Alla ricerca del bandolo delle tragiche matasse

Ci sono rabbia e sconcerto nelle parole di Tiziana Suman, la madre di Erika Preti, alla notizia che Dimitri Fricano, l’assassino della figlia, è stato trasferito agli arresti domiciliari per motivi di salute. Questo anche per il modo in cui la notizia è arrivata, all’improvviso. «Ero al lavoro, con il telefono spento e non ho saputo nulla fin quando non sono rientrata a casa». Ad annunciargliela un messaggio whatsapp da La Stampa. Prima risponde con un altro messaggio: «Sono rimasta senza parole e non riesco a esprimere il mio disgusto e il mio senso di ingiustizia». Poi chiama, un po’ per saperne di più oltre che probabilmente per sfogarsi. «All’inizio non capivo, mi sembrava impossibile che avessero preso un simile decisione senza dirci niente, mi sembra una cosa assurda».

Sua figlia Erika è stata uccisa nell’estate del 2017 dal fidanzato con cui era in vacanza a casa di amici a San Teodoro, in Sardegna. Il corpo della ragazza è stato straziato da 57 coltellate e Fricano aveva continuato a colpirla anche quando era già a terra. Un femminicidio terribile, che l’uomo aveva cercato di mascherare denunciando l’aggressione da parte di uno sconosciuto, versione che aveva sostenuto per un mese prima di confessare. È stato condannato a trent’anni in via definitiva.

Il trasferimento di Dimitri Fricano, trentacinque anni, nella sua casa di Biella, deciso dal Tribunale di Sorveglianza, è avvenuto martedì su richiesta dell’amministrazione penitenziaria, vista l’impossibilità di gestirne i problemi di salute all’interno della struttura carceraria. (dal quotidiano “La Stampa” – Mauro Zola)

 

Gli episodi come quello succitato mi mettono in grande imbarazzo perché come persona condivido il dramma umano di tutti i protagonisti, ma in particolare dei famigliari della vittima che si sentono dimenticati da una giustizia frettolosa che sembra bypassare in fretta l’orrore per il reato commesso; come cittadino capisco l’esemplare punibilità e l’auspicabile deterrenza, tuttavia devo attenermi al dettato costituzionale che finalizza la pena al rispetto, al recupero e alla rieducazione del condannato a prescindere dalla gravità di quanto ha commesso; come cristiano non posso dimenticare l’imperativo evangelico del perdono per le offese ricevute, anche le più tremende e sanguinose.

Cosa è che rende agibili le tre dimensioni della drammatica questione? Il vederne la faticosa dinamicità, il considerarne il lungo cammino, il proiettarli nel futuro terreno ed ultraterreno. Se non si osa questo passo avanti, si resta prigionieri di una pena vista come vendetta riparatrice, di una sofferenza civica universale senza possibilità di riscatto, di una giustizia inflessibile ma inconcludente che non redime e non spaventa, di un perdonismo fuorviante e impraticabile.

Ecco perché non sopporto l’atteggiamento mediatico che pone sotto i riflettori chi avrebbe diritto alla riservatezza dei propri drammi. Vale per il detenuto automaticamente bollato come furbacchione dribblante la pena, come impenitente sconsideratamente agevolato, come ulteriore aperto sfidante delle sue vittime. Vale a maggior ragione per le vittime costrette a rivivere i drammi senza via d’uscita se non lo sfogo della pretesa di una pena che vendica ma non ripara. Vale per i giudici automaticamente considerati come perdonisti burocratici che se ne lavano le mani.

Ognuno deve fare il suo difficile percorso. Il perdono per chi lo concede e per chi lo accoglie non è un atto eroico ma una conquista. La giustizia umana dovrebbe sovrintendere ed agevolare il percorso di recupero del condannato ma nel rispetto del persistente dramma dell’offeso. Tutto molto difficile! L’umano e il sociale fanno fatica a trovare la giusta combinazione; la difesa fa fatica a conciliarsi con la coesistenza; il recupero non deve suonare come premio ma come prezzo di conversione; la psicologia dovrebbe andare a braccetto con la sociologia; la fede religiosa dovrebbe contribuire a districare questi incroci pericolosi.

Smettiamola di fomentare ulteriore disagio e disordine, osserviamo un po’ di silenzio attorno a queste vicende così problematiche e drammatiche. Cerchiamo di impegnarci solidalmente a dipanare queste aggrovigliate matasse umane. Nessuno ha la ricetta in tasca, rigorista o perdonista che sia.