La società italiana non si divide più nelle tradizionali classi sociali, borghesia e operai, ma risulta molto più frazionata ed articolata: migranti, disoccupati, anziani soli, giovani blue-collar, provinciali, pensionati di bronzo, d’argento e d’oro, classe dirigente. Lo avevamo visto e capito da tempo, ma ci mancava il timbro dell’Istat: adesso possiamo esserne sicuri. Chi ha definito la sociologia come “elaborazione sistematica dell’ovvio” non è andato lontano dal vero. Mi irritano le cose calate dall’alto, soprattutto quando sono già di dominio comune. Ma lasciamo perdere.
Queste analisi servono se ci spingono a fare i conti con la realtà, con i problemi che la caratterizzano. Ognuna delle suddette categorie è portatrice di precisi interrogativi. Provo ad elaborarne alcuni in modo lapidario: gli immigrati sono un problema o una risorsa? Ci stiamo occupando dei disoccupati? L’anzianità associata alla solitudine ci mette in ansia? I giovani che si inventano un lavoro in proprio ci interessano? Chi vive nelle periferie rischia di essere tagliato fuori? I pensionati ci costano caro, ma ci accorgiamo che sono il sostegno delle giovani generazioni? A chi è in mano oggi la nostra società?
Domande che ci interpellano e, molto spesso, contestano il nostro modo di pensare e di vivere. Non è forse vero che consideriamo gli immigrati come rompiscatole se non addirittura come nemici? Finora la nostra società non si è preoccupata più di difendere a tutti i costi il posto di lavoro per chi ce l’ha, piuttosto che guardare a chi non ce l’ha? Gli anziani, categoria a cui ci auguriamo di poter un giorno appartenere, non stanno forse diventando il problema dei problemi? E via di questo passo.
Se tutti ci chiudiamo a difesa egoistica del nostro particolare, non caviamo un ragno dal buco: non potranno che aumentare la povertà economica ed il disagio sociale, si allargherà la fascia delle persone in difficoltà e si restringerà quella dei privilegiati, cresceranno il malcontento, la rabbia, la paura.
Siamo portati a scaricare i problemi sulla politica, che ha indubbiamente enormi manchevolezze e responsabilità, ma rendiamoci conto che, per avviare a soluzione le questioni, non basterà riavviare i meccanismi di sviluppo e uscire dalla crisi economica. Occorrerà trovare ed applicare dei meccanismi di redistribuzione della ricchezza, qualcuno dovrà fare dei sacrifici anche importanti, dovremo rimetterci in discussione assieme alle nostre certezze.
Non vedo nella nostra società questa disponibilità, siamo tutti propensi a contestare la politica e non capiamo che la politica seria è proprio quella che riesce a imporre i sacrifici a chi può e deve farli. Non per far star male tutti o per far piangere demagogicamente i ricchi, ma per ritrovare quel po’ di uguaglianza che rende effettive e diffuse le libertà. Essere di sinistra, stringi stringi, non vuol dire credere in questo? Non per accontentare un po’ tutti, ma per scegliere a favore di chi sta peggio. E chi sta meglio si incazzerà. Pazienza! Se ne farà una ragione. Vorrei paradossalmente introdurre un curioso giudizio su quel che è di sinistra: la politica che riesce, prima o dopo, in un modo o nell’altro, a toccare nel portafoglio chi ce l’ha piuttosto gonfio. Mi si dirà: lasciamo i soldi a chi li ha in modo che li possa spendere e crei benessere per tutti. Giusto! Poi arriverà comunque il momento per aggiustare la situazione, perché le distanze non si colmano automaticamente.
Mio padre non era un economista, non era un sociologo, non era un uomo erudito e colto. Politicamente parlando aderiva al partito del buon senso, rifuggiva da ogni e qualsiasi faziosità, amava ragionare con la propria testa, sapeva ascoltare, ma non rinunciava alle proprie profonde convinzioni mentre rispettava quelle altrui. Volete una estrema sintesi di tutto cio? Eccola! Rifletteva ad alta voce: «Se tutti i paghison e i fisson col c’lè giust, as podriss där d’al polastor ai gat…». A quel punto dell’Istat potremmo anche farne a meno.