Ti conosco mascherina

Don Raffaele Dagnino era un prete che, quando era stata introdotta la facoltà del clergyman, non aveva voluto rinunciare alla tonaca, dal momento che gli era tanto costato indossarla; ma è proprio vero che l’abito non fa il monaco: don D’Agnino, aveva infatti uno spiccato senso laico della religione, meglio dire della fede.  Era contrario alla scuola privata, anche quella cattolica. Sarebbe comodo, diceva, avere una scuola a propria misura ideologica. Nossignori, bisogna avere il coraggio di mettersi a confronto con i non credenti, testimoniare la fede in campo aperto. E poi chi ha detto che i cattolici siano migliori degli altri, ma lasciamo perdere…

In questi giorni è venuto meno l’obbligo di indossare la mascherina anti-covid all’aperto e lontano dagli assembramenti: vai a capire cosa si intenda per ambiente aperto, cosa significhi assembramento, fino a quando durerà questa novità apparentemente liberatoria.

Nella “Cavalleria rusticana” di Pietro Mascagni, compare Turiddu, dando l’addio a sua madre prima di battersi a duello con compare Alfio per motivi d’onore, dice: “Mamma, quel vino è generoso, e certo oggi troppi bicchieri ne ho tracannato…vado fuori all’aperto”. Era un eufemismo!? In realtà andava incontro alla morte o almeno al grave rischio di soccombere. Speriamo non lo diventi per coloro che azzardano di abbandonare la precauzione per liberarsi di un fastidioso obbligo a cui, volenti o nolenti, si erano adeguati.

Quanto agli assembramenti c’è chi si sta esercitando nel qualificare e quantificare tale concetto: è una disputa surreale che verrà sicuramente risolta all’italiana e finirà nel novero delle grida di manzoniana memoria.

Ma la cosa più curiosa e inquietante è che questa novità rilassante coincide temporalmente con quella preoccupante del dilagare della variante delta: proprio nel momento in cui si profila un rinnovato rischio di contagio, da cui peraltro sembra che i vaccini non siano in gradi di difenderci, si allentano le misure protettive. Allora i casi sono due: o le mascherine erano una messa in scena psicologica, una sorta di misura contro l’ansia, oppure, come al solito, prevale la voglia di normalità a qualunque costo, fare cioè un piacere alla gente anche se poi lo si pagherà a caro prezzo.

Stando alle prime reazioni, sembra che la gente, un po’ per abitudine, un po’ per prudenza, un po’ per fare il bastian contrario, continui ad indossare le mascherine: anche perché il “cava e metti” potrebbe diventare un vero e proprio martirio peggiore del precedente.

Don Dagnino forse docet anche in questo caso. C’è però anche il discorso inverso: l’abito monacale storicamente serviva anche a coprire le proprie malefatte, a cambiare o camuffare esteriormente la propria discutibile identità. D’ora in poi, magari, continuare ad indossare le mascherine ci consentirà di nascondere un po’ di faccia, almeno quella che non abbiamo ancora perso del tutto.

Voglio chiudere con la (quasi) scontata citazione dell’opera lirica “Un ballo in maschera” di Giuseppe Verdi. Durante il ballo mascherato, Oscar, il paggio del Conte Riccardo, scherza con Renato che vuole ammazzare il conte stesso per vendicare il proprio onore, avendo scoperto che sua moglie Amelia è innamorata del Conte: “Saper vorreste di che si veste, quando l’è cosa ch’ei vuol nascosa. Oscar lo sa, ma nol dirà, tra là, là là là là, là là”. Amelia era pura dal punto di vista fisico, anche se in cuor suo aveva tradito il marito: castità e verginità, in fin dei conti, sono un’opinione. Sì, come il coronavirus, che, a seconda dei casi, è una sciagura totale oppure un problemino risolvibile. A tal proposito, personalmente, starò, come si suol dire, nei primi danni, e continuerò a nascondermi dietro la mascherina, tra là, là là là, là là.

 

L’ennesimo morto nella stiva clerico-fascista

Ci è scappato l’ennesimo morto: “Orlando, suicida a diciotto anni, insultato e deriso perché gay”. “Adesso ho un compito. Trovare i colpevoli e non mi darò pace… finché non uscirà la verità… Troveremo giustizia”. Lo dice Anna, mamma di Orlando Merenda. Deriso e umiliato perché gay, il diciottenne si è tolto la vita domenica scorsa, intorno alle 14,30, gettandosi sotto un treno, tra la stazione di Torino Lingotto e Moncalieri. Un odio ottuso che non si è fermato neppure dopo quel gesto estremo: “Morte ai gay”, qualcuno ha scritto sulla sua pagina Instagram. La procura di Torino ha aperto una inchiesta su questa nuova terribile pagina di omofobia. Orlando aveva pranzato con il papà e il fratello, poi è uscito di casa e ha deciso di farla finita. “Mi aveva confessato – racconta il fratello di Orlando Merenda – di aver paura di alcune persone. Non mi ha spiegato chi fossero, non ha fatto nomi. Era preoccupato. Diceva che mettevano in dubbio la sua omosessualità”. E un’amica: “Si era chiuso in sé stesso”. Altri amici dicono: “Lo prendevano in giro perché era omosessuale”.

 “Sarai il mio angelo – scrive la madre sui social – sono convinta che tu sia per sempre mio. Motivo per resistere e che sia verità e giustizia. Sei morto da martire. Ma nessuno meritava la tua vita”. E aggiunge: “Non ho pensato mai a un gesto estremo, non di tua volontà. Chi mi ha tolto la mia gioia si pentirà amaramente. Sei stato ingannato, plagiato, deriso, umiliato… il tuo carattere così fragile… non sapevi dire di no. Sei stato l’amico di tutti. Troveremo giustizia”. (dal quotidiano La stampa).

Ebbene, mentre a Roma si discute (di omosessualità), Sagunto è espugnata (e gli omosessuali muoiono). Il Vaticano, anziché rispettare ed aiutare le persone “diverse” ad inserirsi a pieno titolo nella comunità, disquisisce sui diritti della Chiesa e imbastisce un’assurda querelle con lo Stato sulla laicità e sulla libertà di opinione. Chi fa le pulci al provvedimento di legge in discussione, che il Parlamento non si decide ad approvare a favore dei diversi e in difesa dei loro diritti, si trincera dietro la scusa della ripetitività dell’intervento legislativo (se è così, repetita iuvant e non vedo tanto clamore pseudo-culturale) e nasconde la millenaria sessuofobia clericale dietro la libertà delle scuole cattoliche e il diritto di opinione delle gerarchie cattoliche (più libertà di cosi: mentre si discute in Parlamento, la diplomazia vaticana alza la voce ed apre un canale di dibattito parallelo).

Qualcuno comincia a spazientirsi (ma cosa vogliono questi sporcaccioni), facendo di ogni erba un fascio, o meglio, facendo del “fascio” il metodo per estirpare le erbe fastidiose. Qualcuno la butta in politica, utilizzando i sacrosanti diritti dei soggetti discriminati per vergognose manovre tattiche di bassa macelleria politica. Qualcuno non trova di meglio che aprire un dibattito sui massimi sistemi dei rapporti fra Stato e Chiesa: roba vecchia come il cucco (forse l’unico punto debole della nostra Costituzione).

Non mi illudo che la legge Zan possa fare il miracolo di colmare secolari lacune socio-culturali, ma si provi almeno a fare questo passo avanti sul piano del riconoscimento dei diritti di uguaglianza e sul piano della esemplare punizione per chi osa, a qualsiasi livello ed in qualunque modo, violarli. Forse qualcuno dovrebbe faticare a prendere sonno, scandagliando la propria coscienza di fronte alla drammatica vicenda di Orlando Merenda.

Sì, perché intanto molti continuano a soffrire odiose e violente discriminazioni fino a morirne. Comunque la si prenda, dai bar di periferia alle dorate stanze, si sente la puzza di vecchio: un fariseismo di base e di vertice, che nasconde i problemi sotto il tappeto dell’intolleranza più o meno camuffata.

Meno male che a livello istituzionale è stata ribadita la natura laica dello Stato italiano e che a livello vaticano si sta scendendo a più miti consigli. Mi chiedo però che bisogno c’era di aprire un simile fronte dibattimentale? La Chiesa ha lanciato un sasso che è diventato un boomerang, ha sparato a salve e lo Stato ha ributtato la palla nella metà-campo clericale. Che penosa commedia!

Mi chiedo soprattutto chi è la Chiesa per giudicare un omosessuale che cerca di vivere seriamente la sua condizione? Ho adottato e adattato alla bisogna un’espressione forte e provocatoria di papa Francesco, usata durante una conferenza stampa di ritorno da un viaggio all’estero. Forse sarebbe il caso che la gridasse nelle stanze vaticane, facendo un giretto nei corridoi dove i bisbigli farisaici continuano a farla da padrone. Guai a voi…

 

 

Il camaleonte chiama, il gattopardo risponde

I miei ardori adolescenziali e giovanili si potevano sintetizzare in due smanie rivoluzionarie, che peraltro si riferivano paradossalmente ai miei due grandi amori: le donne e la società. Le prime le ho rincorse per tutta la vita più per cambiarle (da maschilista) che per corteggiarle (da Casanova), senza capire che le donne sono belle in quanto fresche, sguscianti, imprevedibili e molto diverse dagli uomini e volerne mutare i connotati sarebbe come pensare di togliere le ali alle farfalle.

Quanto alla società è sempre esistita in me l’ansia di cambiarla nelle sue strutture fondamentali: la contestazione ha pervaso, seppure in modo non violento, tutta la mia vita. Non ho capito che a rivoluzionare il mondo non ci ha provato neppure chi lo ha creato, il quale, sceso sulla terra, ha preferito occuparsi dei singoli, limitandosi a invitarli a stare nel mondo senza prostituirsi ad esso. Il punto d’attacco sta in questo!

In questo periodo di teorico sconvolgimento psico-sociale l’ardore rivoluzionario in me ha ripreso intellettualmente quota: bisogna rimettere in discussione e cambiare tutto. Mi sono illuso che si potesse aprire uno spazio per rivedere profondamente la società nei suoi principi e nelle sue strutture. Invece si sta profilando l’ennesima e definitiva disillusione: al virus camaleonte, che muta d’aspetto e sfugge al controllo scientifico e sanitario, fa riscontro una società gattopardesca che cambia tutto per non cambiare niente.

Volete qualche eloquente esempio? Si sta procedendo alla cosiddetta riapertura, ma si invita alla prudenza ed alla cautela: si apre la stalla e si pretende che i buoi restino disciplinatamente nei pressi di essa, pronti a rientrarvi al primo sintomo di pericolo ed al primo invito di tornare indietro.

Si vuole ridare fiato al turismo compresso e danneggiato dalle restrizioni imposte dalla pandemia, ma poi si chiede a gran voce di istituire rigidi controlli alle frontiere per arginare il dilagare della variante Delta. Un colpo basso al turismo non appena rimessosi in piedi? Non controllerà nessuno e tutti scorrazzeranno dappertutto.

Si riaprono le discoteche per togliere dall’isolamento i giovani oltre che per dare fiato al consumismo giovanile su cui la società fa grandi affari. Sì, però controlliamo che chi entra in discoteca abbia il green-pass: come cercare l’ago nel pagliaio, come porre un argine di cartapesta ad un torrente in piena.

Si possono abbassare le mascherine per guardarsi finalmente in faccia e riscontrare che magari nel frattempo l’abbiamo persa. All’aperto la mascherina non serve più (forse non serviva neanche prima, ma…), tuttavia quando anche all’aperto si sta vicini è più che opportuno usarla. Con una mano si dà, con l’altra immediatamente si toglie in un perfido gioco a rendere impossibile la vita nuova e ripiegare forzatamente sulla vecchia: le regole non contano e ognuno faccia quel cazzo che vuole!

Si cominciano a smantellare i reparti ospedalieri covid. Non sarà un po’ presto? Bisogna dare segnali di incoraggiamento e di ottimismo. Tanto si fa sempre in tempo a tornare indietro, pagando l’inevitabile prezzo in vite umane. E chi se ne frega. Oggi a te, domani a me, l’importante è andare avanti.

Vacciniamoci tutti. Ogni giorno spunta un consistente numero di vaccinati a grave rischio. È lo stesso, vaccinatevi, altrimenti…la variante vi colpirà. Ma la variante delta non c’entra niente con gli attuali vaccini. Non importa, il virus preferirà comunque intaccare i no-vax, mentre i vaccinati si sentiranno al sicuro sull’arca della scienza in balia delle onde.

Liberi tutti, ma con senso di responsabilità. Nel frattempo comunque apriamo gli stadi, soprattutto quello di Wembley per celebrare, davanti a settantamila tifosi scatenati, il rito calcistico sacrificale: un raduno imprescindibile, che ci riempie il cuore di gioia e il sangue di virus (Draghi e Merkel hanno provato ad alzare la manina, ma sono stati sommersi dalle critiche e tacitati come disfattisti e reazionari).

In conclusione “lasciate ogni speranza o voi che pensate di cambiare il mondo”: il mondo è bello perché è vario, ma immutabile. Che razza di pessimismo!!! No, un sano realismo che però non mi paralizza. Forse basta cambiare la strada del cambiamento, adottando quella che costeggia le persone e punta ad esse. Ma c’è pur sempre il distanziamento da rispettare. Uno strano distanziamento, che non permette di toccarsi, di abbracciarsi, di parlarsi a tu per tu, di baciarsi, di volersi bene, ma che consente a tutti di celebrare i riti di massa del caffè, della spiaggia, della discoteca, dello stadio, etc. etc. L’importante è infatti che il mondo vada avanti così com’è e che a nessuno venga in mente di provare a cambiarlo, magari tenendosi per mano.

Il bacio di Hancock e la faccia di Johnson

Il posto di Matt Hancock, ministro della Salute nel governo britannico, è a forte rischio dopo che sono state rivelate dal “Sun” immagini, riprese dalle telecamere di sicurezza, che lo mostrano mentre bacia e abbraccia una sua stretta collaboratrice nel corridoio davanti al suo ufficio a Whitehall. Se fosse solo per la scappatella, lo scandalo sarebbe minore. Il fatto è che Hancock aveva proibito a tutti i cittadini di abbracciarsi e baciarsi per difendersi dal Covid: pensare di essere esentato dal rispettare le sue stesse leggi non è proprio accettabile.

In questa gag (non so come definirla diversamente) c’è tutto il peggio della bacchettona e bigotta mentalità anglo-sassone con il suo inesauribile moralismo da strapazzo, nella versione riveduta e scorretta in chiave Covid. Un amico mi ha raccontato l’episodio di un soggetto fermato dalle forze dell’ordine e multato perché senza mascherina e distanziamento nei confronti di una donna che viaggiava in macchina con lui. “È mia moglie e ci vado regolarmente a letto insieme…”. Niente da fare, le regole vanno rispettate. Assomiglia molto all’incidente capitato al ministro della salute britannico, al quale va tutta la mia comprensione.

Intendiamoci, le uniche persone che avrebbero qualche titolo per protestare sarebbero la moglie del ministro e il marito della collaboratrice (non so e non mi interessa più di tanto se siano coniugati), ma, con le arie che tirano, dovrebbero ripiegare immediatamente su un discorso rigorosamente privatistico e opportunamente riservato.

Il motivo principale dello scandalo sembra essere l’incoerenza del ministro che predicherebbe bene e razzolerebbe male: ma fatemi il piacere…Il mondo è pieno di incoerenti e i politici fanno la parte del leone: quanti sono per la difesa della famiglia per poi averne due o tre con relativo corredo di figli…E poi, parliamoci chiaro, chi può vietare, in base alla normativa anti-covid, di baciarsi a persone legate da vincoli affettivi di qualsiasi genere. Non si può farlo in pubblico per non dare cattivo esempio? Il virus del bigottismo è forse peggio del coronavirus e delle sue varianti.

È pur vero che le persone investite di incarichi pubblici li dovrebbero svolgere con correttezza e serietà: innamorarsi di una segretaria o di una collaboratrice è scorretto? Bisogna tenere la cosa ipocritamente coperta?  Non mi sembrano questioni di alto profilo. Diverso potrebbe essere il discorso del conflitto di interessi o meglio del condizionamento al limite della ricattabilità per i trasgressori dei principi morali. Ancor peggio il fare carriera e puntare al successo sulla scia di battaglie di letto e quant’altro (vale per le donne, ma anche per gli uomini, per tutti insomma).

In conclusione mi sembra che la vicenda di cui sopra assuma tutte le caratteristiche della cosiddetta tempesta in un bicchiere anzi del temporale in una tazzina. Meglio farebbero gli inglesi a fare ammenda sulle recenti loro assurde decisioni politiche a livello interno, europeo ed internazionale. Meglio farebbero a fare l’esame finestra ai loro governanti non per spiarli dal buco della serratura, ma per guardarli in faccia.

Indro Montanelli, volendo dare giudizi sulla onestà e sulla levatura morale di certi politici, a volte finiva provocatoriamente col consigliare di guardarli per leggere nei loro volti i tratti somatici della spregiudicatezza e dell’avventurismo. “Guardatelo in faccia!”, diceva sbrigativamente. Provino gli inglesi a guardare in faccia Boris Johnson e si accorgeranno di essere caduti in basso, ben più in basso delle scappatelle di Matt Hancock, il quale per un bacio rischia di perdere la faccia, il posto e la reputazione (col pubblico che si scandalizza), mentre il premier fa il buffone di corte (e il pubblico applaude).

 

Le reazionarie ed oscurantiste convergenze parallele

«Non abbiamo una legge conto l’omosessualità in Ungheria. Abbiamo una legge che difende genitori e bambini. É sempre meglio leggere prima e poi reagire». Così il premier ungherese, Viktor Orban, arrivando al vertice europeo. Orban ha detto di aver risposto in questi termini ai leader che lo hanno criticato, ed ha ricordato di aver «lottato per la libertà sotto il regime comunista, anche per i diritti gay». «Non si tratta di omosessualità», ha insistito, dicendosi disponibile al confronto. Ma non ritirerà la legge, «già approvata e in vigore».

La posizione del premier ungherese, al vertice Ue, è più che delicata: come ha ribadito ieri il Presidente David Sassoli, il Parlamento europeo «è fermo nel pretendere il rispetto dei valori e delle regole europee».

«Noi abbiamo valori che si poggiano sul rispetto della dignità di ciascuno, e perciò la lotta contro le discriminazioni, e nessuna debolezza a questo riguardo, che mettono in pericolo lo stato di diritto” gli ha fatto eco il presidente francese Macron, che ha aggiunto: «Sulla legge dell’Ungheria avremo una discussione tra Stati membri, franca e ferma. Spero che nel dialogo di stasera con Orban si possa trovare un cammino che gli permetta di portare avanti le sue priorità, ma rispettando i nostri valori, e quindi di portarlo a modificare il testo».

Il premier belga, Alexander De Croo, si è presentato al vertice Ue in corso con al petto una spilla arcobaleno, mentre quello olandese Mark Rutte non ci ha girato troppo intorno. «Con questa legge anti-Lgbt l’Ungheria non ha posto nell’Ue». Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, si è limitato ad affermare: «”I valori sono nel cuore del progetto europeo, spero che stasera durante la cena potremo discutere di questo tema»

Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha ricordato al primo ministro magiaro Viktor Orban che cosa prevedono i trattati, che Budapest ha firmato quando è entrata nell’Ue e che è tenuta a rispettare. L’articolo 2 del Tue, ha detto Draghi secondo quanto riferiscono fonti italiane, esiste per un motivo ben preciso: l’Europa ha una lunga storia di oppressione dei diritti umani. Secondo l’articolo 2, l’Unione europea “si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze”. Questi valori, prosegue l’articolo, “sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini”.

Non ho alcuna intenzione di perdere tempo con l’oscurantismo ungherese, dedicandomi alla lettura della legge-crociata di Orban, che prevederebbe addirittura il divieto di parlare di omosessualità a scuola e nei film. Mi limito a due constatazioni. La prima riguarda l’eccessiva fretta e faciloneria con cui si è fatto posto in Europa agli Stati dell’ex impero sovietico. La smania comprensibile di mettere una pietra sopra il comunismo sovietico, la realistica preoccupazione di togliere questi Stati dal pericolo di ripiombare nella sfera di influenza russa, la voglia capitalistica di aprire nuovi mercati e nuove opportunità di scambio con questi Paesi, hanno comportato un ingresso sbrigativo, che crea non pochi problemi di varia natura. La classe politica post-comunista assieme all’acqua sporca del regime sovietico rischia infatti di buttare via anche il neonato bambino democratico: succede in materia di immigrazione, relativamente al rispetto della dignità umana e su tante altre problematiche.

Questi signori si stanno godendo i notevoli benefici loro concessi dalla UE e quando si tratta di rispettare i patti nicchiano vergognosamente e accampano pretese assurde. Sono dentro e intendono rimanervi a modo loro, considerato anche il diritto di veto che viene anche a loro concesso in parecchie materie ed occasioni. Oltre tutto ostentano una superbia ed una presunzione insopportabili. Bisognava pensarci prima, ora temo sia troppo tardi. Mi raccontavano di una donna che, rientrando in una famiglia il cui parentado nutriva qualche serio dubbio nei suoi confronti, si sprofondò in una poltrona dicendo: “E dig che i parént i bàjon…”.

La seconda constatazione chiama in causa il Vaticano. Volenti o nolenti, in materia di omosessualità, si è venuta a creare la convergenza parallela fra le posizioni estremistiche ungheresi e le diplomatiche perplessità delle alte gerarchie cattoliche. Una bella compagnia non c’è che dire…Il sovranismo post-comunista che fa il paio con il sovranismo concordatario vaticano. Il Dio dei cattolici di destra ha i suoi numerosi e potenti inventori e difensori. Le destre americane ed europee, direttamente o indirettamente, strizzano l’occhio ai tradizionalisti cattolici: cristofascismo, teo-conservatorismo, cattolicesimo anti-liberale, trumpismo, bolsonarismo, fondamentalismo polacco, sovranismo ungherese. Una pentola maleodorante che il Vaticano si illude di tenere a fuoco lento per cuocervi dentro le spinte progressiste connaturali al dettato evangelico.

La storica sera, in cui papa Francesco, appena eletto, si presentò, con atteggiamenti e simbologie rivoluzionari, sulla balconata di S. Pietro, ero davanti al video in compagnia di mia sorella Lucia. Eravamo entrambi convinti che fosse successo qualcosa di grande per la Chiesa cattolica. Questa volta lo Spirito Santo era arrivato in tempo. Io trattenevo con difficoltà le lacrime per l’emozione, Lucia era entusiasticamente propensa a cogliere finalmente il “nuovo” che si profilava. Erano gli ultimi mesi di vita di Lucia, che però trovavano esistenziale e incoraggiante riscontro, al livello più alto, di un cristianesimo vissuto sempre con l’ansia della novità che squarcia il dogmatismo, della scelta a favore dei poveri, del rispetto della laicità della politica, del protagonismo femminile. Ebbene forse è in atto la riscossa e lo Spirito Santo è in difficoltà: a casa sua nicchiano, i suoi parenti stretti abbaiano alla luna di papa Francesco, il sole deve fare i conti con i neri nuvoloni che si addensano nel cielo, sembra non sappia più cosa fare. Ma alla lunga vincerà.

“Sl’è nota us farà dé” ripeteva spesso il grande Benigno Zaccagnini in dialetto romagnolo, negli anni del terrorismo, ricordando un motto della Resistenza. Qualcuno sta cambiando questo detto popolare in “Sl’è dé us farà nota” per applicarlo sacrilegamente alla cristianità nel mondo. Forse lo Spirito Santo si aspetta che qualcuno faccia Resistenza.

 

 

 

 

 

L’orfanatrofio pentastellato

Giuseppe Conte mi dà l’idea di un ostetrico che dopo avere agevolato un parto non vuole comunque tagliare il cordone ombelicale. Sta facendo nascere una nuova creatura partitica, ma pretenderebbe di mantenere il collegamento con almeno uno dei genitori (Casaleggio infatti con la sua piattaforma è roba vecchia, mentre Grillo è ancora in circolazione), perché teme di perdere il patrimonio genetico e di trovarsi ad allevare da genitore adottivo un figlio, che, prima o poi, si ribellerà e andrà alla ricerca dei genitori naturali.

Questo è la schizofrenica ultima tappa del percorso che sta facendo il M5S, ormai orfano di padre e madre, affidato ad un amministratore di sostegno. Il movimento è nato come espressione dell’antipolitica, raccogliendo a destra e manca le proteste della gente stanca di essere sgovernata: contro tutto e tutti è facile imbarcare consensi, assai più difficile mantenerli nel tempo, allorquando gli altarini della protesta si scoprono e si intravede il nulla sottostante.

Va dato atto al grillismo di avere offerto una voce democratica (?) al qualunquismo, evitando derive assai peggiori. Però è arrivata in fretta la irrimediabile perdita di voti, dovuta alla incapacità di governare e di esprimere una linea politica che non fosse quella dell’antipolitica. Quando le cose cominciano ad andare male, si litiga, ci si separa, volano le stoviglie, si sbattono le porte, c’è chi va da una parte e chi va dall’altra, chi sente nostalgia della piazza e chi si innamora delle seggiole, chi vorrebbe tornare indietro e chi vorrebbe andare avanti. Non ci si raccapezza più.

La confusione nacque per la verità subito dopo l’exploit elettorale, quando i cinquestelle si trovarono ad essere, quasi per caso, il primo partito italiano, con tanti voti, con un farneticante guru alle spalle e con un urlatore che dirigeva una banda di paese. Cosa fare? Saltò fuori un illustre sconosciuto che con il movimento c’entrava come i cavoli a merenda, ma che dimostrò di saperci fare e seppe guidare ben due governi, raffazzonati alla viva il parroco, che seppero tenere in piedi i sempre più zoppicanti grillini.

La pandemia, che ha evidenziato tutti i limiti e difetti del sistema, non ha mancato di far esplodere le contraddizioni di un equilibrio politico garantito soltanto dal savoir-faire di un avvocato e dalla pazienza costituzionale di Sergio Mattarella. Non poteva durare: la scialuppa di salvataggio non ha tenuto e il movimento ha fatto naufragio. Il capitano però non ha abbandonato la nave ed ha cominciato l’impossibile lavoro di recupero dei naufraghi e di riparazione della nave pentastellata. Dalla protesta grillina alla rifondazione contiana. Nella storia hanno fatto molta fatica a riciclarsi i partiti con una grande storia alle spalle, immaginiamoci un movimento improvvisato, senza valori, senza contenuti, senza leadership. Finito malamente Grillo, la baracca passa nelle mani di Conte, che non si capisce cosa possa cavarne fuori. Da Grillo a Conte: andata (allo sbaraglio) senza ritorno (al padre latitante).

Da una parte c’è l’esigenza di provare a fare politica e l’unica sponda plausibile non può che essere il Partito Democratico. Dall’altra c’è la necessità di mantenere uno straccio di identità protestataria e quindi non ci si vuole schiacciare in un’alleanza stabile da cui si rischia di uscire ridimensionati e devitalizzati. Rinnegare un certo passato è faticoso e pericoloso. Per andare dove? A nessuno è dato saperlo, nemmeno Conte lo sa. Grillo nicchia: che fine ingloriosa! Il resto è fuffa culturale e rissa di cortile: che casino! Cosa può mai essere questo movimento? Se tenta di fare politica, rischia di fare il verso al PD. Se cavalca la piazza si trova la strada sbarrata da Fratelli d’Italia. Se cerca un matrimonio per governare, resta comunque nella camera degli ospiti. In Europa non conta un cazzo. In Italia sta in piedi perché tirano i quattro venti draghiani.

È stata rinviata a data da destinarsi la presentazione del Neo-Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte. Si parlava di accordo già chiuso e ci si preparava a un evento di “lancio” imminente, ma il progetto ha subito un nuovo rallentamento. Restano infatti alcuni nodi da sciogliere tra il garante Beppe Grillo e il leader in pectore: al fondatore non sarebbe stato dato abbastanza tempo per analizzare i vari documenti e ci sarebbero alcuni punti sui quali non è d’accordo, a partire dal rischio che il suo peso di indirizzo politico venga ridimensionato (“il fatto quotidiano”).

Posso essere sincero? Vedo Giuseppe Conte come un gran bel venditore di fumo: ha stile da vendere, ma sotto lo stile non c’è nulla. Tutto sommato preferivo Beppe Grillo (aridatece er puzzone!). Qualche anno fa mi hanno parlato di un soggetto che passa il suo tempo a stupire la gente, girovagando per i bar, sfoggiando auto e moto di lusso, raccontando le sue imprese di vario genere (naturalmente sesso compreso). In effetti di personaggi del genere ce ne sono in giro parecchi. Quindi, niente di originale. La cosa che però mi è piaciuta è il come viene vissuto dai suoi concittadini. Lo hanno letteralmente sepolto, appioppandogli un soprannome azzeccatissimo: “füm” (con la u lombarda). A buon intenditor poche parole. Se vogliamo essere un po’ più complimentosi con Giuseppe Conte (al quale do atto di non avere poi governato così male, navigando a suon di conferenze stampa in un mare in tempesta), si può definirlo un politico che “non sa un cazzo, ma lo dice bene”. Non è l’unico venditore di fumo e non è l’unico sancazzista.

 

Le beghe vaticane

Nei giorni scorsi la Chiesa Cattolica ha inviato una nota formale al governo italiano per chiedere una modifica del disegno di legge Zan, la proposta di legge contro l’omotransfobia approvata alla Camera nel novembre del 2020 e ora in discussione alla commissione Giustizia del Senato. La Chiesa ha scritto al governo italiano che il ddl Zan violerebbe il cosiddetto Concordato, cioè il documento ufficiale che regola il rapporto fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, in vigore dal 1984.

Secondo la Chiesa, la proposta del deputato del Partito Democratico Alessandro Zan contro discriminazioni e violenze per orientamento sessuale, genere, identità di genere e abilismo (che riguarda la discriminazione nei confronti delle persone con disabilità) violerebbe il Concordato in diversi punti che sono stati elencati in una lettera consegnata lo scorso 17 giugno da monsignor Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato, all’ambasciata italiana in Vaticano. Il giorno stesso la nota sarebbe stata consegnata dai consiglieri dell’ambasciata italiana in Vaticano al gabinetto del ministero degli Esteri e all’Ufficio relazioni con il Parlamento dello stesso ministero, guidato da Luigi Di Maio.

Nella lettera si legge: «Alcuni contenuti attuali della proposta legislativa in esame presso il Senato riducono la libertà garantita alla Chiesa Cattolica dall’articolo 2, commi 1 e 3 dell’accordo di revisione del Concordato». Il comma 1 è quello che assicura alla Chiesa «libertà di organizzazione, di pubblico esercizio di culto, di esercizio del magistero e del ministero episcopale», mentre il comma 2 garantisce «ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».

In altre parole la Chiesa teme che le posizioni esplicitamente omofobe di alcuni sacerdoti o membri della Chiesa, se espresse in pubblico, possano essere perseguite come reato in seguito all’entrata in vigore del ddl Zan. I promotori e le promotrici della legge hanno ribadito più volte che la libertà di espressione non viene messa in discussione dal ddl Zan. Contrariamente a quanto temono molti degli oppositori, un’associazione potrà continuare a fare una campagna contro l’equiparazione dei diritti delle coppie dello stesso sesso rispetto ai diritti della cosiddetta famiglia tradizionale. Interverrebbe, semmai, se un’associazione istigasse i suoi seguaci a molestare o linciare una coppia non eterosessuale in quanto non eterosessuale.

Alcuni passaggi del ddl Zan per il Vaticano metterebbero inoltre a rischio la «libertà di pensiero» della comunità dei cattolici. Sarebbe poi un problema l’articolo 7 del disegno di legge, che chiede di istituire la Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia e la transfobia. Le scuole private, quindi anche quelle cattoliche, sarebbero obbligate a organizzare attività che la Chiesa percepisce come contrarie alla propria dottrina.

Secondo la Chiesa cattolica l’unione fra persone dello stesso sesso non fa parte del «disegno» di Dio perché una delle caratteristiche fondamentali del matrimonio cattolico sarebbe quella di essere «aperto alla vita»: cioè, in sostanza, di poter generare dei figli. Ormai da secoli la Chiesa si oppone al riconoscimento delle coppie omosessuali per questa ragione, nonostante nei testi ufficiali – sottolineano i fedeli più progressisti – non siano attribuite a Gesù Cristo condanne o sanzioni dell’omosessualità.

Oltre alla destra, ai movimenti anti-abortisti e a quelli cattolici integralisti, contro il ddl si è schierata da tempo anche la conferenza dei vescovi cattolici italiani (CEI) che è intervenuta ufficialmente due volte per criticare il testo del disegno di legge. Non è chiaro che cosa succederà ora. L’articolo 14 del Concordato stabilisce che «se in avvenire sorgessero difficoltà di interpretazione o di applicazione delle disposizioni precedenti, la Santa Sede e la Repubblica italiana affideranno la ricerca di un’amichevole soluzione ad una Commissione paritetica da loro nominata».

Fin qui l’Ansa, che ho citato testualmente. Indro Montanelli definiva “beghe di frati” certe questioni dottrinali sollevate dalla gerarchia cattolica in materia di morale sessuale. Ebbene questa, ultima in ordine di tempo, mi sembra catalogabile proprio alla Montanelli. Abbiamo addirittura la sovrapposizione di due beghe: una moralistica e una giuridica. In Vaticano hanno tempo da perdere!

Ho letto il testo della cosiddetta legge Zan (dal nome del primo proponente) e non ho trovato alcun motivo di perplessità o contraddizione con la Costituzione italiana (come sostengono certi politici di destra) e non mi è passato nemmeno dall’anticamera del cervello andare alla ricerca di eventuali contrasti con il Concordato, che a mio giudizio c’entra come i cavoli a merenda. Sarò presuntuoso, ma non mi interessano le quisquiglie vaticane così come non mi interessano le reazioni favorevoli o contrarie a tali disquisizioni di stampo clericale (buona comunque la secca dichiarazione di Mario Draghi in difesa della laicità dello Stato). Ragiono con la mia testa e guardo al Vangelo. Il resto è roba da niente. Mi permetto solo alcune riflessioni.

Non capisco dove voglia parare il Vaticano, con o senza il placet di papa Francesco. Siamo sempre alle solite: si tirano a mano discutibilissime faccende dottrinarie per interferire politicamente in soccorso delle posizioni più reazionarie espresse dal mondo cattolico. È successo col divorzio, con l’aborto, con la bioetica. La legge Zan vieterebbe indirettamente alla Chiesa di esprimere pubblicamente il proprio parere in materia di omosessualità etc. etc, metterebbe a rischio la libertà di pensiero dei cattolici, obbligherebbe le scuole cattoliche ad aderire a manifestazioni contrastanti con la dottrina cattolica. Ma fatemi il piacere…semmai la nuova legge vuole solo evitare la vomitevole e violenta deriva fascista-moralista-reazionaria contro l’omosessualità e tutti i suoi conseguenti aspetti socio-culturali.

Che la Chiesa cattolica si intestardisca su posizioni retrograde nascondendosi addirittura dietro i privilegi concordatari è cosa spregevole. Non accetto l’impostazione dottrinaria cattolica anti-evangelica sui problemi della sessualità, immaginiamoci cosa posso pensare se e quando la Chiesa pretende addirittura coperture legislative alle proprie fatiscenti posizioni dottrinarie.

Diceva il cardinal Martini: «La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio».

Più specificamente sulla materia sessuale sosteneva: «Non è male che due omosessuali abbiano una certa stabilità di rapporto e quindi in questo senso lo Stato potrebbe anche favorirli. Non condivido le posizioni di chi, nella Chiesa, se la prende con le unioni civili».

Siamo molto lontani dalle assurde preoccupazioni ecclesiastiche emergenti ancora una volta a sproposito. E papa Francesco? È d’accordo, subisce, ha paura, è spiazzato, condivide? Non sarebbe male se battesse un colpo. Una cosa è certa: il Vaticano ha perso una buona occasione per tacere.

In ginocchio, solo se piace agli ultras

Il Galles si inginocchia all’Olimpico per Black Lives Matter, e per la prima volta il gesto è compiuto anche da quattro azzurri, all’Olimpico, prima della partita Italia-Galles. Si tratta di Belotti, Pessina, Bernardeschi, Emerson e Toloi, primi italiani dopo l’arbitro Orsato a manifestare all’Europeo col gesto contro ogni discriminazione razziale. Sono invece rimasti in piedi gli altri Azzurri in campo. E questa mancata unità di intenti non è piaciuta a Claudio Marchisio, che commentando la partita su Rai1 ha osservato: «C’è libertà di scelta, ma sarebbe stato meglio vederli tutti inginocchiati».

Black Lives Matter (BLM, letteralmente “le vite dei neri contano“) è un movimento attivista internazionale, originato all’interno della comunità afroamericana, impegnato nella lotta contro il razzismo, perpetuato a livello socio-politico, verso le persone nere. Black Lives Matter organizza regolarmente delle manifestazioni per protestare apertamente contro gli omicidi delle persone nere da parte della polizia, nonché contro questioni più estese come profilazione razziale, brutalità della polizia e disuguaglianza razziale nel sistema giuridico degli Stati Uniti.

Non so come interpretare la renitenza degli atleti azzurri a questo gesto. Spero soltanto non sia una cautela verso le destre razziste, che tifano lanciando fischi e critiche social contro i giocatori che si inginocchiano prima di cominciare la partita. Aumentano infatti gli oppositori al messaggio “black lives matter”. Dopo l’episodio della Croazia a Wembley e i fischi dei russi al Belgio, in Spagna la questione si è vomitevolmente ingigantita: “Se vi inginocchiate, spegniamo il televisore”.  Il movimento dei tifosi della Selección ha minacciato di non guardare più le gare della nazionale se i giocatori dovessero fare in campo il gesto divenuto simbolo della lotta al razzismo negli Usa nel 2016 e rilanciato dopo che l’agente Derek Chauvin il 25 maggio 2020 ha ucciso a Minneapolis l’afroamericano George Floyd.

Non mi si dica che è una questione risibile attorno alla quale sta screscendo una polemichetta stucchevole. Il razzismo è presente nella nostra società come un «fiume carsico», che scorre sotterraneo per poi riemergere con forza in superficie. Sottovalutarne la portata mi sembra un omertoso e gravissimo atteggiamento rientrante nell’indifferenza fatta ormai sistema. Sicuramente scatterà anche la reazione dei benaltristi, i quali mormoreranno: non basta trasformare i campi di gioco in un inginocchiatoio per combattere il razzismo. Qualcun altro griderà alla strumentalizzazione politica dello sport o sarà infastidito dal disturbo arrecato all’agognata ripresa dello spettacolo calcistico.

È sempre la solita storia: i motivi per fregarsene altamente dell’ingiustizia e della discriminazione sono tanti e ricordiamoci bene che tali aberrazioni sociali trovano un notevole appoggio proprio nell’insensibilità della gente. Da tempo gli stadi si sono trasformati in un caleidoscopio di tutti i peggiori istinti. Non sarebbe la prima volta che i calciatori e le società calcistiche si piegano davanti alla violenza organizzata dei tifosi: gli ultras rappresentano una intollerabile massa critica assorbita e vezzeggiata. Come potrà la violenza degli ultras essere contro la violenza dei razzisti? Violenza chiama violenza! Che stupisce è la reazione da conigli dei pedatori, che magari non si schierano per timore di alienarsi le simpatie dei padroni degli spalti in via di graduale riempimento.

Non ero durante la pandemia fra i vedovi degli spalti gremiti, credo anzi sia stato un azzardo riaprire seppure parzialmente gli stadi. Mi dà fastidio la retorica del tifo intonata dai media. Paola Ferrari, la bamboleggiante conduttrice televisiva da tappezzeria, continua ad osannare i tifosi così bravi, così belli, così buoni, così simpatici. E i giocatori? Tutti meravigliosamente capaci di darci tante soddisfazioni… C’è qualcosa che tocca in un sistema che non è capace nemmeno di un gesto simbolico contro il razzismo.

In cotanta miseria etica la nazionale di calcio che fa? Sol l’occhio di Claudio Marchisio, ex calciatore nonché uno degli attuali inutili commentatori tecnici a livello televisivo, esprime umanamente un guardo di pietà, piange, ma forse sono lacrime di coccodrillo. Sarà un caso ma gli unici atleti della nazionale di calcio che hanno aderito al gesto di solidarietà verso il movimento antirazzista sono giocatori di riserva, seppure di lusso e nonostante il santo commissario tecnico continui a dire che il gruppo è compatto e non esiste differenza fra titolari e riserve. Vuoi vedere che il messaggio è: siamo antirazzisti, ma solo un pochettino…per non disturbare troppo. Caro tifoso, ritornerò in ginocchio da te,
il razzismo non è, non è niente per me…

 

Lavoro: un diritto che (purtroppo) non opera di diritto

Nella riviera Adriatica mancano all’appello 7.000 lavoratori stagionali, 5.000 nel settore ricettivo, balneare e negli alberghi e 2.000 nella ristorazione. Le stime sono dell’Associazione albergatori di Rimini e di Confcommercio. “La flessione degli stagionali non riguarda soltanto l’Emilia-Romagna, è un problema nazionale ed è confermata da diverse associazioni di categoria. Federalberghi indica addirittura in 200mila unità la carenza degli stagionali nel settore viaggi e ospitalità. Un calo generalizzato sulle stime e le percentuali precedenti del 50-75%. Le ragioni di questa carenza sono molteplici”: afferma in una nota il segretario regionale Emilia-Romagna dell’Ugl Tullia Bevilacqua. “La crisi pandemica e il rallentamento delle attività per lunghi mesi di alcuni settori chiave della nostra economia, come il turismo e l’ospitalità, ha spinto molti lavoratori stagionali a cercare occupazione altrove: in agricoltura, per esempio, o nei cantieri privati e in edilizia che è ripartita con i superbonus”: aggiunge ancora il segretario di Ugl Emilia-Romagna.

“Ogni anno di questi tempi parliamo della difficoltà a incrociare domanda e offerta di lavoro. Ma il Covid-19 e l’entrata a pieno regime del reddito di cittadinanza hanno evidenziato negli ultimi due anni anche un’altra realtà che andrebbe approfondita: molti giovani preferiscono percepire il sussidio che trovare un lavoro che garantirebbe un reddito inferiore. Non è demagogia dirlo, ma un’evidenza confermata dagli studi di settore di alcune associazioni di categoria da Nord a Sud del Paese ed è stato lo stesso governo a certificarne l’aumento delle domande per il 2021 rifinanziamento con un miliardo di euro il programma nazionale del reddito di cittadinanza”: continua Tullia Bevilacqua. “La posizione dell’Ugl è nota il reddito di cittadinanza e i vari sussidi a pioggia fondati su una logica meramente assistenziale si sono rivelati fallimentari, si devono correggere i meccanismi distorsivi che hanno compromesso il sano incontro fra domanda e offerta di lavoro, creando occupazione stabile attraverso un serio piano di politica industriale, sostenuta da poderosi investimenti, e incentivando l’assunzione dei giovani e delle donne, le categorie più danneggiate da crisi economica e pandemia, regolando l’accesso della forza lavoro straniera in Italia attraverso un sistema stabile di quote, contro ogni logica di sanatoria che alimenta lavoro nero e sfruttamento”: propone il segretario di Ugl Emilia-Romagna.

Il tema è oggetto – l ‘impiego dei percettori del reddito di cittadinanza in mansioni lavorative – è in queste ore al centro del dibattito politico ed economico nazionale. “C’è chi ha proposto in parlamento di imporre ai percettori del reddito di cittadinanza di accettare lavori stagionali pena la decadenza del sussidio, ma come era prevedibile l’idea è stata bocciata senza nemmeno superare l’ammissibilità della Commissione Bilancio della Camera. La questione dell’approdo al mondo del lavoro per chi percepisce il sussidio rimane dunque aperta”: conclude il segretario regionale Emilia-Romagna dell’Ugl Tullia Bevilacqua.  

Ho fatto riferimento alla posizione dell’Unione Generale del Lavoro (prendendola dal giornale on line Riminitoday), un’associazione sindacale che ha in questo momento il coraggio di mettere apertamente il dito in una doppia piaga: la mancanza di lavoro da una parte, la mancanza di forza lavoro dall’altra. È da tempo che domanda e offerta di lavoro non si incontrano e ciò aggiunge problema al già esistente problema dei problemi, vale a dire la carenza di lavoro.

Su questa tematica è facilissimo fare della demagogia, in senso populistico o in senso reazionario, quindi bisogna armarsi di sano realismo, che però non deve diventare mera accettazione dei meccanismi del sistema in cui viviamo. Dobbiamo rassegnarci, per onestà intellettuale prima che per analisi di politica economica, a non considerare il fattore lavoro come una variabile indipendente. Pur essendo l’Italia una repubblica democratica fondata sul lavoro (o sulla ricerca del lavoro, come dice ironicamente Maurizio Crozza), tale fondamento non può prescindere da quanto su di esso si può costruire. Lavorare è un diritto, ma il lavoro purtroppo non opera di diritto, dipende da un mercato in cui devono incontrarsi domanda e offerta, un mercato che però deve essere condizionato da regole che garantiscano al massimo i lavoratori potenziali ed effettivi e influenzato da politiche che allarghino e sviluppino le possibilità di lavoro.

Ci sono due logiche sbagliate per uscire da questo penoso ed inaccettabile inghippo: quella di sussidiare chi non riesce a trovare lavoro e quella di lasciare che il mercato faccia il suo corso a prescindere dalla vita e dalla morte dei lavoratori. Due logiche che si incrociano sulla pelle dei lavoratori stessi: scoraggiandoli e collocandoli in una illusoria, insufficiente e poco dignitosa posizione di mera sussistenza, abbandonandoli a loro stessi in una sorta di “lavori e si salvi chi può”.

Il reddito di cittadinanza, un sacrosanto sostegno a chi non ce la fa, finisce forse con l’interferire sul mercato del lavoro, sottraendo ad esso una fetta di offerta che preferisce rifugiarsi nell’assistenzialismo piuttosto che affrontare la difficoltà di occupazioni temporanee e precarie. La domanda di lavoro a volte non trova riscontro e finisce col ripiegare opportunisticamente sullo sfruttamento dei disperati senza lavoro e senza protezione sociale.

Al tanto chiacchierato e discusso reddito di cittadinanza si attaglia un proverbio, attribuito (pare erroneamente) a Confucio, che sostiene: “Date a un uomo un pesce e mangerà un giorno. Insegnategli a pescare e mangerà tutta la vita”. Di pesci la nostra società ne regala parecchi: una scuola facile che non prepara al lavoro, una mentalità del tutto è dovuto che disincentiva i giovani rispetto all’impegno e al sacrificio, un carrierismo ed un rampantismo che rovinano i cuori e i cervelli, una imprenditorialità d’accatto che inquina l’economia. Quanto ad insegnare a pescare si incontrano purtroppo l’interesse a lasciare nell’ignoranza e la pigrizia del rimanervi.

Un tempo si bollavano i riformisti come amici del giaguaro del capitalismo, salvo poi scoprire che i veri amici del giaguaro stavano dalla parte dei rivoluzionari dei miei stivali: non c’è altro da fare che perseguire con fatica e fantasia il riformismo. Il problema del lavoro ne costituisce forse il nodo fondamentale e riassuntivo. La sinistra politica e sindacale devono rimboccarsi le maniche e magari anche sporcarsi le mani.

Bisogna in qualche modo cambiare marcia: se il reddito di cittadinanza costituisce una sorta di freno di emergenza che evita solo il peggio, revisioniamo tutta la macchina e poi partiamo riempiendo il serbatoio del lavoro e guidando la macchina a velocità di crociera.

 

Buffon “al canäl” della tifoseria

Mi capita poche volte in materia calcistica di essere d’accordo coi tifosi, ma, nel caso della reazione a dir poco fredda degli ultras del Parma al rientro di Gigi Buffon in maglia crociata, è scattata l’eccezione che purtuttavia conferma la regola.

Marcello Chirico, giornalista di fede iuventina, ha duramente attaccato i tifosi del Parma, che hanno esposto uno striscione assai critico verso il portierone: “Il calcio romantico non esiste più, o almeno, non è più di questa terra. Anche una bella storia, come quella di Buffon che sceglie di tornarsene al Parma, là dove per lui tutto ebbe inizio, è stata rovinata in un attimo dal becerume imperante di questi tempi. Da quel “calcio del popolo” capace solo di essere sempre contro e mai pro, e di esasperare il campanilismo fino all’ennesima potenza. Ditemi voi se un giocatore come Buffon, capace di scrivere pagine di storia indimenticabili per il Parma Calcio, può essere accolto così: con uno striscione appeso ai cancelli del Tardini che recita “te ne sei andato da mercenario, non puoi tornare da eroe… onora la maglia”, e da un messaggio su Facebook con espressioni e toni ancora peggiori”.

Quante volte, conversando con amici, mi è capitato di osservare come Gianluigi Buffon, durante la sua lunga carriera post-Parma, abbia sempre evitato ogni e qualsiasi accenno, non dico di gratitudine ma finanche di richiamo storico, al suo debutto ed ai suoi trascorsi in maglia crociata. Niente di strano, probabilmente tutto rientrava nella cosiddetta sindrome rancorosa del beneficiato per la quale le persone tendono a rimuovere dalla memoria i favori ottenuti volendosi liberare da ogni e qualsiasi condizionamento psicologico.

D’altra parte anche il mitico soprano Renata Tebaldi, parmigiana (langhiranese di adozione), disse una imperdonabile bugia affermando di aver debuttato in un grande teatro (non ricordo quale), dimenticando di avere iniziato la sua grandiosa carriera nell’umile parmense teatro Ducale nel quale venivano allestite stagioni liriche in tono minore, soprattutto aperte ai giovani cantanti. Mio padre da quel giorno fece una croce sul nome della Tebaldi, anche se per la verità non rientrava nei canoni delle sue preferenze per i cantanti lirici (una gran bella voce che però non dava i brividi…).

Qualche tempo fa nei confronti di Buffon scattò la solita contestualizzazione giustificazionista riservata alle gaffe dei grandi personaggi. La Procura della Federcalcio aveva aperto un procedimento sulla presunta bestemmia che il portiere avrebbe detto durante un match con il Parma al Tardini. L’espressione blasfema, spiegavano dalla Figc, nel corso della diretta della partita era stata coperta da un commento che non avrebbe consentito di segnalare il caso al Giudice Sportivo. Dopo quanto emerso, comunque, l’indagine andò nel dimenticatoio dopo avere ascoltato il diretto interessato. Il portiere si era rivolto al giovane Manolo Portanova in questo modo: “Porta, mi interessa che ti vedo correre e stare lì (bestemmia) a soffrire eh, il resto non me ne frega un c***o”. Niente di calcisticamente punibile, tutto di umanamente penoso. Cosa volete che sia una bestemmia in un mondo dove è di casa la stupidità associata all’affarismo più bieco e al divismo più pacchiano. Un’inezia! Chissà quanti calciatori e allenatori ne spareranno fra i denti, senza farsi cogliere in fallo.

Di Gianluigi Buffon ne ricordo una molto più “bella” e scandalosa agli inizi della sua sfolgorante carriera. Gli fu rivolta una critica, peccato che non ricordi quale. Anche se non era grave, ebbe tuttavia il potere di irritare l’interessato al punto tale che, pieno (meglio sarebbe dire vuoto) di sé, dichiarò pubblicamente: “Ce l’hanno con me perché sono bello e ricco…”. Lui se la sarà dimenticata, ai suoi osannanti ammiratori sarà certamente sfuggita, io la porto scolpita nel cervello quale sciocchezza emblematica a cui può arrivare un vip. Molto peggio di una bestemmia.

In effetti questi padreterni del calcio la devono smettere di spacciarsi per eroi: altro non sono che mercenari del pallone, persone oltre tutto poco intelligenti e poco serie. Come si noterà, sono ancor più spietato e graffiante degli ultras crociati.

Il famoso musicologo Rodolfo Celletti, a proposito del pubblico e del loggione del Teatro Regio, diceva: «Quando strigliate qualche grosso cantante dimostrando di non avere timore reverenziale verso i mostri sacri dell’opera lirica, confesso che, sotto-sotto, ci godo; ma forse vi piacciono un po’ troppo gli acuti sparati alla “viva il parroco”…». Ebbene, nel caso di Buffon il loggione del Tardini ha ruggito, ed io aggiungo i miei ruggiti. Quanto agli acuti, nel caso in questione, si tratta di aspettare le parate fenomenali che Buffon lascia sperare, ma che non garantisce, assumendo forse più i panni di vecchio trombone calcistico che di fenomeno atletico.

Attenzione perché alla prima “gatta” non vorrei che si ripetesse quanto rientrava nella memoria storica di mio padre. Egli testimoniava come durante il periodo della seconda guerra mondiale, dopo l’occupazione tedesca del nostro territorio, per tenere occupata la gente e distoglierla dalla resistenza al nazifascismo, facessero lavorare gli uomini “al canäl”, vale a dire nel greto del torrente per fingere opere utili che alla fine venivano regolarmente eliminate con le ruspe. Di qui il detto “va’ al canäl”, utilizzato per mandare qualcuno a quel paese in cui si fanno appunto cose inutili ed assurde. In quel triste periodo ritornò a cantare al teatro Regio il grande tenore Francesco Merli, che aveva mietuto allori negli anni precedenti a Parma e nel resto del mondo. Quando ritornò alla ribalta del Regio, però, Francesco Merli, piuttosto anziano, non era più in grande forma vocale e non venne trattato con i guanti. In modo pesante ed inaccettabile, dettato più da cattiveria che da inesorabile atteggiamento critico, il loggione nei confronti del grande tenore Francesco Merli, reo di essersi presentato sul palcoscenico del Regio, nei panni di Manrico nel Trovatore di Verdi, con voce ormai piuttosto traballante, usò la suddetta pesantissima espressione: “va’ al canäl”. Mio padre raccontava questo disgustoso episodio per bollare l’esagerata ed esibizionistica verve loggionista, ma anche per significare come qualsiasi persona, quando si accorge di non essere più in grado di svolgere al meglio il proprio compito, sarebbe opportuno che si ritirasse, prima che qualcuno glielo faccia capire in malo modo. Quanto a Buffon, staremo a vedere, senza fare sconti, ma anche senza esagerare con le critiche: via il dente, via il dolore… (in cauda saccharum).