Acid test per la destra troppo meloniana

Il pur piccolo test elettorale amministrativo del 25 e 26 maggio qualcosa ha indicato. La incontestabile affermazione del centro-sinistra, salvo clamorosi e improbabili rovesciamenti ai ballottaggi, evidenzia una timida ma significativa voglia di cambiamento rispetto all’aria che tira: forse la gente è stanca della stucchevole passerella meloniana e comincia a desiderare qualcosa di più e di meglio.

In secondo luogo probabilmente l’elettorato apprezza una certa semplificazione degli schieramenti politici: effettivamente non se ne può più dei contrasti all’interno del centro-destra così come di quelli nel centro-sinistra. La gente è pragmaticamente orientata su proposte politiche semplici, trasparenti e unificanti: di qui l’incoraggiamento al perseguimento di una certa unità nell’area progressista e il fastidio verso la vuota e litigiosa rincorsa a destra per vedere chi è più trumpiano di Trump, più cattolico del Papa e più euroscettico di Orban.

Mentre la conflittualità a sinistra ha una certa seppur striminzita base politico-culturale (pace, riarmo, Europa, etc.) anche se spesso brandita strumentalmente, a destra si intravede un contrasto di mero potere in quanto, strada facendo, gli accordi tendono a lasciare il posto alla populistica smania di prevalere nei consensi.

Probabilmente il debordante presenzialismo di Giorgia Meloni sta logorando la sua immagine troppo mediaticamente esposta: infatti tutti i troppi sono troppi… E la eccessiva personalizzazione sta esaurendo la sua efficacia e innescando una sorta di rigetto da parte dell’elettore medio rifugiatosi finora nell’astensionismo. Della serie “di questa nana megalomane non se ne può più!”.

Non so quindi se prevalga la critica verso una destra inqualificabile dall’autore invadente e prevaricante o se susciti qualche interesse una sinistra in cerca d’autore autorevole e dialogante.

Non so fino a qual punto comincino a farsi sentire anche le preoccupazioni per una situazione internazionale in cui il governo italiano fa molto fumo e pochissimo e bruciacchiato arrosto.

Forse qualcosa si sta muovendo: qualche cambiamento sta timidamente emergendo, l’astensionismo ha toccato il fondo, i votanti non sono ulteriormente calati, la prossima prova del voto referendario potrebbe fornire ulteriori segnali di novità. Speriamo!

 

Savio ma non Saviano

La copertina di Gomorra di Roberto Saviano come simbolo negativo, contrapposto all’immagine di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. È il messaggio diffuso sui social da Fratelli d’Italia nel giorno dell’anniversario della strage di Capaci. Nella didascalia del post si legge: “Esempi da evitare, esempi da emulare. Diffida di chi ha migliorato la propria vita speculando sulla criminalità. Prendi esempio da chi l’ha combattuta, pagando con la vita”. Senza nominare l’autore del libro, Saviano. (dal quotidiano “La Repubblica”)

Ha fatto un certo scalpore l’iniziativa mediatica di Fratelli d’Italia: è una vecchia consuetudine quella di squalificare chi si oppone alla criminalità considerandolo un mestierante che tutto sommato vive alle spalle della criminalità stessa.

Roberto Saviano è da anni sotto scorta per la sua convinta e convincente opera di intellettuale impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata. In questa virtuosa battaglia non risparmia colpi ai governanti di turno che molto spesso direttamente o indirettamente offrono spazi di manovra alle mafie di vario tipo.

Molti pensano che le più delinquenziali realtà non dovrebbero essere descritte e approfondite in quanto questa opera di verità finirebbe col diventare una distruttiva cassa di risonanza anziché una istruttiva denuncia. È il vecchio discorso de “i panni sporchi si lavano in famiglia”: significa che è meglio non rendere pubblici i problemi e le questioni delicate.  Questa prassi si attaglia perfettamente al discorso e alla mentalità mafiosi: della serie “la mafia non esiste”.

I morti di mafia possono “parlare”, i vivi è meglio che se ne stiano zitti. Così facendo virtualizziamo il problema, lo decantiamo e ce ne laviamo le mani. Le voci scomode vanno squalificate e tacitate. Lasciamo fare gli organi dello Stato, a loro compete difenderci dalla delinquenza, che però parte dalle coscienze individuali e collettive. Se manca una forte presa di coscienza non si va da nessuna parte. E qui sta la preziosa opera di chi studia e spiega i fenomeni mafiosi, di chi si impegna a promuovere iniziative concrete a livello di società civile.

È clamoroso che un partito politico come Fratelli d’Italia si faccia risucchiare nella logica sostanzialmente negazionista dei fenomeni mafiosi. Ancor più grave il fatto che questo partito stia ricoprendo responsabilità di governo. Se possibile, ancor più inaccettabile che questa formazione politica sia capeggiata dalla premier.

Non si tratta di un infortunio mediatico, ma di un tentativo maldestro di evitare l’individuazione delle responsabilità precise in chi governa: troppe infatti sono le linee governative, dai pubblici appalti alla sanità, che strizzano subdolamente l’occhio a chi vuole approfittare in senso delinquenziale di spazi finanziari aperti all’intromissione delle mafie.

Meglio allora limitarsi ad incensare i martiri e non preoccuparsi di fare giustizia a valle e ancor più di cambiare a monte i meccanismi socio-culturali nonché di smascherare le assenze, le connivenze e le omertà della politica.

 

 

 

Da lievito pastorale a prezzemolo clericale

Un messaggio di pace e unità quello indirizzato da Papa Leone XVI alla Curia Romana: “i Papi passano, ma la Curia rimane”. Era la sua prima udienza nell’Aula Paolo VI con gli Officiali della Curia Romana, i dipendenti della Santa Sede, del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano e del Vicariato di Roma.

A mio giudizio si tratta di una frase piuttosto sibillina che si presta a diverse interpretazioni. Personalmente ascoltando quelle parole mi è venuto spontaneo dire: “Purtroppo!”. Ho sempre avuto la convinzione che la burocrazia stia alle istituzioni repubblicane come la curia sta alla Chiesa cattolica. Una continuità che diventa più mera conservazione del potere che salvaguardia di memoria storica.

In una franca e amichevole corrispondenza epistolare col carissimo amico don Domenico Magri, prendendo lo spunto dalle difficoltà che incontrava l’apprezzabile sforzo riformista di papa Francesco anche e soprattutto negli ambienti curiali, affermavo spregiudicatamente: «Dei predecessori di Bergoglio ho una mia originale idea riguardo al loro atteggiamento verso la Curia e gli intrighi vaticani: Paolo VI soffriva, si macerava e poi si arrendeva all’impossibilità del cambiamento; Giovanni Paolo I somatizzò il dramma al punto da morirne in pochi giorni; Giovanni Paolo II se ne fregò altamente, andò per la sua strada, si illuse di cavare anche un po’ di sangue dalle rape; Benedetto XVI ci rimase dentro alla grande e gettò opportunamente la spugna. Quando constato come tanti papi siano diventati o stiano diventando Santi, mi viene qualche dubbio. Pur con tutto il rispetto, temo che nell’aldilà troveremo parecchie novità, riguardo alla nostra vita e a quella della Chiesa».

Papa Francesco ce l’ha messa tutta anche se è paradossalmente rimasto prigioniero della sua opzione squisitamente evangelica, che lo ha portato a privilegiare l’attenzione alle coscienze delle persone piuttosto che agli assetti delle strutture. Qualcosa ha fatto nei riguardi della Curia forse più a parole (spesso giustamente molto dure) che coi fatti.

L’incipit prevostiano citato all’inizio, così come tutto il discorso fatto ai componenti della Curia, mi sembra alquanto buonista e accattivante ed assai poco incisivo: questa leccata curialesca se la poteva risparmiare. Come se non sapessimo che la curia romana è sempre stata sintomo di intrighi di palazzo e di manovre di potere. È inutile che papa Leone citi papa Francesco ad ogni piè sospinto, salvo poi lanciare concreti messaggi in chiara controtendenza rispetto alla pastorale bergogliana. Qualcuno mi accusa di pretendere da Prevost la fotocopia di Bergoglio: non vorrei che si finisse col farne la brutta copia…

Quanto alla curia vaticana non posso esimermi dal riportare una stupenda barzelletta di don Andrea Gallo, raccontata a Parma nell’ambito del Festival della poesia, dove era stato rappresentato “Angelicamente anarchico”, lo spettacolo che Cinzia Monteverdi ha tratto dal un libro del pretaccio genovese con le canzoni di De André.

«Voi sapete che nella nostra Santa Madre Chiesa, uno dei dogmi più importanti è la Santissima Trinità: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. L’amore e la comunione vanno in tutto il mondo, e si espandono. Lo Spirito Santo dice: “Andiamo a farci un giro. Io sono affascinato dall’Africa”.  Il Padre risponde: “Be’, io andrò a vedere il paradiso delle Seychelles. Perché non capisco come mai i miei figli e figlie hanno il paradiso in terra”. Gesù ascolta e non risponde. Allora gli altri due: “Tu non vai?” Gesù: “Io ci son già stato duemila anni fa”. “Non ci farai mica far la figura che noi andiamo e tu rimani”, gli dicono in coro il Padre e lo Spirito Santo. “Va be’, allora vado anch’io”. “Dove vai?” “A Roma”. “Sì, ma a Roma dove vai?” “Vado in Vaticano”. “In Vaticano?”, dicono increduli il Padre e lo Spirito Santo. Gesù risponde: “Eh sì, non ci sono mai stato”».

Don Gallo chiosava così: «Il Vaticano è la Chiesa di Gesù. Dicendo che il Figlio di Dio non c’è mai stato è come dire che tra gli alti prelati non c’è la sua presenza».

Io sono ancor più ecclesialmente scorretto e penso alla burocrazia vaticana nel suo complesso di cui gli alti prelati e il Papa in primis sono i capi e le guide. Ecco perché, alla battuta ““i Papi passano, ma la Curia rimane”, ho avuto un dubbioso sussulto di protesta. Se la Chiesa non diventerà sempre più comunità di credenti e sempre meno complesso istituzionale, svuoteremo ulteriormente le chiese-tempio e riempiremo le stanze del potere col prezzemolo clericale.

 

 

 

 

 

Il tempio profano del dio-calcio

“Non è solo uno stadio quello in cui ci troviamo, seppure intitolato al più grande calciatore di tutti i tempi, è un tempio laico, che esonda di amore e di passione, non è solo una partita quella che ci accingiamo a raccontarvi, è un modo di ripassare a memoria un intero anno, fatto di gioie irrefrenabili e di delusioni cocenti, non è solo una città quella che ci ospita, è la culla di un popolo nel cuore del Mediterraneo, abituato a vivere sospeso tra una montagna infuocata e un mare che non riposa mai”.

Questo è l’incipit della radiocronaca di Francesco Repice su Rai 1 della partita Napoli-Cagliari, decisiva per l’assegnazione dello scudetto relativo al campionato di calcio. Povero Repice…mi ha fatto pena. Penso che se la fosse preparata, ma forse era meglio che avesse riflettuto un attimo prima di sparare simili cazzate. Potrebbe finire tutto con questa commiserazione, senonché il discorso è un tantino più complesso e delicato.

Quando succede qualche fatto increscioso sui campi di calcio, tutti si scandalizzano, stupendosi della violenza che si sfoga negli stadi e condannando la degenerazione del fenomeno sportivo in una vera e propria guerra tra opposte tifoserie, salvo poi enfatizzare a dismisura l’evento calcistico anziché riportarlo nel solco del normale agonismo e della normale passione.

Da una parte abbiamo un vero e proprio sistema affaristico che nulla ha da spartire con lo spirito sportivo; dall’altra parte abbiamo uno sfogatoio fatto di violenza, razzismo e intolleranza; in mezzo la prezzolata e vergognosa opera dei media che pompano il pallone salvo rammaricarsene quando scoppia.

Lo stadio trasformato in tempio laico, una partita resa specchio della vita di un anno, una cittadella sportiva assimilata alla culla di una civiltà. Non stiamo esagerando?  Non stiamo concedendo un assist retorico al calcio-regime strizzacervelli? Non stiamo trasformando il folclore in visione esistenziale? Non stiamo riempiendo gli stadi di assurdi contenuti culminanti nella peggiore delle subculture?

Il Napoli calcio ha vinto il campionato: complimenti! Ma per cortesia non diamo a questo fatto un significato socio-culturale che non ha, tipo la vittoria di una città, il riscatto di un popolo, la gioia per un traguardo sociale, etc. etc.

“Panem et circenses”, in italiano “pane e giochi”, è una locuzione latina che indica un modo di gestire il popolo, offrendo principalmente cibo e intrattenimento per distogliere l’attenzione da questioni più importanti e mantenendo il consenso. Nel caso del modulo calcistico si offre soltanto un gioco, spacciandolo per fatto socio-culturale zeppo di contraddizioni e strumentalizzazioni, facendone un fenomeno di distrazione di massa con tutte le degenerazioni conseguenti.

Mia madre osservava in modo attento, ma disincantato, le vicende del mondo del calcio: mi faceva compagnia mentre guardavo le partite in televisione, se ne usciva con osservazioni e domande simpatiche ed acute. A volte, davanti al vortice degli eventi calcistici accompagnati dalle solite ed insulse sbornie mediatiche, si lasciava andare ad una sferzante domanda/commento: «Cò farisla tùtta cla genta lì, se neg fis miga al balón?».  Ben detto dei protagonisti principali, secondari e terziari di un mondo sempre più paradossale ed assurdo: quelli che io amo chiamare “magnabalón”.

Troppa gente vive di pallone, anche i cronisti televisivi e radiofonici, e finisce col tentare di mandarci tutti nel pallone, a cominciare da quei giovani che non esitano a scatenarsi in violenze di ogni tipo quasi a rifiutare che la vita reale sia ben altra cosa.

Durante una fase particolarmente concitata di una partita di calcio, in occasione di un affondo pericoloso dell’attacco parmense, un giocatore si trovò quasi a scontrarsi col portiere avversario ed in quel preciso momento scattò una frase urlata, di quelle strozzate in gola, cattive quanto assurde, che incitava, si fa per dire, l’attaccante nei confronti del portiere: “Dai, masol!”.

Per fortuna il giocatore del Parma, che forse non sentì neanche l’urlo, si comportò da persona seria, desistette dall’intervenire e, come si dice in gergo, saltò il portiere. Bene così. Ma a mio padre non sfuggì quell’urlo violento proveniente da un tifoso alle nostre spalle e riuscì ad individuarlo con assoluta precisione e ad apostrofarlo con una battuta amara, una domanda retorica:“Mo ti, pr’un balón, masòt un òmm? Mo sit stuppid?”

L’interessato farfugliò una risposta ancora più assurda dell’urlo in questione, non la ricordo bene e non cerco neanche di ricordarla, perché l’unica risposta sarebbe stato il silenzio, quel virtuoso e professionale silenzio che dovrebbero fare anche gli operatori del calcio parlato. Ma poi di cosa vivrebbero? Potrebbero cambiare mestiere…

 

 

Prove d’orchestra ecclesiale

Continuando a parlare delle prospettive del papato di Leone XIV devo registrare tre note liete un po’ forzate, che tuttavia mi hanno sorpreso nella mia ignoranza, incuriosito nel mio scetticismo, consolato nella mia delusione: giudizi strani ma positivi, che forse mi possono aiutare ad uscire dallo sconcerto in cui sono caduto.

Parto con Padre Ermes Maria Ronchi, un presbitero e teologo italiano dell’Ordine dei Servi di Maria, che ha presentato e salutato il nuovo papa come di seguito, prendendo in considerazione il nome da lui scelto e partendo da esso. “Nomen omen” è una locuzione latina, peraltro anche un po’ evangelica, che, tradotta letteralmente, significa “il nome è un presagio”, “un nome un destino”, “il destino nel nome”, “di nome e di fatto”.

“Amici, il nuovo Papa è un frate, il suo nome è Leone. Lo chiamerò Frate Leone, che era il discepolo più vicino a Francesco d’Assisi. Benvenuto Frate Leone, pecorella di Dio!”.

Don Luigi Ciotti, col suo linguaggio senza fronzoli e appassionato, ha dichiarato di pensare che il nuovo papa sia un gran regalo di papa Francesco, perché lo ha scovato quando era vescovo di una piccola diocesi del Perù, se lo è portato a Roma e l’ha fatto cardinale giusto in tempo per…

Il teologo Piero Coda, un presbitero e teologo italiano, segretario generale della Commissione teologica internazionale, ha usato la bella immagine del direttore d’orchestra a significare l’esigenza di uscire dal “papacentrismo” ed al contempo la presa d’atto che papa Leone non sarà un solista, un assoluto protagonista della scena ecclesiale, ma una specie appunto di direttore d’orchestra, che dovrà cercare in tutte le maniere  di coinvolgere gli strumentisti  che abbiano voglia e capacità di suonare.

In effetti, a prima vista, non vedo in Prevost un grande e travolgente carisma ed allora, visti i chiari di luna della mancanza di leader, che caratterizza il mondo intero, bisogna fare di necessità virtù, privilegiando il gioco di squadra: insieme, insieme, basta con gli eccessivi protagonismi, con gli occhi puntati su una persona sola…

Dal momento poi che tira un venticello leggero (?) di normalizzazione post-bergogliana, è meglio andare giustamente in cerca di collegamenti fra papa Francesco e papa Leone, usando anche un po’ di fantasia che non fa mai male. Temo che, per trovare una forte continuità tra Bergoglio e Prevost, di fantasia ne occorra parecchia…

 

È arrivato l’ambasciatore

Ha tutte le sembianze della goccia che fa traboccare il vaso diplomatico, l’incidente occorso oggi a Jenin, dove militari israeliani hanno sparato in aria per allontanare una delegazione di diplomatici stranieri. Dopo l’ulteriore espansione delle operazioni militari a Gaza lo Stato ebraico appare ormai da giorni sempre più isolato, anche tra i suoi storici alleati, dall’Europa agli Stati Uniti. Oggi i governi dei Paesi coinvolti, dalla Francia all’Italia, hanno protestato con veemenza con Israele per quanto accaduto a Jenin. E per quanto riguarda Roma in particolare, l’occasione è stata colta dal governo per mandare a Israele un messaggio di inedita durezza sul quadro complessivo delle azioni israeliane, comprese quelle a Gaza. Lo si evince chiaramente dalla scelta di far trapelare che a muoversi in prima persona è stata questa volta la premier Giorgia Meloni, che ha «sentito al telefono il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, per concordare la convocazione alla Farnesina dell’ambasciatore israeliano in Italia, non solo alla luce dell’episodio di oggi vicino al campo profughi di Jenin che ha coinvolto diplomatici stranieri, tra cui il vice console italiano a Gerusalemme, ma anche nel contesto più ampio della drammatica situazione nella Striscia di Gaza». E la conferma del cambio di passo e di tono arriva poi dalla nota con cui la Farnesina dà conto di quanto è stato comunicato esattamente all’ambasciatore israeliano in Italia Jonathan Peled.

Nel faccia a faccia con Peled, fa sapere nel tardo pomeriggio il ministro degli Esteri, il segretario generale della Farnesina Riccardo Guariglia «ha protestato e chiesto spiegazioni per l’incidente di oggi in cui una delegazione diplomatica di Paesi dell’Unione europea, che comprendeva il vice-console italiano a Gerusalemme, è stata colpita con armi da fuoco da parte di soldati dell’IDF all’ingresso del campo profughi di Jenin. L’ambasciatore Guariglia ha contestato il comportamento dei militari israeliani, definendo inaccettabile il fatto che una delegazione diplomatica civile venisse allontanata da un’area presidiata dai militari con l’uso delle armi da fuoco». Il segretario generale della Farnesina però è andato oltre e a nome dell’Italia ha anche detto a Peled che «Israele deve interrompere le operazioni militari a Gaza, deve puntare sul negoziato politico e diplomatico per la liberazione degli ostaggi israeliani e per raggiungere un cessate il fuoco che possa far ripartire un processo di pace. Soprattutto Israele deve aprire immediatamente i varchi di accesso a Gaza per permettere l’ingresso massiccio di aiuti alimentari e sanitari per la popolazione palestinese». Una scelta verbale, quella del dovere ripetuto più volte, particolarmente forte in termini diplomatici e inedita da parte dell’Italia dall’inizio della guerra a Gaza. L’unica “concessione” alla narrativa di Israele resta quella sul fatto che la popolazione palestinese è da considerarsi «essa stessa vittima dei terroristi di Hamas». Ma la conclusione dell’Italia, in linea coi partner europei ma sembra pure con gli Usa, è opposta a quella del governo Netanyahu: proprio per questa la popolazione palestinese «non può più essere coinvolta negli attacchi militari dell’Idf». (da open.online)

Morale della favola: un affronto ai diplomatici vale più del massacro di bambini. Così va il mondo! D’altra parte mio padre rilevava, con il suo solito sarcasmo, come di fronte alla caduta di un cavallo gli astanti si impietosiscano ed esclamino “povra béstia”, mentre di fronte alla caduta di una persona si sbellichino dalle risa senza preoccuparsi minimamente dei conseguenti danni subiti dalla persona stessa.

Ci voleva l’incidente diplomatico per smuovere le coscienze? Staremo a vedere…Anche perché il giorno precedente il governo italiano non aveva esitato a voltarsi ancora una volta e vergognosamente dall’altra parte.

Con il lancio dell’operazione Carri di Gedeone da parte di Israele, l’Unione Europea sta iniziando a capire che – forse – lo Stato ebraico va fermato. I ministri degli Esteri dell’Unione hanno infatti approvato la richiesta di avviare una revisione del trattato di associazione UE-Israele, avanzata dai Paesi Bassi dopo un anno di ripetuti appelli da parte di Spagna e Irlanda. In sede di votazione, comunicano fonti diplomatiche, nove Paesi si sarebbero opposti tra cui, come ormai consolidato in sede diplomatica, anche l’Italia. L’accordo regola le relazioni multilaterali tra Israele e Stati membri e, sin dal preambolo e dai suoi primi articoli, si fonda sul rispetto dei diritti umani e sulla condivisione dei valori democratici. Aprendo a una possibile revisione, l’UE compie così, con drammatico ritardo, i primi passi formali per distanziarsi dallo Stato ebraico, sottolinea Amnesty. «L’entità della sofferenza umana a Gaza negli ultimi 19 mesi è stata inimmaginabile. Israele sta commettendo un genocidio a Gaza con agghiacciante impunità». (lindipendente.online)

Evviva la sensibilità, la coerenza, l’europeismo, il coraggio e l’umanità di chi ci (s)governa. Se i bambini di Gaza aspettano un cenno di concreta solidarietà da Giorgia Meloni e c. fanno in tempo a crepare tutti sotto le bombe o di fame. Non mi si dica che questo è il cinismo della politica. Per la verità non è che gli altri Paesi dell’Europa stiano facendo molto meglio: questa feroce indifferenza ammantata di subdola equidistanza fa letteralmente schifo!

Stiamo forse aspettando che Trump si stanchi di Netanyahu e lo scarichi lasciandolo al suo destino? Campa cavallo: ogni simile ama il suo simile! Ho esaurito le mie parole di condanna. Mi vergogno di essere italiano, anzi mi vergogno di essere una persona cosiddetta umana.

 

 

La Cocomeri vuol intortare Prevost

“Il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni – informa Palazzo Chigi – ha avuto oggi una conversazione telefonica con il Santo Padre sui prossimi passi da compiere per costruire una pace giusta e duratura in Ucraina. Il colloquio – si spiega – fa seguito alla telefonata di ieri con il Presidente Trump e con altri leader europei, nel corso della quale è stato chiesto al Presidente del Consiglio italiano di verificare la disponibilità della Santa Sede a ospitare i negoziati”. Meloni ha riscontrato l’apertura di papa Prevost: “Trovando nel Santo Padre conferma della disponibilità ad accogliere in Vaticano i prossimi colloqui tra le parti – conclude Palazzo Chigi – il Presidente del Consiglio ha espresso profonda gratitudine per l’apertura di Papa Leone XIV e per il suo incessante impegno a favore della pace”.

“Speriamo che la Cocomeri non riesca ad intortare Prevost. Con Francesco ce l’aveva fatta… ma mi sa che questo papa sia più politico o almeno lo spero…La furbetta ha già chiesto (dicono) udienza entro 10 giorni. Ma non c’è prima Mattarella?”.

Questo breve ma ficcante messaggio, giuntomi da un caro amico, attento osservatore delle cose politiche e religiose, fotografa perfettamente la situazione. Da una parte una premier, che lui chiama sarcasticamente “Cocomeri” e che gira a vuoto come il garzone di mio padre (non combinava niente di buono…), dall’altra parte un papa a cui tutti stanno tirando la tonaca bianca (sarà già diventata grigia…).

Giorgia Meloni, o Cocomeri come dir si voglia, vuole far credere di essere immanicata a livello internazionale: effettivamente tutti sembrano darle ascolto, in realtà la considerano una mascotte, la compatiscono (coi fanciulli e coi dementi spesso giova il simular…).

Si difende a livello mediatico: questa è l’unica sua forza (fino a quando?). In realtà non si capisce da che parte stia con la scusa di fare la “pontiera”, tra la Ue e Trump, tra i sovranisti e gli europeisti, tra i post-fascisti e i post-democratici, tra i leghisti e i nazionalisti, adesso anche tra la politica e il Vaticano.

Forse l’unico merito che ha è quello di essere un vero e proprio “estrat äd confuzion” e quindi di evidenziare plasticamente il casino che regna sovrano a livello politico internazionale e nel suo governo nazionale. Gli allocchi applaudono, gli scettici scrollano le spalle, gli snobboni ridono, le persone serie piangono.

Ultimamente sta alzando un po’ troppo l’asticella delle sue esercitazioni pseudo-diplomatiche: con Trump se la può cavare, salvo i pochi secondi che il tycoon impiegherà per darle il benservito, allorché non gli farà più comodo averla fra i piedi; col Vaticano avrà vita dura, perché in quell’ambiente hanno un’esperienza tale da riconoscere i bagoloni a prima vista e da smascherare quanti si credono i più furbi della compagnia.

Per quanto concerne papa Leone XIV mi rifaccio a quanto già scritto. Premesso che non mi piace affatto vedere la Chiesa-istituzione protagonista della politica anche se a fin di bene, ammettendo pure che un papa politico possa rappresentare un valido riferimento per il mondo alla deriva, mi permetto di osservare cinicamente come la politica sia un terreno molto difficile da praticare. Agh vôl al cul plä!

Con licenza parlando, non so come sia messo al riguardo Prevost: fatto sta che tutti sono in fila per sfruttare l’audience di cui gode. Lui al momento non fa nemmeno una piega, forse è assai meno ingenuo di quanto si possa pensare.  E poi, se gira per le stanze vaticane (sembra preferirle a casa Santa Marta), di furbastri dai quali farsi aiutare ne trova fin troppi.

Don Andrea Gallo diceva fuori dai denti: «Non mi curo di certe sottigliezze dogmatiche, perché mi importa solo una cosa: che Dio sia antifascista!». Mi permetto di allargare il discorso al vicario di Dio in terra. Dopo di che per la signora Cocomeri la vita nei rapporti col Vaticano non sarebbe così facile.

 

Chiesa, meglio copiare le ONG che scimmiottare l’ONU

Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha definito “una grande idea” che il Vaticano possa ospitare eventuali negoziati di pace tra Russia e Ucraina, sottolineando come vi sia “molta rabbia” tra le parti e come il simbolismo del luogo possa contribuire a un clima più favorevole. 

“Penso che sarebbe fantastico farlo in Vaticano. Forse avrebbe un significato ulteriore”, ha dichiarato durante un evento alla Casa Bianca. Trump ha parlato lunedì separatamente con i suoi omologhi di Russia e Ucraina, Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky, e dopo questi colloqui ha annunciato che i due Paesi apriranno immediatamente dei negoziati per un cessate il fuoco e per porre fine alla guerra.

Papa Leone XIV aveva già manifestato la sua disponibilità a farsi coinvolgere nel dialogo, e Zelensky ha ipotizzato che il futuro incontro possa tenersi in Vaticano, in Svizzera o in Turchia. Trump si è detto favorevole all’ipotesi della Santa Sede: “C’è un’enorme amarezza, una grande rabbia, e penso che forse potrebbe aiutare ad alleviare parte di questa rabbia. Quindi farlo in Vaticano sarebbe una grande idea”, ha affermato. (da RaiNews.it)

La critica più frequente – peraltro subdola ed inconsistente – rivolta a papa Francesco era quella di avere trasformato la Chiesa in una ONG, di averla cioè appiattita sul piano sociale, trascurando quello spirituale.

In realtà ai detrattori di Bergoglio non interessava la spiritualità, ma erano infastiditi dall’attenzione ai poveri: è una storia vecchia come il cucco, chi sta dalla parte dei poveri in realtà non piace anche se magri si fa finta di ammirarlo.

Evidentemente anche Gesù aveva in mente le ong e si appiattiva sul sociale, dal momento che non faceva altro che parlare dei poveri, degli ultimi, dei sofferenti, etc. etc.

Non vorrei che, sulle ali dell’entusiasmo diplomatico conseguente alla sua elezione, papa Leone si facesse prendere la mano per trasformare la Chiesa in una sorta di ONU riveduto e scorretto.

In materia di pace e di intervento della Chiesa a favore della pace si sta facendo un po’ di confusione. Innanzitutto si confonde la Chiesa col Vaticano: sono due realtà ben diverse. Il Vaticano non è nemmeno lo specchio esaustivo della Chiesa-istituzione, figuriamoci della Chiesa-comunità, ma semmai quello della Curia romana implicata anche troppo nelle cose di questo mondo.

In secondo conseguente luogo la Pace che dona il Risorto non è quella che dà il mondo, vale a dire quella di Trump, Putin e c. La Chiesa quindi deve stare attenta a non diventare protagonista nelle questioni mondane: non è la “pasta”, ma il “lievito”. Gesù non ha nemmeno lontanamente pensato di fare da mediatore fra Romani ed Ebrei, se ne è ben guardato a costo di deludere tutti e di farsi mettere in croce. A Pilato, che gli chiedeva conto delle sue “strane” idee, non ha proposto di dialogare, ma lo ha elegantemente mandato a cagare.

La storia dei papi è piena di interventi a favore della pace: Giovanni XXIII riuscì, col carisma che possedeva, a scongiurare la crisi di Cuba con tutto quel che ne poteva conseguire: fortunatamente aveva come interlocutori personaggi di altra statura rispetto agli attuali. Non li ospitò ufficialmente in Vaticano, così come Giovanni Paolo II fece un autentico capolavoro diplomatico con Jaruzelski, senza intromettersi politicamente nelle vicende polacche, facendo valere la propria incontenibile autorevolezza umana e spirituale. Paolo VI si recò in visita all’Onu e lanciò il suo storico “jamais plus la guerre”, ma non offrì nessun tavolo vaticano per affrontare le emergenze belliche, anche perché dovrebbe essere proprio l’Onu la principale sede dove dirimere i conflitti fra le nazioni.

Essere il primo Pontefice americano fa sì che Washington e Bruxelles possano contare su di lui come canale di collegamento con Mosca, anche se il “passaporto Usa” può alimentare diffidenze dei russi ortodossi, orientati a vedere in lui un tipico rappresentante dell’Occidente complessivo. L’esperienza missionaria in Sudamerica amplia lo spettro del suo intervento.

Un Papa che conosce sia il campesino del Perù sia il businessman di Chicago può creare ponti tra visioni in conflitto, così come le sue iniziative di dialogo intessute in un linguaggio ampio di giustizia sociale possono risuonare positivamente nel Sud globale, ampliando il consenso anche a proposte ambiziose.

(…)

Dopo il colloquio tra Trump e Putin, nel quale è sembrata ancora prevalere l’ambiguità del leader del Cremlino, pronto a firmare memorandum preliminari a una tregua ma solo alle proprie condizioni, c’è più che mai bisogno di un mediatore che abbia il coraggio della chiarezza e della mitezza, avendo a cuore il valore della pace per sé, senza alcun secondo fine. L’accenno fatto dal presidente Usa sui social media sembrerebbe aprire ottimisticamente a trattative imminenti, forse ospitate proprio in Vaticano. (dal quotidiano “Avvenire” – Andrea Lavazza)

In questo delicatissimo momento storico il Papa rischia di essere visto come il mediatore per eccellenza tra le potenze del mondo, il Vaticano rischia di diventare la foglia di fico con cui coprire la fine della laicità della politica, nonché il tramonto del diritto e delle istituzioni internazionali: sarebbe una nefasta influenza pseudo-evangelica. Ed inoltre non accontentiamoci del dito dietro cui nascondere le comode inerzie dei cattolici che applaudono il Papa.

Mi sembra opportuno citare integralmente una preghiera, redatta dal Cardinale Zuppi, che ogni buon cristiano dovrebbe recitare ogni giorno: “Signore, che ci hai creati e ci chiami a vivere da fratelli, che vieni sulla terra per portare luce nelle tenebre, dona al mondo la pace. Donaci la forza per essere ogni giorno artigiani della pace. Donaci la capacità di guardare con benevolenza tutti i fratelli che incontriamo sul nostro cammino. Infondi in noi il coraggio di compiere gesti concreti per costruire la pace. Amen”.

Attenzione alle sbruffonate politiche di Trump, alle furbizie di Putin, alle ipocrisie di Netanyahu e persino alle disperate condizioni di Zelensky (come noto chi sta per affogare ti trascina nel gorgo…). Invece di andare dietro alle insulse chiacchiere dei delinquenti al potere, non sarebbe meglio scomunicarli nella sostanza e nei fatti, proclamando ad esempio che la carneficina dei palestinesi come quella degli ucraini non può andare su alcun tavolo di trattativa, direttamente o indirettamente patrocinato dalla Chiesa?

I vescovi statunitensi volevano negare la comunione a Biden. Non ho sentito nulla del genere nei confronti di Trump: attenzione papa Leone, perché alcuni suoi elettori probabilmente cadono in queste contraddizioni clamorose. Forse lo Spirito Santo eviterà che presentino il conto al nuovo papa. Nella storia della Chiesa è successo spesso che il Papa, una volta eletto, vada per la sua strada e non si faccia dettare il comportamento da chi lo ha eletto con secondi poco ecclesiali fini. Papa Francesco chiedeva sempre preghiere: gli servivano per resistere alle pressioni di chi lo voleva distogliere dalla sua pastorale evangelica!?

Sull’Ucraina oltre tutto si giocano anche i rapporti con una parte della Chiesa ortodossa (quella dei chierichetti di Putin), che magari vedrebbe di buon occhio una intromissione vaticana atta a compensare quella del patriarcato russo: le chiese cristiane affaccendate e intrecciate con gli equilibri di potere. Ci potrebbe esser di mezzo anche l’ecumenismo riguardante i rapporti tra cattolici e ortodossi.

Se c’è stata una preoccupazione particolare nella vita di Gesù è stata quella di non lasciarsi coinvolgere in questioni politiche, se non stando dalla parte dei poveri e degli ultimi. Credo che papa Francesco, per il quale il vademecum era solo ed esclusivamente il Vangelo, sia riuscito ad essere il miglior interprete possibile della beatitudine riguardante “i pacifici che saranno chiamati figli di Dio”. Nessuno è perfetto, nemmeno papa Francesco, ma ricordiamoci che, come diceva mio padre, «al ‘n era miga un gabiànn…» (non ho approfondito e stabilito da dove venisse questo modo di dire: probabilmente il richiamo al “gabbiano” era dovuto al fatto che questo strano uccello si diverte a rovistare nella spazzatura, nel “rudo” e quindi non dimostra di essere un mostro di intelligenza e furbizia).

Fantastico un tavolo di pace in Vaticano? Fantastico per Trump, ma non per me! Fin dal primo momento ho temuto che dietro l’elezione di papa Prevost ci fosse troppa politica. Vorrei tanto essermi sbagliato anche se lo “spatagliare” di governanti intorno a Leone XIV mi infastidisce e mi preoccupa.

 

L’assenteismo dei presenzialisti

Dopo la storica vittoria tennistica di Jasmine Paolini, anche la Premier Giorgia Meloni ha voluto unirsi alla celebrazione con un messaggio sui social: “Complimenti a Jasmine Paolini per una vittoria straordinaria agli Internazionali di Roma. Un’impresa che entra nella storia dello sport italiano e rende orgogliosa tutta la Nazione.”

Tuttavia, sotto il post della premier, è intervenuto con dure parole l’ex parlamentare Alessandro Di Battista, che ha scritto: “Subito a commentare i successi sportivi ma resti zitta di fronte a una mattanza di bambini senza precedenti. Come fai a guardarti allo specchio? Vigliacca come fai a dormire la notte? I tuoi amici terroristi israeliani uccidono per il gusto di uccidere. Stanno colpendo deliberatamente bambini e neonati e te zitta. Muta. La Storia non ti assolverà mai vigliacca!”.

Il presenzialismo off limits della premier italiana è decisamente fastidioso e provocatorio: il problema oltre tutto è che sotto questo vestito non c’è niente e che gli italiani ci stanno cascando alla grande.

Per la verità anch’io spesso mi sono chiesto e mi chiedo come facciano certi governanti di tutti i livelli a dormire sonni tranquilli di fronte ai problemi drammatici direttamente o indirettamente riconducibili alla loro inerzia o ignavia.

Purtroppo non tutti hanno la sensibilità di Giorgio La Pira che da sindaco di Firenze affermava di non poter dormire fintanto che nella sua città c’erano persone che passavano la notte sotto i ponti. Ecco come si espresse nel 1955 alla segreteria nazionale della DC: «Fino a quando mi lasciate a questo posto, mi opporrò con energia massima a tutti i soprusi dei ricchi e dei potenti. Non lascerò senza difesa la parte debole della città: chiusura di fabbriche, licenziamenti e sfratti troveranno in me una diga non facilmente abbattibile… Il pane (e quindi il lavoro) è sacro. La casa è sacra. Non si tocca impunemente né l’uno né l’altra! Questo non è marxismo: è Vangelo! Quando gli Italiani poveri saranno persuasi di essere finalmente difesi in questi due punti, la libertà sarà sempre assicurata al nostro Paese».

Mia sorella, nelle sue pur modeste cariche pubbliche ricoperte, soffriva una vera e propria ansia per non riuscire a rispondere ai problemi della povera gente a cui andavano le sue attenzioni. Ricordo che una volta, per tranquillizzarla un po’, arrivai a dirle che anche Gesù non riusciva a sanare e ad aiutare tutti, quindi…

Tornando a Giorgia Meloni e alla sua posizione verso i palestinesi, mi sembra opportuno richiamare il giudizio espresso da Moni Ovadia: secondo l’autorevole scrittore ed eclettico uomo di cultura che si definisce ebreo antisemita, forse il personaggio più lucido nel giudicare la vicenda israelo-palestinese, la premier italiana ha soltanto la preoccupazione di apparire in campo occidentale come la miglior amica di Israele. È detto tutto!

 

 

Un fiume di bombe e un rigagnolo di lacrime di coccodrillo

Per mettere fine a questa guerra è necessario comprendere il dolore. E credo che, fino a qui, il dolore della mia gente per il 7 ottobre non sia stato davvero capito. Non si tratta “solo” del peggior massacro terroristico che Israele ha subito dalla Seconda Guerra mondiale: è stato il massacro di persone che credevano nella pace, nella convivenza, che vivevano accanto, in senso fisico, a chi le ha uccise, bruciate, stuprate, rapite nel modo più crudele che si sia mai visto. Questo ha innescato meccanismi di auto-difesa, in un popolo intero, che non si possono liquidare con faciloneria. C’è poi il dolore dei palestinesi, e le assicuro che io, noi israeliani, lo sentiamo, lo viviamo come nostro. Ma c’è un’unica, sottolineo, un’unica chiave per aprire la porta a una soluzione, qualcosa che vi invitiamo a cercare insieme a noi, rivolgendo la nostra richiesta in particolare alla comunità cristiana: il rilascio degli ostaggi. Serve pressione per riportare a casa la nostra gente. Abbiamo 58 persone, là sotto, quaranta metri sotto terra, nelle condizioni che conosciamo. Abbiamo negoziato con Hamas. Ma li tengono lì, come arma per raggiunge il loro scopo che, in quanto jihadisti, è uno solo: cancellare il nostro popolo, e distruggere le altre religioni. Compresi i musulmani che non la pensano come loro, e che sono stati trucidati in quel Sabato Nero al pari di tutti gli altri. Ve lo posso garantire: se rilasciano gli ostaggi, ci sarà il più positivo e persistente cambiamento per Gaza e per tutta la regione. Come abbiamo visto in Siria e in Libano: situazioni che ci danno speranza. (così il presidente israeliano Herzog in un’intervista al quotidiano “Avvenire”)

La ferocia israeliana è forse il più grande paradosso della storia: da torturati a torturatori per colpa di un sentimento patriottico completamente fuorviante.

Altro che antisemitismo…

La tesi giustificazionista di Israele riguardo al genocidio di Gaza, che emerge anche dalle parole di Herzog, deve essere smontata pezzo per pezzo dal punto di vista etico, religioso, storico e politico.

I palestinesi non sono certo stinchi di santo, ma sono sempre stati lasciati a loro stessi, senza patria e senza degne prospettive di vita: si capisce persino la loro tentazione terroristica.

Come noto, in uno storico intervento al Senato, Giulio Andreotti, non certo un rivoluzionario, ebbe a dire: “Vorrei vedere come vi comportereste voi, se foste trattati da cani come i palestinesi…”.

Eticamente parlando, il comportamento di Israele non ha motivazioni plausibili se non quella della vendetta insensata e della rappresaglia spropositata.

Anche la storia parla in modo assai diverso dalla versione israeliana.

L’ipocrisia di Israele raggiunge il vertice nell’ostentata preoccupazione per i civili di Gaza: guardate come li tratta Hamas, urlano i democratici israeliani, così attenti ai diritti dei palestinesi. Hamas ha un atteggiamento tirannico, ma la sua tirannia non è nulla in confronto a quella di Israele, che ha imposto alla Striscia di Gaza un assedio di 7 anni e un’occupazione che dura da 47 anni.

L’assedio è la prima causa della distruzione della società e dell’economia di Gaza, e tante grazie a chi sostiene di volerla salvare, a chi si preoccupa della sua mancanza di democrazia, a chi si stupisce per la corruzione, a chi denuncia il fatto che i leader palestinesi vivono in hotel di lusso o in bunker nascosti, a chi si indigna per i soldi spesi per i tunnel e i razzi anziché per i parchi gioco e le attività ricreative. Grazie, grazie tante. (Gideon Levy, giornalista israeliano)

Se andiamo sul terreno religioso, come dimenticare che il potere in Israele e in tutto il mondo è fortemente condizionato dai vertici dell’ebraismo. Quante volte mi sono sentito dire che in Israele comandano i capi religiosi!

Dirò di più: leggendo l’antico testamento della Bibbia, che fa riferimento alla storia del popolo Ebreo, si intuisce l’equivoco religioso pazzesco in cui cadono gli Israeliani, accompagnato appunto da una bruttissima storia di potere e da una classe dirigente bigotta e spietata.

Mi convinco sempre più che la Bibbia va letta e interpretata alla luce del messaggio evangelico: se togliamo Gesù le religioni diventano trappole mortali. So di non essere molto interreligioso, ma senza Gesù l’uomo rischia una tragica deriva personale e comunitaria.

Gesù dice di porgere l’altra guancia e tutti sorridono, sminuiscono e sottovalutano il perentorio invito: il non vendicarsi non è una virtù, ma una necessità se vogliamo costruire la pace. Vale per tutti, anche per Israele, che deve uscire dall’imbuto della tremenda vendetta.

Mi permetto allora di toccare un tasto delicato: come coniugare il dialogo interreligioso con la necessaria condanna della complicità dell’ebraismo rispetto al massacro di Gaza e più in generale all’atteggiamento israeliano “colonialista” nei confronti dei palestinesi?

La ragion di stato e la realpolitik tentano di spiegare vomitevolmente l’atteggiamento morbido del cosiddetto Occidente democratico così ospitale nei confronti di Israele: è giunta però l’ora di finirla con la comprensione verso la furia vendicatrice e l’attenzione alle lacrime di coccodrillo.

A maggior ragione, dal punto di vista religioso, non è ammissibile voltarsi dall’altra parte, nascondersi dietro confusi e generici richiami alla pace del vogliamoci bene.

Un bel grattacapo per il nuovo Papa, il cui incipit teologico e pastorale è stata la ricerca della pace ed al quale vengono indirizzate pelose avance da parte israeliana – vedi l’intervista del presidente Herzog da cui sono partito: “Intendo porgere un messaggio sincero di amicizia, di rispetto e di dialogo. E voglio invitarlo in Terra Santa, qui da noi. Per incontrare il popolo israeliano” – sperando magari in un allentamento della posizione portata avanti da papa Francesco, peraltro nemmeno troppo spinta sul piano diplomatico, ma almeno cristianamente chiara.