il Vaticano ha ammonito i vescovi conservatori statunitensi a frenare le loro pressioni per negare la comunione ai politici che sostengono i diritti all’aborto, tra cui il presidente Joe Biden, secondo leader alla Casa Bianca a essere cattolico praticante.

Ma, nonostante ciò, i vescovi americani insistono e si prevede che impongano un dibattito e forse un voto in materia in una conferenza virtuale che potrebbe scavare un solco tra la Santa Sede e la Chiesa cattolica degli Usa. Lo scrive il New York Times (Nyt).

La “crociata” è guidata da alcuni vescovi le cui priorità sono chiaramente allineate con quelle dell’ex presidente Donald Trump e che vogliono ribadire la centralità dell’opposizione all’aborto nella fede cattolica dettando una linea dura.

Tra loro l’arcivescovo José Gomez di Los Angeles, presidente della conferenza episcopale statunitense, che il pontefice non ha mai promosso al rango di cardinale. «La preoccupazione in Vaticano è di non usare l’accesso all’eucarestia come arma politica» spiega al Nyt Antonio Spadaro, direttore di Civiltà cattolica, gesuita molto vicino al pontefice. Papa Francesco ha detto questo mese che la comunione «non è la ricompensa dei santi ma il pane dei peccatori».

E il cardinale Luis Ladaria, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, ha scritto una lettera ai vescovi americani avvisandoli che un voto su tale questione potrebbe «diventare una fonte di discordia piuttosto che unire l’episcopato e allargare la chiesa negli Stati Uniti».

Questi balzi all’indietro mi fanno letteralmente venire la pelle d’oca. Non si tratta infatti solo di meri rigurgiti reazionari pretestuosamente coperti da principi religiosi, ma di una vera e propria cattolicità che vuole ritornare acriticamente al passato: di qui l’astio verso papa Francesco individuato come il nemico modernista da abbattere.

La rivista “Missioneoggi”, bimestrale dei missionari saveriani, pubblica un interessante dossier intitolato “il dio dei cattolici di destra”, che passa in rassegna le spinte esistenti all’interno del cattolicesimo in combutta con trumpismo, bolsonarismo e nazionalismo polacco. Massimo Faggioli, professore nel dipartimento di Teologia e scienze religiose nella Villanova University (Filadelfia), all’interno di questo dossier scrive: “Quella dei vescovi, preti e teologi cattolici, che simpatizzano con l’eversione del sistema costituzionale è una sintomatologia che non va sottovalutata né ridotta a materiale da satira. Chi ha contatti con la giovane generazione dei cattolici engagé in America dovrebbe aver notato che il post-liberalismo radicale di sinistra come anche l’anti-liberalismo e l’illiberalismo di destra non provengono solo da pochi intellettuali marginali, ma hanno messo radici. L’anti-liberalismo cattolico fa parte di un fenomeno più ampio, una nuova ricerca dell’identità cattolica che assume varie forme. Può essere espresso come entusiasmo per la messa tridentina e disgusto per il Novus ordo della riforma liturgica conciliare. Oppure può assumere la forma di un interesse per le comunità contro-culturali, nella versione della Benedict option o in altre opzioni di ripiegamento strategico per preparare la riscossa. Ma può anche assumere la forma di un’immaginazione teo-politica che rifiuta la democrazia liberale a favore di una nuova cristianità medievale in salsa post-moderna”.

Il discorso dell’aborto e della comunione ai politici che ammettono questo istituto giuridico è solo una “scoperta copertura” di un disegno ben più ampio ed articolato di carattere politico-religioso.  Anche Biden sarebbe nel mirino di questi cattolici anti-liberali che cavalcano l’America conservatrice.

Nell’ambito del cattolicesimo di destra, pericolosissime sono le tesi portate avanti da padre Paulo Ricardo, intellettuale ultracattolico del bolsonarismo brasiliano, il quale per sviluppare la sua tesi non esita a schierarsi a favore della liberalizzazione del possesso delle armi, usando il caso estremo della violazione della proprietà privata e affermando: “Cosa devi fare, se un ladro entra in casa tua, stupra tua figlia, tua moglie, e sperpera i tuoi beni? Dirai che sei per la pace? Avrai il coraggio di guardare tua figlia, tua moglie, e di dire loro: ‘Scusa, non ho reagito, non perché ho avuto paura, ma perché sono un pacifista’?”.

Per padre Paulo (e i bolsonaristi) la pandemia fa parte di una “isteria” collettiva” e serve come “pedagogia divina”: le sofferenze che ora stiamo attraversando sono piccole prove […] della grande tribolazione: discorsi che rasentano una vera e propria crudeltà teologica a servizio del più brutale dei conservatorismi.

Due brevi e provocatorie riflessioni. La prima è di metodo: cosa aspetta il Vaticano a mettere ordine in tale ginepraio pseudo-teologico? Forse, tutto sommato, questo oltranzismo cattolico, ammantato di falsa dottrina e politicamente destrorso, fa comodo: sono i tirapugni che si combinano  coi guanti di velluto delle sacre stanze. Molto più immediate e implacabili le scomuniche per i teologi della liberazione e per i profeti a favore dei poveri… Succede come nei contrasti alla violenza: molta decisione, al limite della cattiveria, con i contestatori che difendono i diritti degli ultimi e molta comprensione verso gli ultras degli stadi…

La seconda è di merito. Direbbe don Andrea Gallo a questi fanatici anti-abortisti: «State a sentire, non incastriamoci nei principi. Se mi si presenta una povera donna che si è scoperta incinta, è stata picchiata dal suo sfruttatore per farla abortire o se mi arriva una poveretta reduce da uno stupro, sai cosa faccio? Io, prete, le accompagno all’ospedale per un aborto terapeutico: doloroso e inevitabile. Le regole sono una cosa, la realtà spesso un’altra. Mi sono spiegato?».

E ai cattolici di destra in cerca di un dio a loro uso e consumo risponderebbe: «Non mi curo di certe sottigliezze dogmatiche perché mi importa solo una cosa: che Dio sia antifascista!».

 

 

Il suo nome è Draghi Mario, ma non chiamiamolo drago

Era da tempo che non si registrava un così evidente, anche se giustamente discreto, protagonismo dei governanti italiani a livello europeo e mondiale. Mi riferisco alla recente partecipazione di Mario Draghi al G7 e al vertice Nato nonché al faccia a faccia col presidente americano Biden. Non si tratta di un presenzialismo di stampo berlusconiano, spettacolare al limite del pagliaccesco, ma di una sobria partecipazione in stile degasperiano, ancorata alle scelte storiche fondamentali dell’Italia, vale a dire, europeismo e atlantismo, fermamente ribadite e coniugate col dialogo aperto a tutti gli interlocutori senza rinunce valoriali ed appiattimenti extra-occidentali.

Se, come diceva Pietro Nenni, le idee camminano sulle gambe degli uomini, anche la politica, pur fondandosi sulle idee, ha bisogno di essere incarnata nelle persone investite democraticamente dei ruoli istituzionali. Non sembri superfluo ribadire fedeltà ai principi dell’europeismo in un periodo in cui l’Europa appare indebolita dalla Brexit, in chiara difficoltà nella gestione unitaria delle tremende sfide sul tappeto, intaccata dai tarli del sovranismo e populismo striscianti. Non appaia stucchevole il forte richiamo all’atlantismo quale ancoraggio ai valori democratici occidentali dopo le scriteriate spinte autarchiche del trumpismo e dei suoi ammiratori più o meno allineati e scoperti.

È proprio nei momenti di più grave difficoltà economica e di smarrimento sociale che urge riscoprire l’ancoraggio ai principi basilari, che dovrebbero guidare il progresso nel dialogo e nella collaborazione fra gli Stati ed i popoli. Sono state dette parole chiare, anche se pacifiche, per quanto concerne i rapporti con Cina e Russia, obbligati ma difficili interlocutori dell’Europa e degli Usa. Niente strizzate d’occhio diplomatiche, niente indulgenze valoriali, niente opportunismi affaristici, ma dialogo nel rispetto delle reciproche autonomie.

Ammetto di essermi sentito rassicurato dalle conclusioni emergenti dagli appuntamenti internazionali in cui l’Italia ha giocato pienamente e finalmente il ruolo che le compete. Merito soprattutto di un Mario Draghi in splendida forma, per nulla logorato dai tira e molla pandemici, per nulla indebolito dall’armata Brancaleone che lo sostiene obtorto collo in patria, per nulla distratto dagli elogi strumentali del continuismo di regime e dalle critiche aprioristiche dell’ideologismo datato, per nulla condizionato dagli ondivaghi atteggiamenti provenienti da una destra spiazzata e da una sinistra in pena, per nulla ringalluzzito dai consensi interni ed internazionali.

Mio padre, quando qualcuno si pavoneggiava e si dava un contegno, tenendo, come si suol dire, su le carte, ammetteva sconsolatamente: «L’importansa s’a t’ spét ch’ a t’ la daga chiätor…bizoggna ch’a te tla dàgh da ti». Mario Draghi non brilla di luce riflessa, non ha bisogno di cercare le lodi altrui e tanto meno di auto-incensazioni: non è l’uomo della provvidenza, ma l’uomo giusto nel posto giusto e al momento giusto. Il che non significa che sia un governante perfetto, ma solo un autorevole e credibile Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana, che, ai sensi dell’articolo 95 della Costituzione, “dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”.

Le critiche si possono, anzi si devono fare, possibilmente senza picconare un personaggio che merita grande rispetto e collaborazione. Sono il primo ad ammettere che non abbia brillato nella gestione dell’emergenza pandemica e della procedura vaccinale, che faccia molta fatica a trovare una linea equilibrata e solidale nella gestione dell’immigrazione, che sia più capace di raffreddare i catastrofismi che di scaldare i cuori. Potrei continuare sfogando tutta la mia innata verve critica. Poi però mi dovrei fermare perché sentirei il fiato di mio padre sul collo che mi bisbiglierebbe all’orecchio: At pàr von ‘d coi che all’ostaria con un pcon ad gess in sima la tavla i metton a post tutt; po set ve a vedor a ca’ sova i n’en gnan bon ed far un o con un bicer…”.

 

Quando può servire prendere paura

Il calcio non è un fenomeno di coesistenza pacifica, prevede scontri abbastanza forti, con un agonismo acceso che coinvolge anche il pubblico. É chiaro che il pubblico non può essere distaccato e inamidato, è partecipe, qui sta il bello. Ma ci devono essere dei limiti e qui sta il difficile. Solo una volta, mi è capitato di vedere il pubblico in controtendenza rispetto all’eccesso di agonismo in campo. Vale la pena aprire questa piccola parentesi. Durante una partita di serie A tra Parma e Sampdoria, la tensione in campo stava assumendo dimensioni pericolose, l’arbitro stentava a controllare la gara, i giocatori tra falli e reazioni stavano veramente esagerando. C’era di che preoccuparsi, ma entrarono in campo (si fa per dire) le due tifoserie che dalle curve contrapposte si scambiarono cori di incitamento e di simpatia reciproci (i sampdoriani gridavano: Parma! Parma e i parmensi rispondevano: Doria! Doria!). Tutto il pubblico capì ed applaudì intensamente. I giocatori furono contagiati da tanto fair play e la partita si incanalò sui binari dell’assoluta correttezza. Confesso di essere rimasto colpito ed emozionato dall’episodio.

Tifosi danesi e finlandesi insieme, per Eriksen, il giocatore danese crollato in campo per un improvviso quanto drammatico arresto cardiaco. Lo stadio ammutolisce, ma quando alle 19.38 arriva la notizia che il giocatore ricoverato in ospedale, dopo il malore in campo e la grande paura, è sveglio e fuori pericolo lo stadio si rianima. La Uefa comunica che, su richiesta del giocatore, la partita riprenderà (purtroppo la recita deve continuare). E dagli spalti i tifosi intonano, insieme, un coro bellissimo. I finlandesi urlano “Christian”, e i danesi rispondono “Eriksen”. Un momento da brividi.

Ho appena sparato a zero contro l’approccio retorico al campionato itinerante europeo di calcio per nazioni. Non vorrei cadere nell’errore uguale ma opposto. Mi sembra tuttavia il caso di prendere in seria considerazione l’accaduto di cui sopra per farsi qualche domanda.

Il tifoso, quindi, tutto sommato, è ancora capace di ragionare e di far prevalere le ragioni del cuore su quelle del fegato.  Resta inquietante il perché occorrano fatti tragici per riportare il tifoso alla ragione.

Ero un ragazzino e andavo allo stadio in compagnia di mio padre. Durante una fase particolarmente concitata di un match, in occasione di un affondo pericoloso dell’attacco parmense, un giocatore si trovò quasi a scontrarsi col portiere avversario ed in quel preciso momento scattò una frase urlata, di quelle strozzate in gola, cattive quanto assurde, che incitava, si fa per dire, l’attaccante nei confronti del portiere: “Dai, masol!”. Per fortuna il giocatore del Parma, che forse non sentì neanche l’urlo, si comportò da persona seria, desistette dall’intervenire e, come si dice in gergo, saltò il portiere. Bene così. Ma a mio padre non sfuggì quell’urlo violento proveniente da un tifoso alle nostre spalle, riuscì ad individuarlo con assoluta precisione e ad apostrofarlo con una battuta amara, una domanda retorica: “Mo ti, pr’un balón, masòt un òmm? Mo sit stuppid?” L’interessato farfugliò una risposta più assurda dell’urlo in questione, non la ricordo bene e non cerco neanche di ricordarla, perché l’unica risposta sarebbe stato il silenzio. Ed io rimasi in silenzio, ma registrai questa reazione sconfortata di mio padre e la memorizzai per quello che valeva. Con tre parole era riuscito a bollare il fenomeno della violenza in campo e sugli spalti, aveva ammonito quel tifoso con un cartellino paonazzo, più che rosso, una squalifica a vita.

Qui tutti devono fare una cura dimagrante: dei tifosi ho detto. Per i calciatori voglio aggiungere che l’impostazione professionistica della loro attività sportiva non può e non deve essere un imperativo affaristico che scavalca l’etica alla luce di un esibizionismo spinto e di un profitto eccessivo. Il malore capitato ad Eriksen è lì a dimostrare la precarietà e relatività di un mondo caratterizzato dal successo ad ogni costo. Siamo uomini o calciatori?

La cura però non riguarda solo spettatori e attori. Spostiamoci nel tempo, andiamo indietro di 40/50 anni. Non esistevano le TV a pagamento, la RAI, unica emittente, trasmetteva qualche partita, difficilmente in diretta, non c’era il rischio dell’attuale sbornia televisiva con le telecamere a scrutare ed a moviolare ad libitum, non esistevano i salotti televisivi pre e post partita, di cronista c’era Nicolò Carosio e poco più, ben lontani dalle attuali schiere di giornalisti, commentatori tecnici, esperti, moviolisti, combinati in polpettoni stomachevoli che alla fine riescono a falsare l’avvenimento (altro che i quasi goal di Carosio). Scusate se insisto, ma è l’occasione per pulirmi un po’ in bocca, per ridicolizzare quanto succede in TV durante un incontro di calcio: un gruppo di giornalisti ed esperti nello studio centrale, altri nello studiolo sul posto, un duetto per il pre-partita, un duetto per la cronaca, con altri due cronisti a commentare le inutili urla degli allenatori, una equipe per commenti e interviste durante l’intervallo ed alla fine. A parte il costo di tali sovrastrutture, che qualcuno direttamente o indirettamente paga (canone, pubblicità, pay-tv, etc. etc.) non so fino a quando, non sono sicuro che il povero telespettatore al termine ricordi il risultato dell’incontro, stordito dalla sarabanda di commenti, immagini (replay che si sovrappongono alla diretta), critiche, schemi di gioco, interviste, pareri etc. etc. Ebbene, nel periodo oggetto dei miei ricordi la culla del calcio era lo stadio, la sede naturale ed unica era il terreno di gioco circondato dalle gradinate più o meno gremite di pubblico. Calcio e stadio: il binomio entro cui si svolgeva l’avvenimento agonistico, con i due fronti contrapposti di protagonisti, i giocatori da un lato il pubblico dall’altro. Tutte le altre, a mio giudizio, sono interferenze più o meno fastidiose (dagli spot pubblicitari in giù). Ed eccoci alla cura dimagrante a livello mediatico: basta enfasi, basta retorica, basta chiacchiere inutili, basta calcio (s)parlato, basta!

Occorre lo spettro della morte di un protagonista per ridimensionare un fenomeno assurdamente gonfiato? Si è sfiorata la tragedia. Non penso sia direttamente ascrivibile a colpe, comunque servirà o sarà soltanto l’occasione per mettere momentaneamente a posto la coscienza e riprendere in fretta e furia i soliti schemi? Passata la paura, tutto tornerà come prima? Con tutto il rispetto, la comprensione e l’ammirazione per la carriera calcistica di Christian Eriksen (persona peraltro assai seria, controllata e disciplinata), non mi chiedo tanto se e quando lui potrà riprendere l’attività, mi chiedo se e quando il calcio tornerà ad essere il più bel gioco del mondo e non il più brutto caleidoscopio affaristico per molti e il più snervate sfogatoio individuale e sociale per troppi.

 

Il papa di picche

E così papa Francesco, come potevasi immaginare, ha respinto le dimissioni presentate dal cardinale Reinhard Marx, il quale con questo gesto aveva chiesto di lasciare come risposta alla crisi degli abusi, che a suo dire chiederebbe una profonda riforma nella Chiesa. Il papa, al termine di una accorata lettera autografa scritta in spagnolo e subito diffusa, anche in una traduzione in lingua tedesca, dalla Sala Stampa vaticana, gli ha chiesto di rimanere alla guida dell’arcidiocesi di Monaco e Frisinga.

Nella mia povera e inconcludente vita sono stato spesso colpito da una sorta di “dimissionite acuta”: una sofferta e provocatoria spinta verso il doloroso rinnovamento del sistema in cui mi trovavo ad operare. Richiamo due esempi, uno ripreso dal mio impegno politico ed uno dalla mia esperienza professionale.

Quando decisi di uscire dalla Democrazia Cristiana, all’inizio della segreteria Forlani che portò l’Italia allo sfacelo (il famoso CAF), qualcuno cercò di convincermi a rimanere per non indebolire la componente interna di sinistra a cui da sempre aderivo. Risposi: “Con questo ragionamento si potrebbe ipotizzare paradossalmente una mia presenza nel Movimento Sociale Italiano (i fascisti di Almirante) per evitare che sia troppo di destra… Paradosso per paradosso è il ragionamento di chi sostiene che ci vuole più coraggio a continuare a vivere che a suicidarsi… Rispetto chi opera scelte diverse, ma pretendo altrettanto rispetto”.

Quando optai per il pensionamento anticipato (erano dimissioni belle e buone) rispetto al mio impegno professionale, motivato da gravi incompatibilità sistemiche di impostazione e gestione, mi arrivarono scarse solidarietà se non quelle dei colleghi più stretti. Mi colpì la reazione di chi si limitò a dare un giudizio estetico sulla lettera con cui abbandonavo il campo: un modo elegante per dirmi che comprendeva, ma non condivideva il metodo.

È sempre così: chi se ne va rischia di passare dalla parte del torto o comunque di non ottenere l’attenzione dolorosamente richiesta.

La risposta papale alle dimissioni del cardinale Marx, al di là dello scontato burocratico respingimento oserei dire dovuto, è evangelicamente sentimentale e toccante: “È urgente “esaminare” questa realtà degli abusi e di come ha proceduto la Chiesa, e lasciare che lo Spirito ci conduca al deserto della desolazione, alla croce e alla resurrezione. È il cammino dello Spirito quello che dobbiamo seguire, e il punto di partenza è la confessione umile: ci siamo sbagliati, abbiamo peccato. Non ci salveranno le inchieste né il potere delle istituzioni. Non ci salverà il prestigio della nostra Chiesa che tende a dissimulare i suoi peccati; non ci salverà né il potere del denaro né l’opinione dei media (tante volte siamo troppo dipendenti da questi). Ci salverà la porta dell’Unico che può farlo e confessare la nostra nudità: “Ho peccato”, “abbiamo peccato” … e piangere e balbettare come possiamo quell’“allontanati da me che sono un peccatore”, eredità che il primo Papa ha lasciato ai Papi e ai Vescovi della Chiesa. E allora sentiremo quella vergogna guaritrice che apre le porte alla compassione e alla tenerezza del Signore che ci è sempre vicino. Come Chiesa dobbiamo chiedere la grazia della vergogna, e che il Signore ci salvi dall’essere la prostituta spudorata di Ezechiele 16”.

Come al solito però papa Francesco è sistemicamente sgusciante, remissivo e finanche furbo, chiude il Vangelo in se stesso nella sua implacabile forza innovatrice e purificatrice a prescindere dalle strutture della Chiesa che lo dovrebbe testimoniare: “Il Signore non ha mai accettato di fare “la riforma” (mi si permetta l’espressione) né con il progetto fariseo, né con quello saduceo o zelota o esseno. Ma l’ha fatta con la sua vita, con la sua storia, con la sua carne sulla croce. E questo è il cammino, quello che tu, caro fratello, accetti nel presentare la rinuncia”.

Se il male c’è, lo si deve ammettere, ma non è consentito lasciare il terreno: “Mi piace come concludi la lettera: “Continuerò con piacere ad essere prete e vescovo di questa Chiesa e continuerò ad impegnarmi a livello pastorale sempre e comunque lo riterrà sensato ed opportuno. Vorrei dedicare gli anni futuri del mio servizio in maniera più intensa alla cura pastorale e impegnarmi per un rinnovamento spirituale della Chiesa, così come Lei instancabilmente ammonisce”.

E allora? Conclude il papa: “Questa è la mia risposta, caro fratello. Continua quanto ti proponi, ma come Arcivescovo di München und Freising. E se ti viene la tentazione di pensare che, nel confermare la tua missione e nel non accettare la tua rinuncia, questo Vescovo di Roma (fratello tuo che ti vuole bene) non ti capisce, pensa a quello che sentì Pietro davanti al Signore quando, a modo suo, gli presentò la rinuncia: “allontanati da me che sono un peccatore”, e ascolta la risposta: “Pasci le mie pecorelle”.

Pur riconoscendo di assistere ad un altissimo, edificante e benefico scambio dialogico e ad un confronto di esperienze di stupenda levatura, devo ammettere di rimanere perplesso: non trovo alcun riscontro concreto all’accorata richiesta di riforma del sistema ecclesiale, nemmeno un cenno a voler cambiare qualcosa di clamorosamente sporco e inadeguato. Posso permettermi in tal senso una provocatoria esemplificazione per chiedere almeno un piccolo gesto, che pur tuttavia rimane una specialità della ditta bergogliana: perché non fare un bel pranzo in Vaticano con tutti gli spretati e le loro eventuali compagne per discutere con loro di celibato sacerdotale?

Sono sicuro che papa Francesco non mancherà di elaborare qualche risposta concreta, ma tutto resta troppo legato al suo buon cuore: c’è gente che ha sofferto e che soffre e non può aspettare oltre. Non vorrei mai che tutto finisse nel solito facile dare ragione a chi ce l’ha per continuare tutto come se niente fosse. Sì, perché come dice un noto detto parmigiano, “La ragión la s’dà ai cojón”, mentre, però, il cardinale Marx non è affatto un coglione.

 

 

Il talebano del pallone

Nella sua accezione negativa la retorica è l’atteggiamento dello scrivere o del parlare, o anche dell’agire, improntato a una vana e artificiosa ricerca dell’effetto con manifestazioni di ostentata adesione ai più banali luoghi comuni.

Questa definizione, mutuata dal vocabolario, si attaglia perfettamente a quanto sta mediaticamente succedendo in merito ai campionati europei di calcio per nazioni: una stomachevole ed infinita strumentalizzazione di un evento calcistico trasformato in una penosa occasione di riscatto sociale post pandemico. Solo perché si sono scriteriatamente riaperti gli stadi, i tifosi hanno ripreso a sbraitare sugli spalti, la gente si distrae, i giornalisti sportivi ritrovano spazio per le loro inutili esibizioni.

“Ai colori giallo, arancione e rosso delle zone a rischio Covid abbiamo finalmente sostituito il colore azzurro della nazionale di calcio” così ha commentato un componente dell’esercito rai della perdizione calcistica: uno squallore emblematicamente collegato al peggior modo possibile e immaginabile di (non) voltare pagina. Decisamente insopportabile il clima che si è creato attorno a questo evento sportivo ed estremamente negativa la demagogica riscossa sistemica attorno alla nazionale, degna del peggior fascismo degli anni trenta.

Si sovrappongono e si incrociano lo spudorato rilancio del calcio, le cui sempre più profonde rughe affaristiche vengono accuratamente ricoperte dal fondo tinta nazionalistico, la penosa ripresa del consumismo pallonaro, i cui allocchi ritrovano finalmente “panem et circenses”, il respiro di sollievo di tutto il sottobosco calcistico, che ricicla il suo modo di essere inutile.

Il tutto condito dalla solita e sbracata scenografia celebrativa (almeno potevano risparmiarsi l’inflazionato “nessun dorma” di scomoda pucciniana origine), culminante nell’esecuzione dell’inno di Mameli sbraitato “alla viva il duce”. Quando è stato inquadrato dalle telecamere il canto ispirato del portierone Gigi Donnarumma, mi sono assentato per soddisfare un bisogno fisiologico: mi tocca di vedere questo insulso e ingordo giovanottone, che si atteggia a soldato della patria calcistica. Ma fatemi il piacere…

L’Italia doveva vincere e ha vinto la partita d’esordio con tanto di prematura esaltazione di Roberto Mancini, da tempo scelto come indiscutibile mascotte di un mondo in cerca di santi che scherzino coi fanti. I comunisti di vecchia data, quando l’Italia giocava contro l’Urss, tifavano per i nostri avversari: il povero Pascutti, che ebbe il torto di reagire ad un fallo sovietico facendosi espellere, fu letteralmente considerato un rospo da mettere alle sassate. Ebbene, lo ammetto, l’altra sera ho tifato per la Turchia (nonostante Erdogan), o meglio ho gufato contro l’Italia, sperando che potesse interrompersi sul nascere questa deriva retorica che ci sta inondando.

Vale la pena riprendere le ingenue esclamazioni di mia madre di fronte alla sarabanda degli uomini che ruotano attorno al calcio: “Co’ farisla tutta ch’la génta lì s’a ne gh’ fìss miga al balón?”. Non avrebbero più pane per i loro denti, il castello crollerebbe rovinosamente ed in effetti qualche grosso cedimento ha cominciato a verificarsi. Ed ecco allora il puntello del campionato europeo.

Il concetto, che aveva mio padre del fenomeno calcio, tagliava alla radice il marcio; viveva con il setaccio in mano e buttava via le scorie, era un “talebano” del pallone. Per evitarle accuratamente pretendeva che il dopo partita durasse i pochi minuti utili per uscire dallo stadio, scambiare le ultime impressioni, sgranocchiare le noccioline, guadagnare la strada di casa e poi…. Poi basta. “Adésa n’in parlèmma pu fìnna a domenica ch’ vén”. Si chiudeva drasticamente e precipitosamente l’avventura calcistica in modo da non lasciare spazio a code pericolose ed alienanti, a rimasticature assurde e penose. Avrebbe un bel daffare oggi, perché la partita non è giocata dai calciatori ma dai media prezzolati, che ne stanno facendo una infinita e smaccata operazione di regime, e perché il calcio è diventato un dopo-partita interminabile fine a se stesso, o meglio finalizzato a ben altro.

 

 

 

La realvaccinik

È morta Camilla Canepa, la diciottenne di Sestri Levante ricoverata sabato al San Martino di Genova dopo una trombosi al seno cavernoso e operata per la rimozione del trombo e per ridurre la pressione intracranica. Era stata vaccinata con il vaccino di AstraZeneca il 25 maggio nell’open day per gli over 18.

Ed ecco la solita diminutio scientifica (?): non è niente, un caso su 200mila non fa testo, non c’è di che allarmarsi! Scusate la scurrile franchezza, ma questo è un ragionamento del cazzo. C’è o non c’è il problema degli effetti deleteri sulla coagulazione del sangue dei vaccinati con astrazeneca, soprattutto le donne e i giovani? Se non lo si sa, si abbia il coraggio di ammettere che stiamo facendo solo ed esclusivamente una sperimentazione di massa. Se lo si sa e non lo si vuol dire per realvaccinik (non è la prima volta che tiro in ballo questo agghiacciante concetto), c’è da mettersi le mani nei capelli. Se ha prevalso la ragion di vaccino sul vaccino della salute, c’è da vomitare su scienza e politica che vanno d’amore e d’accordo sul sentiero della irresponsabilità.

Gli organismi deputati alla valutazione dei medicinali se la sono cavata affermando che l’utilizzo di questo vaccino per certe fasce di età era sconsigliato, ma non proibito, in un macabro balletto di cavie fra giovani e anziani. Se la Costituzione Italiana è l’esempio di compromesso ai livelli più alti, questo è l’emblema della mediazione affaristica sulla pelle della gente.

L’impressione è infatti che siano state utilizzate le scorte a prescindere da motivazioni di ordine sanitario fino ad arrivare alla squallida promozione degli open day, vale a dire una sorta di mercatino del vaccino poco sicuro con il miraggio per i giovani di poter andare in fretta e furia in vacanza e in discoteca. Una vaccinazione a prova di consumismo promossa dalle Regioni: in tutta la vicenda pandemica sono le protagoniste in negativo da tutti i punti di vista.

Ora si ipotizza di non utilizzare più per nessuno il più chiacchierato dei vaccini e un dietrofront per quanti hanno avuto la prima dose di astrazeneca (almeno per gli under 60): il conseguente cocktail vaccinale sarà efficace e sicuro? Chissà chi lo sa. Ne sapremo qualcosa alla registrazione della prossima vittima su cui la procura aprirà penosamente una inchiesta per omicidio colposo. Della serie “morto un vaccinato se ne aspetta un altro”.

Al mio medico che mi consigliava di vaccinarmi, rassicurandomi con giusta e professionale delicatezza sul contenimento dei rischi dovuti alle mie abbondanti allergie, ho risposto con un’affermazione gravissima e spietata di cui mi assumo tutta la responsabilità: “Non mi fido del sistema!”. Vivo nell’incertezza se vaccinarmi oppure no: non mi fido degli scienziati chiacchieroni e inconcludenti, di Ema capace solo di fare il pesce in barile, del Cts incapace di fornire ai governanti un indirizzo univoco e preciso, delle Regioni sballottate tra demagogia e inefficienza, del governo centrale che non sa letteralmente che pesci pigliare, della sanità le cui magagne ed i cui altarini sono stati clamorosamente scoperti dal vento pandemico.

Non è un problema solo italiano, è una questione globale: tutti brancolano nel buio e non hanno l’umiltà di ammetterlo e soprattutto di usare conseguentemente le precauzioni e le cautele necessarie. Se non si è capito, sono molto sfiduciato e scoraggiato. Alla fine non resta che cantare: “Tutti ar mare Tutti ar mare A mostrà le chiappe chiare Co li pesci In mezzo all’onne Noi s’annamo a divertì”. Ebbene io non posso nemmeno cantare questa canzonetta d’evasione. Perché? Perché ho deciso di non andare in vacanza. Lo faccio da ben quarant’anni. Figuriamoci se voglio ricominciare adesso a mostrar le chiappe, divenute nel frattempo sempre più flaccide e cadaveriche.

 

Cosa scacciano i chiodi di Biden ?

Resta sul tavolo l’inquietante ipotesi che l’origine del coronavirus possa risalire ad un errore commesso in un laboratorio cinese e dolosamente negato a costo di infettare il mondo intero. Il presidente americano Joe Biden ha chiesto lumi ai servizi segreti, che evidentemente avranno nel frattempo scoperto qualcosa di nuovo e di utile per risalire all’inizio della pandemia.

Rispolvero la battuta velenosa sciorinata da mio padre in occasione di una alluvione in Italia (non ricordo dove e quando, ma non ha molta importanza). Di fronte al solito ritornello dei comunisti trinariciuti, quelli col paraocchi, che recitava più o meno “Cozi dal gènnor in Russia in sucédon miga”, mio padre rispose: “Sät parchè? In Russia i gh’àn j èrzon äd cärta suganta”. Per tornare al discorso covid, non vorrei che l’insistenza statunitense sulle eventuali responsabilità cinesi fosse un tentativo di demonizzare il potente avversario commerciale per lucrare la relativa rendita di posizione anti-covid.  Della serie “Lor i gh’an i laboratori ‘d pasta fròla”.

Tuttavia mi insospettisce il fatto che Biden batta il chiodo. Un’altra ipotesi potrebbe essere quella della riesumazione di una guerra fredda allargata: Biden non le sta mandando a dire al russo Putin, che personalmente continuo a considerare il peggior interlocutore dell’occidente, assai peggio dei cinesi.

Dopo le feste natalizie si era soliti riciclare culinariamente gli avanzi della tavola ricavandone succulenti polpette da mangiare nei giorni successivi: Vladimir Putin è la polpetta ottenuta dai peggiori avanzi del regime comunista sovietico, cucinata in salsa populista e mafiosa. Dobbiamo fare i conti con questo vomitevole e avvelenato scarto.   Putin ha saputo tradurre in chiave anti-democratica il post-comunismo, mantenendone sostanzialmente l’autoritarismo e proiettandolo nelle istituzioni impostate a livello mafioso. Aveva ragione da vendere Gorbaciov: il comunismo sovietico non andava bypassato frettolosamente, ma revisionato gradualmente e pazientemente. A chi esce debilitato da una lunga malattia e da una prolungata dieta, non si può offrire un lauto pranzo, bisogna partire con i semolini, i passati di verdura, etc. etc., come si fa per lo svezzamento dei bambini. Invece si è preferita la scorciatoia di un regime improvvisato con un colpo di stato da Boris Eltsin e perfezionato in una sostanziale ed infinita “monarchia populista” da Vladimir Putin.

In Cina si è svolto un diverso processo di superamento parziale del comunismo, reso economicamente coniugabile con una perfetta e deteriore pratica capitalista: della serie “fatevi dei soldi, ma continua a comandare il partito”. I cinesi stanno tentando di assemblare il peggio di tutti i sistemi politici: il peggio del capitalismo abbinato al peggio del comunismo. Una lucida e paradossale follia che rischia di dominare il mondo.

L’Occidente a trazione statunitense non brilla e si trova a fare i conti con questi scomodissimi interlocutori: purtroppo questa rimane una partita a tre, in logorante attesa del quarto giocatore che dovrebbe essere l’Unione Europea. La guerra fredda è dietro l’angolo ed il covid potrebbe essere l’occasione per accelerarne lo scoppio. Ecco perché bisogna andare adagio nel colpevolizzare la Cina. Non mi fido degli Usa e non vorrei che succedesse come con la fantomatica “provetta di Colin Powell”, mostrata all’Onu quale falsa prova con cui l’amministrazione Bush accusò Saddam Hussein di avere armi di distruzione di massa per giustificare l’invasione dell’Iraq.

La verità sull’origine del covid non verrà mai a galla: sarebbe oltre modo importante stabilirla, anche se a mescolare una simile pentola non si può prevedere cosa ne possa sortire. Magari una terza guerra mondiale vera e propria, anticipata dalla strage covidiana e seguita da quella nucleare o giù di lì.