I pistola della politica

Spara quattro colpi di arma da fuoco all’indirizzo del socio in affari, con cui gestisce un’agenzia di onoranze funebri, e poco dopo si costituisce. Un consigliere comunale di Licata, eletto nel 2018 con la Lega, è adesso indagato per tentato omicidio e porto abusivo di arma da fuoco. È stato lui stesso a far ritrovare la pistola ai carabinieri durante la perquisizione. La sparatoria, alla cui base ci sarebbero dissidi economici tra i due, è avvenuta nella serata di ieri nei pressi di via Grangela. Dei quattro colpi esplosi soltanto uno è andato a segno, colpendo di striscio ad un braccio l’imprenditore 71enne. Quest’ultimo è stato soccorso e trasferito all’ospedale San Giacomo d’Altopasso di Licata con una prognosi di venti giorni. Appena una settimana fa, all’indirizzo della stessa agenzia di onoranze funebri, erano stati esplosi diversi colpi di arma da fuoco.

Allora è proprio un gran brutto vizio! Mi riferisco agli amministratori comunali leghisti dal grilletto facile: non solo non mi piace che detengano armi, ma ancor meno che le usino per i fatti loro. Sì, perché, quando una persona riveste cariche pubbliche, deve capire che non può permettersi il lusso di comportarsi in un certo modo. Sparare non è uno scherzo per nessuno, ancor meno per chi ha pubbliche responsabilità alle quali dovrebbe assolvere con onore.

La giustizia farà il suo corso, come già detto e ripetuto niente capri espiatori, ma non mi basta. Politicamente parlando, ucci ucci sento odor di fascistucci. C’è nell’atteggiamento complessivo della Lega qualcosa di prepotente, che si esprime in diversi modi e in diversi tempi, una sorta di bullismo, che non fa sorridere; se volete, fa pena, ma desta anche qualche (?) preoccupazione.

Lo vogliamo capire o no che la politica è una cosa seria e non il gioco alla guerra. Da bambini si faceva, a me non piaceva nemmeno allora, figuriamoci oggi. Forse sarebbe meglio il gioco di ad andare a nascondersi. Tutto è in linea con la mentalità di Matteo Salvini: tende ultimamente a presentarsi come un “maddaleno pentito”, salvo poi sfogarsi non appena svoltato l’angolo.

Probabilmente è subentrata anche la rincorsa ad essere più di destra della destra per fare (s)leale concorrenza a Giorgia Meloni, che sembra fare incetta di consensi. Forse si tratta più di forma che di sostanza, ma quando spuntano le pistole anche la forma diventa sostanza. Lo ammetto, ho nostalgia per il banale e inoffensivo celodurismo bossiano al quale si sta sostituendo lo “stuprismo” salviniano.  Ammetto di usare parole forti, ma sono stanco di assistere a queste menate fascistoidi da prepotentelli di bassa Lega. Invece purtroppo piacciono: questione di gusti.

Per dirla un po’ volgarmente, più che di pistoleri si tratta di “pistola”. Infatti pirla è un termine in uso in molti dialetti di area lombarda ed emiliana. Un sinonimo di pirla, ma di uso meno comune, è pistola o pestola. Mi sono spiegato?

 

Il mestiere di incendiario

“Più di 20mila ettari distrutti e quasi 1.500 sfollati tra turisti e residenti nella provincia di Oristano a causa degli incendi partiti tra venerdì sera e sabato mattina in una zona boscosa del massiccio del Montiferru. Le fiamme, alimentate dal forte vento degli ultimi giorni, sembra siano partite da un’auto incendiata venerdì sera a Bonacardo, per poi propagarsi a un’azienda agropastorale. Visti i diversi fronti, si sospetta che una o più persone abbiano appiccato dolosamente altri roghi, poi confluiti in un unico devastante incendio.

Le fiamme hanno costretto quasi 1.500 persone ad evacuare tra turisti e residenti, bruciando più di 20mila ettari di terreno, pascoli e campi coltivati, alcune migliaia di capi di bestiame e distruggendo case e aziende agricole.

Ritenuto uno dei più gravi disastri naturali mai accaduto in Sardegna dal presidente Christian Solinas, l’enorme rogo sarebbe di origine dolosa, partito da un’auto incendiata tra venerdì sera e sabato mattina tra Bonacardo e Santu Lussurgiu, per poi propagarsi a un’azienda agropastorale. Complici le alte temperature (ovunque tra i 35 e 40 °C) e il vento, inizialmente libeccio e poi scirocco, i fuochi hanno raggiunto i centri abitati del Montiferru, fino a scollinare verso Porto Alabe, località turistica di mare dove circa 200 persone hanno dovuto lasciare le proprie case. Le fiamme hanno distrutto anche l’olivastro millenario “Sa Tanca Manna”, simbolo della città di Cuglieri”.

Ho ripreso la drammatica ma asciutta cronaca di Valeria Aiello su fanpage.it. Perché la Sardegna stia bruciando rappresenta un interrogativo drammatico, che probabilmente trova risposta in un autentico labirinto di cause riconducibili agli andamenti climatici (caldo soffocante, vento impetuoso, etc.), allo stato ambientale (incuria, mancanza di manutenzione, nessuna prevenzione, etc.), al comportamento colposo e doloso di troppa gente. Si tratta di un fenomeno purtroppo ricorrente e devastante.

Possibile che non si possa fare qualcosa per prevenirlo o almeno contenerlo? Come sempre succede in questi casi partono denunce e critiche, che non spostano di una virgola il problema.  Le ricchezze fondamentali del nostro Paese consistono nel patrimonio artistico-culturale e in quello ambientale. Le opere d’arte non riusciamo a preservarle a dovere: forse ne abbiamo troppe. Le bellezze del territorio vengono spazzate via e/o sgretolate dagli eventi climatici in combutta con le delinquenziali negligenze e trascuratezze umane.

Si fa un gran parlare di nuovi progetti e programmi e di nuove strutture. Forse sarebbe il caso di guardare all’esistente e cercare di mantenerlo e governarlo al meglio: sarebbe già molto. Anche perché così facendo si darebbe impulso all’occupazione, al turismo, alla difesa del territorio, alla prevenzione dei disastri, ad una cultura socio-economica virtuosa ed equilibrata. Non so quanti fondi del Piano Nazionale di ripresa e resilienza siano stati stanziati su questo discorso: ce ne saranno sicuramente. Vediamo di spenderli bene.

Non vorrei però fare il grillo parlante, mestiere detestato da mio padre, il quale con una battuta velenosa, in occasione di una alluvione in Italia (non ricordo dove e quando, ma non ha molta importanza ai nostri fini), fulminò il ritornello dei comunisti trinariciuti, quelli col paraocchi, che recitava più o meno: “Cozi dal gènnor in Russia in sucédon miga”. Mio padre rispose: “ Sät parchè? In Russia i gh’àn j èrzon äd cärta suganta”.

É indubbiamente una delle più belle battute di mio padre per stile, eloquenza, brillantezza, spontaneità e parmigianità. Per gli incendi in Sardegna non c’entrano i comunisti e la Russia vecchia e nuova (è cambiato tutto, ma non è cambiato niente), c’entra quel vezzo inconcludente e paralizzante che riconduce gli eventi calamitosi ad una generica incapacità dell’uomo a governare il mondo. Non sopportava la faziosità in generale, detestava la mancanza di obiettività e nelle sue frequentazioni terra terra, nonché nel far politica a livello di base, lanciava questi missili fatti di buon senso più che di analisi politica. Oggi, chissà, forse potrebbe dire che per spegnere gli incendi occorrerebbe sputare meno sentenze, meno veleno polemico e più saliva costruttiva.

Ai comunisti di un tempo si sostituisce oggi Marco Travaglio (giornalista peraltro abile, preparato e impegnato) con le sue provocazioni insistenti, insignificanti e fuorvianti. Le voci fuori dal coro mi piacciono, ma devono essere intonate altrimenti diventano solo pretenziose e dispettose.

Il direttore del Fatto Quotidiano ha attaccato duramente il premier Mario Draghi dal palco della festa di Articolo Uno a Bologna. Parlando del governo Conte, Travaglio ha sostenuto che “li hanno mandati via per i loro meriti e hanno messo al loro posto l’esatta antitesi, che è un figlio di papà, un curriculum ambulante, uno che visto che ha fatto bene il banchiere europeo ci hanno raccontato che quindi è competente anche in materia di sanità, di giustizia, di vaccini eccetera. Mentre, mi dispiace dirlo, non capisce un c…. né di giustizia né di sociale né di sanità”. “Capisce di finanza -ha aggiunto Travaglio- ma non esiste l’onniscienza e non ha neanche l’umiltà, perché a furia di leggere che è competente su tutti i rami dello scibile umano si è convinto di essere competente su tutto e quindi non chiede consiglio”. Non mancava altro che lo colpevolizzasse anche per il discorso degli incendi in Sardegna: dove ci sta il più ci sta anche il meno.

 

 

Il vaccino contro il green pass

In questo periodo ho speso molte discrete ma sincere parole e altrettanti misurati ma schietti commenti scritti sulla situazione pandemica alla luce della vaccinazione sempre più imperante e della sua ormai dilagante questione occulta e/o palese dell’obbligatorietà. Al riguardo mi sono imbattuto in un testo di Giorgio Agamben e Massimo Cacciari, due filosofi che si cimentano, fuori dai denti, con un tema delicato e controverso come quello del cosiddetto green pass (a proposito, chissà cosa direbbe Indro Montanelli sull’insistito uso di inglesismi e anche nel merito di questo problema…). Ritengo opportuno riportarlo di seguito senza aggiungere nulla, per l’autorevolezza della fonte, per la schiettezza argomentata ed avvolgente, ma soprattutto perché, nel mio piccolo, lo condivido pienamente e lo trovo perfettamente in linea con i mei numerosi precedenti e modesti convincimenti e pronunciamenti.

A proposito del decreto sul green pass

“La discriminazione di una categoria di persone, che diventano automaticamente cittadini di serie B, è di per sé un fatto gravissimo, le cui conseguenze possono essere drammatiche per la vita democratica. Lo si sta affrontando, con il cosiddetto green pass, con inconsapevole leggerezza. Ogni regime dispotico ha sempre operato attraverso pratiche di discriminazione, all’inizio magari contenute e poi dilaganti. Non a caso in Cina dichiarano di voler continuare con tracciamenti e controlli anche al termine della pandemia. E varrà la pena ricordare il “passaporto interno” che per ogni spostamento dovevano esibire alle autorità i cittadini dell’Unione Sovietica. Quando poi un esponente politico giunge a rivolgersi a chi non si vaccina usando un gergo fascista come “li purgheremo con il green pass” c’è davvero da temere di essere già oltre ogni garanzia costituzionale. 

Guai se il vaccino si trasforma in una sorta di simbolo politico-religioso. Ciò non solo rappresenterebbe una deriva anti-democratica intollerabile, ma contrasterebbe con la stessa evidenza scientifica. Nessuno invita a non vaccinarsi! Una cosa è sostenere l’utilità, comunque, del vaccino, altra, completamente diversa, tacere del fatto che ci troviamo tuttora in una fase di “sperimentazione di massa” e che su molti, fondamentali aspetti del problema il dibattito scientifico è del tutto aperto. La Gazzetta Ufficiale del Parlamento europeo del 15 giugno u.s. lo afferma con chiarezza: «È necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, anche di quelle che hanno scelto di non essere vaccinate». E come potrebbe essere altrimenti? Il vaccinato non solo può contagiare, ma può ancora ammalarsi: in Inghilterra su 117 nuovi decessi 50 avevano ricevuto la doppia dose. In Israele si calcola che il vaccino copra il 64% di chi l’ha ricevuto. Le stesse case farmaceutiche hanno ufficialmente dichiarato che non è possibile prevedere i danni a lungo periodo del vaccino, non avendo avuto il tempo di effettuare tutti i test di genotossicità e di cancerogenicità. “Nature” ha calcolato che sarà comunque fisiologico che un 15% della popolazione non assuma il vaccino. Dovremo dunque stare col pass fino a quando? 

Tutti sono minacciati da pratiche discriminatorie. Paradossalmente, quelli “abilitati” dal green pass più ancora dei non vaccinati (che una propaganda di regime vorrebbe far passare per “nemici della scienza” e magari fautori di pratiche magiche), dal momento che tutti i loro movimenti verrebbero controllati e mai si potrebbe venire a sapere come e da chi. Il bisogno di discriminare è antico come la società, e certamente era già presente anche nella nostra, ma il renderlo oggi legge è qualcosa che la coscienza democratica non può accettare e contro cui deve subito reagire”.

 

Il bugiardino costituzionale

Di fake news sulla pandemia, sui vaccini e su tutto quanto riguarda il discorso covid, ne sono state indubbiamente sparse parecchie: le responsabilità di questa pazzesca confusione sono di tanti, non ultimi gli scienziati e gli esperti in materia, che hanno perso credibilità vomitando “bullisticamente” un tourbillon di pareri superficiali, approssimativi e contraddittori. E non è ancora finita. “Méstor mi e méstor vu e la zana d’indò vala su?”  direbbe mia nonna: erano ingegneri che si scambiavano complimenti, ma che si erano dimenticati l’uscio nella porcilaia. Non voglio esagerare, ma non vorrei che succedesse così a livello Covid. Questa gag nonnista mi sovviene quando ascolto le tiritere di virologi e infettivologi che danno più aria ai loro denti che esposizione alle loro teorie.

Andiamo quindi adagio a squalificare tutti i discorsi di un certo tipo come notizie false e tendenziose. Che poi fra di esse ci sia anche il fatto che i vaccini contro il covid 19 siano sperimentali, mi sembra proprio un ulteriore fake news. Il grande scrittore Leonardo Sciascia aveva, provocatoriamente ma realisticamente, snidato e bollato i “professionisti dell’antimafia”. Ora sarebbe necessario individuare i professionisti dell’antifakenews.

Se scorriamo la vicenda della vaccinazione nei suoi tira e molla, tra un tipo di vaccino e l’altro, fra una sospensione della somministrazione e l’altra, fra continui allarmi e imbarazzate “tranquillizzazioni”,  fra balletti di cifre sul  potere immunizzante e sulla durata dell’immunizzazione, e compagnia stonando, non emerge forse che tutta la vicenda vaccinale altro non è che una sperimentazione di massa, dal momento che i vaccini sono stati approntati a tempo di record e senza le necessarie e graduali preventive verifiche. Per tutti i farmaci c’è una lunga fase di attesa sperimentale prima dell’ok definitivo all’uso, previo approntamento dei cosiddetti bugiardini. Non è stato così per il covid e a tempo di record si è arrivati ai vaccini e ai bugiardini (mai forse la loro ironica titolazione è stata più appropriata), stretti dalla comprensibile spinta a rispondere alla drammaticità della situazione, dalla “politica” urgenza di affrontare in qualche modo una situazione esplosiva e totalmente fuori controllo, schiavi di una invadente, spietata e incontrollata concorrenza fra le multinazionali del farmaco, presuntuosi nel voler accreditare come infallibile una scienza molto balbettante e traballante. Vaccino doveva essere e vaccino è stato! Questa è la realtà sotto gli occhi di tutti e non mi pare si possa parlare di fake news.

La migliore risposta alle fake news non consiste nel demonizzare i pareri e le opinioni contrarie all’impalcatura costruita in fretta e furia, senza fondamento, senza progetto, con una pletora di architetti e ingegneri del piffero. Il più serio antidoto alle notizie false e tendenziose sta nel dialogo, nella pacata argomentazione e nella capacità di convincere e non di spaventare, angosciare, criminalizzare e obbligare. L’atteggiamento giusto mi sembra quello emergente da una cronaca di Antonella Mariotti su La Stampa, che riporto di seguito integralmente.    

“C’era anche il primario di Malattie Infettive di Novara, l’alessandrino Pietro Luigi Garavelli, in piazza con i “No-Pass” sabato 24 luglio ad Alessandria. «Sono andato a quella manifestazione – ha spiegato il medico – per informare le persone. Non sono un no-vax, sono vaccinato, si è vaccinata mia moglie e tutti i miei familiari, se sarò obbligato vaccinerò anche le mie figlie. Ma la popolazione deve essere informata in modo chiaro, e questo non è successo purtroppo. Per questo adesso scendono in piazza».

 Garavelli, che è stato nominato Cavaliere della Repubblica, ha aggiunto: «Pensare di risolvere la pandemia solo con i vaccini – dice – non è possibile. Nei giovanissimi, per esempio il vaccino può provocare problemi cardiaci, mentre se si ammalano di Covid il rischio è pari a zero».

«La mia attività è stata di tipo formativo, non di sostegno – conclude Garavelli -. Una attività che è giusto che un infettivologo faccia. Così come tanti anni fa mi sono confrontato con centinaia di mamme sulla libera scelta per i vaccini dei bimbi»”. 

Invece, gira e rigira, si vuole arrivare a introdurre prima surrettiziamente e poi apertamente l’obbligo di vaccinarsi contro il covid. Ho seri dubbi sulla legittimità costituzionale di una tale legiferazione a suon di green pass anche per andare al cesso di casa propria e forse addirittura di trattamenti sanitari obbligatori.

Scrive Alessandro Di Matteo sempre su La Stampa: “Conversando con alcuni dei più eminenti costituzionalisti italiani si ricava un verdetto unanime: la Costituzione consente sia l’obbligo di vaccinazione che il lasciapassare sanitario e le polemiche non hanno alcun fondamento, almeno dal punto di vista giuridico. Il dibattito sull’obbligo si sta svolgendo in modo «improprio», secondo Giovanni Maria Flick: «È un obbligo presente nel nostro ordinamento da molto tempo, pensiamo alle vaccinazioni per la polio, il morbillo, altre malattie infettive»”.

Sono (quasi) sicuro che ci arriveremo (attento Draghi, perché il terreno si fa molto scivoloso). Il sottoscritto, che non ha alcun timore nel dichiarare di non essersi vaccinato in quanto affetto da numerose e sperimentate allergie, non costituirà certamente l’eccezione alla regola e allora vorrà dire che non gli resterà altro da fare che mettere agli atti una missiva nei confronti del presidente della Corte Costituzionale, al quale chiederà preventivamente che si accolli gli oneri relativi alla sua eventuale morte o invalidità in conseguenza della vaccinazione. Sto facendo le corna anche se non sono superstizioso…

 

 

Le tasche piene di…slogan

Fabio Battistini, imprenditore bolognese che corre da sindaco sotto le insegne del centrodestra, inciampa sulla prima gaffe elettorale. Provando a correggere il tiro della comunicazione, inizialmente impostata sullo slogan “Dai mò”, un modo dialettale per dire “coraggio”, ha fatto stampare un nuovo manifesto, con il claim “Bologna, un passo avanti”. Nella presentazione con i rappresentanti dei partiti che lo sostengono ha esibito una nuova grafica per i manifesti, meno “locale” e più “istituzionale. Però non ha considerato il fatto che quello slogan era già stato usato.

Il presidente della Regione, Stefano Bonaccini, quando un anno fa presentò la sua lista per le elezioni regionali, scelse proprio la stessa formula “Emilia-Romagna, un passo avanti”. Il governatore si è limitato a farlo notare su twitter con un breve commento: “Così non vale…” Ma il lapsus sembra davvero freudiano: durante la presentazione del candidato Battistini, infatti, per incoraggiarlo, i principali rappresentanti dei partiti di centrodestra stamattina da piazza del Nettuno hanno detto: “Dall’altra parte non c’è mica Bonaccini, a Bologna possiamo vincere”. Ricordando la vittoria alle urne del presidente della Regione che ha rappresentato una sconfitta bruciante per la destra all’epoca.

La campagna di Battistini sembra davvero partita in salita: prima ha dovuto aspettare lunghe settimane perché il centrodestra trovasse l’accordo sul suo nome, ora ha poco tempo per impostare una campagna efficace con agosto di mezzo. Al gazebo allestito per la presentazione della sua candidatura ha assicurato: “La mia lista è pronta per due terzi”, ma il tempo stringe. L’idea di gareggiare con uno slogan in dialetto a un certo punto gli è sembrata “antistorica” nel 2021, ma adesso deve fronteggiare una somiglianza troppo stretta con lo slogan usato da Bonaccini.

Fabio Battistini si è presentato anche così: “Bologna ha bisogno di aria nuova, in tasca ho le chiavi di casa e non una pistola” (altro lapsus freudiano).

Ho attinto alla cronaca di Eleonora Capelli su La repubblica, che da una parte mi ha sinceramente incuriosito e dall’altra mi ha ulteriormente sconfortato. La politica è infatti sempre più ridotta a slogan più o meno azzeccati. Mi si dirà che le frasi concettose e sintetiche, orecchiabili e suggestive, destinate a rimanere impresse nella mente e a persuadere l’ascoltatore, sono da sempre usate nella propaganda politica. Il problema non sta nello slogan, ma nella constatazione che dietro ad esso non c’è nulla, lo slogan è fine a se stesso e lo dimostra il fatto che possa essere tranquillamente e spregiudicatamente utilizzato da candidati di opposta provenienza politica.

Certo Battistini poteva stare un po’ più attento, è partito con una gaffe abbastanza clamorosa, ma, come si sa, la propaganda, anche quella elettorale, ha lo scopo di far parlare di sé. Diceva Oscar Wilde: “Non importa che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli”.

Ancora più curioso il lapsus freudiano delle chiavi in tasca, chiaramente allusivo alla disgraziata pistola in tasca dell’assessore leghista di Voghera. Meglio così, ma non vorrei che Battistini intendesse minimizzare l’accaduto facendolo passare per una semplice opzione organizzativa: chi tiene in tasca le chiavi e chi…una pistola. Non sono cose equivalenti e/o intercambiabili. E nemmeno la politica lo dovrebbe essere, invece purtroppo la sta diventando e, se devo essere sincero, di questa politica vuota e insulsa ne ho piene le tasche. Rimpiango la Democrazia Cristiana, il Partito comunista, persino il tanto bistrattato partito socialista: un sistema superato (?), ma molto più serio e democratico. C’è la tendenza ad affermare che tutto era sbagliato, a squalificare sbrigativamente un periodo storico, la cosiddetta prima repubblica. Non sono assolutamente d’accordo e per rendere l’idea aggiungo convintamente che andava meglio quando andava peggio.

 

 

 

 

Lumache, lumachine, lumaconi

Avvocato Giuliano Pisapia, che sentimento le suscita questo dibattito sulla riforma della giustizia? «Sono allibito. Immaginavo delle reazioni, ma non fino a questo punto. È un argomento su cui purtroppo non si riesce a ragionare con serenità. E siccome ho già visto in passato prese di posizione da alcune parti della magistratura che hanno bloccato vere riforme complessive, come quella del ministro Flick, mi sembra di tornare indietro negli anni».

Così l’incipit di una intervista pubblicata dal quotidiano La stampa. In effetti mi sembra che la giustizia, come del resto anche la scuola, si stia rivelando come un settore irriformabile su cui si scatenano inconcludenti risse ideologiche, politiche e corporative che finiscono col pregiudicare ogni e qualsiasi tentativo di cambiamento. Tutti sostengono che la situazione così com’è non va, ma poi tutti vanno contro tutti col risultato di rendere immodificabile l’assetto tanto criticato.

Sta succedendo sulla riforma ipotizzata dall’attuale ministro Marta Cartabia. I magistrati reagiscono come le lumache, appena intravedono un minimo attacco ai loro privilegi ed alle loro prerogative. La chiocciola è un animale assai cauto in quanto si ritira appena molestato. Quando vengono anche solo sfiorate le antenne, queste si ritraggono. Purtroppo però i magistrati lumaca non fanno altro che rendere lumaca la giustizia.

La politica politicante fa il resto, combattuta ideologicamente fra giustizialismo e garantismo: i pentastellati, sulle ali del loro nuovo leader Giuseppe Conte, che ha fatto della giustizia il suo cavallo di battaglia, si mettono di traverso non appena sentono odore di colpi di spugna; i leghisti, diventati paradossalmente più draghiani di Draghi, si ergono strumentalmente a difensori oltranzisti della proposta governativa elaborata dal ministro Cartabia; gli altri vogliono discutere all’infinito, nascondendosi dietro il Parlamento, senza concludere un bel niente.

Ho la netta impressione che, se il Paese perde il treno/Cartabia, di riforma della giustizia non se ne farà nulla non so per quanto tempo. È vero che non bisogna varare una riforma purchessia solo in modo da conquistare la fiducia europea necessaria per ottenere i grossi fondi del recovery plan, ma è altrettanto vero che questa spinta dovrebbe indurre tutti a fare ogni sforzo possibile.

Non so se Mario Draghi riuscirà a far quadrare il cerchio. Una cosa è certa: la giustizia italiana non funziona. Ricordo una mia esperienza professionale a suo modo emblematica. Una cooperativa sociale, promossa da fior di esperti in materia giuridica ed amministrativa, mi pose un quesito molto delicato e difficile. Esposi al mia soluzione dettata più dal buon senso che dalla carente normativa in vigore. Si scatenò un dibattito infinito, forbito ma inconcludente, al termine del quale il presidente si attestò sulla soluzione da me proposta, tagliando di brutto tutte le inutili disquisizioni degli esperti. Draghi più o meno dovrà fare così: non parte da zero, ha una ministra all’altezza del compito, dovrà ascoltare tutti e poi decidere in solitudine mettendo tutti allo scoperto davanti alle loro responsabilità.

Durante un’intervista, a Mussolini venne chiesto: “Ma deve essere ben difficile governare gente così individualista ed anarchica come gli italiani!”. Mussolini rispose: “Difficile? Ma per nulla. È semplicemente inutile!”. Non vorrei che avesse qualche ragione. A Draghi l’arduo compito di smentirlo.

 

 

L’infinita cretinata del ‘favorevole o contrario’

E pensare che la nostra epoca dovrebbe essere post-ideologica…Tutto viene puntualmente interpretato e tradotto in termini ideologici. Recentemente è caduto nella trappola anche il premier Mario Draghi, personaggio pragmatico per antonomasia. Indirettamente tirato per i capelli dalle esternazioni salviniane in materia di vaccinazione anti-covid, in una conferenza stampa promossa per illustrare le nuove misure riguardanti la conditio sine qua non del green pass per accedere a certi ambienti ed a certe manifestazioni, si è fatto prendere la mano ed ha lanciato uno slogan tanto lapidario quanto esagerato e drammatizzante: “L’appello a non vaccinarsi è un appello a morire!”.

La risposta è arrivata puntualmente da Torino dove migliaia di manifestanti hanno scritto sui cartelloni una frase di stampo patriottico e libertario: “Meglio morire da liberi che vivere da schiavi!!!”. Se andiamo avanti di questo passo lo scontro nelle piazze non sarà per ottenere o garantirsi un posto di lavoro, ma per vaccinarsi o meno contro il coronavirus e le sue varianti. Da una parte lo sfogo di Draghi (forse più le limitazioni ai movimenti senza passaporto vaccinale) sembra che abbia ottenuto l’effetto di incrementare immediatamente le richieste di sottoporsi a vaccinazione da parte dei recalcitranti, dall’altra ha probabilmente incallito la posizione degli scettici e dei contrari ai quali non è parso vero di dare una dimensione etico-politica ai loro comportamenti.

In effetti le due succitate frasi ad effetto sembrano dichiarazioni di guerra: la guerra dei vaccini che finirà, come tutte le guerre, per eludere i problemi reali portando i discorsi su contrapposizioni stucchevoli e manichee.   Mi spieghi Draghi perché si rischia di morire nei ristoranti e non sui treni, perché al rischio di morire si è spesso derogato e tutt’ora si deroga in nome della ragion di sistema economico. In parole povere, si fa come si può e allora lasciamo perdere i proclami roboanti. Mi spieghino i no-vax cosa farebbero loro per arginare la pandemia: non si può negare l’evidenza del male per criticare le cure contro il male. Non è serio “buttare il prete nella merda” per decidere di non fare niente. Non è accettabile tagliarsi i coglioni per dimostrare che coglioni sono gli altri.

«Scusi, Lei è favorevole o contrario?» così chiese un intervistatore al mio professore di italiano, in occasione dell’introduzione del divorzio nella legislazione italiana, con l’assurda coda del referendum voluto a tutti i costi dalla gerarchia cattolica al cui volere la Democrazia Cristiana si piegò per ovvi motivi elettoralistici. «Tu sei un cretino!» rispose laicamente stizzito il professore. Credo non ci voglia molto a capire come l’intervistato rifiutasse il modo manicheo con cui veniva affrontato il problema. Di tempo ne è passato parecchio, ma è fortissima la tentazione di ridurre tutto ad un perpetuo referendum pro o contro qualcosa, ma soprattutto pro o contro qualcuno: un continuo strisciante plebiscito strumentalmente azionato, usato per ridurre a zero il dibattito sui problemi e fuorviare i cittadini con la ratifica delle finte ed illusorie soluzioni. Se non si discute, se si viene costantemente posti di fronte ad una facilona scelta di campo, lo sbocco è condizionato dai media e vince chi ha la voce più forte, vale a dire il peggiore.

Tutte le enormi problematiche della nostra società vengono ridotte al ritornello: “Scusi, Lei è favorevole o contrario?”. Immigrazione: favorevole o contrario a chiudere le frontiere. Ordine pubblico: favorevole o contrario all’uso delle armi per difendersi. Conflitti di lavoro: favorevole o contrario alla libertà di licenziare. Scuola: favorevole o contrario alla didattica in presenza. Università: favorevole o contrario al numero chiuso. Prostituzione: favorevole o contrario alle case chiuse. Delinquenza: favorevole o contrario alla pena di morte. Violenza sessuale: favorevole o contrario alla castrazione chimica. Giustizia: favorevole o contrario alla separazione delle carriere. Tossicodipendenza: favorevole o contrario alla liberalizzazione delle droghe. Controllo delle nascite: favorevole o contrario alla pillola del giorno dopo. Omosessualità: favorevole o contrario al decreto Zan.

Potremmo continuare all’infinito. L’ultimo esempio in ordine di tempo rischia di essere appunto la questione della vaccinazione con il relativo aperto o surrettizio obbligo. Noto, da parecchio tempo, come non si riesca più a discutere nel merito dei problemi: tutto viene ridotto a mera diatriba faziosa e velleitaria entro cui si rovinano persino rapporti familiari, parentali, amicali, si distrugge il dialogo rincorrendo fantomatiche certezze.

Purtroppo infatti non esistono certezze riguardo al discorso della vaccinazione anti-covid: non si sa se e quanto il vaccino immunizzi, se e quanto abbia contro-indicazioni a breve, medio e lungo termine, non si sa per quanto tempo esplichi il suo effetto, non si sa se sia stato adeguatamente sperimentato, non si sa se su di esso siano state imbastite colossali e delinquenziali speculazioni economiche, non si sa niente di preciso. Diventa allora molto difficile costruirci sopra delle teorie aggressive o difensive, costrittive o libertarie: sono sicuro che, se venisse organizzato un aperto e serio dibattito tra i fautori del vaccino a tutti i costi e i difensori della libertà di vaccinazione, ci troveremmo di fronte ad un vero e proprio ginepraio pirandelliano.

In effetti all’angoscia dell’ammalarsi stiamo aggiungendo quella del vaccinarsi: roba da matti. Fin dall’inizio mi sono chiesto: possibile che i cosiddetti no-vax siano tutti ignoranti, stupidi e prevenuti? possibile che i governanti siano tutti sadicamente incapaci e inadeguati al punto da trattare un discorso così complesso con la delicatezza di un elefante in un negozio di cristalleria? possibile che i virologi siano ballerini in cerca di ribalta e non riescano a mettersi d’accordo su una ragionevole linea scientifica? possibile che invece di semplificare le questioni si tenda a complicarle ulteriormente? possibile che da un anno e mezzo i media torturino l’opinione pubblica con i loro penosi e asfissianti riti pseudo-informativi?

Non ho trovato risposte plausibili e convincenti. E allora per cortesia, nessuno mi parli troppo nella mano, mi si lasci in pace. Non accetto imposizioni a livello di Chiesa, immaginiamoci se sono disposto a dire signorsì ad Alessandro Cecchi Paone [ho preso a caso (?) un influencer vaccinale], ad arruolarmi nella guerra dei vaccini. Nessuno purtroppo ha la verità in tasca. «Su, venite e discutiamo» dice il Signore nella Bibbia. Diamoci tutti una calmata e anziché combattere la guerra dei ‘vaccini sì-vaccini no’, vediamo di combattere quella dell’essere uomini o caporali.

 

La tristezza olimpica

Mio padre era talmente interessato alle Olimpiadi e coinvolto dall’evento da scandire la propria vita in collegamento con la quadriennale manifestazione sportiva. Al termine della kermesse, con le lacrime agli occhi si chiedeva: «Arriverò a vedere le prossime, ci terrei molto…». Mia madre, un po’ più pragmatica, sorrideva e commentava: «Forse nella vita c’è qualcosa di più importante…». Avevano ragione entrambi.

Oggi non ci sarebbe più alcuna discussione di questo genere, perché le Olimpiadi di Tokio non le vedo proprio. Un mio zio davanti a un tegame di insalata chiedeva: «An ved miga al säl!?». Esigeva che l’insalata fosse ingrigita dal sale per superare la barriera del suo palato inspessito dal fumo. Nel caso delle Olimpiadi non manca solo il sale, manca l’insalata.

Lo sport è diventato un affare, il dilettantismo non esiste più, tutto si riduce ad un mega-spettacolo poco attraente (nel caso solo televisivo). L’attuale edizione è oltre tutto condizionata dallo spauracchio covid: tutto senza pubblico, nell’assenza o addirittura nella ostilità dei giapponesi. Da un momento all’altro potrebbe essere tutto sospeso e rinviato a data da destinarsi. Forse era meglio soprassedere ulteriormente in quanto il gioco non vale eticamente la candela, mentre la fiaccola splende sul bailamme affaristico.

Provo un senso di profonda tristezza: nemmeno le Olimpiadi riescono a superare le chiusure delle nostre società e vengono fagocitate ed omologate quale evento fine a se stesso o meglio fine all’ambaradan economico che ci sta sotto e sopra.

Spero che nel prosieguo dei giochi, nonostante tutto, qualcosa di bello possa emergere e auspico una seppur piccola riconciliazione con lo sport e la sua portata sociale. Staremo a vedere. Non mi sembra il caso di viverle con la spada di Damocle della pandemia, con il bollettino dei contagi sovrapposto o addirittura preposto al medagliere. Se deve essere così, tanto valeva evitare la kermesse, ma, come si sa, questi eventi devono essere celebrati nonostante tutto.

Non voglio fare il penoso e lagnoso nostalgico di turno, ma mi dispiace che in questo mondo non ci sia più verso di entusiasmarsi per qualcosa. Bisogna scavare nel proprio intimo per trovare l’acqua fresca della vita. Fuori c’è pianto e stridore di denti, ma ancor più c’è l’indifferenza valoriale, colmata dagli entusiasmi vuoti ed artificiosi. La vita sta diventando una sorta di continuo veglione di capodanno in cui ci si deve divertire per forza e si finisce per soffrire per scelta.

Uno sceriffo in quel di Voghera

Non sono solito bersagliare sbrigativamente quanti si rendono protagonisti di comportamenti trasgressivi prima che tali fatti vengano opportunamente indagati, obiettivamente giudicati ed eventualmente penalmente puniti. Non mi piace affatto trasformare immediatamente in capri espiatori coloro che si propongono alla pubblica opinione per le loro scelte di vita e per i loro atti a prima vista censurabili.

Questa la doverosa premessa prima di commentare il fatto di Voghera laddove i cittadini giudicano un loro amministratore comunale in modo implacabilmente colorito: “L’assessore è soprannominato lo ‘sceriffo’, gira sempre con la pistola”. Ho ascoltato queste inquietanti dichiarazioni ed ho obbligatoriamente posto la dovuta attenzione a quanto dichiarato dall’interessato: “Mi ha spinto ed è partito un colpo”. Così si è giustificato Massimo Adriatici, arrestato per avere sparato il colpo di pistola che una sera, poco dopo le 22, ha ucciso Youns El Boussetaoui, un marocchino che non era certo uno stinco di santo. Sono ancora poco chiare le dinamiche di come sia avvenuta la lite ma chi conosceva Adriatici – assessore alla sicurezza del Comune di Voghera (Pavia), sovrintendente di Polizia presso il commissariato vogherese fino al 2011 – parla dell’esponente leghista come di uno “sceriffo” già conosciuto in città per i suoi modi aggressivi.

Con le arie che tirano non mi scandalizzo, non criminalizzo il leghista Adriatici, lascio alla giustizia il suo iter, ma faccio brevi riflessioni a caldo. È opportuno che un ex poliziotto svolga la funzione di assessore alla sicurezza? Un conto è il compito della polizia, altro è il discorso di un’amministrazione locale. Non vorrei che, sulle improprie ali della scelta emergenziale dei tecnici al governo della cosa pubblica, sulla sacrosanta esigenza di qualificare la politica con iniezioni di competenza ed esperienza, si avvalorasse l’ipotesi di delegare la sicurezza appunto ad un ex poliziotto, la salute ad un ex direttore sanitario di un ospedale, la cultura ad un ex responsabile di un teatro e così via. Sarebbe una semplificazione che non esito a definire anti-democratica.

Una seconda questione riguarda l’atteggiamento di coloro che svolgono pubbliche e delicate funzioni: non si possono mescolare lo stile di vita personale con quello di amministratore della cosa pubblica. Il consiglio comunale non è un saloon, la giunta comunale non è il bar all’angolo, i cittadini non sono sudditi a cui impartire lezioni pratiche di civismo a rovescio. Nella confusione è quasi inevitabile che ci scappi qualche evento clamoroso a livello di violenza occulta o palese.

Il terzo discorso è relativo alla detenzione e all’uso delle armi. Sarebbe più che opportuno che le armi fossero in possesso solo ed esclusivamente dei soggetti a rischio della propria vita per motivi professionali e comunque, anche in questi casi, se ne facesse un uso rigorosamente controllato e controllabile. Non ci sta che un assessore comunale abbia in tasca una pistola.

Mi sia consentita, in conclusione, una considerazione politica un tantino velenosa. Tanti anni fa ero segretario di sezione del partito della Democrazia Cristiana: mi sosteneva una larga e per certi versi anomala maggioranza con idee provenienti dall’impostazione tipica della sinistra democristiana. C’era tuttavia una minoranza silenziosa che mi sopportava faticosamente e faceva fatica ad esprimersi. Fu sufficiente, durante un dibattito, che uscisse il discorso del disarmo della polizia durante i conflitti di lavoro: si scatenò una autentica rissa verbale all’insegna dei “cannoni alla polizia” e in breve tempo la mia maggioranza si assottigliò fino a diventare minoranza.

Cosa voglio dire, ricordando questo antico episodio. Le armi sono una gran brutta bestia ed il loro uso è sempre stato motivo di scontro politico fra destra e sinistra, ma soprattutto fra tifosi dell’ordine pubblico a tutti i costi e sostenitori di una linea socialmente avanzata dove l’ordine diventa un concetto molto più largo, problematico e complesso. Forse siamo ancora fermi lì.

 

 

L’imbroglione sovietico

Una giornalista statunitense ha messo dialetticamente in crisi Putin con una domanda “bomba” ed è diventata un’eroina di Twitter. Durante la conferenza stampa che ha seguito il primo incontro faccia a faccia con Joe Biden, una giornalista statunitense – Rachel Scott della ABC- ha incalzato Vladimir Putin, sul suo comportamento nei confronti degli oppositori politici. Il presidente russo ha cercato di confrontare gli arresti della sua opposizione politica in Russia con gli arresti dei manifestanti di Black Lives Matter e di quelli coinvolti nell’insurrezione del 6 gennaio a Capitol Hill. Ma Scott lo ha incastrato: “Non ha risposto alla mia domanda, signore. Se tutti i suoi oppositori politici sono in prigione o morti, avvelenati, questo non invia il messaggio che lei non voglia uno scontro politico equo?”. Putin ha risposto: “Alla domanda su chi sta uccidendo chi, alcuni si sono presentati al Congresso negli Stati Uniti con richieste politiche e molti sono stati dichiarati criminali e rischiano la reclusione da 20 a 25 anni. Queste persone sono state immediatamente arrestate dopo quegli eventi. Su quali basi non sempre lo sappiamo. Altri sono stati semplicemente fucilati sul posto e anche disarmati”.

Non ci voleva l’abilità polemica di questa coraggiosa giornalista per capire che Putin è uno dei più grandi “bagoloni” della storia. Alle sacrosante contestazioni non ha niente da rispondere e, meglio, si è addirittura imbrodato finendo col lodare il suo omologo Donald Trump. L’ignobile connubio è finito anche se è molto presto per cantare vittoria. Si è rotta la combinazione tra un rancido rimasuglio del peggior comunismo e la polpetta avvelenata del populismo all’americana. Dei ladri di Pisa, che hanno dominato la scena internazionale, ne è rimasto uno, che fa un po’ fatica a rimanere a galla. Speriamo che non trovi rifugio in una tattica alleanza con i comunisti cinesi (tra massacratori del popolo ci si intende sempre). Biden teme questo e infatti non ha affondato i colpi contro Putin, pur facendogli capire che la musica è cambiata.

Biden ha il pregio, come si suol dire, “d’aver mis i figh a dú la lira” a Putin: è già un bel passo avanti. Il fatto più importante però è quello di avere ridato fiato e peso internazionale all’Europa senza giocare a mettere il dito fra la moglie sovranista e il marito unionista. Siamo tornati a giocare a carte scoperte, ripartendo dalle opzioni democratiche occidentali. Draghi ha colto al volo l’occasione e ci ha rimesso al tavolo a pieno titolo e con voce in capitolo. Non mi interessano più di tanto le scaramucce diplomatiche fra Biden e Putin: rientrano nella ritrovata normalità. Mi interessa il futuro dell’Europa e tiro un respiro di sollievo rispetto al recente passato.

Ricordo ancora una volta cosa successe in Scozia durante la campagna elettorale referendaria sulla brexit. La propensione scozzese – seppure almeno in parte strumentale rispetto alle loro mire indipendentiste – verso l’Unione europea, è sfociata in rabbia ed ha trovato, per ironia del destino, un ulteriore motivo di ribellione nelle parole proferite proprio in Scozia nei giorni del referendum dall’aspirante candidato repubblicano alle presidenziali americane, Donald Trump: «Vedo un reale parallelo fra il voto per Brexit e la mia campagna negli Stati Uniti». Come riferiva Pietro Del Re, inviato di Repubblica, nel pub di John Muir a Edimburgo, quando Trump è apparso in tv, tutti i clienti si sono avvicinati allo schermo. Poi hanno tutti assieme cominciato a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo è stato senz’altro “pig”, porco.

La porcilaia si è poi storicamente allargata, consolidata e si rischiava di non uscirne più.  Trump infatti ha rispettato le premesse e mantenuto le promesse: è stato il più autorevole ed acerrimo nemico dell’unità europea. Anche all’Italia ha mandato parecchi messaggi di incoraggiamento per un’uscita dalla Ue, promettendo in cambio aiuti e appoggi. Fortunatamente non se ne è fatto niente. Finalmente abbiamo trovato la porta per uscire dalla porcilaia in cui Trump ci aveva infilato. Adesso si tratta di ripartire col piede giusto.

Non sono mai stato un filo-americano di maniera, non ho mai preso per oro colato il verbo statunitense, ho sempre visto arrivare nel nostro Paese l’onda più o meno lunga delle discutibili scelte culturali e politiche provenienti dagli Usa. Questa volta è arrivata una ventata d’aria respirabile. Non mi illudo, ma spero che Biden possa essere interlocutore affidabile per nuovi processi di collaborazione e sviluppo. Putin continui pure a fare il furbo, ma, se l’occidente sa rimanere unito e si attesta su determinati principi democratici, ha poco da muovere. Può insolentire i giornalisti, può fare il gradasso in patria, può cannibalizzare le opposizioni, può cercare di ricattare altri Stati, può dare fastidio, anche se, come noto, una noce, seppure grossa, in un sacco non fa molto rumore. Tutta la mia solidarietà ai suoi coraggiosi oppositori. Ho l’impressione che stiano facendo due coraggiose e meritevoli battaglie in una: contro la mafia di stato e contro il regime autoritario. Sarà dura.