La grande ve(n)detta ligure

I fatti del G8 di Genova sono stati una serie di eventi avvenuti nella città di Genova a partire da giovedì 19 luglio sino a domenica 22 luglio 2001, contestualmente allo svolgimento della riunione del G8. Durante la riunione dei capi di governo dei maggiori paesi industrializzati svoltasi nel capoluogo ligure da venerdì 20 luglio a domenica 22 luglio e nei giorni precedenti, i movimenti no-global e le associazioni pacifiste diedero vita a manifestazioni di dissenso, seguite da gravi tumulti di piazza, con scontri tra forze dell’ordine e manifestanti. Durante uno di questi venne ucciso il manifestante Carlo Giuliani.

Le rievocazioni e le ricostruzioni si sprecano: la storia merita di essere rivissuta in modo spietatamente obiettivo e critico. Molti giovani d’oggi non erano ancora nati o erano all’asilo infantile. Purtroppo io ero già in età anagraficamente e politicamente matura e vissi quegli avvenimenti col dramma interiore di chi condivide le motivazioni della protesta, ma non può aderire ai metodi violenti e rifiuta però drasticamente e visceralmente la reazione del potere a suon di cariche della polizia, di arresti, di spedizioni punitive, di interventi massacranti in un bailamme sociale che Amnesty International ha definito come “la più grande sospensione dei diritti umani e democratici dalla Seconda Guerra Mondiale in Europa”.

I temi caldi che bollivano sotto il fuoco della protesta riguardavano globalizzazione, neoliberismo sfrenato, riscaldamento globale, disuguaglianza sociale sempre più netta, politiche migratorie sbagliate: letti a 20 anni di distanza, i motivi che portarono in piazza i Social Forum a Genova sono gli stessi che ci inquietano oggi. Sono passati 20 anni e viviamo in un mondo che è molto diverso da quello di quell’estate, eppure, già all’epoca, i motivi per essere preoccupati per il futuro delle nostre società non erano poi così diversi da quelli che ora sono i motivi del terrore per il presente delle stesse: neoliberismo sregolato, legalità dei paradisi fiscali, dominio della finanza sull’economia, impoverimento delle classi medie a livello internazionale, aumento dell’ingiustizia sociale a livello internazionale, insostenibilità delle politiche economiche fondate sul debito, polarizzazione della distribuzione delle ricchezze, sregolato aumento del potere del privato sul pubblico, delle multinazionali sugli stati, delle lobby sui parlamenti, instabilità mediorientale, diffusione endemica di xenofobia e razzismo.

La protesta in questo ventennio si è parcellizzata e sparpagliata in diversi rivoli, perdendo gran parte della sua forza d’urto, ma guadagnando in termini propositivi e costruttivi. Allora mi chiedevo dove collocarmi: tra i manifestanti in tuta o fra i filo-governativi in giacca e cravatta. È sempre stato il dramma del mio impegno socio-politico: nel sistema o contro il sistema? Ho scelto, con la morte nel cuore, di schierarmi all’interno della realtà sociale, sforzandomi di viverla concretamente in adesione ai principi ed ai valori della sacrosanta contestazione. Una gara durissima che mi ha sempre lasciato l’amaro in bocca.

Non è il caso di operare una nostalgica revisione di vita, ma di rivalutare la protesta quando è coraggiosamente volta a far scoppiare le contraddizioni della società in cui viviamo. Sarebbe interessante rivisitare tutti i temi che spingevano nelle strade e nelle piazze di Genova a sfogare anche rabbiosamente le profonde insoddisfazioni verso il sistema e le sue ingiustizie. Ci accorgeremmo che siamo ancora lì, almeno nella sostanza. La natura forse ha preso il posto dei no-global, dei pacifisti, degli ecologisti, non andando troppo per il sottile e adottando il metodo dei black-bloc, vale a dire quella tattica che ha dato il nome a un gruppo di individui di molteplici nazionalità dediti ad azioni di protesta spesso violenta e caratterizzata da atti vandalici, devastazioni, disordini e scontri con le forze dell’ordine.

La natura si sta incaricando di sbatterci violentemente in faccia tutto il marcio delle nostre società, di distruggerne le propaggini e di metterne in discussione le radici. Con la “piccola” differenza che le forze della natura non le possiamo confinare nelle caserme per criminalizzarle e massacrarle di botte. Stiamo soffrendo la catastrofica e inconsapevole vendetta dei contestatori, tacitati coi metodi sbrigativi e vomitevoli del potere. L’amaro in bocca mi cresce a dismisura anche perché non ho più la forza fisica per impegnarmi dal di dentro e, se anche mi sforzassi di ritrovarla, non saprei dove incanalarla. A stretto rigore dovrei rifugiarmi nostalgicamente tra i contestatori di oggi. Ci provo: le sardine si sono squagliate, c’è Greta che fa tanta tenerezza con i suoi ingenui cartelloni e i vaffanculisti grillini che fanno sbudellare dal ridere.

 

 

Una tenue luce nell’ambulatorio draghiano

Quando ho appreso della visita al penitenziario di Santa Maria Capua Vetere (recente teatro dell’orrore per quanto riguarda il trattamento dei detenuti) di Mario Draghi e Marta Cartabia ho avuto un riflesso condizionato dalla storia fatta di pianti sul latte versato e di promesse non mantenute.  A proposito, si sente tanto la mancanza di Marco Pannella: cosa direbbe a latere di questa ennesima macelleria carceraria? Draghi e Cartabia sono addirittura stati acclamati dai detenuti: “I vostri problemi sono i nostri”. E allora mi sono letto la bella cronaca di Viviana Lanza del 15 Luglio 2021, pubblicata dal quotidiano “Il Riformista”, che riporto di seguito integralmente.

«Oggi non siamo qui a celebrare trionfi o successi, piuttosto ad affrontare le conseguenze delle nostre sconfitte» ha detto il presidente Mario Draghi. «Siamo qui per dire che i vostri problemi sono i nostri problemi, perché quando si parla di carcere bisogna aver visto, come ci ricordano le celebri parole di Calamandrei che sapeva bene cosa significasse la vita del carcere» ha aggiunto la ministra della Giustizia Marta Cartabia.

Il discorso dei rappresentanti del Governo al termine della loro visita nel carcere dei pestaggi ha toni e contenuti che danno la sensazione di un cambiamento, di una nuova era dopo quella del vecchio governo e del ministro Bonafede. E il fatto che un vento frizzante spezzasse l’afa del pomeriggio, ieri, fuori al carcere di Santa Maria Capua Vetere, accompagnando le parole del presidente Draghi e della ministra Cartabia, potrebbe non essere soltanto una nota di colore. Il vento è cambiato, almeno si spera. Di certo è cambiato il linguaggio istituzionale e sono cambiati i contenuti dei discorsi dei rappresentanti del Governo. «Venire qui oggi significa guardare da vicino per iniziare a capire» ha affermato Draghi. «Quel che abbiamo visto nei giorni scorsi ha scosso nel profondo la coscienza degli italiani ma anche dei colleghi della polizia penitenziaria che lavorano con fedeltà in questo carcere. Le indagini in corso stabiliranno le responsabilità individuali, ma la responsabilità collettiva è di un sistema che va riformato».

«Il Governo – ha assicurato Draghi – non ha intenzione di dimenticare. Non può esserci giustizia dove c’è abuso e non può esserci rieducazione dove c’è sopruso». Poi, ricordando l’impegno e la dedizione di tanti agenti della polizia penitenziaria, di educatori, mediatori e volontari, il premier ha dettato la linea: «Deve essere l’inizio di un nuovo percorso di vita». A fare eco alle parole del premier c’erano le voci dei detenuti che provavano ad oltrepassare le sbarre e farsi sentire al di fuori delle mura carcerarie. «Indulto, indulto!» gridavano i detenuti e acclamavano «Draghi! Draghi!». Nel carcere sammaritano il presidente e la ministra hanno visitato di persona il reparto Nilo, quello dei pestaggi e delle umiliazioni, percorrendo il tragitto che il 6 aprile 2020 portò 192 detenuti ad attraversare l’inferno.

Hanno visitato, inoltre, il reparto Danubio, quello dove le vittime delle violenze furono tenute per alcuni giorni, e il reparto femminile dove le detenute hanno donato ai rappresentanti del Governo mascherine e asciugamani ricamati a mano. A salutare la visita dei rappresentanti del Governo, accompagnati dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli, c’erano inoltre il garante nazionale Mauro Palma e il garante regionale Samuele Ciambriello. «Questa è una giornata storica – ha dichiarato la direttrice del carcere di Santa Maria Capua Vetere, Elisabetta Palmieri – Stiamo attraversando un momento terribile, senza precedenti, ma la vostra vicinanza il vostro supporto – ha aggiunto rivolgendosi al premier e al Guardasigilli – rappresentano per noi quello che auspichiamo possa essere un nuovo inizio per la polizia penitenziaria e per tutto il sistema penitenziario, il momento della svolta, della rivincita, del riscatto».

Quando è arrivato il momento del suo intervento, la ministra Cartabia ha rivolto un saluto anche ai detenuti e un pensiero a coloro che hanno subìto violenze e umiliazioni. «Mai più violenza nelle carceri europee ha commentato il commissario europeo Didier Reynders. – ha ricordato – Mai più violenza! Lo abbiamo detto con forza e lo ripetiamo anche qui» ha ribadito la ministra. «Quegli atti sfregiano la dignità della persona umana che la Costituzione pone come vera pietra angolare della nostra convivenza civile». «La sua presenza qui, presidente, è più eloquente di mille parole. Dice che ciò che accade nelle carceri ci riguarda tutti. I problemi delle carceri sono i problemi di tutto il Governo, di tutto il Paese e non solo di un settore dell’amministrazione della giustizia né di un solo istituto penitenziario. La sua presenza – ha aggiunto Cartabia rivolgendosi a Draghi – dice che di quei problemi tutto il Governo vuole farsi carico».

C’è un impegno in queste parole, c’è la promessa di partire dal caso Santa Maria Capua Vetere per riformare il mondo del carcere. «La pandemia – ha sottolineato la Guardasigilli – ha fatto da detonatore di questioni irrisolte da lungo tempo, i problemi hanno una data antica e in questo istituto la pandemia ha determinato la morte di un agente, l’assistente capo Salvatore Spagnolo». «Ora – ha aggiunto – bisogna ripartire dai fatti concreti e da una fotografia autentica della realtà penitenziaria. Guardiamola in faccia» ha detto la ministra elencando la sua strategia per risollevare dal fallimento il sistema penitenziario. «Occorre una strategia che operi su più livelli: strutture materiali, interventi normativi, personale, formazione» ha spiegato. Il sovraffollamento resta «il primo e il più grave dei problemi», per risolverlo occorre «correggere una visione del diritto penale incentrata solo sul carcere» e puntare su «forme di punizione diverse dal carcere come ad esempio i lavori di pubblica utilità».

La rivoluzione Cartabia prevede anche più formazione e più assunzioni tra il personale della penitenziaria e una revisione dell’edilizia penitenziaria: «Nuovi spazi e nuove carceri non può significare solo posti letto». Più che una rivoluzione sembra un miracolo. A volte anche i miracoli si avverano.

Sono perfettamente d’accordo con le valutazioni etico-politiche di Viviana Lanza. L’aria sembra diversa e mi sento di aggiungere, con un pizzico di sarcasmo, che ci volevano due illustri tecnici (?) prestati alla politica per tentare di aprire almeno le finestre se non le porte delle carceri.  Speriamo sia la volta buona. Da un certo punto di vista sono serviti quanti profetizzavano sulla mancanza di visione politica del governo Draghi e sul suo mero ruolo di supplenza in una fase in cui la politica è vacante per una serie di fattori arcinoti.

Con uno stile sobrio ma deciso questa compagine ministeriale, tenuta insieme con la colla di marca mattarelliana, sta affrontando nodi fondamentali del nostro vivere civile.  Non si parla solo di soldi, anche se ce n’è un bisogno enorme, non si affronta solo la pandemia, anche se è tutt’altro che terminata, non si ripristina solo l’immagine dell’Italia a livello europeo ed internazionale, anche se al riguardo eravamo messi piuttosto male. I politicanti di tutte le sponde fanno fatica a tenere il passo, i commentatori vanno alla ricerca del pelo nell’uovo, i cittadini, al momento, sono sballottati fra ammirazione, scetticismo, incredulità e noncuranza. Qualche grosso pelo lo cerco anch’io, qualche scetticismo lo nutro anch’io. Devo comunque ammettere che in materia carceraria, e non solo, si intravede una lucina oltre il tunnel.

Guardiamo indietro, serve. Cosa ci faceva Gianfranco Fini, all’epoca vicepremier, nella sala operativa della Questura di Genova quel maledetto 21 luglio 2001? L’onorevole Gianfranco Fini non ha mai chiarito, non ha mai fornito spiegazioni: il ruolo governativo in quella debacle a livello di disordine pubblico e di mattanza ai tempi del G8 di Genova, non è mai stato chiarito. Sono passati vent’anni e forse qualcosa è mutato: la politica forse (i dubbi purtroppo rimangono) non è più ispiratrice e difensora ad oltranza delle malefatte repressive delle forze dell’ordine. Draghi dice infatti di volerci vedere chiaro.

Speriamo non gli succeda come a mio padre. «Non ci vedo chiaro!»: così diceva il radiologo mentre gli stava facendo una lastra allo stomaco. «A crèdd, rispose, a ghé scur cme la bòcca ‘dun lòvv!». Alla fine il responso fu che il mio genitore era sano come un pesce. Uscendo dall’ambulatorio nella sala d’aspetto si imbatté di nuovo in una frenetica e grassa signora, che precedentemente gli aveva esternato tutta la sua insofferenza a bere un bicchierone di bario per illuminare lo stomaco in funzione radiologica. Con una punta di sadismo la salutò e le disse: «A proposito, me ne stavo dimenticando, il dottore mi ha detto di preavvertirla che lei di bicchieroni di bario ne dovrà bere due…». Sul momento, non conoscendo la vena ironica di mio padre, sbiancò in volto, poi scoppiarono entrambi in una liberatoria risata. Liberatoria non tanto, perché qualche mese dopo mio padre dovette farsi operare: aveva ben tre ulcere che stavano degenerando…L’oscurità dell’ambulatorio non aveva evidentemente aiutato il radiologo.

 

 

Il buon senso in quarantena

Quando, al termine di una spasmodica corsa universitaria, mi sono laureato in una calda mattinata del luglio 1972, dopo aver incassato un incoraggiante e soddisfacente esito, ho fatto rientro immediatamente a casa senza alcuna esitazione, sottraendomi in linea di principio e in via di fatto a qualsiasi penoso rito del tipo “dottore…dottore…dottore del buco del cul, vaffancul vaffancul”. Ho festeggiato (?), assieme ai miei genitori (ristorati finalmente dalle loro fatiche di supporto ai miei studi) ed a mia sorella (che vedeva altruisticamente realizzarsi in me un sogno a lei precluso per motivi di ristrettezza famigliare), con un lauto pranzo a base di minestrone di verdura: tutti felici e contenti.

Vengo ai giorni nostri. Un gruppo di una quindicina di studenti, che avevano organizzato un viaggio a Ios in Grecia per festeggiare la maturità, avrebbe dovuto tornare in aereo a Tessera (Venezia), ma è rimasto bloccato nell’isola greca, perché alcuni di loro sono risultati positivi al Covid. I giovani, che hanno deciso di mettersi in auto isolamento, non sanno quando potranno far rientro a casa, hanno spiegato le famiglie, sostenendo che le autorità greche non avrebbero fornito informazioni ai figli, né alcun supporto logistico. Le loro condizioni generali comunque sono buone, e ogni giorno tengono al corrente le famiglie dell’evoluzione della situazione. Le famiglie riferiscono che le autorità sanitarie locali non avrebbero finora svolto alcun controllo sui ragazzi.

La Farnesina, in una nota, ha sottolineato che recarsi all’estero comporta rischi sanitari. “Da gennaio 2020 perdura in tutto il mondo l’emergenza sanitaria causata da COVID-19. Tutti coloro che intendano recarsi all’estero, indipendentemente dalla destinazione e dalle motivazioni del viaggio – avverte la Farnesina – devono considerare che qualsiasi spostamento, in questo periodo, può comportare un rischio di carattere sanitario” e che nel caso in cui si risultasse essere positivi al test per il coronavirus o contatti di una persona positiva vanno seguite le norme disposte dalle autorità locali.

Non basta il buon senso, bisogna che intervenga il ministero degli Esteri per far ragionare la gente, per far capire che forse non è il momento di intraprendere viaggi all’estero? Ammetto che il rigore e la sobrietà presenti nella mia vita giovanile fossero frutto di un’altra epoca e quindi non facciano testo per i giovani d’oggi, ma anche l’epoca attuale ha i suoi seri e gravi problemi, che non possono disinvoltamente essere superati, salvo soffrirne amare conseguenze.

Il mio medico, agli inizi degli anni ottanta del secolo scorso, raccogliendo le confidenze sulle mie trasgressive abitudini di vita sessuale, non si perse in ramanzine moralistiche e mi disse semplicemente: “Tieni conto che c’è l’Aids…vedi tu…”. Misi, solo un po’, la testa, e qualcos’altro, a posto. Mi adeguai alla nuova brutta situazione, che cambiò drasticamente il clima sanitario e le abitudini sessuali. Altra epoca, ma purtroppo si tratta di corsi e ricorsi storici: il Covid non è da meno dell’Aids.

Cosa voglio concludere con questa mini-carrellata di ricordi giovanili correlati alle scelte giovanili odierne? Che bisogna fare i conti con la realtà e non si può giocare a mosca cieca con il proprio sacrosanto diritto di svagarsi e divertirsi. Soprattutto non si deve scaricare l’effetto negativo di certe scelte avventate su chi ha le redini della famiglia e del governo, vale a dire sui genitori in sentimentale ansia e sui ministri e gli ambasciatori in burocratica pista di salvataggio.

Vale per i giovani, ma anche per tutti. Prima delle regole e degli obblighi, dovrebbe venire il buon senso. Un’autentica chicca della schietta e profonda religiosità incarnata da don Dagnino, uno storico sacerdote parmigiano, riguarda l’incoraggiamento sui generis fatto ad una sua parrocchiana a cui era nato un figlio con una piccola imperfezioni fisica. «L’important l’è cal g’abia dal bon sens, ‘na roba ca ne’s compra miga dal bodgär» sentenziò con sano realismo umano e religioso di fronte alle ansie di una madre inquieta.

 

Dopo le gozzoviglie arriva il conto

«Temo che vedremo la piena portata di questa tragedia solo nei prossimi giorni». Questo l’amaro e preoccupato commento di Angela Merkel, cancelliera tedesca, a proposito delle devastanti alluvioni che hanno messo in ginocchio il suo paese. Il bilancio della sciagura per ora sfiora le 100 vittime, il numero dei dispersi è impressionante. E nella zona di Colonia una nuova frana ha causato un numero imprecisato di vittime e di feriti. Nella regione di Ahrweiler non si hanno notizie di 1300 persone, possibilmente a causa della sospensione delle comunicazioni dei telefoni cellulari, riporta il sito di Die Welt. Sono interrotte anche le forniture di energia elettrica per almeno 165mila persone. E il maltempo non si ferma: le previsioni per le prossime ore annunciano altre violente piogge. Ci viene offerto uno spettacolo allucinante: case distrutte e strade divelte. Nel paese, che sta vivendo uno dei peggiori disastri meteorologici dalla seconda guerra mondiale, molte persone hanno cercato rifugio sui tetti delle case. É stata la parte Ovest del Paese a essere colpita, in particolare gli Stati di Renania-Palatinato e Nord Reno-Westfalia, dove i nubifragi hanno provocato l’esondazione dei fiumi, minacciando di buttare giù le case.

Le immagini scioccanti proposte dalla televisione sono molto eloquenti e rendono inutili le descrizioni a parole, ma impongono una profondissima riflessione. Dirò subito che l’unico ombrello credibile al riguardo lo offre papa Francesco. Ci stiamo rovinando con le nostre mani: sta arrivando il conto delle gozzoviglie perpetrate nel tempo. I peccati di gioventù si pagano in vecchiaia, con l’aggravante che spesso la vecchiaia pagante non corrisponde alla gioventù peccaminosa.  Dovremmo interrompere drasticamente i disastri ecologici in atto: non basta pagare la multa. Spesso è comodo e serve soltanto a continuare a coltivare i propri sporchi interessi. Ma non è sufficiente nemmeno l’armistizio con la natura. Se non si rimuovono le cause la guerra col creato può ricominciare da un momento all’altro.

Dice papa Francesco in conversazione con Austen Ivereigh, scrittore e giornalista britannico, nel recente libro “Ritorniamo a sognare”: “La storia di Noè nella Genesi non narra soltanto di come Dio offrì uno scampo alla distruzione; parla anche di quanto accadde poi. La rigenerazione della società umana avvenne perché si tornò a rispettare i limiti, a frenare la corsa alla ricchezza e al potere, a prendersi cura di quanti si trovano nella periferia. In quella rigenerazione ci furono due momenti chiave: l’istituzione del Sabato e del Giubileo, ovvero tempi per recuperare e per riparare, per condonare i debiti e per ristabilire legami. Così avvenne che la Terra ebbe il tempo di ristorarsi, che i poveri trovarono nuove speranze, che le persone riscoprirono la loro anima”.

O ci mettiamo in questa logica di rigenerazione o andiamo incontro alla catastrofe. Non bisogna essere apocalittici per vedere dove stiamo andando a finire. Noi preferiamo continuare, partendo dai nostri comodi, illudendoci di scaricare responsabilità ed effetti sui disgraziati del caso e del momento. “Se non vi convertite, perirete tutti” dice Gesù. Non sono un integralista, ma non posso che fare riferimento alla credibilità della Bibbia e del Vangelo. Soffermiamoci sulla parola “tutti”, nessuno escluso. È inutile “scancherare” contro i cinesi (ammesso e non concesso che abbiano qualche precisa responsabilità nello scoppio della pandemia da covid); è inutile prendersela con gli errori dei governanti (anche se ne fanno continuamente); è inutile prendersela con Dio che ci starebbe massacrando (sì, il nostro Dio a forma di vitello d’oro); è inutile rimettersi alla fatalità e alla continuità del tempo con i suoi ricorrenti disastri umani ed ambientali (è vero, ma giorno dopo giorno gli errori aumentano e occorre interrompere la catena).

Mio padre maccheronava un famoso proverbio e diceva: “Chi è causa del suo mal pianga me stesso”. Voleva indirettamente enfatizzare la responsabilità personale di ognuno. È sempre il papa che ci ricorda la necessità di cambiare, mettendoci in guardia dal pericolo di cambiare in peggio, e ci trasmette la convinzione che ci si salva solo assieme. Noi continuiamo invece a pappagallare con lo stupido ritornello “andrà tutto bene”, mentre tutto va a catafascio. Ci esaltiamo (si può gioire anche senza esagerare: sbaglio?)  con le vittorie calcistiche a pullman scoperto: nemmeno a quello sappiamo rinunciare (Sua Santità papa Leonardo Bonucci docet). Chi si contenta gode!

 

Il latte di Letta

Enrico Letta ha accettato la proposta di candidatura alle elezioni suppletive della Camera nel collegio uninominale Toscana 12. Lo ha reso noto il Pd di Siena. “Sono felice del vostro affetto e onorato per la vostra richiesta – ha detto il segretario Dem in collegamento con la direzione senese – La voglio fare sul serio questa campagna elettorale”. Il seggio è stato lasciato vacante da Pier Carlo Padoan dopo le dimissioni del 4 novembre 2020, in seguito alla sua nomina nel cda di UniCredit.

“C’è una missione nazionale – ha detto Letta – dobbiamo vincere per dare un messaggio forte alla Toscana e al Paese e per avere un segretario in Parlamento dove i nostri gruppi parlamentari sono usciti falcidiati dal disastro delle elezioni del 2018 e dalle fughe successive”. “In pratica – ha sottolineato – come Pd noi siamo forti nel Paese e nella proposta politica, ma siamo purtroppo esigui in Parlamento”. Per il segretario Dem, che domani completerà il suo percorso ascoltando la direzione di Arezzo, quello di Siena “è un territorio con molte sfaccettature, eccellenze e fragilità, problemi e enormi potenzialità. Per ciascuna di queste questioni dobbiamo costruire una proposta politica seria e all’insegna della prossimità”.

“A livello politico nazionale riteniamo che per rendere incisiva l’azione politica del Partito democratico, il segretario debba essere presente attivamente in Parlamento”, avevano scritto gli 80 delegati senesi nel documento approvato all’unanimità a metà giugno. Un testo con cui chiedevano ufficialmente a Letta di candidarsi, “apprezzando il coinvolgimento della base, le parole chiare su tematiche identitarie e le modalità di guida del partito”. “Vedremo, valuterò e deciderò in questi giorni”, aveva risposto il segretario Dem.

A quanto pare Enrico Letta ha deciso e anche abbastanza in fretta. In questa “vicendina senese” mi permetto di constatare due incoerenze o contraddizioni come dir si voglia, peraltro molto evidenti. La prima riguarda il fatto che il segretario democratico ha dimenticato in fretta la priorità femminile. In realtà non l’ha scordata, ma, come spesso succede, l’ha fatta pagare agli altri, in particolare all’incolpevole Graziano Del Rio, costretto sbrigativamente a lasciare l’importante incarico di capo-gruppo alla Camera dei deputati per far posto ad una improvvisata collega di cui si sono perse le tracce: forse Del Rio, a giudizio di Letta, portava la macchia di essere stato un renziano, pur essendosene affrancato nel tempo, e quindi poteva, forse doveva,  essere sacrificato sull’altare di un’assurda vendetta trasversale. Uno diventa segretario di un partito politico e la prima cosa che fa è tagliare fuori il migliore esponente di quel partito (tale era ed è giudicato un po’ da tutti), sacrificandolo sull’altare della finta valorizzazione delle donne impegnate in politica. Mi chiedo: se Letta tiene tanto a questa retorica parità di genere, perché non ha candidato una donna nel collegio uninominale senese? Probabilmente le donne vanno bene a corrente alternata, cioè fin quando non intralciano l’uomo al comando.

La seconda contraddizione la trovo nell’atteggiamento del PD di Siena che ha chiesto a Letta, uomo al vertice, di candidarsi in nome del coinvolgimento della base. Valli a capire i senesi…Una carenza, probabilmente la più eclatante e grave, del partito democratico è lo scarso legame col territorio, la insufficiente classe dirigente locale, spesso ingaggiata più per scelte opportuniste che per effettive preparazione, competenza e rappresentatività (lo ritengo l’errore principale della stagione piddina renziana). E allora, per ovviare a questo difetto, si preferisce addirittura calare dall’alto del Nazareno l’asso (?) di briscola per ricuperare campo e voti. “Forti nel Paese, ma esigui in Parlamento”: così viene giustificata la scelta, non certo storica, di piazzare il segretario nazionale in Parlamento. Vorrei capire dove sta la forza nel Paese e come verrà superata l’esiguità parlamentare. Se lo slogan non è stato buttato lì a caso, rivela una presunzione preoccupante e (quasi) patetica.

Se è vero, come è vero, che per coerenza si intende “costanza logica o affettiva nel pensiero e nelle azioni”, si può senza esitazione affermare che il Pd di Enrico Letta mette l’incoerenza nella carta d’identità. Niente di scandaloso: si è visto di peggio. Si può anche cambiare opinione, ma in tale caso occorrerebbe rimediare agli sbagli commessi. Sarebbe troppo difficile, meglio abbandonarsi al giochino dei bussolotti, salvo poi magari piangere sul latte di Letta (infatti quando lo sento mi viene, come si suole dire, il latte alle ginocchia). Se qualcuno non l’avesse ancora capito, questo falso e coccodrillesco cincinnato non mi piace: non sa dove tenere il culo (chiedo scusa per la scurrile immagine) e infatti ha pensato bene di riappoggiarlo su uno scranno di Montecitorio.

 

Il pelo nel vizio

12 luglio 2021. Bologna, Bella Ciao vicino al raduno della Meloni: la polizia fa spegnere la musica. Motivi di sicurezza. Per questo al chiosco di “Bazza” in piazzale Jacchia, ai Giardini Margherita è stato chiesto, da due agenti di polizia in borghese, di spegnere la musica che risuonava Bella Ciao dei Modena City Ramblers, al termine della presentazione del libro di Giorgia Meloni, lì accanto. “Mi hanno staccato la musica, dicono che non possiamo mettere la musica che vogliamo per motivi di sicurezza e perché delle signore si sono lamentate, evidentemente non erano canzoni di loro gradimento. Abbiamo messo i Modena City Ramblers perché ci piacciono, è la musica che mettiamo ogni sera e loro si sono avvicinati intimandoci di staccare, staccare immediatamente”, spiega la responsabile del locale Silvia Mattioli. “Mettete l’inno di Mameli”, suggerisce una delle presenti. Il siparietto dura una ventina di minuti, a nervi tesi, poi la musica si spegne.

È un fatto del giorno? Per me sì!

Lo “schiaffo” a Toscanini. La sera del 14 maggio 1931 è in programma al teatro comunale un concerto, diretto da Arturo Toscanini, in memoria di Giuseppe Martucci, direttore emerito dell’orchestra bolognese alla fine dell’800.Il maestro si rifiuta di dirigere l’inno fascista Giovinezza e l’Inno reale al cospetto del ministro Ciano e di Arpinati. Viene aggredito e schiaffeggiato da alcune camicie nere presso un ingresso laterale del teatro. Rinunciando al concerto, Toscanini si rifugia all’hotel Brun. Il Federale Mario Ghinelli, con un seguito di facinorosi, lo raggiunge all’albergo e gli intima di lasciare subito la città, se vuole garantita l’incolumità. Ottorino Respighi media con i gerarchi e ottiene di accompagnare il direttore al treno la sera stessa. Il 19 maggio l’assemblea regionale dei professionisti e artisti deplorerà “il contegno assurdo e antipatriottico” del maestro parmigiano. Sull’ “Assalto” Longanesi scriverà: “Ogni protesta, da quella del primo violino a quella del suonatore di piatti, ci lascia indifferenti”. Toscanini dal canto suo scriverà una feroce lettera di protesta a Mussolini, già suo compagno di lista a Milano nel 1919. Dal “fattaccio” di Bologna maturerà la sua decisione di lasciare l’Italia, dove tornerà a dirigere solo nel dopoguerra.

Era un fatto del giorno? No, stando all’opinione pubblica prevalente di quel tempo! Si dirà: episodi opposti, epoche diverse, protagonisti diversi, musiche diverse, contesti politici diversi, climi sociali diversi. Tutto quello che volete, ma azzardo una proporzione politico-matematica: Toscanini sta a Giovinezza come Meloni sta a Bella ciao. Con la differenza (lasciando stare la caratura culturale dei due personaggi) che la storia ha dimostrato che Toscanini, costretto all’autoesilio, aveva ragione, mentre Meloni va bellamente contro la storia e ciononostante miete consensi in crescita. È la democrazia, stupido! È il fascismo, che perde il pelo ma non il vizio.

 

 

Gli idoli vaccinali

Nutro seri dubbi sulla validità delle cifre che ci vengono giornalmente propinate in materie di andamento dei contagi Covid. Ogni tanto spunta un conguaglio sul numero dei decessi: la cosa mi lascia alquanto perplesso. E poi questi dati andrebbero disaggregati e approfonditi, cosa che non viene fatta o almeno non viene comunicata alla gente (forse per carità di patria).

La voce ufficiale della scienza attribuisce l’inopinata (?) impennata di contagi ai devastanti effetti della variante delta ormai dilagante anche nel nostro Paese. Il buon senso mi induce a pensarla diversamente. Credo che la tendenza al rialzo sia prevalentemente dovuta alle distrazioni collettive di carattere giovanile, vacanziero e calcistico e alla relativa inefficacia dei vaccini preparati ed iniettati alla viva il parroco.

È inutile nascondersi che siamo tornati ad una virtuale normalità a prescindere dall’effettiva e permanente situazione di rischio. Se la Gran Bretagna è uscita dall’Europa, bisogna forse ammettere che in materia di covid l’Europa si è riconciliata con i governanti inglesi. Una vera e propria eurexit pandemica.

Per quanto concerne la Gran Bretagna faccio riferimento a quanto scrive Antonello Guerrera, corrispondente de La Repubblica: Sebbene i contagi siano in aumento, dal 19 luglio cadranno le restrizioni e si tornerà alla “normalità”. Per il primo ministro “i casi potrebbero salire a 50mila tra due settimane. Ma oramai dovremo convivere con il virus come se fosse un’influenza”. Critici gli scienziati.

Infatti su Lancet medici ed esperti sanitari pubblicano una lettera al governo Tory – finora ha raccolto le firme di oltre 4mila tra infermieri e medici – per chiedere che il ritorno alla normalità venga posticipato. Una richiesta supportata dal progressivo aumento dei contagi causa variante, che si innesta sulla fase finale degli Europei di calcio: domenica anche migliaia di tifosi italiani sono attesi a Wembley. Intanto gli ospedali in Gran Bretagna sono di nuovo sotto pressione causa Covid.

Ma il premier britannico non demorde e mette in mostra un vomitevole cinismo. Vado sempre a prestito da Antonello Guerrera: “Purtroppo dobbiamo abituarci a un aumento di morti per covid” ha detto a Downing Street in conferenza stampa Boris Jonson affiancato da due massimi esperti del governo. La frase ricorda terribilmente quel “molti nostri cari moriranno” pronunciata sempre a Downing Street da Johnson all’inizio della pandemia nel marzo 2020.

E poi c’è il discorso calcistico che la fa da padrone e mette in secondo piano ogni e qualsiasi prudenza. Una cosa è certa: a Boris Johnson il calcio non è mai piaciuto particolarmente. Ora però ci va pazzo. E non solo per l’Inghilterra che arriva in una spettacolare finale contro l’Italia a Wembley o per una qualche recente fulminazione sulla via della Damasco sportiva. Il calcio è potere, collante sociale, brand, peso internazionale, orgoglio brexiter. Per questo, il primo ministro britannico, che per la prima volta nel torneo si è presentato a Wembley con la moglie Carrie Symonds e la maglietta dell’Inghilterra “Boris 10” sulle spalle (dal numero civico di Downing Street), è sempre più affamato di calcio.

Gran Bretagna docet? Temo di sì. Boris Johnson mi ispira sfiducia a prima vista, mi dà l’immediata idea di essere una testa di cavolo prestata ad un Paese che vuole testardamente mangiare i cavoli a merenda. Però, bisogna ammetterlo, Lui ha il coraggio di dire apertamente quello che gli altri pensano abbondantemente. La Gran Bretagna accampa due primati: uno in materia di democrazia e uno in materia calcistica. E li combina a modo suo, declinando la democrazia con il più stupido dei liberalismi.

In Italia invece mettiamo in campo la triste combinazione di tre idoli che battono (?) il covid, tre virus altrettanto contagiosi che ci dovrebbero immunizzare: della serie virus scaccia virus. La più blasfema delle conversioni. Le tre follie che non conoscono limiti: calcio, vacanze, giovani. Il miglior modo di combattere la variante è attaccarsi all’immutabilità delle nostre follie e delle nostre idee fisse. Una partita di calcio, una vacanza, un raduno giovanile valgono ben più di una messa anti-virale. Evviva la brexit!

Bisogna saper vincere e perdere

Forse sono un po’ prevenuto verso gli inglesi, ma nel loro comportamento durante la partita finale del campionato europeo di calcio trovo molto da ridire. Lasciamo perdere i fischi all’inno di Mameli, perché nella bolgia iniziale (non) ci possono stare. Sorvoliamo sui fischi che hanno costantemente accompagnato il possesso palla dei calciatori azzurri (ormai sui campi di calcio ci siamo abituati a questo ed altro), come se giocare per la propria squadra costituisse un reato di lesa maestà. Perdoniamo il gesto ostentato dai calciatori inglesi di togliersi dal collo la medaglia d’argento: un atto stupido, dettato solo da presunzione e mancanza di stile (erano evidentemente sicuri di vincere e si sono sbagliati).

Quel che mi ha infastidito di più è stata la freddissima accoglienza riservata al nostro Presidente della Repubblica, isolato in tribuna d’onore, senza un cenno di cordialità e di saluto da parte delle autorità inglesi: forse era tutta questione di distanziamento in un Paese dove sono saltate tutte le limitazioni in tal senso.

Non la voglio buttare in politica, ma questo comportamento rientra perfettamente nella strategia brexit: gli inglesi sono fuori dall’Europa a tutti gli effetti. E pensare che Sergio Mattarella ha tenuto il suo solito atteggiamento sobrio, ha gioito appena, anche se molto spontaneamente e simpaticamente. Pensare che nessuno del clan azzurro aveva minimamente ipotizzato un qualche favoritismo arbitrale: ci avevano già pensato i danesi a subire robe di questo genere, facendo da antidoto. Pensare che il minoritario pubblico italiano ha tenuto un comportamento molto serio e dignitoso. Pensare che la gioia azzurra non ha minimamente infierito sulla delusione inglese.

In Inghilterra non c’è aria europea, nemmeno calcisticamente parlando. Pazienza! Non sono un fanatico del pallone, ma mi sono comunque divertito. Non sono un patriota, ma la vittoria italiana mi ha rincuorato. Mi sono virtualmente seduto accanto a Sergio Mattarella e ho gioito con lui, senza eccessi (a quelli sono purtroppo, ma inevitabilmente, scesi gli italiani, nelle strade e nelle piazze), senza retorica (a quella ha provveduto la Rai), senza sopravvalutare un evento sportivo che tuttavia ha coinvolto il Paese (il ricevimento al Quirinale dei vincitori ne è il segno, oserei dire, istituzionale).

Sforziamoci di mantenere questa avventura nei limiti che merita, senza eccedere in festeggiamenti fuori luogo, ma sfogando una legittima e motivata gioia. Mentre gli spagnoli avevano assorbito con eleganza e stile la sconfitta nella partita di semifinale, gli inglesi hanno sofferto troppo la bruciante sconfitta nella finale che pensavano di avere già in tasca. Nello sport, come nella vita, bisogna saper perdere ed è proprio quando si perde che si dimostra la serietà e la maturità. Mi pare che gli inglesi abbiano soprattutto perso una buona occasione per sentirsi uguali agli altri: è pur vero che il calcio lo hanno inventato loro, ma questo non dà il diritto di sentirsi superiori agli altri.

Semmai in sede Uefa sarebbe da promuovere un corso di recupero in materia di educazione sportiva, rivolto soprattutto agli inglesi: proporrei come docente Luis Enrique il commissario tecnico della nazionale spagnola. All’atto dell’iscrizione al corso i partecipanti verranno omaggiati con una confezione di crema emolliente. Poi ci sarà l’occasione per gli esami di riparazione…

 

I Rai del poeta Draghi

Sembra che il governo faccia sul serio. Il ministro dell’Economia e delle finanze, Daniele Franco, d’intesa con il presidente del Consiglio, Mario Draghi, proporrà alla prossima riunione del Consiglio dei ministri Marinella Soldi e Carlo Fuortes quali componenti del Consiglio di amministrazione della Rai. Lo riferisce palazzo Chigi. Carlo Fuortes verrà proposto, in sede di Assemblea della società, per il ruolo di Amministratore delegato della Rai.

Al riguardo Ilario Lombardo ha scritto su La stampa: “Il metodo di Mario Draghi nelle ultime 48 ore è stato il seguente: decide lui e basta. I partiti? Si adeguano. È avvenuto così sulla Rai, come ampiamente previsto e con un’alzata di sopracciglia limitata alla Lega quando Palazzo Chigi ha reso noto il nome del nuovo amministratore delegato di Viale Mazzini. Ed è stato lo stesso – in questo caso con immediati traumi politici – quando il premier ha piegato i 5 Stelle sulla giustizia, costringendoli a votare un testo subito sconfessato dall’ex ministro Alfonso Bonafede e dall’ex premier Giuseppe Conte, leader ancora in forse del Movimento.

Le nomine dei vertici Rai fotografano perfettamente i modi politicamente spicci con i quali l’ex banchiere liquida i partiti della sua stessa maggioranza. Un po’ accontenta e un po’ scontenta tutti. La Lega, che magari fino all’altro ieri esultava per scelte in linea con i programmi e lo spirito del centrodestra, ora accusa il premier (senza avere il coraggio di nominarlo) di parzialità e di favoritismi a sinistra.

Un rumore di fondo, per Draghi, che approfitta della sua larghissima maggioranza per imporre decisioni, senza condividerle con i partiti. Nel mucchio selvaggio della sua coalizione nessuno si è ancora alzato e ha minacciato di rompere l’alleanza. Dunque, finché glielo lasceranno fare, deboli e divisi come sono, lui continuerà a farlo”.

Se non avessi pensato e scritto cose analoghe in evidente anticipo si potrebbe dire che sono un “copione” e che vado a prestito qua e là per i miei commenti ai fatti del giorno. Fortunatamente mio padre mi ha insegnato a ragionare e giudicare con la mia testa. Lo faceva prendendo spunto dagli eventi musicali. Molto spesso mi invitava a non farmi impressionare dai giudizi gridati, ad ascoltare e giudicare con le mie orecchie, a non cadere nella trappola del conformismo o dell’anticonformismo, ad avere un giusto senso di umiltà nel giudicare chi fa musica e chi canta, partendo dal convincimento che non si tratta degli ultimi arrivati. Dalla musica alla politica il passo è breve.

Torno a Draghi e alla Rai. Da tempo auspico che il premier metta mano a questo incredibile e intoccabile carrozzone: forse solo la sua indipendenza dai partiti e dagli equilibrismi corporativi può consentire di cambiare marcia. Toccare nel vivo della carne Rai non è certo facile, ma necessario. Non so se il nuovo amministratore delegato avrà il coraggio di affondare i colpi: il suo curriculum lascia ben sperare, anche se i curriculum son un po’ come le lapidi dei cimiteri. Non mi preoccupano affatto le reazioni preoccupate dei partiti abituati a trattare la Rai come una riserva di caccia. Ancor meno mi stupiscono quelle di chi lavora o finge di lavorare in Rai. Non sono per nulla impaurito dalla eventuale perdita di audience conseguente a nuove scelte di indirizzo e di gestione all’insegna del rigore economico e della qualità culturale.

Se Draghi intende pestare i piedi alla Rai, ben venga. Tanti anni fa cominciò la sacrosanta polemica contro la TV spazzatura propinata anche dalla Tv pubblica.  Fu in occasione di una visita a Gallo Grinzane, in provincia di Cuneo, il 19 novembre del 2001, che scoppiò una delle più violente polemiche sulla televisione spazzatura di cui ancora oggi si avverte l’eco. In quell’occasione la signora Franca Ciampi, moglie dell’allora Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, rispose così, mentre visitava il locale castello dove ha sede il premio letterario, al presidente della manifestazione Giuliano Soria, che la esortava a promuovere la lettura fra i giovani: ”Con me sfonda una porta aperta: noi abbiamo tre nipoti e a loro dico sempre non guardate quella deficiente , non me ne voglia Zaccaria, di televisione, ma leggete, leggete, leggete”, fu la risposta, riferita all’allora presidente della Rai.

Franca Ciampi non aveva titolo istituzionale per imbastire una simile polemica, ma fece comunque bene ad esternare il suo pensiero, che peraltro lasciava intendere come anche il marito fosse d’accordo su questo giudizio tranchant. Mario Draghi starà attento a non usare questi toni, ha una moglie molto più riservata, ma sono sicuro che condividerà. L’input che darà al nuovo amministratore delegato non sarà certo quello di lasciare le cose come stanno. Nella mia pur scarsa esperienza professionale ho potuto vedere all’opera gli amministratori delegati che intervengono in situazioni aziendali difficili: non vanno per il sottile, adottano metodi piuttosto sbrigativi, a costo di lasciarci le penne. Spero succeda anche per la Rai. Non mi illudo, ma spero e ringrazio fin d’ora Draghi se vorrà provarci veramente. È il suo momento: ora o mai più.

 

 

 

 

I diritti nel tritacarne della pantomima politica

Il discorso dell’omosessualità e della sua normalizzazione è importante e delicato: se ne sta facendo al contrario un problema politico oggetto di vergognosi compromessi al massimo ribasso. La legge, in discussione al Parlamento, contiene una proposta per prevenire e contrastare le discriminazioni e le violenze per orientamento sessuale, genere, identità di genere e abilismo.

Giorgia Meloni sostiene che “la sinistra usa i gay come scudi umani”. Siamo arrivati a questo ignobile modo di dialogare sulla carne viva delle persone. Purtroppo però la prima sorella d’Italia un po’ di ragione ce l’ha: tutti. La Meloni in primis, stanno scherzando col fuoco dei diritti umani delle persone, facendone una sperimentale esercitazione per il raggiungimento di strani equilibri politici.

La destra cerca la quadratura del cerchio fra le strumentali posizioni avanguardiste del più sfrenato liberalismo da salotto e le più reazionarie teorie populiste da bar di periferia. La sinistra è incerta fra una decisa battaglia identitaria e l’apertura di un fronte di dialogo con la destra più disponibile, sollecitata da un Matteo Renzi in veste di pontiere.

Non ci sarebbe da scandalizzarsi se al di sotto di queste prove di finto dialogo non emergesse piuttosto chiaramente l’intenzione di segnare il proprio territorio a prescindere dal contrasto alle discriminazioni, delle quali forse non frega niente a nessuno.

Il dialogo per essere serio e costruttivo deve partire dalla condivisione dei valori e dei principi altrimenti diventa inevitabilmente un pateracchio da evitare scrupolosamente. Nel caso in questione non c’è condivisione di fondo e quindi tutto finisce in un confronto strumentale tra visioni contrapposte e inconciliabili.

Mi chiedo: possibile che alla luce del dettato costituzionale e dei principi basilari di democrazia e uguaglianza non si possa imbastire una discussione seria intorno all’idea di inasprire pene e sanzioni per i casi di violenza e discriminazione per motivi di genere, sesso, disabilità e orientamento sessuale? L’inasprimento delle pene e un nuovo quadro normativo dovrebbero servire a tutelare maggiormente queste persone. Non vedo difficoltà a lavorare seriamente su una legge che parta da questi obiettivi. Evidentemente esistono dei pregiudizi e dei condizionamenti pseudo-culturali che lo impediscono.

Se Renzi strizza l’occhio a Salvini per fare l’ennesimo dispetto a Letta, se Salvini strizza l’occhio a Renzi per ridimensionare gli ardori egemonici di Giorgia Meloni, se Letta rifiuta sdegnosamente il confronto per timore di essere politicamente spiazzato, se Berlusconi teme che questa legge possa essere di ostacolo alla rinascita del centro-destra unito sotto la sua campana, se i grillini scaricano spudoratamente le loro magagne sul Parlamento, se la gerarchia cattolica tenta di influenzare la politica intromettendosi, in modo peraltro assai maldestro, nell’agone istituzionale italiano, non si può andare da nessuna parte.

Quando il gioco si fa duro e sporco, le tifoserie si scatenano a furia di gay pride e di assalti all’omosessualità: nel primo caso però non c’è violenza (ci potrà essere qualche inutile e controproducente esasperazione dei toni), mentre nel secondo la violenza corre sui social, sulle aggressioni fisiche, sui bullismi che arrivano all’induzione al suicidio, sulla più becera delle culture discriminanti e razzistiche.

Chi sta politicamente giochicchiando, considerando la lotta alle discriminazioni come un campetto su cui provare inediti e cervellotici schemi di confronto dialogico, si assume gravissime responsabilità. Sì, le persone omosessuali, transessuali e disabili rischiano di diventare scudi umani, non come sostiene Giorgia Meloni con la sua solita faziosa e romanesca cocciutaggine, ma in una guerra assurda, anacronistica e disumana in cui la politica combatte contro se stessa.