Prima ridotte a bambole, poi uccise come cagne

L’ultimo episodio di femminicidio, quello per certi versi annunciato e consumato a Milano ai danni di un’avvenente modella, ad opera del suo incontenibile e criminale compagno, ha suscitato in me un senso di fortissimo sgomento e di pietosa impotenza. A quale brutalità può arrivare un uomo, solo per vendicarsi di essere stato abbandonato da una donna a cui era legato non si sa in base a quale rapporto. Come è possibile che una donna nel fiore degli anni venga brutalmente assassinata, solo per avere deciso di interrompere con un uomo non si sa bene quale rapporto.

Dopo avere interiorizzato queste reazioni istintivamente umane è venuto il momento di profonde e serie riflessioni più pacate e razionali sul fenomeno del femminicidio, estremamente delicato, complesso e tragico: ho cercato cioè di collegare cuore e cervello per impegnarmi a capire più che per dare sfogo alla immensa pietà per le vittime e alla richiesta di pene esemplari per i colpevoli.

Tutti si stanno come al solito esercitando col senno di poi: auspicio di tempestive denunce da parte delle donne impaurite in quanto spaventate da minacce persecutorie e da violenze preparatorie; richiesta di interventi puntuali ed efficaci da parte della magistratura e delle forze dell’ordine; attivazione di strumenti sociali a supporto delle donne coinvolte in situazioni di estremo pericolo per la loro incolumità; presa di coscienza del problema a tutti i livelli per rimuovere il macigno del potere machista perdurante, checché se ne dica, nella cultura odierna. Tutte cose sacrosante da mettere in atto e non da enunciare come pianti sul latte versato.

Bisogna però ammettere che il femminicidio avviene nell’ambito di rapporti pseudo-sentimentali in crisi: andando ad esaminare questi rapporti mi sorgono grosse perplessità, mi colpisce quasi sempre la loro estrema superficialità e contraddittorietà. Forse si basano su tutto meno che sul vero amore: opportunismo, avventurismo, sessuomania, ricerca del successo e del piacere a tutti i costi. Si parte cioè col piede sbagliatissimo e si va quasi inevitabilmente a sbattere in una tremenda fiera degli equivoci: la donna si accorge del nulla esistente nel rapporto, si ribella, tenta di liberarsi dal vincolo; l’uomo non riconosce il fallimento del rapporto, fugge dalle proprie responsabilità, si intestardisce nella orgogliosa difesa di una sorta di proprietà privata con cui identifica la donna. La donna resta ferma nelle sue liberanti determinazioni e l’uomo va alle estreme conseguenze omicide.

Ci sono allora tre livelli di intervento. Il primo riguarda le scelte a monte troppo semplicistiche e i conseguenti rapporti troppo vuoti che si vanno ad imbastire. Sul nulla non si può costruire che il nulla e, si badi bene, un nulla che presenta il conto salatissimo del fallimento umano per entrambi i protagonisti. Un rapporto sentimentale è difficile da costruire comunque, figuriamoci se si parte da (quasi) niente, vale a dire dagli egoistici stereotipi consumistici e mediatici della nostra fasulla società.

Guardando la pubblicità e i talk show televisivi, ma anche tutto l’impianto mediatico, si ricava l’immagine della donna oggetto-erotico e dell’uomo-conquistatore: un assurdo e paradossale equilibrio che porta alla rovina.

Ricordo che, molti anni fa, monsignor Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, durante una conferenza all’aula magna dell’Università di Parma, raccontò di avere scandalizzato le suore della sua diocesi esprimendo loro una preferenza verso la stampa pornografica rispetto a certe proposte televisive perbeniste nella forma e subdolamente “sporche” nella sostanza.

Non credo che il profetico vescovo intendesse giustificare la pornografia, ma volesse allargare il discorso a tutta la peste non fermandosi al solo pur grave bubbone pornografico.  In fin dei conti la pornografia pura si sa cos’è e la si prende e combatte per quello che è, mentre è molto più pericoloso, dal punto di vista educativo e culturale, il messaggio nascosto che colpisce quando non te l’aspetti e senza poterlo apertamente contestare.

Alla pedante immagine della donna più o meno angelo del focolare abbiamo sostituito la pesante immagine della donna più o meno bambola gonfiabile; alla deresponsabilizzante figura dell’uomo padrone abbiamo sostituito o sovrapposto quella dell’uomo a cui non si può dire sessualmente di no.

Il secondo livello di intervento è quello dell’educazione alla sessualità e alla corretta impostazione dei rapporti sentimentali: discorso lungo, fatto a monte con seminagione di principi e valori e a valle con verifiche coordinate e continuative. Qui si è creato un corto circuito educativo fra chi ritiene giustamente irrinunciabile e obbligatorio l’inserimento dell’educazione sessuale nei curricula scolastici e chi mena il can per l’aia sostenendo l’opportunità di acquisire comunque preventivamente il parere vincolante delle famiglie. Certo il ruolo delle famiglie è fondamentale, ma non in conflittualità con la scuola: le famiglie facciano le famiglie, la scuola faccia la scuola ed entrambe le istituzioni collaborino fino in fondo senza riserve mentali provenienti dalle solite insulse preoccupazioni pseudo-religiose verso il sesso.

Il terzo è quello degli interventi (pene esemplari, potenziamento delle polizie, impegno della magistratura, etc. etc.) di cui si parla tanto nell’illusione che possano risolvere il problema o quanto meno contenerlo entro limiti accettabili, evitando il peggio del peggio.

La stigmatizzazione di un certo modo di essere maschio non deve illudere che la soluzione del problema passi dalla criminalizzazione generalizzata degli uomini, così come la vittimizzazione delle donne non basta a salvarle dalla violenza consumistica e da quella omicida.

Certo non si può aspettare l’evoluzione culturale delle nuove generazioni prima di intervenire, né si può pretendere la miracolosa conversione di donne e uomini allo sbaraglio.

Ai problemi difficili non si attagliano soluzioni facili. Ecco perché dobbiamo darci una regolata, altrimenti aggiungeremo agli “inevitabili” (?) bagni di sangue delle guerre e degli infortuni sul lavoro anche quello delle donne vittime predestinate di una società sbagliata nei suoi presupposti sentimentali.

 

13 ottobre, la distanza abissale tra Sharm el Sheikh e Fatima

Potrà mai scaturire la pace dal Cesare Augusto dei giorni nostri, Donal Trump, a cui servono solo i numeri per vantare la grandezza dell’Impero mentre le persone vere, col loro corpo e la loro storia, sono solo d’inciampo?

Potrà sortire la pace da una strage di innocenti voluta dall’Erode di oggi, Benjamin Netanyahu, che pensa soltanto ai propri interessi personali e a quelli del suo popolo a costo di uccidere tutti i neonati della Palestina? Una vera volontà di genocidio!

Quanta ipocrisia nel celebrare una insignificante tregua, che prelude ad una finta pace basata sull’ingiustizia delle armi e della forza!

Aggiungo testualmente il commento personale che mi ha trasmesso l’amico Pino in merito alla vomitevole parata internazionale di questi giorni.

“Che vergognosa messa in scena nel Parlamento israeliano…e la stronzetta e Tajani che si mettono in coda…sono pessimista. La pace non si costruisce nella falsità… É vero che, stando alla Scrittura, Dio si può servire di chiunque (compreso Trump) per raggiungere i suoi scopi di pace e di bene. Però i falsari dovranno rispondere del loro comportamento davanti a Dio. Oggi 13 ottobre (apparizioni a Fatima): liberazione degli ostaggi. Uno spiraglio di luce…non è una data casuale…tutta la storia è un continuo opporsi di odio e amore. La salvezza è iniziata attraverso il sì di Maria e l’amore avrà la meglio sull’odio solo attraverso Maria. Questo è per me l’unico segno di speranza in questo 13 ottobre in cui i falsari si sono autocelebrati. Tutti si lavano le mani come Pilato: “non si dichiarano responsabili del sangue dei palestinesi di Gaza e sembrano dire: pensateci voi…”. Ma non solo, si vantano addirittura di avere risparmiato questo sangue. Pazzesco! Il massimo dell’inganno! Invece sono responsabili e noi tutti complici perché per troppo tempo abbiamo taciuto o non pregato…”.

Dopo averli massacrati, ora li prendono “per il culo” con una vergognosa commedia. Come già scritto, ai palestinesi moderati non rimarrà altro che mangiare la minestra degli affaristi arabi compiacenti; ai palestinesi radicali non rimarrà altro che saltare dalla finestra del terrorismo che catturerà inevitabilmente il dissenso.

Nella storia si fronteggiano due date spartiacque: 11 settembre 2001, attentato alle Torri Gemelle, simbolo vivente dell’odio fra le genti; 13 ottobre 1917, ultima apparizione della Madonna a Fatima, invito alla fratellanza universale. Ne conseguono due scelte di campo drastiche ed alternative. In mezzo ci dovrebbe stare la politica con il suo tentativo di superare l’odio istintivo con il dialogo insistente.

Il 13 ottobre 2025 ha segnato purtroppo l’istituzionalizzazione dell’11 settembre, vale a dire il ripiegamento globale della politica sull’odio camuffato da dialogo: forse la più grande mistificazione di tutti i tempi. La diplomazia basata sulla forza sta sbarazzando il campo da quella fondata sul dialogo. E tutti ad applaudire…freneticamente.

Ho ascoltato il presidente Sergio Mattarella nel suo indirizzo di saluto a papa Leone in visita al Quirinale: l’unica voce politica di altissimo livello, seria, leale e coraggiosa, una sorta di contraltare rispetto alle correnti idee governative italiane e straniere. Ne riporto di seguito un significativo passaggio. Meno male che c’è Mattarella…

Il Secondo dopoguerra aveva saputo puntare a un mondo costruito sul multilateralismo, su di un sistema che prevedeva il dialogo per la risoluzione delle controversie. Un sistema che oggi sembra progressivamente accantonato.

Le istituzioni allora sorte appaiono indebolite – talvolta strumentalmente, e irresponsabilmente, delegittimate – e non in grado di incidere con la necessaria efficacia sulle crisi attuali.

Preoccupa il venir meno di meccanismi che costruiscono fiducia tra gli Stati.

In questo scenario, la logica del più forte, la tentazione di fare ricorso alle armi per risolvere una disputa, sembrano talvolta prevalere.

Dignità e diritti di singoli, di gruppi, di popoli sono sovente calpestati.

L’aggressione russa su larga scala in Ucraina, a distanza di quasi quattro anni, continua a mietere vittime civili innumerevoli, a seminare morte e distruzione, a gettare una inquietante ombra di insicurezza sull’intero continente europeo.

In Medio Oriente, alla ferita atroce dell’attacco terroristico del 7 ottobre 2023, ha fatto seguito una reazione che ha superato non soltanto criteri di proporzionalità, ma anche i confini di umanità.

Oggi c’è “una scintilla di speranza” – come Vostra Santità ha rimarcato – che va sostenuta con convinzione.

La liberazione degli ostaggi rimasti in vita è di grande valore e coinvolge quanti hanno a cuore civiltà e dignità delle persone, rivolgendo un pensiero a quanti sono morti in quella crudele condizione di prigionia.

Il cessate il fuoco a Gaza consente di iniziare a porre riparo a quella popolazione, così provata da brutale sofferenza.

Ci auguriamo che il negoziato in atto sulle tappe successive si concluda positivamente e conduca, al più presto, a un’interruzione definitiva delle ostilità e delle violenze nella Striscia, a beneficio anche della generale stabilità del Medio Oriente e della condizione dei Luoghi Santi, per rilanciare la soluzione di uno Stato per ciascuno dei due popoli, la sola in grado di consentire la possibilità di un futuro in cui tutti – Israele e Palestina – trovino pace e sicurezza.     

Vorrei riaffermare che la pace vera, duratura, risiede nell’animo dei popoli. Diversamente, sotto la cenere della fine delle violenze cova il rancore, pronto a divampare nuovamente alla prima occasione che possa essere sfruttata, per rendersi conto allora che la fine delle violenze si trasforma, purtroppo, in una parentesi tra due esplosioni.

Ucraina e Medio Oriente sono soltanto due dei principali scenari di guerra, quelli a noi più vicini.

Il numero dei conflitti e delle crisi umanitarie in corso è purtroppo più alto, come Vostra Santità più volte ci ha ricordato.

Anzi, di fronte a tanta efferatezza un rischio che non possiamo sottovalutare è che – accanto ai tanti che si sentono chiamati all’opera di costruire la pace – parte dell’opinione pubblica rimanga come assuefatta, che la sofferenza di milioni di esseri umani non scuota più le coscienze.

Non aspiriamo soltanto a una interruzione nelle violenze: non possiamo sentircene appagati. Aspiriamo a una condizione che faccia riprendere ai popoli uno stabile percorso di pace e di collaborazione nella vita del mondo.

A fare le spese di un mondo nel quale la convivenza pacifica è messa così in pericolo, sono sempre i più vulnerabili, soprattutto bambini e giovani. Non è accettabile che venga sottratto il futuro a intere generazioni.

Spesso a pagare un prezzo alto nelle guerre sono le comunità cristiane, prese di mira per il ruolo di stabilizzazione e di moderazione che tradizionalmente esercitano, in particolare nel Vicino Oriente.

È un quadro allarmante, Santità, che contrasta con le aspirazioni dei cittadini di ogni popolo. I suoi riflessi non risparmiano neppure le nostre società, alle prese con frequenti fenomeni di polarizzazione, di integralismo, di emarginazione dei poveri e degli svantaggiati.

La minaccia terroristica è più che mai dietro l’angolo e si propone persino come catarsi psicoanalitica. La vera pace è di là da venire e cede il posto a brevi ed illusorie pause belliche spacciate per grandi conquiste umanitarie. Alla forza della pace si sostituisce la pace attraverso la forza (il bello è che ci crediamo!). I superbi trovano il modo di accordarsi e dettare legge con i loro pensieri.  I potenti si assolvono a vicenda e restano ben saldi sui loro troni. I diritti dei deboli vengono sistematicamente calpestati. Gli umili vengono ingannati.  Gli affamati vengono uccisi. A Sharm el Sheikh abbiamo varato un transatlantico su cui ballare e sprofondare insieme felici e contenti.  Verrà un giorno!?

 

 

 

 

E le chiamano gaffes

Le “gite” ad Auschwitz di Roccella e la giusta indignazione di Liliana Segre. Quando ieri ho sentito la dichiarazione della ministra Eugenia Roccella sui viaggi della memoria delle scuole ad Auschwitz mi sono interrogata su come trovare le parole giuste per commentarla. Poi mi è venuta in soccorso la senatrice a vita Liliana Segre: “Stento a credere che una ministra della Repubblica, dopo avere definito “gite” i viaggi di istruzione ad Auschwitz, possa avere detto che sono stati incoraggiati per incentivare l’antifascismo. Quale sarebbe la colpa?”, ha chiesto la senatrice. Per poi concludere con una frase durissima e sacrosanta: “La memoria della verità storica fa male solo a chi conserva scheletri negli armadi”. (“La Stampa” – Francesca Schianchi)

***

“Ringraziamo il popolo italiano per la solidarietà col popolo palestinese e per le manifestazioni, non il governo italiano. Non ci strumentalizzate”. Con un video su Instagram il Gaza skate team replica ad Antonio Tajani che aveva ricondiviso un loro video affermando che si trattava di un segno di riconoscenza al governo per quello che aveva fatto per Gaza. Si tratta del video nel quale un bambino palestinese, in braccio a un altro ragazzo sui roller, sventola la bandiera palestinese accanto a quella italiana. A postarlo sono stati proprio i ragazzi del team di Gaza City.

“Abbiamo già condiviso video di ringraziamento ai nostri amici italiani e ai loro connazionali per la loro solidarietà. Tuttavia, è un peccato che alcuni stiano utilizzando i nostri video in un contesto diverso”, scrive il profilo gaza_skate_team. “Questo messaggio è per il ministro Antonio Tajani che pensava che quella bandiera italiana fosse per ringraziare il governo, di cosa poi? Del suo ruolo attivo nel supporto del genocidio nei confronti della popolazione di Gaza? Ovviamente il @gaza_skate_team ringrazia gli italiani che hanno protestato e scioperato in solidarietà con la Palestina”, sottolineano dal profilo gazafreestylefestival. (“Il Fatto Quotidiano)

É il caso di dire che una gaffe tira l’altra. In realtà non sono gaffes, sono dichiarazioni politiche false e strumentali. La prima, quella di Eugenia Roccella è ideologica, la seconda, quella di Tajani è opportunistica.

Se anche l’unico obiettivo dei viaggi studenteschi ad Auschwitz fosse l’incentivazione dell’antifascismo, sarebbero comunque da considerare lodevoli ed opportuni; a maggior ragione se volessero dimostrare che fascismo e sterminio degli ebrei furono in collegamento ideologico e politico. Se poi avessero la conseguenza di fomentare antisemitismo, a questo ci ha già pensato la dissennata politica del governo israeliano con tanto di genocidio palestinese.  Roccella dimostra di essere una cattolica del piffero in prestito ad un governo del cazzo.

Tajani non manca occasione per sfoderare un penoso protagonismo per distinguersi dagli scomodi alleati di governo. La politica estera italiana non è mai stata così insulsa ed insignificante come da quando c’è lui alla Farnesina. Adesso vuole appropriarsi di meriti per l’appoggio alla causa palestinese. Ma questo signore crede che Berlusconi possa ancora funzionare da specchietto per le allodole?

Vorrei capire cosa ne pensano gli italiani. Molto semplice: non pensano! O meglio, non votano e, se votano, lo fanno prevalentemente col sedere.

L’immagine del governo tuttavia non ne esce bene. Giorgia Meloni forse ha da preoccuparsi di una simile compagnia di giro: si è ormai abituata e può comunque consolarsi a livello internazionale (è quel che sta facendo da quando è premier).

Vertice Sharm, Trump a Meloni: “Lei è bellissima, non se la prende se lo dico vero?”. “Abbiamo qui una giovane donna. Non mi sarebbe permesso dirlo – negli Stati Uniti, di solito, è la fine della carriera se lo fai – ma correrò il rischio: è una donna giovane e bellissima. Voleva essere qui, è incredibile. In Italia è una politica di grande successo. Non le dispiace se dico che sei bellissima? Perché lo sei davvero”. Così il presidente americano Donald Trump, rivolgendosi alla premier italiana Giorgia Meloni a margine del summit sulla pace in Medio Oriente.

Questo, di per sé innocuo e futile, siparietto la dice molto lunga sul piano del discorso politico, ridotto ai brandelli di una falsa e penosa umanità. Giorgia Meloni si sarà sicuramente sentita lusingata, fingendo di non capire che lo spazio politico che Trump concede ai suoi interlocutori è questo: i complimenti a Netanyahu per l’efficienza con cui sbatte fuori dalla Knesset una persona dissenziente (lo si è visto fare recentemente in Cina); i complimenti ad Al Sisi per la sua battaglia alla criminalità (omicidio Regeni permettendo); i complimenti a Giorgia Meloni per la sua avvenenza fisica (non è il caso di metterla in discussione per obbligatoria galanteria). Un tempo si sarebbero chiamate gaffes, oggi sono genialate trumpiane.

Agli albori della campagna elettorale statunitense, quando sembrava profilarsi lo scontro fra Biden e Trump, il noto giornalista Federico Rampini affermò come si stesse per assistere alla battaglia fra un deficiente e un delinquente. Sappiamo come andò a finire: ha vinto un delinquente che è anche un deficiente.

Mia zia Carina (di nome e di fatto), rientrando a casa dopo un breve giretto in centro per un caffè da Otello (storico bar di piazza Garibaldi), millantava con sua madre (mia nonna) i complimenti ricevuti: «Sät mama chi m’an dìtt cä son ‘na béla dònna…». Al che mia nonna, donna molto austera al limite della scontrosità, rispondeva causticamente: «T’ani dìtt ànca cat si ‘na stuppida?».

Ho sempre odiato il gossip ritenendolo un divertimento innocuo per cittadini scemi. Ebbene devo ricredermi: per liberarmi dalla pena governativa italiana e dall’asfissiante morsa trumpiana serve anche quello.

 

 

 

 

 

 

 

Sulle sponde di un mare Rosso di vergogna e di sangue

Se Benjamin Netanyahu aveva perso la faccia e smarrita la coscienza da parecchio tempo, Donald Trump ha gettato finalmente le maschere etica e politica: la pace dipende dalla forza e dagli affari. Una simile cruda, programmatica e spudorata ammissione di cinismo non ha forse confronti nella storia. Così come (di)mostrare la propria funzione di mediatore unilaterale mette la parola fine su qualsiasi prospettiva di ripristino dell’ordine internazionale multilaterale.

Altro che pace, questa si chiama conflittualità latente permanente a cui bellamente rassegnarsi. In questo sconfortante quadro rimane solo un’Europa piuttosto defilata a cui assegnare le residue speranze per un assetto mondiale un po’ diverso.  Se finora era da stigmatizzare l’assenza diplomatica europea, ora che i giochi si stanno facendo scopertamente sporchi, l’irrilevanza potrebbe diventare un elemento prospettico di riscatto.

Siamo ridotti al lumicino delle speranze: nella saga dei potenti-delinquenti, la presenza dei potenti-balbettanti potrebbe fare paradossalmente gioco. Lo capiranno i leader europei o preferiranno leccare più o meno convintamente il culo a Trump, lasciandogli il monopolio del dialogo con cani e porci a trecentosessanta gradi.

I palestinesi moderati si faranno spalleggiare dagli affaristi arabi compiacenti e, a maggior ragione, i palestinesi radicali non avranno altra possibilità di dissenso rispetto al terrorismo. L’odio sarà il leitmotiv di pace e guerra che pari saranno.

Una vomitevole ritualità come quella andata in scena alla Knesset, quale preludio al vergognoso, indegno e surreale balletto-passerella di Sharm el-Sheikh, sarà il connotato di una giornata da cancellare dalla memoria storica.

 

 

 

Tra opportunistico revisionismo e sfigato idealismo

É il momento, forse, di cominciare a rivedere alcuni pregiudizi sulla politica estera di Trump. (“Corriere della sera” – Federico Rampini)

Non ho alcuna intenzione di procedere a questa revisione consigliata dall’illustre giornalista e politologo. Non trovo in Trump alcun valore degno di tale nome e quindi non posso onestamente concedergli alcun beneficio di inventario.

C’è un detto dialettale parmigiano piuttosto scurrile, ma molto efficace: “Co’ vôt preténdor da ‘n cul ‘na romanza?”. Da Trump non posso aspettarmi niente di buono. Lascio agli americani il compito di cavar sangue da una rapa.

A proposito è passata alla recente storia la frase shock di Trump: “Tutti in fila per baciarmi il culo”. Io mi smarco categoricamente e radicalmente da tale fila.

Ci sono personaggi completamente al di fuori della mia mentalità e della mia coscienza, che per me non esistono e che quindi non posso prendere in considerazione indipendentemente dai risultati della loro azione.

Al riguardo c’è un altro modo di dire parmigiano che recita: “Tutt i mat i gan la sò virtù”. Io preferisco quello che dice: “Chi schiva ‘n mat fa ‘na bón’na giornäda”.

Stiamo bene attenti a non concedere credito a chi non lo merita. Lascio alla storia il giudizio. Per parte mia temo che Donald Trump non possa che vendere illusioni: la sua pace presto o tardi si rivelerà tale e ci ritroveremo daccapo. Mi auguro di sbagliarmi, ma la pace costruita sulla sabbia è destinata a crollare.

La Veglia di preghiera in piazza san Pietro si tiene a pochi giorni dall’accordo fra Israele e Hamas sul cessate il fuoco a Gaza. Leone XIV elogia gli «operatori di pace». E dice: «Coraggio, avanti, in cammino, voi che costruite le condizioni per un futuro di pace, nella giustizia e nel perdono; siate miti e determinati, non lasciatevi cadere le braccia. La pace è un cammino e Dio cammina con voi. Il Signore crea e diffonde la pace attraverso i suoi amici pacificati nel cuore, che diventano a loro volta pacificatori, strumenti della sua pace». (dal quotidiano “Avvenire”)

Lungi da me fare le pulci al Papa, ma spero che Leone XIV, nel suo meraviglioso intervento sul tema della pace, non abbia inteso fare riferimento a Trump, considerandolo un operatore di pace ed elogiandolo come tale. Diversamente mi cadrebbero le braccia… Attenzione ai tranelli…

Così quella pace che il Maestro ha dato «non come la dà il mondo» (Gv 14,27) va a contrastare e contestare quella di Ottaviano il quale veniva chiamato anch’egli il “Salvatore”. Ma che agiva una pace guerriera, non certo «disarmata e disarmante». La stessa che va di moda oggi, quel tacitiano “fare deserto e chiamarlo pace” che molti Paesi europei – tra cui il nostro – hanno sinora appoggiato e continuano a preparare con una neo-corsa agli armamenti per la neo “guerra giusta”. Sulla quale, però, issare la bandiera del Vangelo sarebbe un atto blasfemo. (“Rosanna Virgili – “Avvenire”)

Chiedo scusa a Rosanna Virgili, scrittrice e biblista, se mi permetto di parafrasare alcuni ulteriori passaggi del suo stupendo pezzo pubblicato su “Avvenire”: uno squarcio di verità evangelica nel piattume della falsità politica.

Potrà mai scaturire la pace dal Cesare Augusto dei giorni nostri, Donal Trump, a cui servono solo i numeri per vantare la grandezza dell’Impero mentre le persone vere, col loro corpo e la loro storia, sono solo d’inciampo?

Potrà sortire la pace da una strage di innocenti voluta dall’Erode di oggi, Benjamin Netanyahu, che pensa soltanto ai propri interessi personali e a quelli del suo popolo a costo di uccidere tutti i neonati della Palestina? Una vera volontà di genocidio! 

Quanta ipocrisia nel celebrare una insignificante tregua, che prelude ad una finta pace basata sull’ingiustizia delle armi e della forza! Per amor di Dio, il Papa non si unisca, seppure involontariamente ed in assoluta buona fede, a questo vomitevole coro.

La speranza è più forte dei fatti, li contesta e li attraversa. Non è la fede che si piega alla storia, è la storia che si piega alla speranza. (padre Ermes Ronchi)

Nell’esercitare la virtù della speranza occorre però discernere, altrimenti la speranza diventa colpevole illusione.

Consentitemi di alleggerire il discorso riportando un piccolo episodio, capitatomi tempo fa davanti al video, vale a dire l’ascolto di una delle solite vuote interviste propinate ai fanatici del pallone. Parla il nuovo allenatore di una squadra, non ricordo e non ha importanza quale, che ottiene subito una vittoria ribaltando i risultati fin lì raggiunti. L’intervistatore chiede il segreto di questo repentino e positivo cambiamento e l’allenatore risponde: “Sa, negli spogliatoi ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che dovevamo vincere”. Non ci voleva altro per scatenare la furia ironica di mio padre che, scoppiando a ridere, soggiunse: “A s’ capìssa, l’alenadór äd prìmma, inveci, ai zugadór al ghe dzäva äd perdor”.

Tutto chiaro sui miracoli di Trump? Mi sembra proprio di sì. I politici padri eterni, che credono solo in se stessi, sono serviti; i politici sfigati, che credono in certi valori, si sentiranno risollevati. Quanto ai giornalisti revisionisti…

Massimo D’Alema si è ironicamente pronunciato su Federico Rampini e il suo pensiero sulla deriva trumpiana statunitense con una battuta di quelle che mettono knock out: “L’età lo rende molto indulgente verso la destra, io sono ancorato agli ideali della mia gioventù…”.

 

Il Nobel per la Pace…degli equilibrismi

Un boccone amaro. Ma non amarissimo. A Donald Trump non avrà fatto piacere vedersi scippato il premio Nobel che ha più volte, pubblicamente, rivendicato. Lo ha dimostrato il commento piccato al Comitato di Oslo: «Mette la politica al di sopra della pace», ha detto capo della comunicazione della Casa Bianca, Steven Cheung.

Il fatto che quest’ultimo abbia designato, al suo posto, la “pasionaria” venezuelana María Corina Machado, deve avere, almeno un po’, alleviato il malumore. La “nemica numero 1” del defunto Hugo Chávez prima e di Nicolás Maduro, poi, non ha mai nascosto i legami stretti con il Partito repubblicano Usa creati fin dalla presidenza di George W. Bush. Tra i principali sostenitori della sua candidatura al prestigioso riconoscimento figura l’attuale segretario di Stato, Marco Rubio.

Quando era ancora senatore, l’anno scorso, insieme al collega Rick Scott e altri rappresentanti conservatori, aveva sottoscritto una lettera all’organismo norvegese sottolineando gli sforzi compiuti dall’economista e leader politica per una transizione democratica a Caracas, nonostante la repressione del governo. Quest’anno, in un’intervista al Time, ha definito Corina Machado la «personificazione della resilienza, della tenacia, del patriottismo». Nessuno può negare la risolutezza della donna che a 44 anni, appena eletta all’Assemblea nazionale, interruppe un allora popolarissimo Chávez per dirgli: «Come può dire di rispettare il settore privato, se lo espropria di tutto?».

La risposta, sprezzante del caudillo, s’è rivelata una profezia: «Prima di parlare vinca le primarie. Le aquile non cacciano le mosche». Dodici anni dopo, Machado avrebbe stravinto la nomination dell’opposizione con il 95 per cento dei voti, costringendo Maduro a ricorrere ai giudici per farla fuori dalle ultime presidenziali. E a “ritoccare” i risultati comunque favorevoli al sostituto, Edmondo González Urrutia. Da allora quest’ultimo vive in esilio in Spagna e Machado in clandestinità.

La persecuzione feroce di cui è vittima, insieme al resto del dissenso, non cancella alcune prese di posizioni controverse della “lady di ferro” latinoamericana, come la chiamano. Contraria ad ogni trattativa con la “dittatura chavista”, ha invocato l’impiego della forza per destituire Maduro e ha definito gli altri partiti oppositori e i loro rappresentanti, a partire da Henrique Capriles, «collaborazionisti». A lungo “ai margini” perché considerata troppo estrema, la sua leadership è esplosa nel 2024 quando, con il suo stile aggressivo, le venature populiste, i toni veementi è riuscita a risvegliare l’entusiasmo di un popolo ormai disilluso.

Il Nobel a Machado si inserisce, però, in una partita geopolitica più complessa in corso alla Casa Bianca. Come un’inchiesta del New York Times ha rivelato, negli ultimi mesi, a dispetto della retorica incendiaria, ci sono state intense trattative segrete tra i delegati di Caracas e l’inviato speciale di Trump, Richard Grenell. In cambio della distensione, Maduro ha offerto a Washington una partecipazione dominante nella gestione del petrolio e delle altre risorse minerali nazionali, arrivando addirittura a ridurre drasticamente le forniture a Cina, Iran e Russia.

Una linea ferocemente osteggiata da Rubio, principale supporter di Machado. Proprio quest’ultima, attraverso la consigliera economica, Sary Levy, ha presentato una controproposta in caso di appoggio dell’Amministrazione a un cambio di regime, con incluso un redditizio contratto 1,7 miliardi di dollari. Forse è una coincidenza, ma al momento i negoziati tra Grenell e Machado sarebbero momentaneamente in stallo. Ora il Nobel segna un nuovo punto a favore della “lady di ferro”. Orgoglio del tycoon permettendo. (“Avvenire” – Lucia Capuzzi)

Appena il tempo di tirare un respiro di sollievo per lo scampato pericolo culturale di un’eventuale paradossale assegnazione del premio Nobel per la Pace a Donald Trump ed ecco spuntare dal cappello geo-politico il profilo filo-trumpiano del coniglio machadiano.

Non so se si tratti solo di una spruzzata di prezzemolo statunitense sul piatto venezuelano di Maria Corina Machado: me lo auguro! Fatto sta che sta prendendo sempre più piede il proverbio del “non si muove foglia che Trump non voglia”.

Possibile che il mondo giri attorno a questo squallido personaggio. Si dirà che è sempre stato così: il potere americano ha connotato il mondo più nel male plutocratico che nel bene democratico. Credo però che un’invadenza subdola deleteria come quella attuale non abbia precedenti storici.

Ci sono due modi per reagire a questo andazzo geopolitico: uno dovrebbe consistere nel risveglio delle coscienze delle persone che dovrebbero rifiutare una visione etica verticistica ed egoistica basata sulla forza nei rapporti e negli assetti umani; uno dovrebbe risiedere nel ritorno ad uno stile multilaterale nella cooperazione tra gli Stati, basato su principi e norme condivisi, garantiti dal diritto internazionale, ed atto a promuovere la pace, la stabilità e lo sviluppo globale.

Non sono talmente ingenuo da pensare che l’assegnazione del premio Nobel per la Pace possa prescindere dagli equilibri geopolitici esistenti, ma fino ad ora mi illudevo che potesse rappresentare una dinamica provocazione sbattuta in faccia ai potenti: in certi casi la è stata eccome. Oggi la piccionaia del potere è talmente impenetrabile da riuscire a respingere ogni e qualsiasi sasso etico e culturale.

Come sostiene acutamente Massimo D’Alema siamo passati dalla ricerca degli equilibri basati sugli interessi mediati in qualche modo a livello internazionale alla schizofrenia degli egoismi nazionali in totale libera uscita. Anche le ipotetiche voci dissenzienti potenzialmente più autorevoli vengono preventivamente fagocitate e successivamente inglobate nel sistematico caos.

Quante volte si era detto che l’unica voce veramente in controtendenza a livello mondiale era quella di papa Francesco. Vivo nel terrore che anche papa Leone sia stato preventivamente scelto e sia successivamente risucchiato e relegato nel gioco diplomatico del vogliamoci bene. Dopo di che…ci resta il diluvio…

 

La Speranza nella Pace nonostante Trump

In questi giorni quante volte ci si è chiesto cosa sarebbe andato storto, quali sarebbero state le trappole, gli inciampi e le provocazioni che avrebbero fatto deragliare per l’ennesima volta le trattative per un cessate il fuoco a Gaza, facendo continuare la strage indicibile di donne, bambini e uomini palestinesi e protraendo la lunghissima prigionia degli ostaggi israeliani ancora vivi. E invece, a dispetto di ogni dubbio, abbiamo la firma per un cessate il fuoco che rappresenta il primo passo – solo il primo fra i tanti necessari – per arrivare a una pace stabile in Medio Oriente. E lo dobbiamo soprattutto alla volontà dell’attore più improbabile, a cui si dava poco o nessun credito: il presidente statunitense Donald Trump, il quale ha quasi letteralmente costretto il governo di ultra-destra israeliano a fermare il suo esercito, andando a stanare i leader dei Paesi arabi e islamici che in questi due anni, con poche eccezioni, si erano nascosti dietro una cortina di prudenza e di dichiarazioni formali.

Poco conta se la spinta per Trump ad agire e a volere a tutti costi la fine della guerra viene non sia venuta tanto dalle sofferenze degli abitanti di Gaza, quanto dalla sua voglia irrefrenabile di ricevere il Nobel per la Pace; a cui si è aggiunta l’irritazione seguita al folle bombardamento della capitale del Qatar da parte di Israele, che ha umiliato un alleato fondamentale per gli Usa e un partner per gli affari privati della sua famiglia. Ma quale che sia la motivazione, è assolutamente evidente che senza Trump non si sarebbe firmato questo accordo. (“Avvenire” – Riccardo Redaelli)

***

C’è un piano per la tregua. «E sono già pronti a sabotarlo». C’è un progetto per la pace duratura, «e faranno di tutto per non raggiungerla». Non accettano rilievi, perché «per loro chiunque contesta è un antisemita o alimenta l’antisemitismo». Anche il Papa, che invece «ha tutto il diritto di criticare Israele». Ehud Olmert non è quel che in politica si definisce “una colomba”.  Da fondatore del Likud, il partito di cui si è impadronito Netanyahu e dal quale è uscito per fondare Kadima, a vocazione centrista, resta una spina nel fianco del governo. Per una decina d’anni sindaco di Gerusalemme, propose di rinunciare alla giurisdizione sulla Città Vecchia per affidarla a un organismo internazionale. E da premier fu il più vicino, nel 2008, all’accordo per tramutare in realtà il progetto dei “due popoli e due Stati”. Lo raggiungiamo dopo una serie di precauzioni di sicurezza, ma una volta nel suo ufficio a Tel Aviv, fresco dei suoi 80 anni indossati con il consueto smalto, ha voglia di parlare di sogni, più che di ricordi.  

A questo punto dipenderà tutto da una sola una persona: Donald J. Trump. Se smetterà di dire le solite fesserie e si decide a sbattere i pugni sul tavolo, allora avremo un accordo. Dipende da lui. (“Avvenire” – Intervista all’ex premier israeliano Ehud Olmert)

“Sperànsa di mälvestì ca fâga un bón invèron”. MI sembra di poter sintetizzare così il pur comprensibile entusiasmo per la tregua che sembra raggiunta in ordine al conflitto-massacro-genocidio scatenato da Israele contro i palestinesi della striscia di Gaza, quale vendetta verso lo sciagurato atto terroristico di Hamas del 07 ottobre 2023.

Finalmente qualcuno ha messo alle strette il governo israeliano? Quale pace può scaturire dal trono di un potente che gioca spregiudicatamente sullo scacchiere internazionale? La realpolitik trumpiana potrà mai instradare seri percorsi di pace in assenza di giustizia fra i popoli?

Non voglio gufare, ma non ho alcuna speranza se non cambiano gli attori della scena internazionale: Trump aveva bisogno di un successo diplomatico (?) da sbandierare e (quasi) tutti ci stanno cascando (fortunatamente il Nobel per la Pace se lo è sognato…); Netanyahu stava esagerando seminando, tra l’altro, a piene mani l’antisemitismo; i Paesi arabi se la facevano sotto; i leader europei, come afferma l’ex premier israeliano Olmert, dopo il 7 ottobre 2023 hanno detto che Israele aveva pieno diritto di colpire i capi di Hamas, di ucciderli e distruggere Hamas senza considerare i “danni collaterali”, che hanno fatto loro letteralmente perdere la faccia e impacciare la coscienza.

Non ho idea degli sviluppi che potrà avere la situazione tra le contagiose sbruffonate di Trump e l’obtorto collo terroristico di Hamas, tra i sospiri di sollievo filo-trumpiani e il reciproco odio israelo-palestinese sempre più in agguato, tra sabotaggi e ripicche, tra vendette pseudo-religiose e aiuti pseudo-umanitari.

L’ora dello sconforto è l’ora di Dio. Non ci sono più speranze? Quindi è l’ora della Speranza…Finché si hanno ragioni si conta sulla ragione. Pessimismo e disfattismo sono di moda. Persino i cristiani vedono tutto nero, il che è la negazione stessa del cristianesimo: il cristiano non è autentico se non è un uomo di speranza.

“Spes contra spem” è una locuzione latina che significa “speranza contro speranza”. Si riferisce a un tipo di speranza che persiste anche quando tutto sembra perduto e deriva da un passo della Lettera ai Romani di San Paolo.

Vale anche per me, così portato al ragionato catastrofismo. D’altra parte come posso fare ad avere fiducia in un mondo gestito da delinquenti e criminali di stato e dai loro sottopancia internazionali? Il mondo però non è nelle mani di Donald Trump, l’Europa non è nelle mani di Ursula von del Leyen, l’Italia non è nelle mani di Giorgia Meloni, ma in quelle di Dio.

Ricordo come Giovanni Bianchi, ex presidente delle Acli ed esponente democristiano, dicesse che la forza della Chiesa verso la pace non sta tanto nella diplomazia vaticana, ma nelle preghiere delle vecchiette che sgranano il rosario e pregano per la pace senza sapere chi siano Putin, Biden, Trump, etc. etc.

Molto probabilmente la pur futile tregua entrata in vigore non è frutto degli accordi tra un delinquente (Trump) e un criminale (Netanyahu), ma delle preghiere delle vecchiette di cui sopra.

Mi sto sempre più convincendo che sia giunta l’ora di lasciare gli schemi tradizionali della politica per impegnarsi in altro modo: partire dal Vangelo, pregare sul Vangelo, testimoniare l’amore evangelico, guardare alle persone, aiutare chi soffre, allacciare rapporti di bene, valorizzare al massimo le nostre esperienze umane. Le scelte politiche verranno di conseguenza.

In questo periodo ho iniziato a recitare una o più volte al giorno la seguente preghiera suggerita dal cardinal Zuppi: “Signore, che ci hai creati e ci chiami a vivere da fratelli, che vieni sulla terra per portare luce nelle tenebre, dona al mondo la pace. Donaci la forza per essere ogni giorno artigiani della pace. Donaci la capacità di guardare con benevolenza tutti i fratelli che incontriamo sul nostro cammino. Infondi in noi il coraggio di compiere gesti concreti per costruire la pace. Amen”.

É vero che, come sosteneva Paolo VI, la politica è la più alta forma di carità, ma, se prescinde dalla carità, come succede per la gran parte della politica attuale, deve ripartire dalla carità per trovare in se stessa la nobiltà dei suoi scopi e la serietà delle sue procedure.

Giorgio La Pira è stato un grande testimone della politica coniugata col Vangelo e viceversa.

Qualche tempo fa ho avuto un lungo colloquio col mio carissimo amico Pino, che mi ha letto alcuni passaggi di una lettera inviata da De Gasperi alla moglie quando era in carcere e soffriva l’isolamento da parte del regime fascista: ad un certo punto Pino si è commosso e ha interrotto per qualche secondo la lettura.

Sapremo ritrovare qualcosa dell’eredità che ci hanno lasciato questi grandi personaggi o continueremo a girare a vuoto aspettando i miracoli di Trump e…Meloni?

 

 

 

 

Un senso critico a prova di papa

L’unità, secondo Papa Leone, è il segno della presenza dello Spirito. Superare le divisioni, ha affermato, è di fatto un dono e un modo per capire che quello che si fa viene da Dio, un vero e proprio «criterio di verifica» del lavoro svolto. Citando sant’Agostino, infatti, Leone XIV ha notato che «come gli uomini spirituali godono dell’unità, quelli carnali cercano sempre i contrasti» (Papa Leone XIV al capitolo degli Agostiniani).

 

«Per favore, che nelle vostre comunità mai ci sia indifferenza. Comportatevi da uomini. Se sorgono discussioni o diversità di opinioni, non vi preoccupate, meglio il calore della discussione che la freddezza dell’indifferenza, vero sepolcro della carità fraterna» (Papa Francesco, udienza ai sacerdoti del movimento di Schönstatt).

 

La continuità non doveva essere l’imperativo irrinunciabile della Chiesa post-bergogliana? Se qualcuno trova nelle pur sintetiche proposizioni pastorali di cui sopra concordanza è molto bravo, io non ci riesco e quindi…sono preoccupato dell’aria nuova (?) che tira nella Chiesa cattolica.

Quando a mio padre rimproveravano di essere esageratamente permaloso di fronte a certe espressioni, era solito affermare convintamente: «L’ è al tón ch’a fà la muzica…».

Il tono prevostiano, checché se ne dica, è molto diverso da quello bergogliano. Niente di male! Però non mi si voglia far credere che tra i due papati c’è continuità.

E siamo solo agli inizi, il bello deve ancora venire. Fintanto che si resta nelle dichiarazioni di principio, come ad esempio il discorso della pace, tutto torna a livello di continuità, se invece si scende nella prassi e nello stile pastorali le differenze sono evidenti. Negarle è il solito escamotage clericale.

Ut unum sint, d’accordo, ma stiamo bene attenti a non confondere le diversità con le anticamere dell’eresia. La storia della Chiesa insegna a mio giudizio che l’intolleranza per le opinioni difformi dal dettato della tradizione e del dogmatismo ha creato guasti irreparabili.

Mia sorella Lucia mi ha fatto da battistrada e da esempio sulla via della partecipazione convinta ma critica alla vita ecclesiale. È per me un insegnamento irrinunciabile, a prova di papa. Il senso critico ce l’ho nel sangue, probabilmente proviene da mio padre: avere delle idee in controtendenza è comunque sempre meglio che non averne e appiattirsi sulle minestre che passa il convento.

Pertanto gli appelli all’unità di papa Leone non li spedisco al mittente, ma li prendo con le molle e li valuto con senso critico. Se l’unità è un segno dello Spirito, credo che sia tale anche la capacità di critica costruttiva ma decisa.

Da bambino ho chiesto ripetutamente a mio padre di darmi alcuni ragguagli su cosa fosse stato il fascismo. Tra i tanti me ne diede uno molto semplice e colorito. Se c’era da scegliere una persona per ricoprire un importante incarico pubblico, prendevano anche il più analfabeta e tonto dei bottegai (con tutto il rispetto per la categoria), purché avesse in tasca la tessera del fascio e ubbidisse agli ordini del federale di turno. «N’ éra basta ch’al gaviss la tésra in sacòsa, po’ al podäva ésor ànca un stupidd, ansi s’ l’ éra un stuppid, ancòrra méj…». A quel punto chiesi: «E tu papa, ce l’avevi quella tessera lì?». «Ah no po’!» mi rispose seccamente.

Mia madre, donna di fede rocciosa, non aveva mai voluto aderire ad alcuna associazione cattolica per paura di perdere la fede. Non gradiva tessere di appartenenza religiosa, le bastava il certificato di Battesimo e il certificato anagrafico che la legava al fratello sacerdote: al resto pensava lei con saggezza e carità.

Con questi precedenti famigliari non c’è papa che tenga, mi sento in diritto di assentire o dissentire liberamente dalla linea ufficiale della Chiesa e quindi non sono d’accordo con Leone XIV, che sembra buttare il bambino del confronto assieme all’acqua sporca del conflitto. D’altra parte è molto difficile tracciare una linea di confine tra confronto e conflitto…

 

 

 

 

 

La macchia indelebile del sangue dei bambini palestinesi.

La premier Giorgia Meloni ha detto di essere stata denunciata per “concorso in genocidio” alla Corte penale internazionale dell’Aja insieme al ministro degli Esteri Antonio Tajani, a quello della Difesa Guido Crosetto, e all’ad di Leonardo Roberto Cingolani. La denuncia è arrivata per il ruolo che l’Italia avrebbe svolto nella fornitura di armi a Israele e con cui si sarebbe reso complice dei crimini contro il popolo palestinese. Il premier israeliano Netanyahu e il suo ministro alla Difesa Gallant, invece, non hanno mai ricevuto l’accusa specifica di genocidio.

Giorgia Meloni ha parlato di questa accusa in una puntata di Porta a Porta, su Rai 1, con Bruno Vespa.

“Io, il ministro Crosetto, il ministro Tajani, e credo l’amministratore delegato di Leonardo Roberto Cingolani, siamo stati denunciati alla Corte penale internazionale per concorso in genocidio “, ha detto la presidente del Consiglio.

Giorgia Meloni ha poi commentato: “Ora io credo che non esista un altro caso al mondo e nella storia di una denuncia del genere”.

La denuncia di cui parla Giorgia Meloni è datata 01 ottobre e, come riporta l’agenzia di stampa AFP, è stata firmata da circa 50 persone, tra cui professori di giurisprudenza, avvocati e diverse personalità pubbliche.

Le personalità che hanno firmato la denuncia, hanno accusato la Meloni e altri politici di complicità nella fornitura di armi a Israele. In particolare, secondo i firmatari, il governo italiano si sarebbe “reso complice del genocidio in corso e dei crimini di guerra e contro l’umanità contro il popolo palestinese”.

Se sul governo italiano c’è un’accusa di complicità al genocidio, su quello israeliano paradossalmente no. Infatti è vero che sul primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e sul ministro della Difesa Gallant pende un mandato di cattura internazionale, in base a decisione del novembre 2024 della Corte penale internazionale che ha parlato chiaramente di “crimini di guerra a Gaza”. Ed è altrettanto vero che un’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite ha riconosciuto, il 16 settembre 2025, che quello che avviene a Gaza contro il popolo palestinese è un genocidio. Ma è altrettanto vero, come ricorda Al Jazeera, che né Netanyahu né Gallant sono mai stati accusati in modo specifico di genocidio.

 Al Jazeera riporta i dati dello Stockholm International Peace Research Institute, secondo cui l’Italia sarebbe uno dei tre Paesi, oltre a Stati Uniti e Germania, ad aver esportato “armi convenzionali di grandi dimensioni”, dal 2020 al 2024. Nello specifico, secondo lo SIPRI, le armi in questione sarebbero elicotteri leggeri e cannoni navali oltre a componenti per i caccia F-35.

Il ministro della Difesa Crosetto ha ribadito che l’Italia invia armi a Israele solo in base a contratti firmati prima del 7 ottobre 2023 e che comunque sono state chieste garanzie a Tel Aviv sul fatto che queste armi non vengano utilizzate contro i civili a Gaza. (virgilio.it – Giulia Bassi)

Non mi imbarco nella complessa questione giuridica: sarà la Corte penale internazionale a dipanare questa squallida matassa. Mi pongo invece provocatoriamente un interrogativo etico: come fanno i governanti italiani a dormire alla notte dopo aver consentito la fornitura ad Israele di armi, che, direttamente o indirettamente, vengono impiegate nel massacro dei palestinesi.

Ripenso a Giorgio La Pira che ammetteva di non riuscire a dormire nel suo letto sapendo che c’erano a Firenze persone che dormivano sotto i ponti.

Un po’ più di coscienza e un po’ meno cinismo non guasterebbero. Non serve vittimizzarsi per pulirsi la coscienza e nemmeno nascondersi dietro l’impunità di fatto garantita ai governanti di Israele proprio anche grazie all’omertoso atteggiamento italiano.

Faccio riferimento ancora all’amico Alfredo Alessandrini che ha scritto sulla “Gazzetta di Parma”: «L’Europa e il nostro governo devono intervenire non con la prudenza attuale, che è inutile e non serve a nulla, ma con determinazione e fatti concreti, a partire dal blocco delle forniture di armi e da un isolamento economico e commerciale di Israele. Davanti ai bambini che chiedono piangendo un cucchiaio di cibo, la reazione deve essere forte e coraggiosa. Pensiamo ai nostri figli, ai nostri bambini, ai nostri nipoti e a quanto le nostre famiglie fanno per loro anche nei momenti di difficoltà e cerchiamo di far pervenire ai nostri rappresentanti politici, ai nostri governanti e ai leader europei il senso del nostro sdegno e la richiesta pressante di un cambiamento di atteggiamento verso il Governo colpevole di Netanyahu».

C’è quindi oltre alla responsabilità morale quella politica: sono due facce della stessa medaglia.  Non serve andare da Bruno Vespa a raccontare che Cristo è morto dal freddo dei piedi. Il sangue dei bambini palestinesi chiede aiuto e giustizia a tutti coloro che possono fare qualcosa e stanno facendo poco o niente.

Non so se esistano i presupposti per la denuncia formulata da circa 50 persone, tra cui professori di giurisprudenza, avvocati e diverse personalità pubbliche. Preferisco lanciare un avvertimento: il sangue dei giusti ricadrà su chi lo ha sparso e/o ha consentito che fosse sparso. Non mi preoccupa essere tacciato di seminagione di odio e di criminalizzazione degli avversari.

Il discorso non vale solo per Giorgia Meloni, la quale, come minimo, credo non abbia fatto tutto quanto era nelle sue possibilità per opporsi al massacro dei palestinesi, ma per tutti coloro che si macchiano, direttamente o indirettamente, dolosamente o colpevolmente, per opportunismo o per indifferenza, di atti commissivi od omissivi in relazione a veri e propri crimini verso l’umanità.

 

 

I bizantinismi sulla pelle dei palestinesi

La relatrice Onu ha scelto di abbandonare il programma di La7 dopo un confronto acceso sul termine «genocidio» e prima che Francesco Giubilei, anch’egli ospite del talk, concludesse il suo intervento.

Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati, ha lasciato lo studio di in Onda, su La7, durante la puntata andata in onda questa sera. Invitata per discutere della situazione a Gaza, Albanese si è confrontata con il giornalista del Corriere della Sera Federico Fubini e con Francesco Giubilei, vicino a Fratelli d’Italia. Sin dall’inizio del dibattito, Albanese ha difeso l’uso del termine «genocidio» per descrivere l’azione militare israeliana nella Striscia. Una posizione contestata da Fubini, secondo cui «non sta a nessuno di noi stabilire se si tratti di genocidio o meno: serve un’inchiesta formale». Il confronto, già teso, si è ulteriormente acceso dopo l’intervento di Giubilei, culminando nell’uscita dallo studio della relatrice Onu.

Il punto di rottura è arrivato quando Francesco Giubilei ha evocato le parole della senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, sostenendo che definire genocidio l’intervento militare israeliano a Gaza rappresenti un’accusa impropria. Prima della fine dell’intervento di Giubilei, la relatrice Onu ha scelto di interrompere la propria partecipazione e ha lasciato lo studio.

(…)

«Se una persona ha un tumore, non va a farsi fare la diagnosi da un sopravvissuto a quella malattia ma da un oncologo». Meno di 24 ore dopo aver lasciato lo studio di In Onda, su La7, per protesta contro le posizioni degli altri ospiti, Francesca Albanese ha spiegato la sua reazione a Fanpage. E si è concentrata in particolare su Liliana Segre, che – come aveva ricordato in trasmissione Francesco Giubilei – ha sempre negato che la condotta militare israeliana a Gaza sia classificabile come genocidio: «C’è chiaramente un condizionamento emotivo che non la rende imparziale e lucida davanti a questa cosa». 

La relatrice speciale dell’Onu per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati è tornata sull’episodio giustificando la sua scelta di abbandonare gli studi. Da una parte, l’appuntamento per registrare un podcast: «Sono una persona precisa ed ero già stata costretta a un ritardo, ma non accetto di prolungarlo se devo confrontarmi con due persone che non sono preparate sul tema Gaza». Per Francesca Albanese, infatti, «l’interlocuzione con chi non ha conoscenze del tema è impossibile. Io sono una giurista, una tecnica». Il riferimento è, chiaramente, alla vaghezza dell’ospite Federico Fubini sul tema del genocidio: «Credo che in questo momento nessuno su questo punto si possa pronunciare».

Le parole che hanno scatenato però la reazione di Francesca Albanese sono state quelle di Giubilei: «Sul genocidio sono d’accordo con la senatrice Segre». A quel punto si è alzata e se n’è andata: «Immagini il paradosso di questa situazione: chiamare in causa una persona sopravvissuta all’olocausto e al genocidio. Conosco tantissimi esperti di storia, anche sopravvissuti all’olocausto, che dicono che quello a Gaza sia un genocidio. Ma siccome la posizione della senatrice Segre torna utile, si utilizza quella». Insomma, la senatrice a vita sarebbe strumentalizzata: «Ho grandissimo rispetto per la senatrice Segre, una persona che ha vissuto traumi indicibili. Per questo sostengo che ci sono gli esperti e che non è la sua opinione, o la sua esperienza personale, a stabilire la verità su quanto sta accadendo».

Anche perché, per Albanese, la visione di Liliana Segre viene inevitabilmente offuscata dal suo vissuto. Eppure influenza comunque il dibattito pubblico: «Il dato fondamentale in questo paese è l’analfabetismo funzionale. La gente non capisce ciò che legge e non ha in questo contesto di dibattito pubblico sulla Palestina gli strumenti per capire cosa sta accadendo». E alle accuse di propaganda risponde: «Sto investendo molte energie nel cercare di far capire alla gente quali sono i termini del diritto sulla questione. Ci sono fior fiore di sionisti accademici, perché invitare in trasmissione gente che non sa niente?». (open.online – Ugo Milano)

 

Sono oltre modo d’accordo con Francesca Albanese. Mentre posso capire l’imbarazzo psicologico dei sopravvissuti ad Auschwitz nell’ammettere che Israele stia ripetendo sui palestinesi i crimini commessi dai nazisti sugli ebrei, non accetto chi strumentalizza tale comprensibile titubanza per negare l’evidenza.

È perfettamente inutile nasconderlo: imperversa a livello governativo, politico, culturale e mediatico una sorta di riserva mentale riguardo al comportamento di Israele. Si risolve il caso adottando la corrispondenza biunivoca fra la strage perpetrata da Hamas e la lucida e sistematica azione di genocidio verso l’intero popolo palestinese.

Il caro amico Alfredo Alessandrini ha recentemente scritto sulla “Gazzetta di Parma”: «La tragedia dell’Olocausto è divenuta popolare ed è entrata nella sensibilità comune. Tutti siamo stati vicini al popolo ebraico così drammaticamente colpito. Ma allo stesso modo siamo a fianco e soffriamo ogni giorno il dramma del popolo palestinese a causa dello sterminio in atto. Una reazione di Israele al grave atto di terrorismo del 7 ottobre era nei fatti. Ma ora viene perpetrata non una reazione ma un’azione di sterminio di un popolo a causa delle bombe ma anche della fame e della sete, quindi di una vera e propria carestia».

È inaccettabile la narrazione basata, come dice Francesca Albanese, sulla opportunistica malafede dei politici e dei loro tirapiedi e accolta dall’ignoranza, più o meno colpevole, di gran parte della pubblica opinione.

Stare poi a sottilizzare sul termine “genocidio” è un macabro espediente per sgattaiolare fuori dall’enorme tragicità del problema.

Mio padre, quando si accorgeva che la ricerca del colpevole della morte di una persona era condizionata da ostruzionismi e formalismi e non si riusciva a trovarne la causa e non si individuava nemmeno l’esecutore materiale dell’eventuale delitto, concludeva sarcasticamente: «As védda che quälcdòn al gà preghè un cólp…». Evidentemente ai palestinesi sono stati “pregati” molti colpi…o in alternativa si vuol addirittura far credere che si siano sostanzialmente suicidati gridando “evviva Hamas”.

L’episodio delle subdole censure a Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati, rientra infine nella strisciante delegittimazione delle istituzioni internazionali per far posto alla logica del diritto del più forte. Tutti a recriminare sulla mancanza di autorità da parte dell’Onu, salvo lanciare una bomba putiniana a poca distanza dal segretario generale Guterres in missione di pace in Russia e Ucraina, salvo fregarsene altamente delle sue risoluzioni o addirittura impedirle, salvo i veri e propri sabotaggi trumpiani, salvo gli spudorati attacchi di Netanyahu, salvo appunto contestare, in modo peraltro triviale, l’autorevole opinione di una sua alta e competente funzionaria.