Un Prodi poco prode

Non sono mai stato un ammiratore di Romano Prodi per due concomitanti ragioni. Da un politico di sinistra esigo un’esperienza esistenziale vissuta sulla propria pelle, mentre invece Prodi è stato sbrigativamente intronizzato leader della sinistra pur di avere a tutti i costi un’alternativa a Silvio Berlusconi. D’altra parte, laddove manchi in tutto o in parte il carisma socio-politico, bisognerebbe che venisse in soccorso quello culturale e scientifico: Romano Prodi non ha il livello, tanto per fare un esempio, di un Beniamino Andreatta, quindi era, è e rimane un leader a metà, una sorta di “visconte dimezzato” della sinistra italiana.

Questo mio (pre) giudizio trova preciso riscontro nelle argomentazioni messe recentemente in campo da Romano Prodi e contenute in una intervista rilasciata al quotidiano “Avvenire” (Arturo Celletti). In essa sono automaticamente evidenziati i limiti di cui sopra, sintetizzabili in un europeismo di maniera e di risulta coniugato con un idealismo assai poco coinvolgente. Mi permetto di seguito di riportarne alcuni passaggi, aggiungendo le mie sofferte riflessioni.

 

Se gli Stati Uniti chiudono, l’Europa dovrà cominciare a considerare tutto il mondo come il mercato alternativo. Penso a un grande salto in avanti. Penso alla Cina, all’India e ad altri interlocutori come l’Africa e l’America Latina.

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L’Europa è un pane meraviglioso, ma è ancora mezzo crudo. Non soddisfa. Non piace. E allora o decide di cuocersi definitivamente o il rischio è mortale.

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Gli avvenimenti di questi giorni affrettano le decisioni. Certo non è possibile che noi scriviamo il menù e a tavola si siedono russi e americani. Non è possibile che ancora ci sia chi non capisce che solo se siamo insieme abbiamo un futuro grande. Abbiamo una prospettiva luminosa. Abbiamo la forza per rientrare nel gioco. Ripeto che è una questione vitale: o stiamo insieme o sarà un futuro tristissimo per la politica e per l’economia

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L’Europa ha un immenso patrimonio di welfare, di diritti. Ma oggi la sfida è anche quella di sostituire l’ombrello americano con quello europeo. Per anni l’America ci ha riparato dalla grandine, ora è il momento di farci il nostro ombrello. Penso a un lungo e indispensabile cammino verso la difesa comune. Penso a risorse aggiuntive che vengano progressivamente messe insieme da tutti i Paesi Ue. Penso a risorse spese in modo coordinato e unito. Se aumentiamo le spese militari senza organizzare una politica estera e una difesa comune, sono soldi buttati via. Insomma, ottanta anni di pace sono stati garantiti anche dalla nostra adesione alla Nato e dall’ombrello americano che, chiudendosi, ci impone di attrezzare e predisporre un comune sistema di difesa.

Se l’Europa pensa di rilanciarsi adottando una realpolitik pseudo-bellicista sbaglia di grosso: il bellicismo c’è già chi lo sa fare molto meglio di noi. Dobbiamo avere il coraggio di voltare pagina, non limitandoci a scopiazzare quelle altrui. Non si possono mettere assieme le pere riarmiste della narrazione in voga (seppur confezionate in modo accattivante) con le mele pacifiste offerte una tantum al mercatino popolare.

Riarmo è una brutta immagine. Pensata solo da chi non capisce lo spirito della gente. Io avrei usato altre parole. Difesa. Protezione. Sicurezza. Libertà. Ma quanti errori… Abbiamo affrontato la questione dividendo e isolando il mondo pacifista. Quando invece bisognava spiegare la forza della parola “difesa”. Il tema non può essere “armi sì-armi no”, il tema è che l’Europa in questo momento non viene riconosciuta. Prodi non è guerrafondaio. La bandiera della pace la sventolo anche io. Anzi, l’ho sempre sventolata. Prima di tutte le altre bandiere. Ma se si isola il problema dell’esercito da tutti gli altri, non facciamo un buon servizio al futuro. Se non si capisce che il tema difesa va declinato accanto al tema economia, al tema salute, al tema istruzione, non si riesce a guardare avanti. E, in questo momento, guardare avanti vuole dire anche immaginare un’Europa che abbia voce in capitolo.

Ma veniamo ad un futuro coinvolgente che dovrebbe buttare il cuore oltre l’ostacolo dopo averlo scaldato a dovere. Non c’è nelle parole di Prodi un pathos di livello, ma solo uno stucchevole e scontato richiamo all’impegno democratico e partecipativo.

Servono proposte innovative. Servono proposte che emozionano. Che prendono il cuore. Perché c’è metà del Paese che non va più a votare. E perché i giovani non si convincono con proposte in contrasto tra loro.

In conclusione: poco contenuto politico al di là dell’europeismo di facciata; poca spinta ideale e sociale al di là della mozione degli affetti; poca visione strategica al di là di un “si salvi chi può” che assomiglia molto ad un novello “armiamoci e partite”.

Purtroppo la carenza di leadership, che caratterizza il panorama europeo, non si colma con i fervorini prodiani, con la mobilitazione improvvisata contro lo slogan “autoritarismi di tutto il mondo, unitevi” e nemmeno facendosi dettare tempi e modalità dalla paura di essere emarginati. La casa europea non si difende con l’illusionistico e secondario antifurto delle armi, ma con la prioritaria, paziente e vigilante opera di rafforzamento della solidità strutturale.

 

Riarmo sì, riarmo no

C’è un momento, nel mezzo della manifestazione, in cui dal bastione che dà sulla piazza, dal lato opposto del Pincio dove si trova il palco, vengono calati due striscioni. Uno accanto all’altro. Il primo porta la scritta «Riarmo sì, anche così» ed è sorretto da un gruppetto di giovani che sventolano bandiere dell’Ucraina e della Georgia. L’altro dice «L’Italia ripudia la guerra, No Rearm Europe» e viene esposto da una coppia di mezz’età accompagnata da tre ragazzini. Le due indicazioni, speculari e opposte, si affiancano come se nulla fosse e in fondo in pochi notano la contraddizione evidente, neppure le teste che fanno capolino dietro gli stendardi. (dal quotidiano “Il manifesto” – Giuliano Santoro)

Un tempo non avrei esitato a scendere in piazza, oggi al di là delle personali difficoltà oggettive e soggettive, non mi sento di farlo. Perché non credo all’Europa o perché ci credo troppo? Qualcuno ritiene che nonostante le divergenze politiche sia stato utile lanciare questo segnale di democrazia e partecipazione. Può darsi che sia così a condizione che l’occasione serva a riprendere il discorso sui valori di fondo e non sulle mere opportunità.

Il filo conduttore a livello europeo non può passare attraverso la cruna dell’ago bellicista; l’unica forte provocazione unitaria di base potrebbe consistere nell’anti-trumpismo con tutto quel che comporta. La riscoperta della politica per chi ha ancora voglia di interessarsi ad essa. Sarebbe comunque una piazza soffocata dalle narrazioni mediatiche. Com’erano belli i tempi in cui in piazza cadevano i governi e si difendevano i diritti dei poveri. Oggi si fanno chiacchiere e poco più. “Méstor mi e méstor vu e la zana d’indò vala su?”  direbbe mia nonna (erano due ingegneri che si scambiavano complimenti ma che si erano dimenticati l’uscio nella porcilaia).

Nemmeno il trumpismo ci può svegliare. Bisogna prendere la rincorsa dal passato evitare di incartarsi nello squallido presente, fare parecchi passi indietro. Sono troppo vecchio per mettermi in questa dimensione. L’unica cosa che riesco a fare è pregare per la pace.

Mio padre, quando qualcuno definiva assurda ed illusoria la risposta della religione cattolica ai misteri della vita, della morte e dell’aldilà, era solito rispondere: «Alóra catni vùnna ti, ch’ a tsi un zvaltón !!!».

 

La disumana certezza e il pietoso dubbio

Si assiste oggi – sotto la spinta di nuovi nazionalismi – ad un pericoloso ritorno di qualcosa di profondamente legato alle tragedie del Novecento, anche al di là del loro nesso con i genocidi, da quello degli armeni alla Shoah, con i “campi”, dai lager ai gulag. Lo ha messo in luce Giorgio Del Zanna parlando delle grandi deportazioni di popolazioni greche e turche negli anni Venti e Trenta del secolo scorso – le prime grandi deportazioni “legali” – e Nicolò Pianciola che ha delineato un quadro complessivo delle espulsioni di massa dell’età contemporanea. A portare il discorso sull’attualità è stata la giurista Francesca De Victor che ha documentato lucidamente come i Paesi europei negano oggi di fatto il diritto di asilo agli Heimatlose del XXI secolo attraverso l’esternalizzazione delle frontiere: se i profughi non entrano “giuridicamente” in Europa si possono tranquillamente disapplicare le norme europee basate sui diritti fondamentali dell’uomo. Maurizio Ambrosini, infine, ha analizzato ancora una volta le fake news di cui è intessuta la narrazione corrente sul “problema” immigrati, ricordando tra l’altro come la società europea abbia assorbito senza particolari difficoltà l’improvviso arrivo di sei milioni di ucraini in fuga dalla guerra. Non c’è davvero in atto un grande pericolo che giustifichi il tradimento che l’Europa – splendida costruzione di umanesimo giuridico – rischia di compiere nei confronti di se stessa e dei suoi valori costitutivi. (dal quotidiano “Avvenire” – Agostino Giovagnoli)

Come si fa a non essere angosciati di fronte ad una situazione internazionale così drammaticamente e sostanzialmente fascista e/o nazista? Come si può ridurre il tutto ad una seppur schiacciante vittoria elettorale di Donal Trump? Come si può accettare un ordine mondiale fondato sulla spietata logica del più forte? Come è possibile considerare la guerra come il male minore da accettare in modo vile e rassegnato? Come è possibile interessarsi alla guerra dei dazi sulle importazioni e sulle esportazioni di merci, trascurando la guerra in atto sui movimenti delle persone sballottate da un campo profughi all’altro? Come è possibile ridurre tutto al tatticismo più o meno filo-trumpiano mentre il mondo sta andando alla deriva?

Personalmente non riesco più nemmeno a seguire i dibattiti televisivi, tanto li sento lontani da un minimo di senso umanitario da cui prescindono in modo pragmaticamente inumano per rifugiarsi in una sorta di comodo scetticismo-pessimismo. Sono talmente confuso sul piano politico che preferisco non ascoltare le certezze mediatiche sputate in faccia ai disgraziati. Non trovo punti di riferimento credibili, sono veramente sperduto nel deserto mondiale. Il dato di fondo è il dubbio!

Se è vero che la fede non è tale se non è accompagnata dal dubbio, anche la politica non è seria se prescinde dai dubbi atroci che riguardano gli equilibri fra gli Stati, fra le categorie sociali, fra le persone e i loro problemi. Il dubbio di fondo è questo: la democrazia è in grado di garantire la giustizia sociale? Molti hanno rinunciato alla giustizia sociale e alla pace pur di modernizzare (?) la democrazia: non sono d’accordo e continuo ad arrovellarmi ed a soffrire.

 

I negozi europei e i supermercati statunitensi

Il leader della Cdu Friedrich Merz ha riferito che i conservatori Cdu-Csu e il centro-sinistra dell’Spd, del cancelliere uscente Olaf Scholz, hanno raggiunto un accordo di principio per formare un governo in Germania. “I colloqui esplorativi sono conclusi. Abbiamo trovato un accordo su una serie di questioni. Abbiamo un documento comune che sarà la base delle trattative per definire il patto di coalizione che cominceranno la prossima settimana. Oggi abbiamo trovato un accordo su tre temi: migrazione, finanze, mercato del lavoro ed economia”. Il prossimo cancelliere Friedrich Merz, ha aggiunto che al termine delle tre settimane di trattative è stato elaborato un documento esplorativo comune che farà ora da base alla fase formale del negoziato.

Presenti all’annuncio di Merz anche Markus Söder della Csu e i due co-presidenti della Spd Lars Klingbeil e Saskia Esken. La Germania va quindi verso una riedizione della Grande coalizione che fu a lungo al potere con Angela Merkel cancelliera. Saranno avviati ora colloqui ufficiali per la formazione dell’esecutivo, che avrà’ come principale compito una massiccia campagna di investimenti militari che garantiscano alla Germania forze armate adeguate a un contesto di disimpegno statunitense dal vecchio continente. Già martedì è atteso, nel vecchio Bundestag che a metà mese verrà sciolto, il voto per consentire lo sfondamento del tetto di bilancio previsto dalla Costituzione federale. Un test indicativo sulla forza che potrà avere, nel nuovo Parlamento uscito dal voto di fine febbraio, la nuova coalizione.

L’accordo sul governo in Germania passa comunque attraverso la stretta all’immigrazione. “Amplieremo massicciamente i controlli alle frontiere dal primo giorno del nostro governo congiunto – afferma il futuro cancelliere tedesco Friedrich Merz – e utilizzeremo questi controlli anche per aumentare significativamente il numero di respingimenti.
Ripristineremo l’obiettivo di limitare l’immigrazione nella legge, porremo fine a tutti i programmi di ammissione volontaria, ad esempio dall’Afghanistan, e non ne istituiremo di nuovi, sospenderemo il ricongiungimento familiare per coloro che hanno diritto alla protezione sussidiaria e lanceremo un’offensiva globale sui rimpatri. La polizia federale dovrà avere l’autorità di trattenere gli stranieri che sono tenuti a lasciare il paese o a presentare domanda di custodia cautelare per garantirne l’espulsione”. (dal quotidiano “Avvenire” – Redazione Esteri)

Putost che niént è mej putost. L’accordo di governo tedesco non è obiettivamente granché, il profilo è abbastanza basso, d’altra parte in questa fase non si poteva pretendere molto di più. Evitato il rischio di un’alleanza fra centristi ed estremisti di destra, si ritorna all’ipotesi di una piccola-grande coalizione fra democristiani e socialisti, fra moderati poco cristiani e sinistra poco socialista.

Dispiace che i punti programmatici fondamentali siano la stretta all’immigrazione e una massiccia campagna di investimenti militari. Forse il nuovo governo tedesco diventerà un canovaccio per l’intera Europa. Almeno si riprende a parlare di politica…Con le arie che tirano bisogna accontentarsi…Io però non mi accontento affatto e ritengo profondamente ingiusto che siano gli immigrati a pagare il prezzo delle nostre difficoltà così come penso sia oltre modo inaccettabile sfondare i bilanci sulle spese militari.

Il mercato del lavoro e l’economia sono gli specchietti per le allodole: una spruzzata di socialità e un po’ di sviluppo economico tanto per gradire.

Quanta nostalgia per il compromesso storico fra cattolici e socialisti: l’evoluzione politica si è interrotta lì. Gli accordicchi attuali ne sono soltanto una parodia. Alla politica è venuta meno la spinta ideale e valoriale e sono rimaste le botteghe. Speriamo che almeno rimangano aperti i negozi storici europei e non lascino il posto ai supermercati statunitensi. Putost che niént è mej putost.

 

L’ernia iatale del governo italiano

Il ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani condanna severamente l’ennesimo attacco verbale giunto dalla Russia nei confronti del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. “Il Presidente della Repubblica è un uomo di pace e simbolo di unità nazionale ed europea”, ha affermato.  A seguito dell’attacco, Tajani ha chiesto al segretario generale della Farnesina, ambasciatore Riccardo Guariglia, di convocare l’ambasciatore della Federazione Russa a Roma. (Ansa.it)

Credo che gli italiani e il loro presidente debbano sentirsi onorati da questi reiterati attacchi. Innanzitutto essere nel mirino di uno dei più grandi delinquenti della storia di tutti i tempi vuol dire essere nel giusto. In secondo luogo evidentemente Sergio Mattarella dimostra, se mai ce ne fosse ulteriore bisogno, di essere portatore di un’alta visione democratica che tocca nel vivo dell’imperante disordine internazionale.

Mi resta tuttavia un dubbio atroce: siamo sicuri che questi attacchi siano farina del sacco putiniano o non siano qualcosa di ben più grande e mirato? Per parlare fuori dai denti, io ci vedo molta più acredine trumpiana che ira putiniana: d’altra parte, se non è zuppa, è pan bagnato. Probabilmente Sergio Mattarella è rimasto unico e coerente difensore di un ordine mondiale fondato sul ruolo dell’Europa e, come tale, viene considerato un corpo estraneo da neutralizzare. I valori, i principi, le idealità, nonostante tutto, danno molto fastidio e chi ne è portatore deve essere tacitato e/o squalificato.

Secondo dubbio atroce: vedo una certa qual rassegnata assuefazione a questi attacchi da parte del governo italiano. Difendere Mattarella è uno spontaneo imperativo morale e politico o è una fastidiosa pratica diplomatica da sbrigare senza troppo clamore? Non si sa mai che di sponda il manovratore Trump e i suoi sodali possano essere irritati o disturbati…

Viviamo tempi in cui scegliere è sconsigliabile, meglio fare i pesci in barile, dare un colpo al cerchio trumpiano e uno alla botte europea. Questo gioco è portato allo scoperto dalla linearità di pensiero e di comportamento da parte del presidente Mattarella. Credere nell’Europa è diventato un pericolo, avere dignità proveniente dalla Costituzione è considerato un inutile orpello, puntare ad un ordine mondiale fondato sul dialogo e sul rispetto delle lezioni della storia è qualcosa di anacronistico.

Considero Sergio Mattarella come l’ultimo dei giusti: senza inutili clamori, rende testimonianza alla vera politica. Una lezione continua, che rompe le scatole a chi non vuol imparare dalla storia e che costringe provocatoriamente ad un profondo esame di coscienza alla luce della Costituzione e dei trattati europei.

Cosa volete che importi tutto ciò ai delinquenti che (s)governano il mondo? Eppure a giudicare dalle reazioni, russe o americane che siano, qualcosa le idee contano ancora e, se il più becero dei capitalismi digitali ha i secoli contati, anche la più debole e fragile delle democrazie ha gli anticorpi per resistere agli attacchi delle autocrazie.

 

 

Chiesa nonostante i signori cardinali

La storica sera (era il 13 marzo 2013), in cui papa Francesco, appena eletto, si presentò, con atteggiamenti e simbologie rivoluzionari, sulla balconata di S. Pietro, ero davanti al video in compagnia di mia sorella Lucia. Eravamo entrambi convinti che fosse successo qualcosa di grande per la Chiesa cattolica. Questa volta lo Spirito Santo era arrivato in tempo. Ricordammo al proposito una gustosa barzelletta. Dicono piacesse molto a papa Giovanni Paolo II.

“Dio Padre osserva, con attenzione venata da una punta di scetticismo, l’attivismo dei cardinali di Santa Romana Chiesa, ma non riesce a capire fino in fondo lo scopo della loro missione. Con qualche preoccupazione decide di interpellare Dio Figlio in quanto, essendosi recato in terra, dovrebbe avere maggiore dimestichezza con questi importanti personaggi a capo della Chiesa da Lui fondata. Dio Figlio però non fornisce risposte plausibili, sa che sono vestiti con tonache di colore rosso porpora a significare l’impegno alla fedeltà fino a spargere il proprio sangue, constata la loro erudizione teologica, la loro capacità diplomatica, la loro abilità dialettica, ma il tutto non risulta troppo convincente e soprattutto rispondente alle indicazioni date ai discepoli prima di salire al cielo.  Anche Dio Figlio non è convinto e quindi, di comune accordo, decidono di acquisire il parere autorevole di Dio Spirito Santo, Lui che ha proprio il compito di sovrintendere alla Chiesa.  Di fronte alla domanda precisa anche la Terza Persona dimostra di non avere le idee chiare, di stare un po’ troppo sulle sue ed allora il Padre insiste esigendo elementi precisi di valutazione, minacciando un intervento diretto piuttosto brusco e doloroso. A quel punto lo Spirito Santo si vede costretto a dire la verità ed afferma: «Se devo essere sincero, anch’io non ho capito fino in fondo cosa facciano questi signori cardinali, sono in tanti, ostentano studio, predica e preghiera. Pregano soprattutto me affinché vada in loro soccorso quando devono prendere decisioni importanti. Io li ascolto, mi precipito, ma immancabilmente, quando arrivo col mio parere, devo curiosamente constatare che hanno già deciso tutto!»”

Quella sera io trattenevo con difficoltà le lacrime per l’emozione, Lucia era entusiasticamente propensa a cogliere finalmente il “nuovo” che si profilava. Erano gli ultimi mesi di vita di Lucia, che però trovavano esistenziale e incoraggiante riscontro, al livello più alto, di un cristianesimo vissuto sempre con l’ansia della novità che squarcia il dogmatismo, della scelta a favore dei poveri, del rispetto della laicità della politica, del protagonismo femminile. Lucia per oltre settant’anni si era sentita partecipe della comunità ecclesiale, militando con impegno totale nell’Azione Cattolica, vivendo intensamente le speranze conciliari, travasando nella politica i principi ed i valori metabolizzati nella prima parte della sua vita.

Sono passati 12 anni, il pontificato di Francesco si avvia alla fine, (non) è tempo di bilanci e di previsioni sulla successione. Alcuni nodi sono irrisolti nella misura in cui restano legati per sempre alle contraddizioni di fondo della Chiesa: la povertà concettualmente abbarbicata alle esigenze strutturali; la novità di vita temperata dalla necessaria (?) continuità; l’impostazione gerarchica giustificata dallo sganciamento rispetto ai mondani criteri politici e sociali.

Tali questioni sono presenti in filigrana nella pastorale di Francesco anche se lui le ha giustamente “nascoste” nello stile evangelico. Restano tuttavia dubbi, perplessità, incertezze. Mi aspettavo di più?! Poi, mi accorgo che senza di lui sarà una gara dura ed ho il timore che i “signori cardinali” ricomincino a spadroneggiare. Non so se ci siano le premesse di continuità o se si possa scatenare una sorta di ritorno al passato. L’insistenza con cui papa Francesco resta ancorato al soglio pontificio mi dà l’idea dell’incompiuta: i numerosi tasselli da lui accuratamente predisposti mi lasciano invece sperare in una morbida ma forte successione.

La domanda di fondo è: c’è un futuro nella Chiesa a misura di papa Francesco oppure tutto verrà inesorabilmente azzerato e ricominciato daccapo? Devo tornare alla simpatica barzelletta da cui sono partito: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

Dei papi ho una mia originale idea riguardo al loro atteggiamento verso la Curia e gli intrighi vaticani: Paolo VI soffriva, si macerava e poi si arrendeva all’impossibilità del cambiamento; Giovanni Paolo I somatizzò il dramma al punto da morirne in pochi giorni; Giovanni Paolo II se ne fregò altamente, andò per la sua strada, si illuse di cavare anche un po’ di sangue dalle rape; Benedetto XVI ci rimase dentro alla grande e gettò opportunamente la spugna: papa Francesco è ancora troppo schierato per essere sarcasticamente giudicato. Quando constato come tanti papi siano diventati o stiano diventando Santi, mi viene qualche dubbio. Pur con tutto il rispetto, temo che nell’aldilà troveremo parecchie novità, riguardo alla nostra vita e a quella della Chiesa.

Il mio caro amico don Domenico Magri mi scrisse una lapidaria risposta: «Caro Ennio, condivido in toto: purtroppo è così. Tertulliano già nel IV secolo aveva definito la Chiesa: “casta meretrix”: mica male! Comunque noi osiamo amarla lo stesso!».

 

E vo gridando pace, e vo praticando amor

In piazza per l’Europa o per questa Europa? Perché a seconda della risposta, si potrebbe scendere in due piazze diverse: una per sostenerla, una per contestarla.

Scendere per questa Europa? Questa Europa paralizzata da decenni dalle decisioni all’unanimità, che in ventiquattr’ore trova 800 miliardi per armarsi o per “difendersi” (da chi?)? Per questa Europa potrei desiderare una piazza per contestarla.

Questa Europa che non decide politiche comuni sull’immigrazione assistendo inerte alle tragedie nel Mediterraneo, rialza reticolati e muri, che si rifugia nella burocrazia e legifera sulle vongole mentre tace sulle grandi ingiustizie.

Questa Europa i cui Stati sembrano non andare d’accordo su niente e carezzano gli umori impauriti degli elettorati anziché indicare una rotta lungimirante anche se impopolare.

Questa Europa che dice «con l’Ucraina la guerra è tornata in Europa», rimuovendo la tragedia dei Balcani, guerra già nel cuore dell’Europa e di cui è corresponsabile.

Questa Europa che delude chi credeva nella solidarietà, nella giustizia, nella coesione, questa Europa, non è da applaudire ma, forse, da contestare.

Oppure scendere in piazza semplicemente per l’Europa? Per quel nome sorgivo che ha portato un’infinità di bene per milioni di persone e un modello ispirativo per il mondo. Per la sua genesi prima che per le occasioni mancate. Non un’entità geografica o un apparato burocratico, ma “un ideale storico concreto”. Se ascolto l’Europa embrionale, sussurrata nel Monastero di Camaldoli, quando un gruppo di giovani scrisse il Codice di Camaldoli, ispirandosi a un’utopia nel mezzo della Seconda guerra mondiale, il mio sentimento cambia. Se penso all’Europa sulle labbra di Jan Palach, torcia umana in Piazza San Venceslao, a Praga, per non arrendersi all’oppressione sovietica. Se leggo Europa negli scritti di Sophie Scholl, che con il suo gruppo La Rosa Bianca sfidò il nazismo e pagò con la vita il sogno di un continente libero.

Europa… Europa come la sognarono, la idearono e la realizzarono i padri fondatori. Riecheggia forte e lungimirante il loro pensiero appassionato: Altiero Spinelli, Alcide De Gasperi, Jean Monnet, Robert Schuman, Konrad Adenauer, Joseph Bech e Paul-Henri Spaak. Ma quel sentimento positivo si accende solo nel passato? Europa… se abbandono i confini politici e alzo lo sguardo sento il “respiro a due polmoni” evocato da san Giovanni Paolo II, che ci ha spinto a unire spiritualmente e culturalmente Oriente e Occidente.

(…)

Oggi siamo su un crinale assai pericoloso, un punto di svolta che potrebbe portare al disfacimento dei fondamentali della convivenza civile. E se archiviassimo questa memoria e scendessimo in piazza solo per contestare? O, peggio, se restassimo indifferenti? Se tagliassimo l’ultimo filo che ancora lega il passato a un possibile futuro di pace? Lo abbiamo detto: siamo attoniti, davanti agli scenari che di ora in ora sono sempre più cruenti, abbiamo bisogno di un tempo di latenza. Ma l’accelerazione storica non consente ulteriori indugi.

Forse, conservando tutti i dubbi senza i quali nessun miglioramento è possibile, potremmo ritrovarci in una piazza che si aggrega intorno a un’unica bandiera. Una piazza che non urla, ma che, ostinatamente ancorata alla memoria, continua a credere in un sogno di pace.

Perché non è più il tempo di dire “pace! pace!”. Occorre indicare una strada positiva, concreta, praticabile. Una linea e un orizzonte, un’azione. Europa è parola di pace che appartiene al passato – settant’anni senza guerre – che vive nelle difficoltà del presente e che ci attende nel futuro.

(…)

Quella piazza “per l’Europa” è una soglia rischiosa, ma carica di futuro. Una soglia in cui non ci sono solo cittadini, ma l’Europa stessa. Una soglia dove può sventolare ancora una bandiera sola: l’Europa. Logora, sgualcita, un po’ strappata, ma l’unica bandiera senza sangue. Un simbolo sospeso tra storia e sogno ostinato.

Non ho certezze, ma nel dubbio scelgo di non avere rimpianti: non ho paura di stare sulla soglia di questa piazza “per l’Europa”.

(dal quotidiano “Avvenire” – Franco Vaccari)

 

L’ortodossia democratica e l’eresia pacifista

Anche Romano Prodi, dopo Paolo Gentiloni e Enrico Letta, al contrario di Elly Schlein non boccia il piano von der Leyen: «È una tappa per arrivare alla difesa comune. Il riarmo è un primo passo necessario in questa direzione. Se avessimo avuto l’esercito europeo, la Russia non avrebbe attaccato l’Ucraina. Se si fa l’esercito comune, Putin si ferma». L’importante, secondo il Professore, è che non ci si limiti a questo, ma si «vada avanti».

Dunque anche Prodi, seppur evitando di entrare nella polemica diretta, prende le distanze dalle posizioni di Schlein. E pensare che, grazie all’ennesima uscita di Musk, il Pd sempre più diviso ieri cercava almeno per un giorno di dare l’impressione di un partito compatto. Tutti contro il consigliere di Trump che ha minacciato: «Se disattivo Starlink, l’Ucraina crolla». Ma quello che è successo in questi giorni non si può cancellare. Le divisioni sul piano von der Leyen hanno creato tensioni interne che difficilmente si placheranno a breve.

I riformisti non vogliono seguire la segretaria sul suo «no» a quel progetto di difesa europea. Anche perché, come ha spiegato il coordinatore di Energia popolare, Alessandro Alfieri, «il Pd con quelle posizioni rischia l’isolamento in Europa». Già, perché Schlein su questa vicenda ha una posizione ben diversa dai leader socialisti di Spagna e Francia e dal primo ministro laburista della Gran Bretagna Starmer.

I riformisti non riescono più a nascondere le loro perplessità e i loro timori. E a poco sono servite le parole del fondatore della corrente di minoranza del Pd, Stefano Bonaccini. Il presidente del partito ha «coperto» la segretaria anche in questa vicenda: «No al riarmo», ha detto come lei, prendendo una posizione ben diversa da quella dei «suoi».

Ma la verità è che l’ex governatore dell’Emilia-Romagna ha perso la presa sui riformisti. Ormai quella corrente dem è gestita da Alfieri (e da Lorenzo Guerini, che però, visto il suo ruolo di presidente del Copasir, si tiene sempre un po’ defilato). E uno dei punti di riferimento di quell’aerea è diventato Gentiloni. Come si arguisce chiaramente dalle parole di Stefano Ceccanti: «Da ex commissario, Paolo ribadisce la continuità della politica estera e chi non condivide le sue posizioni stia con Conte». O dalle affermazioni di Alfieri: «L’attivismo di Gentiloni è un fatto positivo, il Pd faccia sintesi e basta definire bellicista chi la pensa in un certo modo».

La distanza che ormai divide la maggioranza e la (corposa) minoranza dem è emersa anche nella polemica che è seguita dopo la pubblicazione, sui social del Pd, di una card in cui si facevano i complimenti a Salvini, accusato da Meloni di avere, sul riarmo, la stessa linea del Pd: «Bravo Matteo». Quella mossa comunicativa, che pure giocava sul filo dell’ironia, ha lasciato di stucco i militanti. E ha fatto irritare Pina Picierno, una delle esponenti dem più determinate sull’Ucraina e sulla difesa comune, che non ha avuto remore ad attaccare il suo partito: «Non c’è molto da dire se non che mi vergogno e mi dispiace molto». Anche Ceccanti ha avuto parole molto critiche nei confronti di quella card: «Una volta, per cose del genere, a torto o a ragione, si sarebbe usata una sola parola, deliramentum». Insomma, quasi un clima da separati in casa.

Il disagio si estende anche alla componente più moderata, come dimostra la decisione della ex segretaria della Cisl Annamaria Furlan di abbandonare il gruppo del Pd del Senato e aderire a Italia viva. Un addio i cui motivi, secondo Lorenzo Guerini, devono far riflettere: «Non condivido la scelta di lasciare, ma credo che dovremmo interrogarci sulle ragioni. Ignorarle sarebbe sbagliato». Parole simili a quelle pronunciate da Filippo Sensi. E alle dichiarazioni di Simona Malpezzi, secondo la quale «la scelta di Furlan non deve cadere nel silenzio».

Eppure, non ci sarà divorzio nel Pd, dove le due anime in cui è diviso il partito continueranno la loro difficile convivenza senza rotture. Chiosa un autorevole esponente del Pd con un’abbondante dose di malizia: «In fondo, sopra tutto, vince la difesa comune del seggio». (dal Corriere della Sera – Maria Teresa Meli)

 

Ammetto di avere una concezione aristocratica della politica. Cosa voglio dire? Dal momento che la considero un elemento importantissimo e fondamentale della vita comunitaria ed anche personale, esigo che venga discussa e praticata partendo dai valori messi seriamente e coraggiosamente a servizio della collettività. In politica è auspicabile innanzitutto la passione (l’arte dell’impossibile) e solo dopo di essa vengono la razionalità e il compromesso (sempre ai livelli più alti).

La Costituzione Italiana all’articolo 11 recita testualmente: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Nel dettato costituzionale non vedo scappatoie riarmiste e/o belliciste. Anche l’Europa vale a condizione che punti alla pace e alla giustizia e non diventi una mera alleanza di tipo militare seppure a scopo difensivo. Diversamente viaggiamo sul filo del rasoio e io non ho alcuna intenzione di farmi male.

Non ricordo la fonte, ma a suo tempo Gianfranco Fini fu definito da un intellettuale di destra, e quindi non a lui politicamente estraneo od ostile, come un soggetto che “non sa un cazzo, ma lo dice bene”. Attualmente la politica italiana è piena zeppa di gente che non sa un cazzo, ma lo dice bene o che addirittura lo dice male, ma sa conquistare un inspiegabile consenso.

L’indimenticabile esponente democristiano Mino Martinazzoli a chi gli chiedeva di “sputare” certezze, ammetteva di avere molti dubbi. Altra stoffa! Oggi tutti sparano certezze e nessuno ha il coraggio di esprimere qualche dubbio. Bisognerebbe diffidare e invece ci si prostra ai piedi di questi vanagloriosi personaggi. I media hanno enormi responsabilità nel legittimare l’ignoranza dei politici, inserendoli nel loro circo pieno di prestigiatori che si spacciano per acrobati.

Ebbene, di fronte alla prospettiva di un riarmo, più o meno giustificato dalla realpolitik di stampo europeista, la segretaria del partito democratico ha finalmente trovato il coraggio del dubbio atroce: non l’avesse mai fatto, le sono saltati tutti addosso con argomentazioni che non mi convincono affatto. Il beneficio del dubbio me lo concedo e quindi lo concedo anche ad Elly Schlein, checché ne dicano le cariatidi del partito democratico in vena di revival pseudo-europeista.

Fino ad oggi ad Elly Schlein veniva rimproverata la mancanza di coraggio a sinistra, oggi sembra che finalmente se lo sia dato e allora tutti le sono contro. Nemmeno il Padre Eterno mi convincerebbe dell’utilità di una scelta riarmista, figuriamoci la santissima trinità di Prodi, Letta e Gentiloni.

Se il partito democratico va in crisi su questa tematica, ne sono più che soddisfatto. Vogliamo ragionare di pace o vogliamo prepararci alla guerra? Ricordo come un noto esponente della sinistra democristiana affermò di preferire l’andata in crisi dell’allora governo di centro-sinistra per effetto della contestazione proveniente dalla sinistra cattolica piuttosto di quella promossa dagli allora moderati socialdemocratici di stampo saragattiano. Ebbene i socialdemocratici sono diventati tutti saragattiani, vedovi dell’atlantismo morto e sepolto di cui stanno elaborando il lutto.

Meglio che gli equilibri europei vadano in crisi sulla spinta delle idealità pacifiste piuttosto che rafforzarsi sulla base di scelte riarmiste.

 «Il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine. Questa è l’ipocrisia» (Papa Francesco, discorso del 04 febbraio 2017 ai partecipanti all’Incontro “Economia di Comunione”, promosso dal Movimento dei Focolari).

Non siamo molto lontani da questa ipocrisia, ammantata di europeismo spicciolo.

«La corsa agli armamenti non risolve né risolverà mai. Essa serve solo a cercare di ingannare coloro che reclamano maggiore sicurezza, come se oggi non sapessimo che le armi e la repressione violenta, invece di apportare soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti» (papa Francesco nella sua Esortazione “Evangelii Gaudium).

I deludenti e pragmatici ragionamenti prodiani vanno purtroppo in questo senso. Romano Prodi abbia il coraggio di fare il notabile post-europeista: è ciò che gli rimane. Non ho mai avuto grande considerazione per la sua intelligenza politica, oggi ne ho ancor meno. Faccia autocritica, lasci in pace Elly Schlein e abbia rispetto per la sua sacrosanta pacifica incertezza.

Termino con la citazione delle parole del cardinal Zuppi sul capitolo Europa. «Dobbiamo investire nel cantiere dell’Europa che non sia un insieme di istituzioni lontane», ma una «madre della speranza di un futuro umano» che «non rinunci mai a investire nel dialogo come metodo per risolvere i conflitti, per non lasciare che prevalga la logica delle armi, per non consentire che prenda piede la narrazione dell’inevitabilità della guerra, per aiutare i cristiani e i non-cristiani a mantenere vivo il desiderio di una convivenza pacifica, per offrire spazi di dialogo nella verità e nella carità». Insomma, un’Europa che non punta soltanto sul riarmo, come invece viene dichiarato in questi giorni.

 

Anche Musk, prima o poi, piangerà.

Elon Musk fa e disfa a suo piacimento, intestandosi il ruolo di “picconatore” per conto di Donald Trump. L’imprenditore, presidente-ombra degli Stati Uniti, ha utilizzato come sempre il suo profilo X per accendere i riflettori sui rapporti ai minimi termini tra Washington e quelli che dovrebbero essere i suoi alleati, dall’Europea alla Nato, fino all’Ucraina che da tre anni fronteggia l’aggressione russa.

Sul suo social network dunque Musk minaccia e poi fa marcia indietro, insulta ministri e Paesi, in un comportamento senza limiti.

Si parte della Nato, l’Alleanza Atlantica che Trump vede ormai come un peso, sia politico che economico. Musk è ovviamente d’accordo e ad un utente che gli chiedeva su X di abbandonarla risponde così: “Dovremmo proprio farlo, non ha senso che l’America paghi per la difesa dell’Europa”.

Ma è solo l’inizio. Non contento Musk ha aggiunto che il suo sistema satellitare Starlink è una delle poche ancore di salvezza rimaste a Kiev, perché senza non potrebbe più difendersi dall’invasione russa. “Tutta la loro prima linea crollerebbe, se lo spegnessi. Ciò che mi fa star male sono anni di massacri in una situazione di stallo che l’Ucraina perderà inevitabilmente. Chiunque ha veramente a cuore la questione, riflette con serietà e vuole che questo tritacarne si fermi. Pace adesso”, il suo messaggio.

Parole che hanno spinto il ministro degli Esteri polacco Radosław Sikorski, marito dell’analista americana Anne Applebaum e responsabile della politica estera di un Paese che condivide con l’Ucraina centinaia di chilometri di confine, a insorgere e a ricordare che il governo di Varsavia paga i servizi Starlink per l’Ucraina: “A parte l’etica di minacciare la vittima di un’aggressione, se si dimostrerà un fornitore inaffidabile saremo costretti a cercarne altri”.

Parole che hanno innescato una incredibile rissa virtuale, con Musk che ha insultato apertamente Sikorski: “Stai zitto, ometto. Paghi una piccola parte del costo. E non c’è niente che possa sostituire Starlink”, le parole del miliardario sudafricano.

Soltanto ore dopo Musk, forse spinto da Trump, ha parzialmente ritratto quanto detto su Starlink: “Per essere estremamente chiari, non importa quanto io non sia d’accordo con la politica ucraina, Starlink non spegnerà mai i suoi terminali. Sto semplicemente affermando che, senza Starlink, le linee ucraine collasserebbero, poiché i russi possono bloccare tutte le altre comunicazioni! Non faremo mai una cosa del genere né la useremmo come merce di scambio”, ha sottolineato il Ceo di Tesla.

Le parole di Musk hanno aperto un fronte politico anche in Italia. Il post con cui l’imprenditore ha minacciato di privare l’Ucraina del sistema Starlink ha provocato la reazione della segretaria del Pd Elly Schlein, in prima linea come tutta l’opposizione contro il ddl Spazio recentemente approvato alla Camera.

“Musk sta dimostrando che l’unica cosa che vuole è estendere il proprio impero economico, anche se questo vuol dire farlo sulla pelle di un popolo aggredito che in queste ore sta subendo l’ennesima offensiva. Come fa Giorgia Meloni a voler consegnare le chiavi della sicurezza nazionale italiana a Musk anche dopo aver sentito le sue ultime gravissime parole? Il governo cambi subito rotta e sul ddl Spazio non si faccia dettare la linea da Musk. Senza una rete satellitare europea efficiente e competitiva la difesa europea non potrà mai esistere”, le accuse della leader Dem. (L’Unità – redazione esteri)

Come è possibile che improvvisamente gli Usa siano diventati lo zimbello culturale del mondo? Evidentemente qualcosa, da parecchio tempo, covava sotto la cenere. Per fortuna che non sono mai stato un filoamericano di vocazione: ho sempre guardato con scetticismo e sfiducia ad un Paese che l’ha fatta da padrone a destra e manca, combinando autentici disastri in tutto il mondo.

Tutto il mal non viene per nuocere: se l’alleanza atlantica deve essere un continuo ricatto per l’Europa, tanto vale disfarla. Ci arrangeremo. Se il sistema satellitare Starling deve essere la capsula entro cui chiudere la nostra democrazia, cercheremo alternative difficili ma serie.

È il momento di fare un po’ di chiarezza, costi quel che costi. Non voglio avere fra i piedi questa banda di mafiosi. Difendiamo la democrazia a pane e cicoria. Dovremo ridimensionare il nostro benessere? Tanto meglio! Diventeremo più poveri? Ne vale la pena! Vuoi vedere che in un colpo solo ci libereremo di Donal Trump, Elon Musk, Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni?

Smettiamola di trovare motivazioni plausibili per una inconcepibile deriva mondiale in cui siamo sprofondati. Non si sa da che parte voltarsi: sono saltati tutti gli schemi. Sto dalla parte degli sfigati e Dio sa quanti ce ne siano sparsi per il mondo. Bisogna rileggere la storia, ci siamo sbagliati, abbiamo preso lucciole capitalistiche per lanterne democratiche. Posso essere scurrile? Elon Musk infili tutti i suoi soldi nel suo capitalistico ano santo. E chi non combatte la povertà con me peste lo colga.  Mi resta solo la povertà e chissà che non si riesca una buona volta a far piangere i ricchi.

     

I cattolici di merda

Anche il progetto contro la violenza di genere a Cuzco, in Perù, dell’Ong romana Apurimac era evidentemente considerato uno spreco. «È stato eliminato – spiega il direttore Vittorio Villa – un programma di salute mentale e inclusione sociale per vittime di violenza di genere in famiglia. Un taglio indiretto che ha riguardato il nostro partner locale Associazione Santa Rita che ha avuto notizia di sospensione di un progetto finanziato dalla Iaf (Inter American Foundation, di derivazione governativa). Hanno anche inviato una richiesta di rimborso entro 15 giorni della parte non spesa della prima rata di circa 40.000 dollari erogata a dicembre». Dovranno pagare un ente che ha chiuso i battenti. «E il taglio – conclude Villa – colpirà centinaia di donne».

Un messaggio contraddittorio da un presidente che ha appena istituito per decreto marzo mese della donna. Non è l’unica contraddizione in questa storia catastrofica. I quattro giudici della Corte Suprema Usa (che avrebbero dovuto prevedibilmente sostenere Trump, ndr) che hanno votato contro il blocco dei tagli di Usaid, passato per un solo voto, sono tutti cattolici dichiarati di nascita e formazione. Come è cattolico (convertito) il vicepresidente Vance, che ha attaccato volgarmente i vescovi americani dopo che la conferenza episcopale Usa ha intentato una causa contro l’amministrazione Trump per la brusca interruzione dei finanziamenti per reinsediare i rifugiati. (dal quotidiano “Avvenire”)

I cattolici americani, aiutati purtroppo anche da un’incauta e provocatoria dichiarazione papale resa in campagna elettorale, si sono scherniti di fronte alla candidatura democratica abortista di Kamala Harris e hanno finito con l’appoggiare l’anti-abortista Donald Trump. E adesso, dopo avere scherzato col fuoco, si leccano le enormi bruciature. Fare confusione tra politica ed etica è estremamente pericoloso e a volte fuorviante. La politica è l’arte del possibile a prescindere dall’integralismo cattolico.

Mia sorella Lucia era implacabilmente severa nei confronti dei cattolici nel loro approccio alla politica: sintetizzava il giudizio con una espressione colorita, esagerata e disinibita come era nel suo carattere. Non andava per il sottile e li definiva “cattolici di merda”. Diffidava degli integralismi cattolici: quello di chi pensa di poter fare politica come si usa fare in sagrestia, bisbigliando calunnie e ostentando un insopportabile e stucchevole perbenismo; quello di chi ritiene di fare peccato scendendo a compromessi e negando quindi il senso stesso della politica per rifugiarsi nella difesa aprioristica, teorica per non dire astratta dei principi religiosi; quello di chi ritiene la politica qualcosa di demoniaco da esorcizzare, lavandosene le mani e finendo col lasciare campo ancor più libero a chi intende la politica come l’arte dei propri affari; quello di chi pensa di coniugare al meglio fede e politica confabulando con i preti, difendendo il potere della Chiesa e assicurandosi succulente fette di consenso elettorale; quello di chi pensa che i cattolici siano i migliori fichi del bigoncio e quindi li ritiene per ciò stesso i più adatti a ricoprire le cariche pubbliche. Così come non sopportava il clericalismo ad oltranza, a rovescio non digeriva i giudizi sommari contro i cattolici investiti di incarichi pubblici; così come non sopportava i bigotti del tempio, non gradiva i bigotti della cellula di partito. Si riteneva una cattolica adulta, capace pur con tutti i suoi limiti e difetti, di discernere in campo politico, senza fare ricorso agli ordini provenienti dal clero, soprattutto quello di alto bordo.

Adesso il pasticcio è stato combinato e ci vorranno anni per rimettere a posto i cocci. Votare a destra è un gravissimo errore anche e soprattutto per i cattolici, privi spesso di senso politico. Diamo pure la colpa alla sinistra incapace di rappresentare le istanze popolari.

Al riguardo considero stupendo, elegante ma giustamente sferzante il giudizio formulato da Massimo D’Alema su Federico Rampini (sempre più insopportabile amico del giaguaro statunitense): molto comprensivo verso la destra americana con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Attaccare la sinistra per finire col giustificare il voto a destra è uno sport estremo. Non voterei a destra nemmeno se la sinistra candidasse un Adolf Hitler. I cattolici americani, al contrario, non hanno esitato a votare per un gruppo di nazisti riveduti e scorretti. E adesso sono anche cazzi nostri!