Il bicchiere della giustizia

Daniela Poggiali, 45 anni, infermiera, condannata in primo grado all’ergastolo per l’omicidio di una paziente ricoverata all’ospedale di Lugo di Romagna, è stata assolta e scarcerata dalla Corte di assise d’appello. L’indagine e la sentenza di primo grado ne avevano fatto una sorta di serial Killer in corsia, un angelo della morte con circa dieci vittime a carico. Aveva conseguentemente perso il lavoro ed era destinata al carcere a vita. Poi è arrivata la sentenza di secondo grado che l’ha assolta perché il fatto non sussiste.

Bruno Contrada è stato capo della squadra mobile di Palermo, dirigente della Criminalpol siciliana e numero tre del Servizio segreto civile: è stato condannato e ha scontato la condanna a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa a partire dal maggio 2007. La Corte di Cassazione dopo 25 anni dall’arresto cancella la condanna ritenendo il reato non perseguibile, in quanto commesso quando ancora questo reato non esisteva, accogliendo così il pronunciamento della Corte europea dei diritti dell’uomo a cui il Contrada aveva fatto ricorso.

Il Pm Henry John Woodcock è indagato dalla procura di Roma per violazione del segreto d’ufficio nell’inchiesta Consip ed è stato quindi interrogato dai colleghi romani in una caserma del centro della capitale.

Non entro nel merito dei tre casi giudiziari, ma faccio spontaneamente una riflessione di carattere istituzionale: di fronte a queste clamorose vicende come ne esce l’immagine della giustizia italiana? La vita di una donna completamente distrutta e improvvisamente riabilitata; un alto funzionario pubblico che, a babbo morto, si vede ripulire la fedina penale; un giudice della procura di Napoli viene messo sotto inchiesta per comportamento gravemente scorretto durante le indagini da lui condotte su un caso di grossa rilevanza.

Si potrebbe dire: una giustizia che sa rivedere le proprie decisioni e correggerle, seppure con gravi ritardi, e che non guarda in faccia nessuno, anche un importante suo giudice inquirente viene indagato. E siamo al bicchiere mezzo pieno!

Si potrebbe però anche pensare: ma che razza di giustizia è quella che sputtana a vita un’infermiera, mettendola precipitosamente alla gogna e destinandola al carcere per sempre, per poi ammettere di essersi sbagliata o quanto meno di avere esaminato troppo superficialmente le prove? Ma che razza di giustizia è quella che non sa riconoscere se un reato è perseguibile o no e intanto mette in carcere per dieci anni una persona, poi si vedrà? Ma che razza di magistratura inquirente abbiamo se i segreti d’ufficio vengono violati sistematicamente e si dubita non solo che essa non controlli a sufficienza la segretezza delle indagini, ma addirittura che possa violarla direttamente divulgando alla stampa elementi e documenti coperti dal segreto stesso? E siamo al bicchiere mezzo vuoto!

Rimango stordito, con questo bicchiere in mano e non so se fidarmi o meno della giustizia italiana: e, se mi dovesse capitare, da innocente, ma persino da colpevole, di essere sottoposto a indagine o a processo, potrei stare tranquillo e confidare in un trattamento equo? A prescindere dalla stucchevole contrapposizione pseudo-culturale tra giustizialismo e garantismo, sinceramente non dormirei fra due guanciali, con tutto il dovuto rispetto per la magistratura, per la sua indipendenza e per la sua funzione essenziale.