Né riccastri, né camaleonti, ma operatori di integrazione

Mio padre, con la sua abituale verve ironica, così sintetizzava lo scontro fra generazioni: «Quand j’era giovvon à save i véc, adésa ca son véc à sa i giovvon…». D’altra parte è come nella vita di coppia. Quando non c’è accordo, qualsiasi parola o azione è sbagliata. Meglio tacere e non fare nulla. È quanto, in fin dei conti, molti “falsi criticoni” desiderano ardentemente.

La sinistra sta vivendo la sua perpetua crisi “matrimoniale e generazionale”, che si scarica, a seconda dei momenti storici, su particolari aspetti politici. È il momento del discorso immigrazione. Se la sinistra scende in piazza e marcia per l’integrazione dei migranti, come successo a Milano, all’insegna dello slogan “Insieme senza muri”, si guadagna una sferzante critica: “radical chic e riccastri di sinistra”; se cerca di attivarsi a livello governativo per rendere le città più sicure, prestando attenzione e tentando di arginare le paure identitarie che rischiano di degenerare in odio, viene sbrigativamente e malevolmente accusata di scimmiottare la destra e di rincorrere goffamente le politiche populiste.

Marco Minniti, il ministro dell’Interno che ha varato alcuni provvedimenti sulla sicurezza e sulla regolamentazione dell’accoglienza, è stato immediatamente dipinto come un traditore delle sue origini, un camaleonte della sinistra che rincorre il consenso facile a destra. Beppe Sala, sindaco di Milano, che aderisce alla marcia a favore dell’integrazione e della coesione sociale, viene considerato un comodo buonista, che non sfiora nemmeno con un dito il disagio di chi è costretto a fare i conti quotidiani con l’impatto migratorio.

A sinistra vige il tifo ideologico: bisogna contrapporsi per il gusto di trovare o difendere una virtuale identità. Se i problemi restano aperti e irrisolti, pazienza, l’importante è avere la coscienza a posto. Personalmente non vedo alcuna contraddizione tra il discorso positivo dell’accoglienza e dell’integrazione ai migranti e l’impegno a rendere sicure le città con maggiori controlli e regole più pressanti.

Manco a farlo apposta il giorno precedente la suddetta marcia si è verificato un grave episodio di reazione violenta e omicida ad un controllo casuale delle forze dell’ordine alla stazione ferroviaria: un cittadino italiano, con legami parentali a livello islamico, con simpatie terroristiche ancora flebili, probabilmente   in via di radicalizzazione anche in conseguenza del proprio isolamento sociale e dell’abbandono da parte di una disgraziata e scombinata famiglia, ha accoltellato due militari e un poliziotto con gravi conseguenze a carico di uno di essi.

Sono scattati i destrorsi professionisti della paura a seminare zizzania, a gettare benzina sul fuoco e a chiedere di annullare o rinviare la manifestazione. Non mi stupisco delle strumentalizzazioni leghiste, dei soliti razzistici allarmi, della xenofobia galleggiante. Mi infastidisce invece, come detto, l’assurda contrapposizione tra le due anime di sinistra: da una parte il paralizzante “purismo” e dall’altra il freddo “interventismo”.

Mi sembra che la migliore risposta a questi pruriti identitari la dia don Virginio Colmegna, presidente della Casa della carità, firmatario di una legge di iniziativa popolare che superi la Bossi-Fini, aderente alla marcia antirazzista   lanciata dal Comune di Milano, a cui hanno aderito molti personaggi della politica, della società civile, della cultura, dello spettacolo, molte sigle del terzo settore, oltre cento sindaci di comuni italiani, cattolici, laici, ong, centri sociali, ambientalisti, sindacati, comunità straniere, moschee e numerosi rifugiati accolti nelle caserme milanesi.

Il sacerdote dice: «L’episodio della stazione ci preoccupa, l’attenzione alle vittime è il punto di partenza, ma bisogna aumentare le politiche sociali. Non si va in piazza “contro”, ma con un messaggio di pace non retorico, non buonista, che ha dentro un bisogno di solidarietà, che produce dignità, cittadinanza, capacità di dare lavoro, speranza. Bisogna eliminare le ferocie del linguaggio che crea rancori e solitudini, come quella che si intravede dietro il sangue alla stazione». Non ho niente da aggiungere.