Mandatari con rappresentanza a perdere

In Commissione Affari costituzionali la Lega ha presentato due emendamenti per portare a tre mandati il limite per i sindaci nelle città con più di 15 mila abitanti e per i presidenti di regione. La proposta del terzo mandato sta dividendo i partiti che sostengono il governo Meloni, visto che sia Fratelli d’Italia sia Forza Italia sono contrari.

Il decreto “Elezioni”, approvato dal governo a gennaio, ha eleminato il limite dei mandati per i sindaci che si candidano nei comuni con meno di 5 mila abitanti, e ha aumentato a tre il numero di mandati consecutivi che un sindaco può coprire nei comuni tra 5 mila e 15 mila abitanti. Al momento la legge fissa per i comuni sopra i 15 mila abitanti un limite di due mandati consecutivi per i sindaci, ognuno della durata di cinque anni. Dunque un sindaco, dopo dieci anni alla guida di un comune, non può ricandidarsi. Nella maggior parte dei Paesi europei, tra cui Francia, Germania, Spagna e Regno Unito, un limite simile non esiste, mentre è previsto in Portogallo e in Polonia. In base alle verifiche di Pagella Politica, a oggi i sindaci di città capoluogo di regione già al secondo mandato sono otto, tra cui Milano (con il sindaco Beppe Sala), Genova (Marco Bucci), Firenze (Dario Nardella) e Bari (Antonio Decaro).
Per i presidenti di regione la questione è più complicata. La legge stabilisce che il presidente di regione non può essere subito rieletto se ha svolto due mandati consecutivi. Ma questa disposizione non è stata recepita da tutte le regioni, ognuna delle quali ha una propria legge elettorale regionale. Il caso di cui si sta parlando di più in questi mesi è quello di Luca Zaia (Lega), presidente della Regione Veneto dal 2010. Zaia è stato rieletto nel 2020 per il terzo mandato consecutivo: questo è stato possibile perché il Veneto ha applicato il limite dei due mandati nel 2012, con l’approvazione della legge elettorale regionale. Siccome la legge non può essere retroattiva, il primo mandato di Zaia, quello tra il 2010 e il 2015, non è stato conteggiato nel computo totale. Da tempo Zaia difende la necessità di eliminare il vincolo del secondo mandato, per essere sicuro di potersi ricandidare alle elezioni regionali del 2025. Secondo alcuni osservatori politici, l’opposizione di Fratelli d’Italia all’introduzione del terzo mandato sarebbe spiegata dal tentativo del partito guidato da Giorgia Meloni di presentare un proprio candidato alla presidenza della Regione Veneto. Alle elezioni politiche del 2022 Fratelli d’Italia ha preso in Veneto più del doppio dei voti della Lega. (da Pagella Politica – Carlo Canepa)

“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Così recita l’articolo 1 della Costituzione italiana.

In questi ultimi giorni abbiamo purtroppo verificato come la Repubblica italiana non sia affatto fondata sul lavoro, ma sulle morti dei lavoratori. Ora è la volta di verificare se le norme e i vincoli elettorali costituiscano forme e limiti con cui il popolo possa esercitare la sovranità.

Lasciamo perdere il caos esistente nei sistemi elettorali, uno diverso dall’altro ad ogni livello territoriale; lasciamo stare la questione del sistema proporzionale e di quello maggioritario, il primo vocato alla rappresentatività, il secondo alla governabilità e le loro miscele, che finiscono col garantire soltanto l’invadenza partitica, una delle cause della crescente disaffezione alle urne.

Il limite ai mandati è o meno funzionale all’esercizio democratico del voto popolare? A stretto rigore direi proprio di no. Perché non è possibile reiterare il voto senza alcun limite? Per evitare che l’eletto si attacchi troppo alla poltrona e diventi una sorta di monarca a vita? Per evitare che il popolarismo diventi populismo e che la democrazia si trasformi in democratura? L’intento può essere giustificato anche da una prassi piuttosto discutibile nell’esercizio del potere dove clientelismo e corruzione sono cifre purtroppo caratteristiche?

Credo tuttavia che il limite ai mandati sia una sorta di chiusura della stalla dopo che i buoi sono scappati. Infatti non mi piace, perché la democrazia è una cosa seria e il mandato si dovrebbe basare sulla fiducia fra mandante e mandatario, senza che qualcuno dall’esterno condizioni questa fiducia allo scorrere del tempo, introducendo un cronometro pseudo-democratico.

Se poi, come sta avvenendo, il tutto si riduce a schermaglie tra i partiti e alla ricerca di equilibrismi nelle candidature, il discorso diventa ancor più discutibile e oserei dire inaccettabile. Il limite ai mandati è attualmente uno scontro politico tra Giorgia Meloni, che vuol far valere la sua forza elettorale prima ancora di averla ottenuta, e Matteo Salvini, che vuol disturbare a tutti i costi il manovratore difendendo a priori le proprie posizioni acquisite sul campo.

La Lega ha nel radicamento territoriale e in alcune roccaforti dirigenziali periferiche i suoi punti di forza e quindi intende sfruttarli nella ricerca del consenso elettorale. Fratelli d’Italia è un partito molto debole nella classe dirigente (lo si nota tutti i giorni nonostante la presuntuosa invadenza della “capessa”) e quindi tende a inventare e pilotare dall’alto gli amministratori locali di sua diretta emanazione.

Discorso diverso per il partito democratico, anch’esso lacerato dalla questione dei limiti dei mandati governatoriali e sindacali. Questo partito è forse l’unico, per storia ed esperienza, ad essere dotato di una credibile, vasta e diffusa classe dirigente periferica. Paradossalmente questo tesoretto diventa pietra d’inciampo. Per il Pd il problema sta negli equilibri interni laddove tende ad essere troppo condizionante una dirigenza proveniente dal potere amministrativo locale nei confronti della dirigenza centrale, mai come in questo periodo spuntata all’improvviso senza alcun bagno identitario e sperimentale.

In conclusione la querelle non riguarda la difesa della democrazia dagli abusi dell’esercizio del potere, ma la connessione del potere più col sistema partitico che coi problemi e con le opzioni della gente. Per dirla brutalmente, la bravura dei sindaci e dei governatori passa dall’esame delle convenienze di partito a prescindere o addirittura in contrasto con i meriti acquisiti in vigenza della funzione amministrativa. Per Giorgia Meloni è ingombrante Luca Zaia col suo feeling elettorale veneto, per Elly Schlein è fastidiosa la provocatoria verve di Vincenzo De Luca e magari persino la conclamata virtù (?) emiliano-romagnola di Stefano Bonaccini.

Mandato è il contratto con cui una parte, chiamata mandatario, si obbliga a compiere uno o più atti giuridici per conto di un’altra, chiamata mandante. In democrazia, mandante dovrebbe essere l’elettore e mandatario l’eletto. Senonché i partiti, anziché preparare e selezionare i mandatari da sottoporre al giudizio dei mandanti, finiscono col calare dall’alto i potenziali mandatari da prendere o lasciare; anziché orientare i mandanti registrandone i bisogni, finiscono col carpire l’input da essi strumentalizzandoli e suggestionandoli. Se il negozio giuridico-democratico è questo, limitarlo nel tempo ne aumenta l’inquinamento, perché toglie ulteriormente agli elettori le possibilità di verifica sul campo, imponendo la resipiscenza ed escludendo la concessione di una ragionata fiducia.