Habemus cardinales!

Aiutati che il ciel ti aiuta! E se lo Spirito Santo rispondesse più o meno così alle preghiere e suppliche dei signori cardinali impegnati nella scelta del nuovo papa. “Aiutatevi, smettetela di giocare alla Chiesa e fate veramente Chiesa”.

Tanto per cominciare pongo un’atroce domanda in concomitanza con l’apertura del conclave: siamo sicuri che i signori cardinali (già il fatto di chiamarli così, come era solito fare papa Benedetto XVI, la dice lunga…) siano legittimati a prendere questa decisione? Rappresentano la Chiesa in tutte le sue componenti o rappresentano loro stessi? Da dove viene loro l’autorità per governare la Chiesa? Non si tratta di democrazia ma quanto meno di sano rispetto per la gerarchia. Li vedo come una istituzione a latere, a metà strada fra l’episcopato e la curia vaticana, un mix di pastoralità e burocrazia, un compromesso fra il passato doroteo e il presente populista.

Tutto ciò a prescindere dal valore individuale dei cardinali e dal loro carisma personale. Papa Francesco ha tentato di ovviare alle carenze del collegio cardinalizio allargandolo alle realtà ed esperienze sparse nel mondo, ma purtroppo credo che il difetto stia nel manico, vale a dire nella mancanza di collegamento “evangelico” tra popolo di Dio e alta gerarchia.

E allora? Se è vero, come ho sempre pensato, che gli schemi mondani, anche i migliori, non si adattano alla Chiesa e che quindi proprio nella mancanza di equilibri socio-politici consista la presenza dello Spirito Santo che prescinde da essi, tuttavia non si può pascere il gregge consegnandolo ai salariati dell’allevatore.

Perché, rimanendo al discorso delle procedure di elezione del papa, non incaricare della scelta almeno un collegio cardinalizio integrato con i rappresentanti delle conferenze episcopali e delle più importanti realtà clericali e laicali operanti nella Chiesa? Potrebbe essere un passo avanti in linea con le auspicabili riforme strutturali su cui papa Francesco ha segnato il passo.

Il nome, ovviamente, ancora manca. Ma l’identikit del nuovo Papa comincia a delinearsi. E non nelle previsioni dei mass media, quanto proprio nelle riunioni dei cardinali. Oggi la decima Congregazione generale, quella del mattino (ce n’è stata poi anche una pomeridiana), ne ha fornito una versione aggiornata e puntuale. «Una figura che deve essere presente, vicina, capace di fare da ponte e guida, di favorire l’accesso alla comunione a un’umanità disorientata e segnata dalla crisi dell’ordine mondiale. Un pastore vicino alla vita concreta delle persone».

Così si è espresso il direttore della Sala Stampa Matteo Bruni, facendo il report dei lavori. Allo stesso tempo, ha aggiunto, «si è sottolineata la natura missionaria della Chiesa: una Chiesa che non si deve ripiegare su sé stessa, ma accompagnare ogni uomo e ogni donna verso l’esperienza viva del mistero di Dio». E non è stata nascosta neanche una preoccupazione per le divisioni all’interno del corpo ecclesiale. Tutte notazioni che danno il senso di marcia prevalente del dibattito in corso tra i cardinali, elettori e non, dato che a queste riunioni pre-Conclave partecipano anche gli ultraottantenni. (da quotidiano “Avvenire” – Mimmo Muolo)

Ai bla-bla mediatici fa riscontro la scoperta dell’acqua calda cardinalizia: se non si ha il coraggio dell’autocritica non si va da nessuna parte. I cardinali durante il conclave non possono avere rapporti col mondo esterno: non vorrei che paradossalmente fosse un segno non tanto di indipendenza dalle logiche mondane, ma di astrattezza, tradizionalismo, conservazione e clericalismo. D’altra parte, da un gruppo sostanzialmente autoreferenziale non si può pretendere una rivoluzione evangelica. Bergoglio ha supplito a queste carenze con una spinta personale eccezionale, facendoci dimenticare le magagne istituzionali e le limitatezze pastorali buttando tutto in cavalleria evangelica. Ha messo tutto sul piano del Vangelo e non è poca cosa. Adesso, suo malgrado, ha passato il testimone ad un collegio cardinalizio, delineato un tantino a sua misura. Il Vangelo è sempre lì che aspetta.

Tutti parlano di continuità, io parlerei di sana discontinuità, nella speranza che quel po’ di rivoluzione avviata dal carismatico papa Francesco possa diventare un trampolino di lancio per far sempre più coincidere la Chiesa istituzione con la Chiesa comunità. Per riprendere il discorso da dove sono partito, in fin dei conti il nocciolo della questione è questo: come può un organismo prettamente istituzionale come il collegio cardinalizio occuparsi autorevolmente e proficuamente della comunità? Sarebbe come pretendere che l’amministratore di condominio si occupasse delle questioni interne delle famiglie dei condomini e dei rapporti inter-famigliari.

 

Il mercato del lavoro secondo Pirandello

La situazione del lavoro dipendente nel nostro Paese è molto discussa: le versioni sono molto contrastanti al limite del “così è se vi pare” di Luigi Pirandello. Non mi sento in grado di entrare in questa importantissima materia e mi voglio soffermare soltanto sull’aspetto che mi sembra il più clamorosamente distorsivo e ingiusto: manca cioè un salario minimo per i lavoratori dipendenti, in mancanza del quale si consentono remunerazioni a dir poco inique.

Molti contratti di lavoro sfuggono sostanzialmente ad un serio vaglio sindacale e alla contrattazione collettiva, giustificati da un sistema di appalti fuori da regole quanto meno razionali e dalla debolezza contrattuale di soggetti disposti ad accettare condizioni molto sfavorevoli pur di avere un posto di lavoro (un ricatto bello e buono): nella jungla retributiva c’è posto per stipendi da fame per milioni di lavoratori peraltro impiegati in settori delicati come ad esempio i servizi alla persona.

Il governo rilancia la palla ai sindacati non volendosi intromettere nei rapporti di lavoro e facendo finta di non capire che la sindacalizzazione del mercato lascia scoperte ampie fasce di lavoratori non iscritti al sindacato o iscritti a qualche sindacato di comodo. Ai datori di lavoro, pubblici o privati, tutto sommato va bene così, anche se alla fine il sistema finisce col danneggiare qualitativamente gli operatori e gli utenti dei servizi e i vantaggi microeconomici ritornano a galla come danni macroeconomici.

La fissazione di un minimo salariale di cui si parla da diverso tempo non trova sbocchi legislativi. Dovrebbe essere una delle battaglie identitarie della sinistra, che su di essa dovrebbe concentrare i propri sforzi ed avviare la mobilitazione di cui è ancora capace. Anche il sindacato dovrebbe uscire dalle sue tentazioni corporative per dare assoluta priorità a questi lavoratori senza difesa e senza autonoma capacità di lotta (uso volutamente un termine forse anacronistico che però rende l’idea).

Non vedo a livello parlamentare uno sforzo pressante dei partiti di sinistra, qualcuno è addirittura scettico su un intervento che giudica di stampo burocraticamente pseudo-comunista. Mentre la politica si arrovella nelle pozzanghere ideologiche, mentre i sindacati gridano ma non agiscono fino in fondo, preferendo accontentare le loro basi a livello settoriale, mentre gli esperti litigano sul significato dei dati emergenti dal mercato del lavoro, troppe persone sono costrette come si suol dire a “berla da bótte”. Viaggiano remunerazioni orarie ridicole: e pensare che l’Italia dovrebbe essere una repubblica democratica fondata sul lavoro. Non voglio fare il demagogo, ma forse in parte (e non solo per la mancanza di un salario minimo) è fondata sullo sfruttamento del lavoro.

Se su diversi aspetti del mercato del lavoro si può tentare di spaccare il cappello in quattro per negare l’evidenza, rimanendo nelle metafore pirandelliana, istituendo il salario minimo si passerebbe per la politica dal “così è se vi pare” di subdola copertura al “berretto a sonagli” di pubblico scorno.

 

 

La realpolitik della più tremenda delle vendette

I Patagarri hanno gridato Palestina libera sul palco del concerto del Primo maggio e le polemiche non si sono placate, anzi stanno man mano diventando sempre più forti e sono arrivate anche in parlamento. I fatti sono questi, ospiti del palco di Piazza San Giovanni in Laterano, la band protagonista dell’ultima edizione di X Factor oltre a cantare l’ultimo singolo I sogni e il loro cavallo di battaglia, Caravan, hanno anche deciso di usare una canzone popolare ebraica, Hāvā Nāgīlā, ribaltandola e usandola per manifestare la loro vicinanza al popolo palestinese: “Quando abbiamo scoperto la storia di questo brano, che risale al 1917 e che è legata alla legittimazione delle prime comunità ebraiche in Palestina, abbiamo capito che l’unico modo per suonarlo oggi era accompagnarlo con un messaggio chiaro: Palestina libera” ha detto la band all’AGI.

Eppure questa scelta ha scatenato le critiche della comunità ebraica di Roma che nella persona del Presidente Victor Fadlun che ha dichiarato: “Appropriarsi della nostra cultura, delle melodie a noi più care, per invocare la nostra distruzione, è ignobile”, aggiungendo “Ascoltare una nostra canzone dal palco del Primo Maggio in diretta tv, culminante nel grido ‘Palestina Libera!’, lo slogan delle piazze che invocano la cancellazione di Israele, è un insulto e una violenza inaccettabile”. Fadlun, quindi, unisce il grido Palestina Libera, che esprime vicinanza al popolo palestinese, a un significato nascosto, sottintendendo che quel grido voglia significare la voglia di distruggere Israele, cosa mai detta dalla band. (fanpage.it)

Le reazioni scandalizzate sono state molte. Io personalmente non mi scandalizzo per l’intervento dei Patagarri, ma per il fatto che Italia, Europa e Usa non condannino apertamente la incredibile e infinita rappresaglia israeliana che sta cancellando una popolazione dalla faccia della sua terra. Oltre tutto lo Stato di Israele è un nostro alleato e noi ci rifiutiamo ipocritamente di prendere le distanze dal suo governo e dal suo premier nei cui confronti esiste un mandato di cattura da parte della Corte dell’Aia per il reato di genocidio.

Questo è lo scandalo! Provo sdegno e vergogna: la più bieca delle realpolitik sta rassegnandosi al massacro di una popolazione giustificandolo con una “vendetta” di proporzioni catastrofiche verso un pur gravissimo e folle atto terroristico.

Un criminale nostro alleato gira il mondo, viene ricevuto con tutti gli onori dal presidente americano e insieme vaneggiano di cancellare la striscia di Gaza per farne un resort di lusso.

A proposito dei rapporti con Donald Trump, Giorgia Meloni dice di avere con il presidente americano un rapporto non succube: «Noi siamo determinati a far valere i nostri interessi, nel solco della tradizionale amicizia che ci lega agli USA, con lealtà ma senza subalternità».

Accettare senza battere ciglio l’ignobile connubio Trump-Netanyahu, reggere il moccolo agli accordi fra questi patentati delinquenti, rappresentano, quanto meno, un inaccettabile atteggiamento omertoso. Ma c’è di più, molto di più. Non abbiamo il coraggio di esprimere una politica degna di tale nome verso il problema palestinese, la madre di tutti i problemi riguardanti il medio oriente e non solo.

L’83% degli aiuti alimentari necessari non arriva a Gaza, rispetto al 34% del 2023. Questa riduzione significa che le persone nella Striscia sono passate da una media di due pasti al giorno a un solo pasto a giorni alterni. Si stima che entro la fine dell’anno circa 50.000 bambini di età compresa tra 6 mesi e 5 anni necessiteranno urgentemente di cure per la malnutrizione.

Nuovi dati hanno rivelato l’entità dell’ostruzione degli aiuti e il conseguente drastico calo dei rifornimenti che entrano a Gaza. Ciò sta provocando un disastro umanitario, con l’intera popolazione della Striscia che affronta fame e malattie e quasi mezzo milione di persone a rischio di morire di fame.

Mentre gli attacchi militari israeliani si intensificano, per quasi un anno è stato sistematicamente bloccato l’ingresso di cibo salvavita, medicine, forniture mediche, carburante e tende nella Striscia. (Save the Children)

La mia coscienza si ribella, vomito nell’ampia scollatura di un governo italiano che sta superando ogni limite di decenza. Non è assolutamente vero che la politica estera italiana sia sempre stata così imbelle: è un falso storico, che le opportunistiche semplificazioni mediatiche ci propinano ad usum Meloni.

 

 

 

Evitare la conchiavata al popolo di Dio

L’imminente celebrazione del conclave, anziché indurmi a partecipare alla stucchevole gara previsionale sul nuovo papa, mi consiglia di tornare su un aspetto della vita della Chiesa, vale a dire il “papacentrismo” cattolico. Ritorno sull’argomento a costo di ripetermi.

Come già scritto, la morte di papa Francesco ha inevitabilmente aperto un certo petulante e purtroppo fuorviante chiacchiericcio sul futuro conclave anziché creare l’occasione per una forte presa di coscienza critica sulla situazione ecclesiale in tutti i suoi aspetti. Non bastano le pur importanti “congregazioni” di preparazione al conclave: restano episodi verticistici una tantum, che servono soltanto a salvare il salvabile. Bergoglio fu sostanzialmente scelto per togliere la Chiesa dall’autentico “casino” degli scandali finanziari e della pedofilia; il suo successore potrebbe rispondere all’esigenza di riportare in chiesa il presunto popolo di Dio che gira sfaccendato per le strade del mondo. Obiettivi minimali e soprattutto volti a chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati.

Da una parte è scattata come una molla la sacrosanta ammirazione per il papato uscente tutto da scoprire, dall’altra la gossipara previsione in chiave politica del dopo Bergoglio, fino ad arrivare al toto-conclave imbastito sulle fazioni cardinalizie in campo. Il tutto rischia di rientrare in un battage mediatico esterno e nella solita impenetrabile liturgia gerarco-clericale all’interno. Occorre perciò sforzarsi di trasformare questo passaggio vitale per la Chiesa in un momento di autocritica e di responsabilizzazione di tutto il Popolo di Dio.

Il limite del papato bergogliano penso sia stato proprio questo: non avere favorito una crescita qualitativa dei cattolici rendendoli partecipi della vita della Chiesa, ma limitandosi (si fa per dire) alla loro sensibilizzazione evangelica. Papa Francesco ha svolto un meraviglioso lavoro forse però solo propedeutico ad un’effettiva e migliore vita ecclesiale.

Così come in campo politico la mancanza di partecipazione e di formazione di una adeguata classe dirigente vengono risolte col leaderismo spinto (peraltro spesso costruito a tavolino), anche la Chiesa tende a semplificare i processi decisionali e gestionali pompando una sorta di “papato tuttofare” a copertura degli andazzi curiali e clericali consolidati nel tempo.

Sarebbe quindi più che auspicabile un superamento (almeno in parte) della visione e della impostazione unilaterali e verticistiche sintetizzabili nel concetto di “papacentrismo”: la Chiesa Cattolica è una comunità ed al suo interno esistono carismi (servizi) fra i quali c’è anche quello del Vescovo di Roma. A tutti i livelli, la Chiesa deve esprimere, all’interno e all’esterno, la piena e totale adesione allo stile evangelico, liberata dalle incrostazioni della tradizione e dai lacci dell’esercizio del potere. Quindi la procedura della scelta e l’impostazione dell’alta funzione papale dovrebbero essere rivisti sostanzialmente e formalmente in un bagno di partecipazione e condivisione coinvolgente: bisognerebbe partire dall’assoluto primato della dimensione  pastorale rispetto a quella istituzionale; al centro dello stile ecclesiale si dovrebbe porre la collegialità episcopale; la vita dell’istituzione e la stessa pastorale andrebbero sclericalizzate, liberate dall’affarismo, ridotte all’essenziale in senso economico ed organizzativo e subordinate alle esigenze evangeliche; occorrerebbe puntare al forte coinvolgimento del laicato ed alla imprescindibile valorizzazione della presenza femminile. Molto (?) è stato fatto in questi dodici anni, ma molto resta ancora da fare.

Non limitiamoci quindi a pregare per il nuovo papa. A ben pensarci tutte le preghiere ufficiali della Chiesa, dalla liturgia delle ore alle celebrazioni sacramentali, dalle assemblee oranti di vario genere alle preghiere dei fedeli delle messe, tendono a buttare su Dio e sullo Spirito Santo i problemi della Chiesa e del mondo come se i cattolici non dovessero aiutarsi affinché il cielo li aiuti.

Nel caso del conclave varrebbe la pena intorno ad esso riflettere su uno stile ecclesiale diverso e coinvolgente. Non vedo questo atteggiamento, me ne rammarico e spero vivamente di sbagliarmi e che il nuovo papa faccia un po’ meno il papa e un po’ più lo stimolatore dei cattolici più o meno addormentati.

 

La benzina della guerra sul fuoco dell’odio

L’esercito israeliano lotta contro il fuoco degli incendi boschivi, accanto ai vigili del fuoco. E il ministro della Difesa, Israel Katz, ha dichiarato l’emergenza nazionale. Complici le temperature elevate e la siccità, il Paese è nella morsa delle fiamme. Nel giorno in cui si celebrava la memoria dei caduti nelle guerre, quasi tutti gli eventi sono stati cancellati a Gerusalemme e a Tel Aviv. Saltato anche il raduno in piazza degli ostaggi organizzato dal Forum dei familiari. Annullate tutte le manifestazioni in programma per il 1° maggio, Giorno dell’Indipendenza. Evacuate comunità a una trentina di chilometri da Gerusalemme, almeno 7mila gli sfollati. Il fumo nero ha interrotto l’autostrada 1, che collega Tel Aviv a Gerusalemme. Il premier Benjamin Netanyahu, in un video dal suo ufficio, ha rincarato l’allarme: «Il vento da ovest può spingere le fiamme facilmente verso la periferia di Gerusalemme e anche verso la città stessa». Chiesto l’aiuto internazionale a Italia, Cipro, Grecia, Croazia e Bulgaria. Dall’Italia sono partiti due Canadair. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha raccomandato a Tel Aviv di chiedere a Bruxelles che sia attivato il meccanismo di protezione civile dell’Unione Europea.

E non è solo un sospetto che dietro il fuoco, ad alimentarlo, ci sia la mano di Hamas. Nelle stesse ore in cui sono divampati i primi roghi sulle colline di Gerusalemme, in almeno cinque focolai, su Telegram è spuntato un messaggio del gruppo terrorista palestinese che incitava a «bruciare tutto: boschi, foreste e case dei coloni… Gaza attende la vendetta dei liberi». Dalla Cisgiordania, sempre su Telegram, Jenin News Network ha esortato a «bruciare i boschi vicino agli insediamenti»: «La benzina e una scintilla possono trasformare un’entità in un inferno di fuoco. Gli insediamenti e le loro foreste sono il tuo obiettivo». (da “Avvenire” – Anna Maria Brogi)

Come volevasi dimostrare: la guerra, oltre che creare morte e distruzione, incendia gli animi, dai quali si scatena l’odio incontenibile, che a sua volta crea disastri irreparabili e il cerchio vizioso non si chiude mai. Non serve cercare la prima gallina che ha fatto l’uovo, perché le uova si moltiplicano e il pollaio diventa comunque un inferno.

Presumo che Israele darà la colpa delle fiamme, che lo stanno pericolosamente devastando, alle follie terroristiche di Hamas: probabilmente non si saprà mai l’origine di questi incendi. Resta la triste realtà di un assetto bellico che non lascia scampo a vincitori e vinti.

O si ha il coraggio di interrompere la spirale di odio che la giustifica (?) altrimenti la guerra non finirà mai. Le vittorie saranno quelle di Pirro e le sconfitte quelle che non insegnano niente.

Quando papa Francesco insisteva sul concetto devastante della guerra sembrava un uomo fuori dalla realtà, un pacifista assurdo, un seminatore di utopie. Ci accorgeremo sempre più che era e che rimane l’unico realista: il Vangelo intima l’amore per i nemici (porgere l’altra guancia!). Sembra una virtù impossibile da praticare mentre invece è una necessità assoluta di cui prendere doverosamente e coraggiosamente atto.

 

La stoltezza artificiale

Siamo tutti politicamente coinvolti, che lo vogliamo oppure no, in una forbice; da una parte  la situazione internazionale tale da far tremare le vene ai polsi, che Mattarella ha ben sintetizzato nella democrazia senza popolo con le autocrazie alle porte e con il sistema capitalistico in debolezza istituzionale colmata col ricorso al potere economico vestito alla muskiana; dall’altra parte la situazione italiana con una luna di miele meloniana in rapido esaurimento ed un 2025 in cui presumibilmente esploderà la crisi nel mondo del lavoro a causa dei cambiamenti epocali sgovernati (transizione ecologica, intelligenza artificiale, concorrenza spietata da parte cinese, ridisegnamento dei rapporti economici con gli Usa).

In mezzo a questa autentica bufera cosa combinerà il governo italiano? La domanda è questa e non tanto quella riguardante le scorribande dialettiche di una premier che abbaia alla luna, terrorizzata da una opposizione che non c’è (forse preoccupa proprio perché non c’è e chissà dov’è…), dalla paura dei fantasmi del passato (leggi Romano Prodi, al quale basta brandire un libro-intervista per sconquassare la psiche meloniana), dalla preoccupazione della tenuta di una maggioranza sempre più irrequieta e insofferente (la Lega rema contro e Forza Italia tace, ma non acconsente), dalla prospettiva di un anno sindacale piuttosto caldo (Maurizio Landini comincia a diventare un vero e proprio incubo).

Non sono un esperto cinofilo, ma un amico, che se ne intende, mi ha spiegato tempo fa che i cani non abbaiano per loro aggressività congenita ma per paura, da qui il famoso detto “cane che abbaia non morde”. Ed allora ecco il perché di un comportamento di Giorgia Meloni così sgangherato sul piano stilistico e del rispetto verso chiunque azzardi anche sommessamente una qualche critica. Come detto quindi non è importante capire la pescivendola romana, ma la sua nullità a livello nazionale ed internazionale. Per quanto tempo potrà durare questo falso potere costruito su un ossessionante immagine mediatica e su uno snervante cerchiobottismo?

Il 2025 potrebbe essere l’anno in cui si avvera l’esclamazione “Giorgia Meloni è nuda!” (con tanto di libero adattamento della fiaba culminante appunto nell’urlo “il re è nudo”).

Il tutto prende origine da una fiaba scritta nel 1837, dal poeta danese Hans Christian Andersen, che trae spunto da una novella spagnola, scritta nel tredicesimo secolo. Narra di un imperatore vanitoso, dedito solo, alla cura del suo aspetto esteriore. Alcuni commercianti giunti in città fanno trapelare, ad arte, di essere abili tessitori, di avere a disposizione un tessuto sottile, leggero, invisibile solo agli stolti e agli indegni. I cortigiani, inviati dal re a palazzo, non riescono a vederlo. Ma come succede spesso, per non essere giudicati male, decantano la magnificenza del tessuto. L’imperatore, convinto e felice, si fa cucire dagli abili tessitori un abito. Quando gli viene consegnato, però, il Re si rende conto di non essere neanche lui in grado di vederlo, come i suoi cortigiani prima di lui, decide di fingere, di mostrarsi estasiato per il lavoro dei tessitori. La decisione quindi è presa, con il suo nuovo vestito sfila per le vie della città, di fronte a una folla di cittadini che lodano a gran voce l’eleganza del sovrano. L’incantesimo, però, è spezzato da un innocente bambino che, con gli occhi sgranati, urla a gran voce: “ma il Re è nudo, non ha nessun abito addosso”. Da questa frase deriva il famoso detto “il Re è nudo!”. (da Wikipedia)

Non si può continuare una vita a galleggiare sopra un mare di problemi, prima o poi la barca si rovescia con disastrosi naufragi. La risposta polemica è pronta e viene sistematicamente adottata: chi fa questi ragionamenti è un gufo, è l’amico del giaguaro…

Se guardare la realtà vuol dire gufare, allora sono in buona compagnia, dal momento che il Capo dello Stato, fa da tempo ragionamenti analoghi anche se in modo morbido e, a volte, indiretto.

“Tante famiglie non reggono l’aumento del costo della vita. Salari insufficienti sono una grande questione per l’Italia”. È l’allarme lanciato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, durante la sua visita a Latina all’azienda BSP Pharmaceuticals S.p.a. in occasione della celebrazione della Festa del lavoro. Il Capo dello Stato entra nel merito delle “questioni salariali” sottolineando quanto queste siano “fondamentali per la riduzione delle disuguaglianze, per un equo godimento dei frutti offerti dall’innovazione, dal progresso”.

 “Si registrano segnali incoraggianti sui livelli di occupazione”, ricorda Mattarella, sottolineando però che “permangono, d’altro lato, aspetti di preoccupazione sui livelli salariali, come segnalano i dati statistici e anche l’ultimo Rapporto mondiale 2024-2025 dell’Organizzazione internazionale del lavoro”. Salari insufficienti che “incidono anche sul preoccupante calo demografico”, ricorda il Capo dello Stato, “perché i giovani incontrano difficoltà a progettare con solidità il proprio futuro. Resta, inoltre, alto il numero di giovani, con preparazione anche di alta qualificazione, spinti all’emigrazione. Questi fenomeni impoveriscono il nostro capitale umano”. (da “Il Fatto Quotidiano”)

E poi, parliamoci chiaro, come si può fare a non vedere la paradossale nullità che l’Italia sta mettendo in campo e che si accompagna alla carenza di altri protagonisti all’altezza della situazione. In fin dei conti è questa la “fortuna” di Giorgia Meloni. Se ci fossero ancora un’Angela Merkel a Bruxelles e un Nicolas Sarkozy a Parigi, basterebbe un loro sorrisetto ironico per farla sprofondare nel ridicolo, come successe a Silvio Berlusconi.

 

Chiesa avanti marsc’, anzi indietro Trump

«Mi piacerebbe essere Papa, sarebbe la mia prima scelta». Così risponde con una battuta Donald Trump ai giornalisti che gli hanno chiesto chi vorrebbe vedere come prossimo Pontefice. «Non lo so, non ho preferenze» ha poi continuato più serio. «Devo dire che abbiamo un cardinale in un posto chiamato New York che è molto bravo. Vedremo quello che succede», ha aggiunto riferendosi all’arcivescovo di New York, il cardinale Timothy Dolan, che ha guidato la preghiera all’insediamento del presidente lo scorso gennaio. (ildubbio.news)

Sembra una barzelletta, ma purtroppo non la è. La prima parte dimostra, in modo clamoroso al limite del ridicolo, la megalomania di cui soffre il presidente statunitense. Si sente l’Unto del Signore, a maggior ragione dopo l’attentato subito con tanto di scampato pericolo, che lui attribuisce a un intervento dell’Altissimo per consentirgli di salvare gli Usa e non solo.

Spero che il Padre Eterno abbia una visione del mondo un po’ più seria ed articolata di quella ipotizzata da Donald Trump. Fin qui si potrebbe anche sorridere: siamo infatti tutti un po’megalomani e non è un caso che gli americani si siano sentiti particolarmente rappresentati da questo incantatore di serpenti.

La seconda parte riguarda invece l’ignobile connubio che si sta delineando e concretizzando fra un certo cattolicesimo reazionario e una certa destra nazionalista e sovranista, trionfante in larga parte del mondo. Non vorrei che gli schizzi potessero arrivare anche al conclave, condizionando comunque in senso retrivo la scelta del nuovo papa.

Secondo Baldo Reina, il cardinale di Roma che ha presieduto nella basilica di San Pietro la Messa in suffragio di Papa Francesco, celebrata nel terzo giorno dei Novendiali, «non può essere, questo, il tempo di equilibrismi, tattiche, prudenze, il tempo che asseconda l’istinto di tornare indietro, o peggio, di rivalse e di alleanze di potere, ma serve una disposizione radicale a entrare nel sogno di Dio affidato alle nostre povere mani».

In questo senso, il porporato ha invitato a non avere «paura delle perdite connesse ai cambiamenti necessari». «Penso – ha spiegato – ai molteplici processi di riforma della vita della Chiesa avviati da papa Francesco, e che sconfinano oltre le appartenenze religiose». «La gente – ha aggiunto – gli ha riconosciuto di essere stato un pastore universale e la barca di Pietro ha bisogno di questa navigazione larga che sconfina e sorprende. Questa gente porta nel cuore inquietudine e mi pare di scorgervi una domanda: che ne sarà dei processi avviati?». (da “Avvenire”)

La scelta del nuovo papa, pur dovendo prescindere da schemi mondani (entrando nel sogno di Dio), è affidata alle mani di chi ha, gerarchicamente parlando, la responsabilità di guidare la Chiesa: ecco allora spuntare tre criteri a cui fare riferimento, continuità, universalità, unità.

La continuità non dovrebbe ammettere fughe né all’indietro né in avanti: mentre non ho il timore di affrettate accelerazioni (sarebbe troppo interessante che si ponesse questo problema…), la paura dell’indietrismo (così lo ha definito papa Francesco) mi fa tremare le vene ai polsi. E potrebbe venire proprio da questo mondo, che non esito a definire clerico-fascista, capeggiato dagli Usa di Trump: una devastante intromissione della politica in campo ecclesiale, con tanto di revisionismo storico ai principi della laicità dello Stato e dell’autonomia della Chiesa.

Allora potrebbe venire in soccorso di questa svolta reazionaria la strumentale applicazione degli altri due criteri di cui sopra, vale a dire l’universalità e l’unità. Non so fino a che punto sia diffusa nel mondo e nella cattolicità l’aria che tira a destra, esiste senza ombra di dubbio e, anche se non potrà impadronirsi del papato post-bergogliano, avrà magari la possibilità di influenzare e spaventare il Vaticano nei suoi giochi di potere, ventilando l’ipotesi di striscianti diaboliche divisioni.

In nome del tutti insieme forzosamente potrebbe farsi strada una soluzione di compromesso piuttosto anti-evangelico e qualche candidatura al riguardo non sarebbe così difficile da individuare e sostenere. Qualcuno la sta già ventilando…

C’è poco da fare, papa Francesco dava molto fastidio ai potenti della terra, che lo incensavano obtorto collo, ma che lo vedevano bene come i “beghi” nella minestra. Anche in ambito ecclesiale trovava paradossalmente parecchie ostilità negli Usa e in Africa, nel mondo sviluppato e in quello in via di sviluppo. D’altra parte cos’era la sua insistente personale richiesta di preghiera se non la domanda di una orante solidarietà davanti ai subdoli attacchi interni ed esterni.

Chi sta dalla parte dei poveri è destinato, prima o poi, a finire umanamente male: persino i poveri restano vittime a volte della sindrome del beneficiato.

E il popolo che sembra così schierato in difesa della pastorale di Francesco? Non dimentichiamoci che fa molto in fretta a cambiare parere. Pensiamo a Gesù osannato come re la domenica delle Palme e fatto o lasciato morire in croce pochi giorni dopo.

Oltre tutto, forse con un pizzico di malizia, vedo rispuntare nella Chiesa un certo devozionismo bigotto accompagnato da un falso desiderio di certezza dottrinale (come se il Vangelo non fosse l’unica e vera dottrina cristiana): l’uso liturgico del latino e la giubilazione della riforma liturgica ne sono un sintomo inquietante. Ma le cause di fondo dell’indietrismo, comunque camuffato, sono in realtà la contrarietà verso gli immigrati, la paura degli islamici, l’insofferenza nei confronti dei diversi, l’egoismo dilagante, i poveri che non devono rompere i coglioni più di quel tanto, etc. etc.: i cavalli di battagli di Trump. Ed ecco che il cerchio si potrebbe chiudere.

E lo Spirito Santo in cui credo fermamente? Lo faranno arrivare in ritardo o sosterranno che era d’accordo pur di mantenere salda e compatta la Chiesa.

Ricordo al proposito una gustosa barzelletta, che dicono piacesse molto a papa Giovanni Paolo ll.

“Dio Padre osserva, con attenzione venata da una punta di scetticismo, l’attivismo dei cardinali di Santa Romana Chiesa, ma non riesce a capire fino in fondo lo scopo della loro missione. Con qualche preoccupazione decide di interpellare Dio Figlio in quanto, essendosi recato in terra, dovrebbe avere maggiore dimestichezza con questi importanti personaggi a capo della Chiesa da Lui fondata. Dio Figlio però non fornisce risposte plausibili, sa che sono vestiti con tonache di colore rosso porpora a significare l’impegno alla fedeltà fino a spargere il proprio sangue, constata la loro erudizione teologica, la loro capacità diplomatica, la loro abilità dialettica, ma il tutto non risulta troppo convincente e soprattutto rispondente alle indicazioni date ai discepoli prima di salire al cielo.  Anche Dio Figlio non è convinto e quindi, di comune accordo, decidono di acquisire il parere autorevole di Dio Spirito Santo, Lui che ha proprio il compito di sovrintendere alla Chiesa.  Di fronte alla domanda precisa anche la Terza Persona dimostra di non avere le idee chiare, di stare un po’ troppo sulle sue ed allora il Padre insiste esigendo elementi precisi di valutazione, minacciando un intervento diretto piuttosto brusco e doloroso. A quel punto lo Spirito Santo si vede costretto a dire la verità ed afferma: «Se devo essere sincero, anch’io non ho capito fino in fondo cosa facciano questi signori cardinali, sono in tanti, ostentano studio, predica e preghiera. Pregano soprattutto me affinché vada in loro soccorso quando devono prendere decisioni importanti. Io li ascolto, mi precipito, ma immancabilmente, quando arrivo col mio parere, devo curiosamente constatare che hanno già deciso tutto!»”

 

 

La ragion di Nordio

Non si sono ancora esaurite le implicazioni del caso Almasri che già un nuovo “giallo” politico contribuisce a increspare ulteriormente le relazioni fra la Corte penale internazionale e il governo italiano. Stavolta riguarda il più noto dei ricercati a livello internazionale, il presidente russo Vladimir Putin, sul cui capo pende appunto un mandato di arresto spiccato dalla Corte dell’Aja per crimini contro l’umanità commessi in Ucraina. Mandato che però in Italia, e qui sta il punto da chiarire, non potrebbe al momento essere eseguito (sempre che Putin decidesse di uscire dalla Russia e venire nel Bel Paese, ovviamente) perché il ministero della Giustizia non lo ha ancora trasmesso alla Procura generale di Roma affinché lo inoltrasse alla Corte d’Appello, titolata a renderlo esecutivo.

Il caso viene sollevato al mattino dal Corriere della Sera e da Repubblica, che segnalano come il mandato emesso dalla Cpi attualmente non abbia efficacia in Italia a causa della mancata trasmissione degli atti ai magistrati capitolini da parte del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Ricostruzioni alle quali tuttavia il Guardasigilli, nel primo pomeriggio, ribatte con una nota stringata in cui argomenta le proprie ragioni: «Il Presidente russo Vladimir Putin, nei cui confronti vi è una richiesta della Corte penale internazionale, non è mai transitato in territorio italiano, né mai si è avuta notizia che fosse in procinto di farvi ingresso – si legge nel comunicato di via Arenula -. La presenza della persona o il suo imminente ingresso nel territorio dello Stato sono, infatti condizioni essenziali per i provvedimenti conseguenti». Se ne desume come, effettivamente, il mandato sia al momento “congelato” o comunque non sia stato trasmesso dal ministro alla magistratura, per ragioni che Nordio ritiene essenziali ai fini del proseguimento della procedura.

(…)

Resta comunque il dubbio che la vicenda possa far aumentare le frizioni sotto traccia sull’asse Roma-L’Aja, innescate dal caso Almasri (non ancora chiuso, visto che l’esecutivo italiano ha chiesto ulteriore tempo per rispondere alle domande della Corte sul perché il torturatore libico, dopo l’arresto a Torino su mandato della Corte, sia stato rilasciato e riportato a Tripoli con un volo di Stato). Anche in quel caso, fu il dicastero di via Arenula a non trasmettere ai giudici la documentazione dell’Aja, determinando di fatto la scarcerazione. Nel dossier Putin, potrebbe giocare un peso ancor più rilevante la volontà di non deteriorare ulteriormente le relazioni diplomatiche con Mosca, così come avvenuto per un altro mandato d’arresto dell’Aja tuttora fermo in via Arenula: quello a carico del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, accusato per i crimini di guerra commessi a Gaza. Capi di Stato e di governo contro cui Palazzo Chigi potrebbe aver deciso di non voler procedere, almeno finché saranno in carica. (dal quotidiano “Avvenire” – Vincenzo R. Spagnolo)

Questa si chiama realpolitik? Questa è la ragion di Stato che va contro il diritto internazionale? Questa è pelosa pignoleria giuridica di un ministro che la sa lunga? Carlo Nordio continua a fare le pulci alla Corte penale dell’Aia: non si rende conto che così facendo dà una mano ai delinquenti di Stato?

Papa Francesco quando entrava nelle carceri pensava: “Perché loro e non io?”. Il ministro italiano della Giustizia vuole maccheronicamente imitare il papa e pensa di scopiazzarlo di fronte ai criminali di Stato?

Sappia però che Bergoglio non aveva atteggiamenti teneri verso questi massacratori: non è un caso che Netanyahu e Putin non siano venuti a Roma per partecipare ai funerali di papa Francesco. Qualcuno pensava che temessero di essere bloccati in quanto passibili di arresto. Potevano venire tranquillamente, Nordio aveva indirettamente concesso loro una sorta di paradossale immunità. Papa Francesco si sarebbe scaravoltato nella bara.

 

Il Vangelo fra mitizzazione e scristianizzazione

«È in atto un processo di scristianizzazione, da non confondere assolutamente con la secolarizzazione, che sarebbe tutta dentro la logica del cristianesimo, la religione più laica e secolare. La scristianizzazione invece è il venir meno di tutti quei principi che fanno la paradossalità, il valore, il significato, il sale dell’annuncio evangelico» (Massimo Cacciari – intervista rilasciata ad “Avvenire”)

Fra i tanti, troppi, commenti sulla vita di papa Francesco, ho scelto quello di un filoso laico, perché mi aiuta, a fari spenti, ad uscire dal pericoloso e scivoloso rischio della fanfaronata per tacere, riflettere e pregare. Infatti forse son proprio io lo scristianizzato di turno.

Speriamo che il patrimonio a noi consegnato non vada perduto: sono sicuro che indietro non si debba e non si possa tornare. Vale per ognuno di noi, vale per il mondo e vale per la Chiesa.

Questo non vuol dire che papa Francesco fosse perfetto e che la sua azione abbia risolto tutti i problemi. Durante la sua vita ho criticato certi suoi atteggiamenti, ma quante cose importanti ha detto e fatto!!! Non finiremo mai di scoprirne la portata. Invece che esaltarlo e mitizzarlo sarebbe però molto meglio che traessimo dai suoi insegnamenti, esempi e comportamenti, qualche concreta conseguenza per la vita personale, sociale ed ecclesiale.

Faccio qualche esempio: che senso ha dire che è stato il papa dei migranti per poi continuare a vedere queste persone come un inciampo per il quieto vivere della nostra società; che senso ha dire che è stato il papa dei carcerati per poi accettare un sistema carcerario ingiusto e auspicare la galera ad ogni piè sospinto; che senso ha dire che è stato il papa dei poveri per poi fregarcene altamente di chi è povero; che senso ha dire che è stato il papa della pace per poi accettare di vivere in una logica di guerra a tutti i livelli, etc. etc.

Bene ha fatto il suo elemosiniere a disporre che fossero i poveri, immigrati e non, e i carcerati a fargli corona durante i funerali: da una parte i potenti, dall’altra gli ultimi della pista.

Non si tratta di fare demagogia. Maria Vergine, che non era una demagoga, nel Magnificat esalta così il suo Dio: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili”. Sicuramente papa Francesco si è occupato degli umili per innalzarli. Noi dovremmo fare altrettanto e magari però avere il coraggio di rovesciare i potenti dai troni…

La versione farsesca della pace

Un Silvio Berlusconi sorridente la raccontò di fronte a una platea divertita: “Il Cavaliere muore e, sulla base delle cronache dell’Unità, finisce all’inferno dove non funziona nulla. Aggiusta le cose e sale al Purgatorio dove risolve altri problemi. Arriva così in Paradiso dove però i cherubini litigano. A questo punto arriva il colloquio con il Padreterno che, però, al posto di quindici minuti dura tre ore. Al termine Berlusconi esce con la mano sulla spalla di Dio. Che esclama: Carina l’idea sul Paradiso SpA. Ma c’è una cosa che non ho capito: perché io dovrei fare il vicepresidente?”.

Ebbene Donald Trump la barzelletta non l’ha raccontata, ma l’ha vissuta in diretta ai funerali di papa Francesco. In debito di protagonismo rispetto a Bergoglio, ha voluto salire sul palcoscenico proponendo un curioso siparietto con Zelensky. La politica si è ripresa la scena, è riuscita a disturbare Bergoglio anche dopo la sua morte, mettendo in gioco due personaggi che, fra l’altro non avevano un gran feeling col papa: Zelensky lo voleva faziosamente e pregiudizialmente schierato a suo favore, Trump era una sorta di antipapa più laido che laico. E adesso…

Assediati dalla vasta penombra, sorvegliati dalle incombenti architetture che fanno sembrare piccoli i cosiddetti “grandi”, tra la Porta Santa e la Pietà di Michelangelo il presidente ucraino e quello americano finalmente si ritrovano. L’uno sporto di fronte all’altro, senza interpreti né consiglieri. Per quindici minuti non sono più Trump e Zelensky, ma Donald e Volodymyr. (Nello Scavo su “Avvenire”)

Il resto è fantapolitica e, in prospettiva, fantastoria. Mi stupisce il clamore suscitato da questa autentica buffonata dal sapore quasi blasfemo. D’altra parte non ho mai letto e ascoltato un cumulo di sciocchezze politichesi paragonabile a quello snocciolato dai media in occasione del funerale di Bergoglio e in vista del conclave (si sta superando ogni limite di decenza e buongusto).

Mi stupisce però ancor più che i responsabili della Basilica di S. Pietro si siano prestati a questa manfrina, consentendo una simile farsesca intromissione, pensando magari di proporre in diretta un (quasi) miracolo. Anziché “Santo subito!”, “Pace subito!”. Magari! Speriamo che il tutto non rientri in un delirante dopo-Francesco.

Mia madre avrebbe sentenziato: “Chi vàgon a tôr in gir quälcdòn ätor, miga al Sgnôr…”.

La pace non può dipendere da queste vergognose trappole mediatiche. «Pace: parola viva che oggi muore nelle ipocrisie, nelle case distrutte, negli ospedali bombardati, nelle file infinite per l’acqua sporca nella tanica, nelle pozzanghere di fango dove i bambini riescono ancora a vedere il cielo» (padre Ermes Ronchi).

Forse papa Francesco, fresco di arrivo in Paradiso, si sarà umilmente rivolto a Dio dicendo: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”.