Draghi: passi felpati ma incontenibili

Non ho avuto il tempo (bisognerà trovarlo), ma soprattutto non ho la competenza per giudicare la riforma della giustizia varata dal governo ed elaborata dal ministro Marta Cartabia. Vado pertanto a impressioni di metodo, consapevole che spesso tradiscono la realtà del merito. Credo comunque di non sbagliarmi di molto.

Innanzitutto intravedo un certo qual decisionismo spinto da parte del premier Draghi, il quale non si perde nei meandri ministeriali e parlamentari e, dopo aver ascoltato a destra e manca, chiarisce la indiscutibile direzione di marcia. Guai a lui se non facesse così. È stato capace di guidare con mano ferma la Bce e di condizionare fortemente l’Unione Europea nei suoi indirizzi economici, figuriamoci se non sarà capace di superare gli scogli italiani: lascia lavorare i ministri, lascia parlare i partiti, poi decide. Penso sia successo così anche per la riforma della giustizia. Tecnicamente si fida della competenza del guardasigilli, sa di avere l’appoggio incondizionato del Quirinale, ha promesso alla UE di rendere credibile il PNRR accompagnandolo con le indispensabili riforme strutturali, ha peso e ruolo a livello internazionale, non ha certo paura di cadere sotto i colpi della politica politicante. Leggo sul suo volto una sorta di labiale: se vogliono mandarmi a casa, si accomodino pure, io vado avanti per la mia strada e chi vivrà vedrà.

Draghi ha la forza dei nervi distesi, come diceva un vecchio spot pubblicitario. Non si fa certo impressionare dalle sparate di tizio o caio: sa dove vuole arrivare e non si fa distrarre da nessuno: “Mi avete cercato, mi avete incaricato, mi avete dato fiducia, adesso vado avanti. Se non avrò il vostro gradimento me ne andrò a casa. Voglio proprio vedere chi avrà il coraggio di liquidarmi”. C’è indubbiamente in questo presumibile atteggiamento una punta (?) di presunzione tecnocratica, un certo freddo (?) compiacimento della propria forte personalità irrobustita dal consenso popolare in patria e dalla stima conquistata sul campo a livello europeo ed internazionale, una certa ragionata consapevolezza della debolezza della politica dei cani che abbaiano ma non mordono. Fatto sta che Mario Draghi sta governando sul serio e non si lascia logorare, ma logora gli altri.  Probabilmente, bene o male, riuscirà a superare i limiti che tutti gli ponevano, vale a dire il Piano Nazionale di ripresa e resilienza e la gestione dell’emergenza Covid. Si spingerà sul terreno delle riforme di sistema: è una scommessa in un certo senso pericolosa, ma inevitabile e rispettabile, oserei dire auspicabile.

La seconda impressione riguarda i balbettii delle forze politiche: davanti a Mario Draghi non sanno cosa dire e cosa eventualmente controproporre. Non so fino a qual punto sia merito del premier o demerito dei partiti. Certo la debolezza della politica è preoccupante, ma meno male che c’è Draghi. Sul capitolo giustizia si sta scatenando la tempesta nel bicchiere pentastellato.

Giuseppe Conte vuole riconquistare dignità e capacità governativa, i più scalmanati vogliono recuperare un feeling con l’elettorato smarrito per strada, Grillo vuol cambiare il suo ruolo da leader a bullo magari vantandosi un po’ del draghismo della prima (?) ora.

Dopo il varo della riforma della giustizia in consiglio dei ministri sono scesi in campo Alessandro Di Battista (il vaffanculista per antonomasia), l’ex guardasigilli Alfonso Bonafede (l’incapace che vuole riscattarsi a tutti i costi) e l’ex premier Giuseppe Conte (il potenziale leader in cerca di leadership): “Non canterei vittoria, non sono sorridente sulla prescrizione, siamo tornati all’anomalia italiana. Chi canta vittoria su questa soluzione non trova il mio consenso”.

Di Battista è violentissimo, definisce i ministri 5S “incapaci, pavidi e inadeguati” e critica il Movimento stesso colpevole “di essersi calato le braghe sulla prescrizione”. Bonafede dal canto suo dà un pesante giudizio negativo: “La norma votata ieri, a mio modesto parere, rischia di trasformarsi in una falcidia processuale che produce isole di impunità e che, comunque, allungherà i tempi dei processi. È vero. Parliamo di una norma che non andrà a regime prima del 2024 e che ‘concede’ un po’ di tempo in più per i reati di corruzione. Ma è veramente troppo poco perché è troppo lontano da quello che abbiamo promesso e realizzato”.

Se questi sono gli oppositori, Mario Draghi può stare ulteriormente tranquillo. Rischia di rimanere a palazzo Chigi per tutta la vita o comunque fino al giorno in cui si stancherà di avere a che fare con il nulla politico. Sì, perché alla lunga la politica dovrà pure ricominciare a farsi spazio. Draghi permettendo, ma soprattutto intelligenza consentendo.

 

 

Il calcio è bello perché è var

Appena il tempo di registrare una bella variante al solito andazzo pseudo-sportivo, mi riferisco al clima signorile della semifinale del calcio europeo (Italia- Spagna all’insegna del fair play), ed ecco profilarsi l’ennesima “sporcaccionata” che rovina tutto.

Andiamo con ordine. Il campionato mondiale di calcio 1966 o Coppa del Mondo Jules Rimet 1966 (in inglese: 1966 World Cup Jules Rimet), noto anche come Inghilterra ’66, fu l’ottava edizione del campionato mondiale di calcio per squadre nazionali maggiori maschili, organizzato dalla FIFA ogni quattro anni. Si svolse in Inghilterra dall’11 al 30 luglio 1966, con l’affermazione dei padroni di casa, vittoriosi in finale sulla Germania Ovest al termine dei tempi supplementari, grazie ad un gol fantasma assegnato all’Inghilterra.  La palla non era entrata in porta, ma…ad arbitro e segnalinee non parve vero poter concedere la rete agli inglesi, padroni di casa, che così si aggiudicarono il torneo.

È stato forse uno degli errori (?) arbitrali più clamorosi, che, a distanza di tanti anni, ha indotto il sistema calcio a introdurre il VAR, vale a dire il Video Assistant Referee, un assistente che collabora con l’arbitro in campo per chiarire situazioni dubbie (quelle specificatamente previste dal regolamento), avvalendosi dell’ausilio di filmati e di tecnologie, che consentono di rivedere più volte l’azione, a velocità variabile, da diverse angolature etc. etc.

Vengo al dunque. Durante la partita Inghilterra-Danimarca, giocata a Wembley (un indubbio vantaggio per la nazionale inglese), valida quale semifinale del torneo europeo è stato assegnato ai padroni di casa un rigore decisivo sul risultato finale, che io giudico inesistente, anche se dopo l’introduzione del VAR si parla di penalty concessi con generosità (un modo di dire per scusare gli arbitri che se ne fregano altamente della moviola perché vogliono favorire una squadra), nel caso specifico per motivi geo-calcistici (aggiungo io). C’è persino mancato poco che il Kane si mordesse la coda o, come si diceva in fanciullezza, che san Giovanni facesse vedere gli inganni: l’attaccante inglese si è visto infatti parare il tiro dal dischetto, ma è riuscito a ribadire in rete sulla respinta del portiere (un tap-in sul velluto), salvo poi gioire in modo spropositato e ingiustificato per una prodezza regalata due volte (prima l’arbitro e poi la buona sorte).

Cambiata la legge rispetto al 1966, trovato il solito inganno a favore del più forte di turno, l’Inghilterra appunto. In questi casi, per verificare se trattasi di errori arbitrali commessi in buona o mala fede, sono solito ipotizzare la situazione a parti invertite. Un rigore così generoso sarebbe stato concesso ai danesi? La domanda resta in sospeso o meglio la risposta tutti la sanno e nessuno la può dare apertamente.

Questo ennesimo episodio mi consiglia di ripiegare, come spesso mi succede, sugli insegnamenti paterni.  Ebbene, mio padre dell’arbitro non parlava mai, lo ignorava, lo riteneva un protagonista necessario ma ininfluente, un elemento esterno da prendere per quello che è (come la pioggia per i contadini, a volte come la grandine). Capiva perfettamente quando l’arbitro sbagliava, ma riteneva inutile, oltre che sconveniente, urlare contro di lui: è come abbaiare alla luna. C’era in questo atteggiamento un qualcosa di aristocratico: non mi abbasso a questionare con un soggetto in divisa. Può fare quel che vuole e meno male che è così, altrimenti sarebbe una bolgia. Era solito dire: “S’al spéta ch’a sbraja mi, al spéta un pés, l’arbitro. Al pól fisciär anca dez rigór…”. Ed aggiungeva, dicendo una cosa vera fino ad un certo punto, ma che può essere una sana regola calcistica: “Butta dentor dil bali int la rej e po’ l’arbitro al gh’ à poch da móvor”.

Torno ai danesi indirettamente tartassati dall’arbitro: potevano ben immaginare quel che è successo e allora dovevano fare qualcosa di più in campo. In tribunale per vincere una causa bisogna avere ragione, ma anche trovare un giudice che te la riconosce. Se tanto mi dà tanto, nel calcio, come diceva mio padre, per vincere bisogna buttare il pallone in rete, ma trovare un arbitro che possibilmente non ti ostacoli o non giochi contro di te. La nazionale italiana, che incontrerà quella inglese nella bolgia di Wembley per la finale del campionato europeo, è avvisata e, se vuole stare nel sicuro, dovrà fare molti gol, sperando che non glieli annullino e che non vengano concessi troppi calci di rigore agli inglesi. Oltre tutto, quando due squadre si equivalgono, basta poco per far pendere la bilancia da una parte. Staremo a vedere…

 

 

Quando entra in campo il fair play

Finalmente un evento calcistico che mi riconcilia umanamente con lo sport. Chi mi legge penserà alla vittoria della nazionale italiana contro la Spagna che ha guadagnato all’Italia l’accesso alla finale del campionato europeo. Non è la pur sofferta vittoria in sé che mi rende un po’ di serenità, ma il clima umanissimo in campo e sugli spalti che l’ha preceduta, accompagnata e seguita. Protagonista principale il commissario tecnico della nazionale spagnola Luis Enrique che ha offerto a tutti una lezione di stile e sportività, prima, durante e dopo la partita.

Non è facile sentire parole così misurate, educate, sportive ed amichevoli: nelle conferenze stampa concesse alla vigilia dell’incontro e subito dopo la sua conclusione ha avuto espressioni di grande stima verso la nostra squadra e verso il nostro Paese in cui peraltro ha vissuto nel periodo in cui ha allenato la Roma: una partita bella, giocata fra due belle squadre che attuano un bel gioco. Avrebbe potuto tranquillamente sostenere che la Spagna avrebbe meritato di vincere: è la pura e sacrosanta verità. Invece ha fatto i complimenti alla nazionale italiana ed ha garantito che per la partita di finale tiferà per l’Italia.

All’inizio del match si è avvicinato a lui Roberto Mancini, il nostro c.t. per il solito scambio di cortesie. Enrique era già seduto in panchina, si è alzato di scatto ed ha scambiato con il collega alcune parole cordiali ben al di là del protocollo. Durante la partita ha fraternizzato ripetutamente a bordo campo con i giocatori italiani stemperando così ogni pur timido accenno ad un eccessivo agonismo: un signore che oltre essere un tecnico di valore è anche e soprattutto un uomo di stile e correttezza. Non è facile trovare queste qualità in un mondo dove vige l’ansia di essere forti e vincenti a tutti i costi. Un esempio da cogliere e ricordare.

D’altra parte tutto l’incontro è stato caratterizzato da un clima piuttosto amichevole fra i calciatori, anche nei momenti di maggior tensione agonistica: finalmente hanno trionfato il rispetto per l’avversario e la competizione corretta e leale. Anche le tifoserie hanno osservato un comportamento colorito ed espansivo più che accettabile, merito forse dei buoni rapporti esistenti fra i due Paesi: della serie “se un’altra squadra deve vincere che sia l’Italia o la Spagna a seconda dei casi”.

Sono andato con la mente alla finale del campionato del mondo del 1982, Italia- Germania, giocata a Madrid con la presenza in tribuna dell’allora presidente Sandro Pertini a fianco del re di Spagna Juan Carlos: Pertini gioiva per il nostro successo trionfale tra la contenuta ma evidente soddisfazione del re e dei tifosi spagnoli. Esempi di come lo sport possa, oserei dire debba essere occasione per fraternizzare nella competizione, discorso che può andare addirittura virtuosamente oltre l’evento sportivo in se stesso.

Come non ricordare una partita del campionato italiano di serie A allo stadio Tardini di Parma: non saprei identificarla con precisione anche perché il ricordo, che voglio qui riportare, prescinde dal nome dei giocatori impegnati e tanto più dal risultato finale della gara. Si trattava comunque di una gara piuttosto in salita per il Parma, tutt’altro che una partita tranquilla, con scontri abbastanza forti, con un agonismo acceso che ovviamente coinvolgeva anche il pubblico. É chiaro che il pubblico non può essere distaccato e inamidato, è partecipe, qui sta il bello. Ma ci devono essere dei limiti e qui sta il difficile. Ebbene il pubblico seppe comportarsi in controtendenza rispetto all’eccesso di agonismo in campo. Durante quel Parma-Sampdoria di tanti anni fa, la tensione in campo stava assumendo dimensioni pericolose, l’arbitro stentava a controllare la gara, i giocatori tra falli e reazioni stavano veramente esagerando. C’era di che preoccuparsi, ma entrarono in campo (si fa per dire) le due tifoserie che dalle curve contrapposte si scambiarono cori di incitamento e di simpatia reciproci (i sampdoriani gridavano: Parma! Parma e i parmensi rispondevano: Sampdoria! Sampdoria!). Tutto il pubblico capì ed applaudì intensamente. I giocatori furono contagiati da tanto fair play e la partita si incanalò sui binari dell’assoluta correttezza. Confesso di essere rimasto colpito ed emozionato dall’episodio.

Italia-Spagna, recentissima semifinale del campionato europeo, ha visto tutti i protagonisti impegnati in un piacevole confronto all’insegna della cordialità e dello scambio di cortesie. Resterà impressa nei miei ricordi per l’emozionante clima umano che l’ha contraddistinta. La palma del fair play, come detto, va all’allenatore della nazionale spagnola Luis Enrique: persona che è passato attraverso gravi sofferenze a livello famigliare. Non voglio scadere nel moralismo o nella retorica, ma, c’è poco da fare, la sofferenza insegna a vivere e il comportamento di questo uomo di sport ne è forse la dimostrazione. Grazie comunque della lezione, che dovremmo cercare di imparare ed applicare con una certa continuità. Speriamo si tratti di una rondine che fa primavera.

La politica a volo d’uccello padulo

Capelli biondi cortissimi, occhiali da sole e abbronzatura dorata. Francesca Pascale, ex compagna di Silvio Berlusconi, arriva al gay pride di Napoli e saluta amici e responsabili Arcigay. “È il pride che aspettavo da tanto – dice – tra l’altro nella mia città, non vedevo l’ora”. Poi aggiunge: “C’è in Italia una parte politica che non riesce a vedere, non è all’altezza del Paese, che è cieca e le leggi non sono al passo con il tempo. La politica non sa ascoltare”.

Matteo Salvini in casco giallo e imbracatura “in volo” sulle Dolomiti Lucane. Il leader della Lega posta sulla sua pagina Instagram le immagini del suo “volo dell’angelo”: un cavo d’acciaio sospeso tra le vette di due paesi, Castelmezzano e Pietrapertosa, in provincia di Potenza, che permette di godere del panorama dall’alto.

Evidentemente Salvini ha preso alla lettera le parole della Pascale che lo accusavano, pur senza fare nomi e cognomi, di non riuscire a vedere e di non essere all’altezza del Paese: ci ha provato e, a suo dire, è stato uno spettacolo bellissimo. Cosa avrà visto dall’alto non lo so, probabilmente nell’alto del cielo non avrà incontrato la politica del suo partito (e non solo) che vola molto basso, terra a terra per raccogliere consensi senza farsi troppi problemi e cavalcando tutto quanto fa audience.

Le missioni spaziali non hanno incontrato alcun segno della presenza di Dio: forse qualcuno ci sperava intendendo distogliere lo sguardo di credenti e non credenti dalle porcherie di faccendieri e funzionari del Vaticano impegnati a corrompere, estorcere e riciclare i soldi dell’Obolo di San Pietro e del Papa.

Volare alto è bello e significa non preoccuparsi delle piccolezze della vita quotidiana, spesso non capirle neanche, quasi non le si vedesse nemmeno, come se ci si dovesse occupare di cose molto più importanti e per questo si volasse molto in alto, tanto da non riuscire a scorgere quello che succede a livello del suolo.

Attenzione però a non distrarsi perché è sempre pronto chi approfitta per fare a terra i propri affari e i propri comodi. Salvini è diventato un draghiano di ferro: lo incensa un giorno sì e l’altro pure, qualcuno sospetta che lo voglia lasciare al suo posto di governo fino al 2024 per poi collocarlo alla presidenza della Commissione europea al posto di Ursula von del Leyen. Non più presidente della Repubblica (è troppo poco…), ma addirittura alla testa dell’Europa. Salvini potrebbe rispondere: “Cosa avete da ridire e/o da ridere? mi sono convertito sulla via di Bruxelles! Draghi quindi ha fatto il miracolo. Adesso la Pascale pretende che io diventi amico dei gay…va bene tutto, ma non esageriamo”.

Mentre i grillini si stanno sfracellando sulla terra, Salvini spicca il volo verso il cielo europeo: l’avventura è appena cominciata. E i consensi, i voti, i tifosi leghisti? Guarderanno in alto e rimarranno con un palmo di naso. Si guarderanno attorno e si diranno: “Forse lo sta facendo per alzare la posta, vedrai che non ci tradirà. Giorgia Meloni non ci frega, resta sul pezzo solo perché ha paura di volare e di schiantarsi al suolo. La Lega è forte e vincerà”.

Non ho mai provato l’ebrezza del volo, soffro di vertigini. Meno male. Resto saldamente ancorato coi piedi a terra. Mi guardo attorno e non vedo più Salvini. Dov’è andato? In alto! Speriamo che non torni più giù. Intanto che c’era, poteva portarsi dietro qualche personaggio. Che so, il cardinale Giovanni Angelo Becciu, Luigi Di Maio, Beppe Grillo, per andare in orbita e girare intorno alla terra: un bello spettacolo per loro, una liberazione per noi!

 

 

La deriva parolaia dell’anti-calcio

Il fenomeno calcistico è ormai costretto a vegetare fra due confini uguali e contrari: da una parte il bisogno sempre maggiore di soldi a fronte di un ambaradan incontrollabilmente spendaccione e dall’altra l’inflazione di chiacchiere che ormai copre la voce sportiva e spettacolare del calcio giocato. Una sorta di magro gatto pallonaro che si morde la coda parolaia.

Mio padre era un pragmatico profeta: per evitare accuratamente le scorie accumulate pretendeva che il dopo partita durasse i pochi minuti utili per uscire dallo stadio, scambiare le ultime impressioni, sgranocchiare le noccioline, guadagnare la strada di casa e poi…. Poi basta. “Adésa n’in parlèmma pu fìnna a domenica ch’ vén”. Si chiudeva drasticamente e precipitosamente l’avventura calcistica in modo da non lasciare spazio a code pericolose ed alienanti, a rimasticature assurde e penose.

E il prepartita? Grazie a Dio, non era fatto delle odierne chiacchiere assurde di schiere di commentatori prezzolati o dei rituali tafferugli tra gruppi di tifosi, ma era costituito dall’osservare da vicino il riscaldamento degli atleti di “casa”, i miei beniamini (mi accontentavo di poco rispetto alle star superpagate di oggi), negli spiazzi intorno alle gradinate. Mio padre accondiscendeva a costo di perdere qualche buona posizione sulle gradinate di curva e sopportando un piccolo quanto innocuo cedimento al divismo: non ricordo con precisione, ma credo che qualche volta, per conferire una punta di umanità alla scena, mi abbia supportato nello stringere la mano a quelli che lui sapeva essere i miei “preferiti” (ricordo con tanta nostalgia Beppe Calzolari fra tutti). Allora tutto aveva una dimensione umana ben lontana dall’anonimo, industriale, artificioso, violento divismo calcistico di oggi.

Oggi le chiacchiere la fanno da padrone prima, durante e dopo la partita: il mezzo televisivo che dovrebbe valorizzare al massimo le immagini è ridotto al tourbillon di commenti stereotipati di una schiera interminabile di soggetti capaci di rovinare il bello della diretta e di introdurre la penosa elaborazione dell’ovvio (forse non è un caso che l’intercalare asfissiante dei discorsi sia proprio l’avverbio “ovviamente”).

Il calcio è uno sport di squadra e allora cosa c’è di tanto originale nel fatto che la forza di una squadra di calcio stia nel gruppo o nel collettivo? Salvo poi estrapolare i divi in campo e metterli a confronto in una sarabanda mediatica teorica e fuorviante. Vincerà Ronaldo o Lukaku a prescindere dalle squadre a cui appartengono?! E infatti sono entrambi usciti dalla competizione nonostante la loro bravura.

Il calcio è bello perché è imprevedibile: il più debole può mettere in difficoltà e prevalere sul più forte. E allora che senso ha ricercare in modo parossistico la funzionalità degli schemi di gioco e puntare su teorizzazioni che vengono regolarmente smentite nello spazio di alcuni istanti. Quante volte capita di osservare come la squadra che viene considerata prevalente nel gioco sia immediatamente destinata a soccombere per uno strano episodio, che butta all’aria tutte le previsioni e le constatazioni.

Le partite si decidono a centro-campo. Mia madre, nella sua ingenua e simpatica verve critica, pensava che giocare a centro-campo significasse rimanere rigidamente nel cerchio disegnato sul terreno di gioco, così come si chiedeva se il goal fosse valido quando la palla entra in porta e poi esce.  Mio padre, molto più smagato, sosteneva che per vincere le partite bisognava tirare in porta con insistenza e coraggio: “Se net tir miga in porta sarà difficil cat fag goal…”. Gli stucchevoli teorici del centro-campo erano serviti e umiliati nelle loro assurde farneticazioni tattiche.

Loro sono forti, ma noi vogliamo batterli. Altro approccio scontato e ridicolo alla gara. Ci mancherebbe altro che qualcuno giocasse per perdere…anche se a volte viene qualche sospetto, che poi magari diventa certezza…

Un rosario di sciocchezze propinato ad una platea imbambolata dalle chiacchiere: aggiungete la retorica dell’amor di patria o di club, le lisciate al pelo delle tifoserie, gli osanna spropositati al vincitore di turno, i sentimentalismi fuori luogo, le reiterate moviole, le discussioni fra addetti ai (non) lavori per arrivare al disgustoso salotto, che fa di tutto per rovinare il più bel gioco del mondo.

Forse sarebbe il caso di riprendere le drastiche esclamazioni di mia madre di fronte alla baraonda degli uomini che ruotano attorno al calcio: “Co’ farisla tutta ch’la génta lì s’a ne gh’ fìss miga al balón?”.  Non avrebbero più pane per i loro denti, il castello crollerebbe rovinosamente ed in effetti qualche importante cedimento ha cominciato a verificarsi.

Il nonno del centro-destra

«Rieccolo!». Così Montanelli, con un po’ di ironia, ma anche con la simpatia che da «toscanaccio» riservava al suo illustre corregionale, salutava Fanfani ogni volta che tornava a riapparire con incarichi importanti nel mondo politico. Ne apprezzava la volontà combattiva, l’onestà e, soprattutto, la mancanza di compiacenza verso amici e avversari, che era la caratteristica che distingueva il leader «brevilineo», come egli stesso implicitamente si era definito in un famoso saggio scritto nel 1934, quando insegnava alla Cattolica (Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo).

Questo richiamo ad Amintore Fanfani può essere considerato quasi sacrilego, ma mi serve a introdurre dialetticamente un breve discorso sull’attualità politica di Silvio Berlusconi: non voglio confondere il sacro col profano, ma solo ironizzare sulla capacità del cavaliere di riciclarsi anche quando sembra ormai finito e tenta di rispuntare “più bello e più superbo che pria”.

Questa nuova menata del partito unico del centro-destra, da lui strumentalmente cavalcata, non me l’aspettavo. Egli ipotizza “un grande lavoro che coinvolga i militanti, gli eletti e soprattutto l’opinione pubblica di centrodestra, le categorie, donne e uomini della società civile vicini alle idee, ai valori e ai legittimi interessi che noi rappresentiamo. Solo così, da un grande lavoro sulle idee, sui programmi e sulle regole, può nascere per gradi un’aggregazione nella quale le diverse soggettività siano esaltate, non annullate” (vedi intervista rilasciata a Tommaso Labate del Corriere della sera).

In effetti la vita politica italiana dal dopoguerra in avanti è sempre stata caratterizzata dalla mancanza di una forza di destra o di centro-destra, schiettamente democratica, di stampo liberale, di chiara vocazione europeista, conservatrice ma non reazionaria. Questo spazio era ricoperto, in un certo senso, dalla Democrazia Cristiana, che però era un movimento di ben altra portata dal punto di vista storico, sociale ed internazionale. Quando finì il dualismo politico della DC e del Pci, Berlusconi si candidò a ricoprire questo ruolo o meglio finse di ricoprirlo, ma in realtà a lui premeva la rappresentanza dei suoi interessi coperti da una coltre pseudo-democristiana: molti caddero nel tranello di un rinnovato improbabile e anacronistico anticomunismo e gli diedero fiducia sprofondando il Paese in una penosa operazione di mediatico rilancio di una politica più vicina ai trascorsi fascisti che a quelli democristiani.

Cosa è stato il berlusconismo?

Una prima risposta, ormai più storica che politica, che potremmo definire con l’espressione “il regime c’era”, individuava, con asprezza, precise e inequivocabili prove dell’esistenza di un vero e proprio regime incombente sulla società’ italiana e non si faceva alcun scrupolo a definirlo, più o meno, come fascista in continuità con l’esperienza passata nel nostro Paese ed a livello mondiale.

Una seconda chiave interpretativa, etichettabile con la frase “c’erano i presupposti per un regime”, riscontrava con forte preoccupazione indizi e sintomi di una malattia in incubazione, individuando molte analogie del clima socio-politico in cui nacque il berlusconismo con quello che preparò l’avvento del fascismo.

Una terza visione culturale partiva da come le destre interpretano la modernità, a seconda dei diversi contesti politici, per ipotizzarne le caratteristiche camaleontiche riassumibili nelle diverse definizioni: carismatiche e tecnocratiche, personalistiche e razziste, nazionalistiche o localistiche. Ciò senza occultare i rischi di autoritarismo, populismo ed altre patologie simili.

Questa terza linea critica la potremmo definire in estrema sintesi con la locuzione “a destra il regime ci può scappare, ma in senso moderno”: ben lungi dal ricostituire ordinamenti del passato le destre sono allo sbando in un mondo conflittuale ed incerto.

Berlusconi intende affrancarsi da questa gabbia, facendo un salto definitivo nella democrazia, lasciando di sé un ricordo migliore rispetto a quello emergente dalla storia degli ultimi trent’anni. Se non c’è riuscito quando aveva un forte consenso e spadroneggiava a più non posso sugli alleati, figuriamoci se potrà farlo oggi, con indici di gradimento da prefisso telefonico, con evidente inferiorità rispetto alle altre forze di destra. Siamo alla tattica e niente di più: il tentativo di chiudere in bellezza un impegno politico, decisamente vergognoso, con un autentico colpo di reni.

Intendiamoci, alcune delle attuali intuizioni non sono disprezzabili: mi riferisco al giudizio tranchant sul movimento pentastellato, alla scelta europeista, alla rinuncia ai localismi ed ai nazionalismi, al rientro in un rispettoso e riguardoso gioco istituzionale, ad una generica ma pur sempre apprezzabile adesione ad un centrismo politicamente liberale, economicamente liberista, socialmente interclassista.

Il problema sono gli interlocutori, i potenziali compagni di viaggio, i partner e persino il suo striminzito gruppo dirigente. Berlusconi si rende perfettamente conto della povertà della proposta politica di un centro-destra che potrebbe persino diventare maggioritario nel Paese e quindi, nonostante l’età, si sta paradossalmente candidando ad esserne il padre nobile. Non ce la può fare! Non riuscirà ad andare oltre un misero notabilato di risulta: meglio di niente per i suoi affari, ma meno di niente per il Paese.

Tutto sommato mi dispiace, mi fa tenerezza, perché dice anche cose giuste, ma completamente fuori tempo. Faccio, solo per spiegarmi, un altro richiamo sacrilego. Durante l’ultima fase politica della vita di Francesco Cossiga, quella di “picconatore”, improntata alla disinibita, simpatica, acuta, ma sconclusionata e logorroica, denuncia dei mali della politica, Marcello Dell’Utri, con una delle sue celebri frasi, diede una definizione folgorante dell’ex presidente della repubblica: «Ormai Cossiga può dire quello che vuole. È come il nonno di casa: fai finta di niente anche se esce in mutande». È così, a maggior ragione, per Berlusconi: l’ultima sclerata da ego ipertrofico? Vuole il Quirinale, si dà un 10-15% di possibilità, dice di avere dalla sua già 476 grandi elettori. Se va avanti di questo passo, forse rischia di uscire di casa addirittura senza mutande, esibendo quegli attributi tanto a lui cari e ormai solo un triste cimelio di una triste epoca.

 

Il delirar non vale

Il nuovo allenatore della Roma José Mourinho è arrivato nella Capitale nel primo pomeriggio. Ad attenderlo all’aeroporto di Ciampino centinaia di tifosi che hanno sfidato il gran caldo e lo hanno accolto con cori e applausi. Lo Special One ha lasciato l’aeroporto in automobile, salutando i supporter agitando una sciarpa giallorossa. Successivamente ha raggiunto il centro sportivo di Trigoria. Qui Mourinho si è affacciato dal terrazzo dell’impianto per salutare i tifosi in delirio.

I deliri calcistici sono assurdi: generalmente scoppiano dopo importanti vittorie (speriamo nella vittoria della Nazionale al campionato europeo, possibilmente senza delirio pre o post partita). Figuriamoci l’assurdità se si scatenano addirittura alla sola vista di un nuovo allenatore, che promette sfracelli trionfali per la squadra di calcio, nel caso la Roma.

In un capitoletto del libro dedicato a mio padre ed ai suoi pulpiti educativi, tra cui aveva un posto di primo piano lo stadio, entra in gioco la figura dell’allenatore: mio padre lo considerava “un professionista” da giudicare come tale, senza sottovalutarlo ma anche senza enfatizzarne il ruolo. Mi sembra che l’attuale andamento del mondo calcistico tenda ad esagerarne la funzione e di conseguenza a scaricargli addosso meriti, colpe e responsabilità eccessive.

Come non ricordare quando di fronte ad errori clamorosi di un giocatore (occasione da goal fallita, passaggio decisivo totalmente errato etc.) mio padre provocatoriamente affermava: “L’ é tutta colpa ‘d l’alenadór”. Lo scarica barile è un mezzuccio che non risolve i problemi, intendeva dire.

Consentitemi di riportare un piccolo episodio, questa volta, davanti al video, vale a dire una delle solite vuote interviste propinate ai fanatici del pallone. Parla il nuovo allenatore di una squadra, non ricordo e non ha importanza quale, che ottiene subito una vittoria ribaltando i risultati fin lì raggiunti. L’intervistatore chiede il segreto di questo repentino e positivo cambiamento e l’allenatore risponde: “Sa, negli spogliatoi ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che dovevamo vincere”. Non ci voleva altro per scatenare la furia ironica di mio padre che, scoppiando a ridere, soggiunse: “A s’ capìssa, l’alenadór äd prìmma, inveci, ai zugadór al ghe dzäva äd perdor”.

 A proposito di allenatori poco fortunati ne voglio citare uno del Parma (non chiedetemi i periodi e le date perché non li ricordo) un certo Canforini, tecnico che dalle formazioni giovanili era approdato alla prima squadra. Le cose obiettivamente non andavano bene, la squadra era indiscutibilmente in crisi e – succedeva purtroppo anche allora – scattò la contestazione dei tifosi. Ognuno è libero di esprimere le proprie critiche, più che mai in un ambiente come lo stadio, ma a tutto c’è un limite. Al termine dell’incontro, finito molto male per il Parma, l’allenatore Canforini fu accolto all’uscita dagli spogliatoi da una pioggia di sputi. Mio padre lo imparò il giorno successivo dalle cronache del giornale, perché evitava scrupolosamente i dopo-partita più o meno caldi. Ne rimase seriamente turbato dal punto di vista umano e reagì, alla sua maniera, dicendomi: “E vót che mi, parchè al Pärma l’à pèrs, spuda adòs a un òmm, a l’alenadór? Mo lu ‘l fa al so mestér cme mi fagh al mèj. Sarìss cme dir che se mi a m’ ven mäl ‘na camra al padrón ‘d ca’ al me dovrìss spudär adòs! Al m’la farà rifär, al me tgnirà zò un po’ ‘d sòld, mo basta acsì.” Mio padre esercitava il mestiere di imbianchino e quegli sputi se li era sentiti addosso. Non poteva concepire un’offesa del genere, soprattutto in conseguenza di un fatto normalissimo anche se spiacevole: perdere una partita di calcio. E continuò dicendo: “Bizòggna ésor stuppid bombén, a ne s’ pól miga där dil cozi compagni.”

É una delle cose dette da mio padre che mi è rimasta più impressa. Peccato che allo sfortunato Canforini non bastò ad evitare l’esonero, ma fu sufficiente, senza saperlo, ad avere la solidarietà di un uomo che lavorava e sbagliava né più né meno come lui. Non so come proseguì la carriera di Canforini, se tornò ad allenare le giovanili, se cambiò squadra, se cambiò mestiere, se cambiò città, ma continuò ad avere tutta la mia “guidata ed ispirata” solidarietà.

Ma torniamo ai nostri giorni, alla Roma ed al suo nuovo allenatore. Quasi quasi ci scappava un’autentica e preventiva incoronazione di José Mourinho. Come successe tanti anni fa con Zico incoronato re di Udine al suo arrivo nella città friulana: cose da pazzi! Mio padre lo aveva soprannominato “col da la ghirlanda”, in quanto gli avevano messo una corona d’alloro al collo. Oltre tutto e forse prima di tutto non accettava gli ingaggi miliardari, ne avvertiva l’assurdità prima dell’ingiustizia, faceva finta di scandalizzarsi, ma in realtà coglieva le congenite contraddizioni di un sistema sbagliato. Mi riferisco al sistema calcio ma anche al sistema più in generale. Sogghignava di fronte agli scandalosi ingaggi: “Mo co’ nin farani äd tutt chi sòld li, magnarani tri galètt al di?”.  Scherzi a parte mio padre era portatore di un’etica del dovere, del servizio e reagiva, alla sua maniera, alle incongruenze clamorose della società.

Amava mettere a confronto il fanatismo delle folle di fronte ai divi dello sport e dello spettacolo con l’indifferenza o, peggio, l’irrisione verso uomini di scienza o di cultura. Diceva: “Se a Pärma a véna Sofia Loren i corron tutti, i s’ mason par piciär il man, sa gnìss a Pärma Fleming i gh’ scorèzon adrè.”

È arrivato José Mourinho e la solfa è sempre la stessa, forse anche peggio, perché Sofia Loren era un’artista dello schermo cinematografico, mentre Mourinho è un artista dei miei stivali.

 

 

Il male copre gli spazi di una vita vuota

È a dir poco sconvolgente l’omicidio di Chiara Gualzetti ad opera del suo “amichetto”: quindicenne lei, sedicenne lui. Il fatto, avvenuto a Monteveglio in provincia di Bologna, così come raccontato dal protagonista, è scioccante: il male per il male, la violenza fine a se stessa, un’uccisione inspiegabile e atroce. Riprendo seppure a malincuore, la cruda ricostruzione del delitto fatta, peraltro con obiettività e discrezione, da Niccolò Zancan sul quotidiano La Stampa.

«Chiara non moriva mai, mi sono stupito della sua resistenza». Bisognerebbe fermarsi qui. Davanti a queste parole del ragazzo che si credeva Lucifero. Le ha pronunciate davanti al gip per spiegare perché, dopo quattro coltellate, la prima alle spalle, poi abbia anche preso a calci e ucciso a furia di botte Chiara Gualzetti, 15 anni, la ragazza che aveva attirato in una trappola. Lei non voleva morire, anche se in un messaggio aveva parlato di morte. Domenica mattina credeva di andare a fare una passeggiata assieme a un ragazzo che le piaceva, credeva di andare a camminare sui sentieri che portano all’Abbazia di Monteveglio. «Parliamo un po’ e poi ti riporto casa», le aveva detto lui. Era passato a prenderla. Aveva anche salutato suo padre. 

C’è una telecamera che li inquadra: lui e lei si abbracciano per un istante, prima di allontanarsi camminando vicini. Ma domenica mattina, il ragazzo che si credeva Lucifero aveva già deciso ogni cosa. Aveva sfilato un coltello dal ceppo della cucina e aveva indossato una maglietta rossa forse, questo è il sospetto degli investigatori, per nascondere le macchie di sangue che sicuramente ci sarebbero state. Era un piano. Aveva già pensato in passato di uccidere Chiara Gualzetti. «Con qualcuno dovevo farlo. Ho scelto lei perché mi stava sempre addosso. Mi aveva scocciato. Non la sopportavo più. Mi stancava». Chiara ha cercato di difendersi con tutte le forze.  

Il ragazzo è accusato di omicidio volontario premeditato: «Ha infierito con estrema violenza e determinazione». Ieri il fermo è stato convalidato. Secondo il gip del tribunale per i minorenni deve restare in carcere perché potrebbe fare ancora del male a se stesso e anche agli altri.  Non ritiene che sia stato il gesto di un folle. Tutt’altro: «Al momento appare capace di intendere e di volere rispetto a un reato il cui concetto illecito è di immediata percezione». E poi la sua vita era «regolare e costantemente condotta in un ambiente familiare sostanzialmente adeguato». Anche il suo comportamento dopo il delitto fa ritenere al gip di trovarsi di fronte a una persona consapevole. Perché sono «lucidi e freddi i tentativi di nascondere le tracce e di negare le responsabilità».

Il gip non crede al ragazzo che diceva di parlare con il demonio, ispirato dal protagonista Lucifer della serie Netflix. Non all’assassino che ha detto così: «Uccidere era l’unico modo che avevo per stare in pace. Da quando ho dodici anni il demonio mi dà la carica e mi costringe a fare del male».

Il giudice sottolinea l’inconsistenza delle motivazioni del gesto e comunque l’assenza di ragioni reali di contrasto con la vittima. Parla di “estrema violenza e determinazione dimostrate durante tutto il corso dell’aggressione, che ha avuto una durata significativa e ha visto il giovane colpire ripetutamente con coltellate al collo, al petto e alla gola la vittima e infine colpirla anche con calci”. Il gip sottolinea inoltre la necessita del carcere per la “mancanza di scrupoli, di freni inibitori, di motivazioni e segnali di resipiscenza” come emerge “dal tenore dei messaggi vocali inviati a un’amica subito dopo i fatti”. Dagli accertamenti investigativi infatti è emerso che subito dopo aver ucciso Chiara Gualzetti il sedicenne ha mandato messaggi vocali “dal tenore inequivoco” a un’altra amica “cui raccontava quello che aveva commesso”.

La procura ha chiesto, comunque, una perizia psichiatrica. Ma anche l’avvocato Giovanna Annunziata, che difende la famiglia Gualzetti, si oppone all’ipotesi che sia stato il gesto di uno squilibrato: «Ha organizzato tutto, ha cancellato le chat, domenica pomeriggio ha risposto alle telefonate degli amici come se nulla fosse successo. Non c’è follia».

Adesso ci sono due famiglie distrutte. Ieri sera mille persone hanno sfilato per Chiara Gualzetti a Monteveglio, per stare accanto ai genitori Giusi e Vincenzo. È stata una fiaccolata piena di dolore e di sgomento.   

Proprio in questi giorni sto leggendo un romanzo giallo, “Pizzica amara” di Gabriella Genisi, e volentieri cedo la parola all’immaginario sacerdote chiamato a commentare un’analoga situazione di violenza giovanile. Nell’omelia ai funerali di una ragazza di diciassette anni vittima della macchina del male dice così: “Sapete che il male ha lasciato i suoi frutti avvelenati su questa terra da qualche anno. E che le sue vittime preferite sono i giovani. Perché si deve essere ciechi o vigliacchi per non riconoscere che sono tutti vittime dello stesso male, che si insinua lento come un gas venefico nelle menti di quei giovani, così fragili, curiosi e arditi. Il male si nutre del vuoto, delle zone d’ombra, delle cicatrici della nostra coscienza, della società. Il male prospera e si diffonde dove trova l’incuria, l’abbandono. Il male si annida nel compromesso con le nostre coscienze, nell’accidia dei nostri cuori, nella solitudine delle nostre esistenze, private di vere relazioni affettive, di un modello di vita che ci allontana da noi, ci disconosce. Quanti più spazi vuoti gli lasciamo, più il male tenderà a espandersi, nella nostra vita sociale e in quella individuale. I ragazzi sono i figli derubati dai padri. Derubati della speranza ma anche della nostalgia, condannati a essere senza futuro e senza passato. Gli abbiamo dato dadi truccati per giocarsi la vita, e loro si sono accorti dell’inganno. Cercano di riempire quel vuoto di senso, di prospettiva, di assoluto che gli spettano di diritto alla loro età e che gli sono stati portati via. Ma le domande incalzanti non trovano, spesso, che balbettii inadeguati da parte dei loro padri. Ed è qui che il male li attende al varco, fornendogli quelle risposte che vanno cercando, blandendoli, seducendoli. Se riesce a ghermirli, a trasformarli in suoi strumenti, è perché noi li abbiamo lasciati soli o non siamo stati in grado di proteggerli. Quasi sempre, nonostante le nostre migliori intenzioni”.

La finzione letteraria non finisce qui, perché il sacerdote, dopo la spietata analisi, procede nella sua provocatoria omelia con proposte impegnative per tutti: “Ognuno di noi deve interrogarsi su quanto spazio abbiamo ceduto al male, coltivando la menzogna, la cupidigia, l’edonismo, abbandonandosi al facile guadagno piuttosto che al duro lavoro onesto, alla cura del giardino che il Signore ci ha regalato e i nostri padri hanno saputo coltivare, dove adesso cresce e prospera la pianta infestante del male. Ognuno di noi deve sentirsi in guerra contro il maligno che avanza e minaccia i nostri giovani e il territorio. Ed è una guerra che va combattuta riempiendo quegli spazi vuoti che abbiamo lasciato alla sua mercé, curando la nostra anima ogni giorno, restituendo senso e valore alle vere relazioni, quelle che ci legano alla famiglia, al vicinato, alla comunità fatta di persone che condividono lo stesso progetto di vita, ciascuna a modo suo. I nostri ragazzi, quelli più sensibili, sentono sulla loro pelle l’enorme ingiustizia di questa condizione in cui gli è dato vivere. Abbracciamoli, anche quando ci dimostrano la loro ostilità. Scendiamo nei loro silenzi e ridiamogli voce. Aiutiamoli a svelare la menzogna di quelle lusinghe, affinché non ci siano altre vittime, quelle che conosciamo e chissà quante che non conosciamo”.

Non ho niente da aggiungere!

 

Ucci ucci sento odor di fascistucci

“Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, diceva Voltaire. Sarà bene che i cittadini italiani, i governanti, i responsabili della vita nelle carceri e tutti coloro che operano in esse si ficchino bene in testa questo aforisma dal momento che la condizione carceraria italiana è drammaticamente violenta, umanamente inaccettabile, giuridicamente anticostituzionale in quanto viola i diritti della persona e contraddice pienamente la funzione rieducativa della pena.

Vediamo in rapida sintesi le reazioni politiche alle intollerabili violenze subite da alcuni detenuti del carcere di Santa Maria Capua da parte di agenti della Polizia Penitenziaria. Per la ministra Cartabia si è trattato di «un’offesa e un oltraggio alla dignità della persona dei detenuti e anche a quella divisa che ogni donna e ogni uomo della polizia penitenziaria deve portare con onore, per il difficile, fondamentale e delicato compito che è chiamato a svolgere». Poi aggiunge: «è un tradimento della Costituzione: l’art.27 esplicitamente richiama il “senso di umanità”, che deve connotare ogni momento di vita in ogni istituto penitenziario e si tratta di un tradimento anche dell’alta funzione assegnata al corpo di polizia penitenziaria, sempre in prima fila nella fondamentale missione, svolta ogni giorno con dedizione da migliaia di agenti, di contribuire alla rieducazione del condannato». In particolare, la ministra ha chiesto approfondimenti sull’intera catena di informazioni e responsabilità, a tutti i livelli. «Di fronte a fatti di una tale gravità non basta una condanna a parole. Occorre attivarsi — spiega la Guardasigilli — per comprenderne e rimuoverne le cause e perché fatti così non si ripetano. Ho chiesto un rapporto completo su ogni passaggio di informazione e sull’intera catena di responsabilità. Vicenda che ci auguriamo isolata e richiede una verifica a più ampio raggio, in sinergia con il capo del Dap, con il Garante nazionale delle persone private della libertà e con tutte le articolazioni istituzionali, specie dopo quest’ultimo difficilissimo anno, vissuto negli istituti penitenziari con un altissimo livello di tensione. Oltre quegli alti muri di cinta delle carceri – conclude la Ministra Cartabia — c’è un pezzo della nostra Repubblica, dove la persona è persona, e dove i diritti costituzionali non possono essere calpestati. E questo a tutela anche delle donne e degli uomini della Polizia penitenziaria, che sono i primi ad essere sconcertati dai fatti accaduti».

Il Partito democratico ha chiesto alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, di riferire in aula sugli «abusi intollerabili». «Sono violenze inaccettabili e vergognose in un Paese civile — ha spiegato Piero De Luca, vicepresidente Pd alla Camera — e il nostro gruppo chiede che la ministra Cartabia riferisca in Parlamento su quanto accaduto». Le immagini dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, diffuse dal quotidiano Domani, per il segretario Dem, Enrico Letta, sono «così intollerabili che non possono avere cittadinanza nel nostro Paese, a maggior ragione gravi perché ascrivibili a chi deve servire lo Stato con lealtà e onore».

Per Matteo Salvini, leader della Lega, «chi sbaglia paga soprattutto se indossa una divisa però non si possono coinvolgere tutti i 40mila donne e uomini di polizia penitenziaria e non si possono sbattere in prima pagina con nomi e cognomi, serve rispetto per uomini in divisa che ci proteggono in strada, i singoli errori vanno puniti, conosco quei padri di famiglia sotto accusa e sono convinto che non avrebbero fatto nulla di male». Salvini aggiunge: «giovedì sarò a Santa Maria Capua Vetere per portare la mia solidarietà agli agenti della penitenziaria, la Lega sarà sempre dalla parte delle forze dell’Ordine».

C’è stata una riunione straordinaria al ministero della Giustizia sulla situazione nelle carceri e proprio la ministra, Marta Cartabia, ha convocato il capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap), Bernardo Petralia, il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma e il sottosegretario Francesco Paolo Sisto. Inoltre sono state disposte le sospensioni di tutti i 52 indagati raggiunti da misure di vario tipo. Il Dap sta valutando ulteriori provvedimenti anche nei confronti di altri indagati, non destinatari di provvedimenti cautelari, e ha disposto un’ispezione straordinaria nell’Istituto del casertano, confidando nel pronto nulla osta da parte della magistratura.

Si sprecano le dichiarazioni di garanti, magistrati e associazioni varie: meno male che qualcuno ha ancora il coraggio di indignarsi di fronte ai detenuti in ginocchio, colpiti a pugni e manganellate, pestati con una violenza inaudita. Riporto quelle che provengono dalla società civile.  Per il presidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo si è trattato di «un pestaggio squadristico» mentre per Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia «come 20 anni fa a Bolzaneto, funzionari dello stato hanno infierito su persone in loro custodia immaginando che quei fatti non sarebbero diventati pubblici o comunque confidando nell’impunità ma a differenza del 2001, ora la parola “tortura” nel codice penale esiste e chiediamo che la legge adottata tardivamente nel 2017 sia ora applicata».

Mi permetto di aggiungere che, guardando le suddette immagini, mi sono vergognato di essere italiano: non è possibile assistere indifferenti a simili episodi, che non sono isolati, ma sono la punta dell’iceberg della condizione carceraria, fatta di maltrattamenti, suicidi, pestaggi, violenze di ogni genere, riduzione del detenuto a carne da macello sull’altare del perbenismo della società. Ha perfettamente ragione l’Anpi a scandalizzarsi, perché dalle carceri sorge una terribile puzza di fascismo. Non è questione di mele marce, ma di una mentalità purtroppo presente e diffusa in molti servitori dello Stato e di chi li comanda.

Posso immaginare lo stress e il logorio del vivere a contatto continuo con la delinquenza, prima e dopo la condanna, ma se un poliziotto non si sente di fare questo mestiere, vada a fare qualcosa d’altro. Il discorso vale per molte professioni difficili e delicate, ricoperte con sufficienza e senza motivazione ed impegno. Non pretendo eserciti di missionari, ma persone seriamente e correttamente impegnate nel proprio lavoro.

Temo poi che continui ad esistere un subdolo indottrinamento su chi svolge compiti di ordine pubblico: un senso di superiorità e di impunità che sfocia nella violenza quale arma per ripristinare l’ordine. Spesso le polizie, anche quelle dei cosiddetti Paesi democratici, sono schierate a difesa non dell’ordine e della legalità, ma dei regimi, palesi od occulti che siano. È molto simpatica ed “anarchica” la battuta con cui mio padre fucilava l’autoritarismo dall’alto al basso e dal basso all’alto: «A un òmm, anca al pu bräv dal mónd, a t’ ghe mètt in testa un bonètt, al dvénta un stuppid».

Non si può generalizzare, ma non si deve nemmeno minimizzare e marginalizzare il fenomeno. La politica di destra è strumentalmente o ideologicamente, e comunque vomitevolmente, schierata dalla parte del manico. Cosa vuol dire essere sempre e comunque dalla parte delle forze dell’ordine? Io sono sempre e comunque dalla parte di chi si sforza di fare bene il proprio dovere e di chi cerca di rispettare il doveroso confine tra difesa della società democratica e uso gratuito della violenza di regime.

La politica di sinistra parla bene e razzola male, non ha il coraggio di sposare fino in fondo certe scomode cause, che non portano voti, ma che rispondono allo spirito costituzionale ed autenticamente democratico. Si dice che la sinistra sia alla riscoperta della propria identità. Ebbene, dove sta l’identità della sinistra se non nella difesa dei diritti dei deboli: i carcerati, checché se ne dica, sono fra questi, a prescindere dai motivi per cui sono stati condannati. Viene prima l’incolumità dei carcerati o la difesa corporativa delle guardie carcerarie? Sono consapevole di lanciare “un masso” in piccionaia.

Chiudo con un giudizio temerario sull’attuale ministra della giustizia Marta Cartabia. Apprezzo le nobili parole con cui ha reagito al pestaggio in carcere, però la vedo chiusa nella sua stanza giuridica, colta e nobilmente impegnata, ma lontana dalle profonde ansie della società, una bravissima professoressa al ministero, una governante con tanta competenza ma con poco cuore. Si fa il suo nome quale prossima presidente della Repubblica in nome della competenza, nuovo approdo della politica, e della femminilità, nuova risorsa della società.  Sono d’accordo sulle premesse, ma ricordiamoci che la politica deve avere anche il cuore: e non è un aforisma sentimentaloide e, tanto meno, un espediente retorico.

 

 

 

Le istituzioni non possono andare affanculo

Si sta consumando la triste fine del M5S a dimostrazione che i partiti non si fanno con quattro cazzate urlate in piazza e mandando affanculo la politica. Anche Giuseppe Conte viene sostanzialmente “vaffanculeggiato” da un redivivo Beppe Grillo. Alcuni osservatori e commentatori politici si preoccupano di quanto sta accadendo ai vertici pentastellati e delle ricadute che una simile devastante vicenda potrà avere sui futuri equilibri politici italiani. Personalmente credo, tutto sommato, sia meglio la chiarezza rispetto a striminziti accordi al fine di arginare la deriva qualunquista e/o la crescente ondata di destra.

Come si può pensare ad un futuro politico che veda protagonista il manicomiale (il termine è di Marco Travaglio, che di grillini se ne intende) movimento pentastellato. Dove finirà l’elettorato grillino? Probabilmente si sparpaglierà un po’ qui un po’ là. Guai però se la politica inseguisse il consenso tra le fila di un esercito in rotta. Se il Partito democratico è una cosa seria, deve cominciare a ipotizzare un futuro serio, smettendola di cincischiare alla ricerca di accordicchi con personaggi squallidi e inaffidabili. La parentesi grillina va chiusa. Occorrerà tempo e pazienza.

C’è però alle porte una scadenza delicata e preoccupante: l’elezione, all’inizio del 2022, del presidente della Repubblica. Accantonata a malincuore l’ipotesi di una riconferma di Sergio Mattarella (lo rimpiangeremo molto), il rischio è quello di un Parlamento in confusione totale, sia a sinistra (?) che a destra (?), una sorta di bagarre da cui dovrebbe uscire colui che ricoprirà la massima carica dello Stato fino al 2028.

Che il centro sinistra (lo chiamo così solo per semplificare) si presenti in ordine sparso, soprattutto in casa pentastellata, non è un bene, anche se la storia insegna che gli equilibri politici predeterminati non hanno retto positivamente all’urto dell’elezione presidenziale. Il capo dello Stato infatti, pur essendo eletto dal Parlamento, in cui siedono i rappresentanti dei partiti, non dovrebbe rispondere ad una maggioranza, ma rappresentare, al meglio possibile, tutta la nazione.

Anche nell’area di centro-destra (la chiamo così per non offendere chi in essa sta rovistando nel torbido) ci sono lavori in corso e quindi il manicomio potrebbe allargarsi e pensare ad un presidente neuro-psichiatra non è il massimo. Forse però tutto il mal non vien per nuocere: la frantumazione tattica e l’assenza strategica possono costringere i partiti a ricercare soluzioni al di sopra delle parti che prescindano da calcoli strumentali e faziosi. Bisogna però stare attenti perché simili soluzioni possono prefigurare l’investitura di personaggi che già ricoprono o hanno ricoperto alti incarichi istituzionali: non è detto che possiedano quella sensibilità e dimestichezza politica necessarie per assolvere il mandato presidenziale. Il presidente della Repubblica deve essere al di sopra dei partiti, ma non estraneo alla politica.

Anche la soluzione Draghi, che peraltro sembra allontanarsi nella misura in cui egli sta fortunatamente mettendo radici a Palazzo Chigi, appare troppo algida e compassata per rispondere ad un ruolo in cui deve battere anche il cuore pazzo degli italiani.

Da sempre ho seguito con apprensione la nomina del capo dello Stato, questa volta ancor di più: trovare una persona, che sappia essere garante della Costituzione, rappresentante dell’unità nazionale, coordinatore e sorvegliante dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, non è impresa facile, considerata anche la complessa e drammatica situazione che stiamo vivendo. Mi ricordo che una persona di mia conoscenza, tra gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, definiva il presidente Gronchi come “Giovanén tajanastor”, sottovalutando il ruolo presidenziale e considerandolo di mera tappezzeria istituzionale. Non è così e quindi mi tremano le vene ai polsi nel pensare a questa imminente e delicatissima scelta. Speriamo bene…