Multiculturalismo non vuol dire multiviolenza

Si fa presto a dire multiculturalismo. Più difficile è accettarlo concretamente. Ancor più arduo coniugarlo con i principi assodati del nostro vivere civile. Il problema emerge quando si scoprono gli ostacoli che la nostra società frappone all’integrazione degli immigrati, ma anche quando gli immigrati non si impegnano nel difficile cammino dell’integrazione e si chiudono in un atteggiamento puramente difensivo al limite del rifiuto.

Si verificano episodi che evidenziano in modo eclatante il corto circuito nei rapporti interculturali: mi riferisco agli atteggiamenti duri, violenti o ai limiti della violenza, di alcune famiglie che vogliono imporre ai loro figli i costumi dell’islamismo, nonostante queste giovani (si tratta infatti soprattutto di ragazze) intendano adottare lo stile di vita occidentale.

Da una parte c’è il diritto dei genitori a educare i figli secondo la loro cultura, dall’altra c’è il diritto dei figli ad integrarsi pienamente nella nuova società: in mezzo, spesso, episodi di maltrattamenti e violenze volti a frenare la spontanea adesione “all’affascinante” proposta occidentale.

A volte si rende necessario l’intervento di polizia, servizi sociali e magistratura per sottrarre i minori da queste situazioni conflittuali e violente: si rischia di lacerare le famiglie, di creare ulteriori traumi, di recidere legami parentali, di isolare le persone dal contesto culturale originario, di sottovalutare i valori trasmessi all’interno della famiglia, ma nello stesso tempo bisogna difendere l’incolumità di queste ragazze, tutelarle da atti di maltrattamento e da un clima educativo oppressivo e violento.

Credo non esistano ricette facili e generalizzabili: ogni caso va seriamente affrontato nella sua particolarità e specificità. Mi sembra tuttavia che si possa cercare un punto critico al di là del quale occorre intervenire: la violenza. Quando la difesa dei valori scantona nella imposizione degli stessi, quando la proposta educativa diventa una prigione, quando i rapporti famigliari si trasformano in dure imposizioni, quando la persuasione diventa sanzione violenta, quando la cultura si trasforma in una camera di tortura, quando la dignità della donna viene calpestata, bisogna intervenire con equilibrio e tatto, ma senza eccessivi riguardi.

Gli islamici devono rendere compatibile l’osservanza della loro religione con i principi fondamentali del vivere in una società occidentale che li ospita e che intende integrarli (seppure in mezzo a mille contraddizioni e difficoltà di vario genere), così come da parte nostra non possiamo pretendere che gli islamici abbandonino la loro storia per tuffarsi acriticamente nella nostra.

L’integrazione è un cammino arduo da ambo le parti: non sono ammesse le scorciatoie del radicalismo. Non esiste altra soluzione rispetto al dialogo.