Stiamo tirando la volata al terrorismo

Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza. Se c’era bisogno di un’ulteriore verifica per questa verità, ecco l’attentato terroristico a Gerusalemme. Sì, perché, quando di mezzo c’è anche la variabile impazzita del terrorismo, il discorso diventa ancor più tragicamente realistico.

La guerra perpetua non può essere però il destino della terra cara a tre religioni che predicano pace. Israele di fatto ha vinto militarmente, un 7 ottobre non potrà ripetersi, mentre non c’è modo di evitare al cento per cento singoli episodi. Continuare a uccidere e lasciare morire donne e bambini a Gaza costituisce un crimine in sé e finirà con il costringere Israele a chiudersi in un’armatura certo efficace quale protezione, avendo tuttavia diluito quel capitale di amicizia e sostegno che ne ha fatto un piccolo-grande Paese apprezzato per la sua storia, la sua cultura e la sua democrazia. Oggi più che mai gli estremisti arabi sono avvelenatori del loro stesso popolo: vanno isolati e disarmati. Lo Stato ebraico – che soffre, è lacerato al suo interno e non sa fermare un conflitto devastante – viene chiamato nelle ore più drammatiche a scelte, come l’accettazione di una tregua, che ridiano una speranza alla convivenza e un’occasione per costruire di nuovo insieme ai suoi alleati un futuro più sereno. Un futuro che veda placarsi il tornado di odio e violenza che ora lo sovrasta. (da “Avvenire” – Andrea Lavazza)

Il terrorismo non si combatte con la più larga e spietata delle vendette, non solo per motivi etici, ma anche per due ragioni tattiche: nel terrorismo assieme ai fanatici trovano voce i disperati che con la guerra tendono ad aumentare; i terroristi poi non hanno paura di morire e quindi sono brutalmente ed inevitabilmente vincenti.

Dove vuol parare il governo israeliano? Pensa di sconfiggere Hamas allargando sempre più il conflitto? Si illude di risolvere il problema annientando tutto il popolo palestinese? Ritiene opportuno trasformare Israele in un bunker inattaccabile e inviolabile?

Il bunker, per dorato che sia, potrà resistere ai futuri attacchi dei rimasugli terroristico-palestinesi, ma isolerà (sta già avvenendo) il popolo israeliano da tutto il mondo andando contro la storia.

Il cosiddetto mondo democratico occidentale sta cadendo in questa trappola: non trova il bandolo della matassa e continua a pestare l’acqua nel mortaio degli appelli al vento. Gli Usa di Trump sembrano fare questo ragionamento: se questa guerra perpetua sta bene ad Israele, sta bene anche a noi, cerchiamo di trarne qualche vantaggio. Il discorso funzionerà finché la dimensione bellica non oltrepasserà i confini regionali per raggiungere un vero e proprio conflitto globale e finché il terrorismo non passerà dai bus israeliani agli aerei statunitensi.

I Paesi europei, che dovrebbero capire meglio i rischi, se non altro per motivi di vicinanza geografica, reagiscono a parole, ma finiscono col chinare il capo, cavalcando magari la mentalità di chi trova conferma dagli eventi terroristici per convincersi della impossibilità di puntare almeno ad una tregua.

Persino la Chiesa cattolica balbetta: dichiara apertamente che la guerra è il peggiore dei mali e poi si rassegna diplomaticamente (?) alle mosse della sterile realpolitik.

Nemmeno eventuali attacchi terroristici in grande stile potranno scalfire la scorza del fatalismo bellico: tutti si chiuderanno ancor di più nei loro gusci. Il terrorismo avrà sostanzialmente vinto dando l’illusione di essere isolato mentre isolati saremo tutti noi.

Cosa potrà rompere questo circolo vizioso della guerra? Il circolo virtuoso della pace costruito sulle coscienze. Papa Francesco lo aveva capito e puntava lì tutte le sue cartucce evangeliche. Purtroppo lui non c’è più e il ricordo del suo messaggio profetico lo stanno mettendo negli archivi vaticani.

 

L’applausometro sepolcrale

Flavia Pennetta ex tennista, venuta a rendere omaggio alla salma di Giorgio Armani assieme al marito Flavio Fognini anche lui ex-tennista, ha detto una frase che mi ha letteralmente stordito: “Noi avremo un compito, quello magari con le nostre bambine di far capire che cos’è l’eleganza, quello che Armani è stato per tutti noi e continua ad esserlo”.

Qualche tempo fa mi è capitato di ascoltare involontariamente le chiacchiere di un gruppo di mamme in attesa dell’uscita dalla scuola elementare delle proprie figlie. Una di esse ostentava le proprie lamentele per l’eccessivo carico educativo a cui era sottoposta sua figlia: «Al lunedì e mercoledì scuola di musica, al martedì e al giovedì lezioni di danza classica, al venerdì e al sabato lezioni di inglese…dulcis in fundo era arrivata la goccia che rischiava di far traboccare il vaso, vale a dire il catechismo in parrocchia. Non se ne poteva proprio più…». Mi friggeva la lingua, ma mi sono trattenuto, avrei voluto dirgli: «Lei ha messo all’ultimo posto il catechismo non tanto in ordine di tempo, ma di importanza: rifletta sul fatto che dovrebbe stare al primo posto nella scala educativa, ben prima di tutti gli altri impegni…».

Don Raffaele Dagnino sarebbe stato ancor più provocatorio con quella mamma “moderna”, rivolgendole questo categorico invito: “Sarà zôgh c’la porta so fiôla a la scôla dilj òpri bón’ni…”.

Torno a Giorgio Armani ed al clamore suscitato dalla sua morte e dalla sua conseguente eredità culturale: ho sentito dire cose assurde del tipo che Armani avrebbe cambiato la nostra società. Ormai abbiamo perso il senso della misura e delle proporzioni.

Lungi da me sottovalutare il genio imprenditoriale di questo personaggio ed il suo contributo alla vita economica del Paese, ma cerchiamo di essere seri e di non farci prendere dalla smania di santificazione laica proprio nei giorni in cui la Chiesa cattolica ha santificato religiosamente due giovani della porta accanto, magari poco eleganti nelle loro scelte ma molto significativi nei loro messaggi esistenziali.

D’altra parte i funerali ormai comportano l’applauso facile: sotto sotto è un modo per esorcizzare la morte affidando il morto all’eterno (sic!) successo mondano. E pensare che il mio carissimo amico sacerdote don Luciano Scaccaglia veniva aspramente criticato per l’invito che rivolgeva ai partecipanti alla messa di applaudire alla proclamazione della Parola di Dio.

Ho apprezzato che Giorgio Armani abbia voluto funerali in forma privata: ci ha risparmiato un ulteriore fuorviante bagno di folla. Molto più saggio lui delle migliaia di suoi fans, che hanno dato aria ai denti in attesa di omaggiare la sua salma. La nostra società soffre la mancanza di valori assoluti e si attacca a quelli relativi.

Mio padre amava mettere a confronto il fanatismo delle folle di fronte ai divi dello sport e dello spettacolo con l’indifferenza o, peggio, l’irrisione verso uomini di scienza o di cultura. Diceva: “Se a Pärma a véna Sofia Loren i corron tutti, i s’ mason par piciär il man, sa gnìss a Pärma Fleming i gh’ scorzarisson adrè.”

Con tutto il rispetto per Sofia Loren credo che Giorgio Armani abbia fatto qualcosa in più, ma il ragionamento di mio padre era un altro: stiamo attenti a non incoronare re un personaggio nobile ma di portata ben più limitata.

A proposito di re mi sovviene la riflessione del cardinale Angelo Comastri sul terzo mistero doloroso del Rosario: l’incoronazione di spine di Gesù. Dice il cardinale: “Pensate quante corone mettiamo sul capo di personaggi mondani…sulla testa di Dio che ci viene a salvare ne mettiamo una di spine…”.

Chiedo scusa a Giorgio Armani anche perché non gli hanno fatto un gran servizio, probabilmente meritava ben altro che il superficiale bagno mediatico a cui è stata sottoposta la sua persona.

 

 

 

 

 

Porcherie anti-evangeliche e puttanate anti-etiche

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha accolto a braccia aperte l’omologo israeliano per sottolineare la «intensa amicizia» che legherebbe il Belpaese allo Stato ebraico, per poi lasciare che fosse Giorgia Meloni a fare gli onori di casa, ricevendo Herzog a Palazzo Chigi. Isaac Herzog, classe 1960, è presidente di Israele dal 2021. Come il primo ministro Netanyahu, su cui pende un mandato di arresto internazionale con l’accusa di aver commesso crimini di guerra, Herzog è uno dei più fervidi sostenitori di posizioni razziste nei confronti dei palestinesi, come dimostrato all’indomani del 7 ottobre, quando definì «l’intera nazione responsabile» degli atti di quello che Israele definisce «terrorismo».

Il presidente Herzog è stato ricevuto al Quirinale da un sorridente Sergio Mattarella, accompagnato da una banda che ha intonato l’inno dello Stato ebraico. Il quarto incontro tra i vertici delle due Nazioni si è caratterizzato per una conversazione intrisa di retorica vuota, all’insegna delle solite dichiarazioni di propaganda. L’amicizia tra Italia e Israele è solida e l’Europa è unita nella lotta contro il dilagante antisemitismo «che ha ripreso a circolare». Mattarella si è augurato che il cessate il fuoco tra Hamas e Tel Aviv riesca a tenere, permettendo così di compiere i passi necessari per garantire una «concreta prospettiva di futuro per i palestinesi», per la quale l’Italia si dice pronta a dare il proprio contributo. A chiudere i colloqui, la classica formula retorica ad effetto con la struttura incrociata: «non c’è pace senza sicurezza, ma non c’è sicurezza senza pace». (20 febbraio 2025 – L’INDIPENDENTE – Dario Lucisano)

Mi aveva, a dir poco, irritato il trattamento amichevole riservato da Sergio Mattarella al Presidente israeliano, peraltro in netta controtendenza rispetto alle posizioni assunte dal nostro Presidente in materia di politica estera spesso in dissonanza con gli indirizzi dell’attuale governo italiano. Evidentemente funziona a prova di Quirinale la conventio ad tacendum riguardo al genocidio messo in atto da Israele nei confronti dei palestinesi.

Se mi aveva sorpreso e contrariato il comportamento omertoso di Mattarella, figuriamoci cosa avrò provato di fronte a quello di papa Leone XIV, che ha ricevuto Herzog con tutti gli onori e i riguardi possibili.

L’udienza concessa al capo dello Stato di Israele, Isaac Herzog, non è ordinaria nemmeno per la tradizione spregiudicata del potere papale: non ha la prudenza né la saggezza. La bandiera israeliana nel cortile di San Damaso, gli onori militari resi dalla Guardia svizzera, la stretta di mano davanti ai fotografi, lo scambio dei doni, il tenore del comunicato stampa: ognuna di queste cose è uno scandalo (cioè, letteralmente, una pietra d’inciampo: specie per i cristiani). Perché Herzog rappresenta uno stato genocida: e papa Francesco – in sintonia con la scienza giuridica e la coscienza del mondo – chiamava ‘genocidio’ quello in corso a Gaza. E le parole e le azioni personali del presidente sono tra le prove del genocidio. Fu Herzog, tra l’altro, a dire: «è un’intera nazione là fuori che è responsabile. Questa retorica sui civili non consapevoli, non coinvolti, non è assolutamente vera». È a questo che papa Leone ha dato legittimità morale: quella stretta di mano è una assoluzione in mondovisione.

Alla fine dell’incontro, Herzog ha tra l’altro detto: «L’ispirazione e la leadership del Papa nella lotta contro l’odio e la violenza e nella promozione della pace in tutto il mondo sono apprezzate e fondamentali. Attendo con interesse di approfondire la nostra cooperazione per un futuro migliore all’insegna della giustizia e della compassione». Un abbraccio mortale, sul piano morale. Aver permesso al capo dello stato genocida di Israele di mentire così efferatamente, e di farlo sulla tomba di san Pietro, è una macchia, grave, che rimarrà sulla storia della Chiesa. (da “Invisible Arabs” – Paola Caridi e Tomaso Montanari)

Da cattolico credente e praticante in totale onestà evangelica ed intellettuale mi sento di affermare che qui lo Spirito Santo c’entra come i cavoli a merenda: queste sono autentiche porcherie religiose e puttanate diplomatiche, che gridano vendetta al cospetto di Dio.

E questa sarebbe la continuità con papa Francesco? Bergoglio si scaravolterà nella tomba nel vedere il suo successore compiere simili scandalose scelte politico-pastorali. Non c’è continuità col papato bergogliano, ma semmai con quello pacelliano (la titubanza verso il nazismo) e wojtyliano (l’accettazione dell’ospitalità di Pinochet).

Porcheria religiosa commessa in senso anti-evangelico, puttanata diplomatica che toglie autonomia ed autorevolezza all’azione vaticana. Mi chiedo: cosa ne penserà il cardinale Pizzaballa così coinvolto nelle problematiche della Terra Santa, cosa dirà il parroco di Gaza che era in filo diretto con papa Francesco, come la metterà il cardinale Zuppi, ambasciatore di Bergoglio?

Avranno il coraggio di fare come faceva il cardinal Martini ai tempi di papa Ratzinger: prendeva carta e penna per scrivere articoli sul non plus ultra della stampa laica (il Corriere della Sera), per distanziarsi apertamente, lealmente e motivatamente dalle linee del pontificato di Benedetto XVI.

«Il Sommo Pontefice, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario». L’articolo 1 della Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano esprime in forma ufficiale ciò che resta del potere temporale dei papi. È l’ultima traccia di quella doppia natura del papato, autorità religiosa e morale da una parte, signoria mondana dall’altra. Questa doppia natura, ci si è sempre chiesti, è coerente col comandamento del Signore circa l’essere «nel mondo, ma non del mondo», o invece non lega i successori di Pietro alla logica dei principati e dei regni, quelli che il diavolo promette a Gesù nelle tentazioni, ritenendoli suoi? In altre parole, il papa-sovrano che accetta la logica del potere mondano è il san Pietro che ama il Signore, o quello che lo tradisce?

A questa discussione secolare, papa Francesco aveva dato una risposta scardinante: quella della profezia. Un papa non secondo il mondo, ma secondo il Vangelo: capace di spiazzare ogni suo interlocutore perché la profezia e la potestà papale non avevano forse mai coinciso, nella storia bimillenaria della Chiesa. Il suo parlare era sì, sì, no, no: così contravvenendo alla prima regola del potere terreno, quella di una sistematica menzogna. Leone XIV non è, con ogni evidenza, un profeta: con lui il papato torna nell’alveo ordinario dell’esercizio del potere. Fin qui, purtroppo, nulla di strano: “strano” era Francesco. (ancora da “Invisible Arabs” – Paola Caridi e Tomaso Montanari)

Non voglio fare il saputello dell’anti-sagrestia, ma me lo aspettavo. Non ci vedevo e non ci vedo chiaro nell’immediato sollievo del mondo politico alla nomina di Prevost: la Chiesa che ritorna nel solco della tradizione intesa come conservazione degli equilibri interni ed esterni ad essa.

A chi mi chiede cosa farebbe di diverso papa Francesco rispondo con un esempio. Aveva fiutato l’aria che tirava ai massimi livelli verso i migranti. Ricordo quando si rifiutò di partecipare diverso tempo fa ad un convegno. Basti al riguardo riandare ad un commento che riporto di seguito. «Se c’è Minniti, allora non vado io». Dopo tre mesi si scopre il motivo per cui papa Francesco, oltre alla «gonalgia acuta» al ginocchio che già lo tormentava, ha deciso di non partecipare all’incontro finale fra vescovi e sindaci del Mediterraneo, che si è svolto a Firenze domenica 27 febbraio: la presenza dell’ex ministro degli Interni Marco Minniti, definito da Bergoglio senza mezzi termini «criminale di guerra» – visto il suo attuale impegno come presidente della Fondazione “Med-Or”, creatura di Leonardo spa, la principale azienda armiera italiana – nonché “padre” degli accordi fra Italia e Libia che consentono di respingere i migranti nei «campi di concentramento» allestiti nel Paese nordafricano (il Manifesto).

Ebbene se facciamo le debite proporzioni tra Herzog e Minniti, è facilmente immaginabile quale atteggiamento terrebbe papa Francesco verso uno stato genocida: infatti, in sintonia con la scienza giuridica e la coscienza del mondo, chiamava ‘genocidio’ quello in corso a Gaza.

Qualcuno sosteneva che Bergoglio non avesse molta dimestichezza con le questioni politiche ed entrasse quindi troppo a gamba tesa senza la prudenza necessaria: successe ad esempio in occasione delle ultime elezioni americane, quando si pronunciò per l’astensione nei confronti di due candidati che attaccavano i diritti dell’uomo, vedi aborto (Kamala Harris) e chiusura verso gli immigrati (Donald Trump). Rimasi anch’io un po’ perplesso, ma mi ricredetti in fretta: cercava di toccare le coscienze degli statunitensi coinvolti in una pericolosa deriva egoistica (i risultati si sono visti e si stanno vedendo).

Meglio esagerare col Vangelo in mano che farsi guidare dal galateo diplomatico.  Il papa deve essere un profeta che scombussola il mondo e non un burocrate che lo subisce.

Mi sono ripromesso di riservare un marcamento a uomo al nuovo Papa per comprenderne le intenzioni e valutarne le proposte. Speravo di non dovere ricorrere a falli da espulsione. Purtroppo il contropiede papale mi disturba e mi sento di combatterlo a costo di subire cartellini rossi: nella mia partecipazione alla vita ecclesiale ci sono abituato. La squalifica a vita però fortunatamente me la può dare solo il Padre Eterno.

 

 

 

 

 

I maliziosi-volenterosi e la furbastra-svogliata

L’intervento da remoto di Giorgia Meloni è durato pochi minuti. Alla Coalizione dei Volenterosi, alla quale comunque l’Italia ha “aderito”, risultando tra i 26 Paesi che daranno un contributo, la premier ha ribadito e confermato la linea concordata anche con gli alleati di governo: Roma non manderà truppe in Ucraina, a maggior ragione alla luce dei dubbi della Germania, ancora con più convinzione dato che la medesima scelta la fanno alleati forti come la Polonia.

La presidente del Consiglio, recita la nota diffusa dopo il vertice e dopo il confronto dei leader con il presidente Usa Donald Trump, «ha nuovamente illustrato la proposta di un meccanismo difensivo di sicurezza collettiva ispirato all’articolo 5 del Trattato di Washington, quale elemento qualificante della componente politica delle garanzie di sicurezza per l’Ucraina». In realtà, a quanto risulta, solo la leader italiana ha accennato al meccanismo durante la riunione, anche se resta valido il “placet” di Trump durante la riunione di agosto a Washington. L’opzione resta in campo ed è la più valida, secondo Roma. In serata si dà anche notizia che nei prossimi giorni ci sarà un incontro tecnico a livello di consiglieri per la sicurezza per approfondire la via italiana.

Allo stesso tempo, Palazzo Chigi ribadisce «l’indisponibilità dell’Italia a inviare soldati in Ucraina», mentre nel suo breve intervento Meloni «ha confermato l’apertura a supportare un eventuale cessate il fuoco con iniziative di monitoraggio e formazione al di fuori dei confini ucraini». Rispetto alla postura assunta a Washington, Meloni durante il meeting di ieri è sembrata molto più “europea” sulla richiesta di un cessate il fuoco come condizione ineluttabile per parlare di pace. La parola «formazione» poi dovrebbe essere più pragmaticamente declinata come «addestramento». L’Italia pur non mettendo gli “stivali nel fango” nell’ambito delle garanzie di sicurezza svolgerà un ruolo, a quanto si apprende anche abbastanza cospicuo, per addestrare soldati ucraini e questo potrebbe accadere anche nelle basi italiane in cui sono disponibili gli armamenti più richiesti da Kiev, in particolare i Samp-T. L’azione di addestramento potrebbe valere – ma si è nel campo delle ipotesi – anche per i militari dei Paesi che invece decideranno di inviare truppe, e che potrebbero dover usare gli armamenti forniti dall’Italia per la difesa dell’Ucraina.

La nota riferisce anche la posizione di Meloni al successivo collegamento dei Volenterosi con Donald Trump. «È stato riaffermato – spiega Palazzo Chigi – il senso di unità nel ribadire l’obiettivo comune di una pace giusta e duratura per l’Ucraina», che può arrivare unendo «il continuo sostegno» a Kiev, «il perseguimento di una cessazione delle ostilità» e «il mantenimento della pressione collettiva sulla Russia, anche attraverso lo strumento delle sanzioni». Anche per Meloni, inoltre, le «solide e credibili garanzie di sicurezza» possono essere definite solo «in uno spirito di condivisione tra le due sponde dell’Atlantico», ovvero con un ruolo degli Usa. Secondo quanto si apprende, anche Giorgia Meloni avrebbe respinto l’idea di svolgere a Mosca negoziati per la pace. In questo contesto il governo prepara anche un nuovo pacchetto di aiuti militari all’Ucraina e, probabilmente, a rinnovare il “decreto-cornice” che giustifica gli invii. (dal quotidiano “Avvenire” – Marco Iasevoli)

Chiedo scusa per la lunga citazione mentre mi complimento con il giornalista che ha saputo mirabilmente sintetizzare il tira e molla meloniano in difesa dell’Ucraina.

La frase “Armiamoci e partite” non è attribuibile a una singola persona, ma è nata come espressione ironica e caricaturale per criticare la retorica interventista, e tra i primi a usarla fu il poeta Olindo Guerrini nel 1897 nella sua opera “Agli Eroissimi”. Sebbene sia stata spesso associata a Benito Mussolini per la sua foga interventista, la sua origine è precedente al suo coinvolgimento nella scena politica, e fu ripresa in seguito, anche nel Ventennio fascista, per deridere chi spinge agli altri azioni rischiose senza prenderne parte.

Sono partito dalla storia, che purtroppo si ripete, per arrivare all’attualità politica di Giorgia Meloni nel suo problematico e contraddittorio approccio alla guerra in Ucraina: si sta arrampicando sugli specchi dei volenterosi con le mani sporche di grasso trumpiano. Vuole rimanere legata al pur complicato carro europeo, senza però scontentare gli alleati di governo e soprattutto andando d’amore e d’accordo con Donald Trump: un autentico rompicapo.

Personalmente nutro molte perplessità sulla strategia interventista (?) europea: il ruolo della Ue non è quello di schierarsi bellicamente in favore dell’Ucraina, ma quello di favorire e operare coerenti e concrete iniziative diplomatiche di pace adottando tutti gli strumenti possibili e immaginabili per dissuadere gli invasori e sostenere gli invasi. Si doveva e si poteva fare ciò fin dall’inizio: si è preferita la scorciatoia bellica nascosta dietro la facciata della difesa ad oltranza del diritto internazionale, salvo violare tale diritto in situazioni analoghe (vedi Israele-Gaza-Palestina).

Tuttavia non si può entrare in questa logica bellica rimanendo a guardare gli altri, nascondendosi dietro autentici escamotage diplomatici: sì alla difesa dell’Ucraina, ma…, purché siano altri a combattere sul campo e purché non dispiaccia all’equilibrista Tajani, al falco/colomba Salvini e soprattutto all’onnipotente e imprescindibile Trump.

Questa è la ridicola quadratura meloniana del cerchio: un compromesso all’italiana tra interventismo e neutralismo, tra bellicismo e pacifismo, tra volenterosi e svogliati. Siamo, in conclusione, all’armiamoci e partite. Non sarebbe meglio: disarmiamoci e partiamo in cerca di pace pagando i giusti prezzi che la pace esige.

La fine della mia vita professionale è stata caratterizzata da un corto circuito per certi versi simile alla diatriba internazionale ucraina. Ero direttore e dopo avere ingaggiato una battaglia per l’autonomia dell’azienda in cui lavoravo, finita in un equo accordo con chi rivendicava un ruolo di primazia politico-amministrativa, mi trovai, ironia della sorte, alle prese con chi voleva invadere il mio campo, affiancandomi un vice-direttore a guardia della mia autonomia. Al candidato, peraltro un buonissimo e laborioso collega che si prestava a stupide manovre, proposi di fare carriera specializzandosi, a spese dell’azienda, in importanti materie professionali e lasciando perdere la vice-direzione, incarico non adatto alle sue capacità. Persi la partita e mi dimisi. Pagai il prezzo per non volermi piegare, ma senza fare la guerra, sventolando la bandiera della pace professionale, senza cercare inutili e dannose complicità ai più alti livelli. L’azienda, nonostante tutto, fu salva.

Se Zelensky, gli Usa e la Ue avessero adottato una strategia apparentemente rinunciataria, ma profondamente garantista contro l’invasore russo, forse non saremmo arrivati al punto in cui siamo: tutti dovevano rinunciare a qualcosa per la salvezza dell’Ucraina, invece… e adesso è molto tardi, anche se non è mai troppo tardi. Non sarà certo la Meloni a invertire la tendenza con le sue manovre diplomatiche da quattro soldi.

Un coccodrillone accolto nella palude vaticana

Papa Leone XIV ha ricevuto in Vaticano il presidente israeliano Isaac Herzog. “Israele sta facendo tutto il possibile per restituire tutti gli ostaggi tenuti nella crudele prigionia degli assassini di Hamas – ha scritto il capo dello Stato ebraico in un messaggio su X -. Israele anela al giorno in cui i popoli del Medio Oriente, i figli di Abramo, vivranno insieme in pace, collaborazione e speranza”.

“I leader religiosi e coloro che scelgono la via della pace devono unirsi nel chiedere l’immediato rilascio degli ostaggi come primo ed essenziale passo verso un futuro migliore per l’intera regione – ha proseguito Herzog, ribadendo le richieste del governo di Benjamin Netanyahu -. Lo Stato di Israele, impegnato a garantire la libertà religiosa per tutti i credenti e determinato a continuare ad agire per la pace, la tranquillità e la stabilità in tutta la regione, è orgoglioso della sua comunità cristiana e si impegna a garantire la sicurezza e il benessere delle comunità cristiane in Terra Santa e in tutto il Medio Oriente, preservando il loro posto unico”.

Herzog si è quindi rivolto al Pontefice affermando che “la sua ispirazione e la sua guida, Papa Leone, nella lotta contro l’odio e la violenza e nella promozione della pace in tutto il mondo, sono apprezzate e importanti per tutti noi. Non vedo l’ora di continuare ad approfondire la nostra cooperazione per un futuro di giustizia e compassione”.

Dopo aver incontrato il pontefice, Herzog ha visto il Segretario di Stato Pietro Parolin, accompagnato da monsignor Paul R. Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni internazionali. “Nel corso dei cordiali colloqui con il Santo Padre e in Segreteria di Stato, – spiega una nota del Vaticano – è stata affrontata la situazione politica e sociale del Medio Oriente, dove persistono numerosi conflitti, con particolare attenzione alla tragica situazione a Gaza. Si è auspicata una pronta ripresa dei negoziati affinché, con disponibilità e decisioni coraggiose, nonché con il sostegno della comunità internazionale, si possa ottenere la liberazione di tutti gli ostaggi, raggiungere con urgenza un cessate-il-fuoco permanente, facilitare l’ingresso sicuro degli aiuti umanitari nelle zone più colpite e garantire il pieno rispetto del diritto umanitario, come pure le legittime aspirazioni dei due popoli”.

“Si è parlato di come garantire un futuro al popolo palestinese e della pace e stabilità della Regione, ribadendo da parte della Santa Sede la soluzione dei due Stati, come unica via d’uscita dalla guerra in corso. Non è mancato un riferimento a quanto accade in Cisgiordania e all’importante questione della Città di Gerusalemme”, spiega il Vaticano. “Nel prosieguo dei colloqui – conclude la nota -, si è convenuto sul valore storico dei rapporti tra la Santa Sede e Israele e sono state affrontate anche alcune questioni riguardanti i rapporti tra le Autorità statali e la Chiesa locale, con particolare attenzione all’importanza delle comunità cristiane e al loro impegno in loco e in tutto il Medio Oriente, a favore dello sviluppo umano e sociale, specialmente nei settori dell’istruzione, della promozione della coesione sociale e della stabilità della regione”. (da “Il Fatto Quotidiano”)

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Udito ciò, Pilato domandò se era Galileo e, saputo che apparteneva alla giurisdizione di Erode, lo mandò da Erode che in quei giorni si trovava anch’egli a Gerusalemme.  Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto, perché da molto tempo desiderava vederlo per averne sentito parlare e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui.  Lo interrogò con molte domande, ma Gesù non gli rispose nulla.  C’erano là anche i sommi sacerdoti e gli scribi, e lo accusavano con insistenza. Allora Erode, con i suoi soldati, lo insultò e lo schernì, poi lo rivestì di una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici; prima infatti c’era stata inimicizia tra loro. (dal vangelo secondo Luca)

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Pilato gli domandò: «Sei tu il re dei Giudei?» Gesù gli rispose: «Tu lo dici». I capi dei sacerdoti lo accusavano di molte cose; e Pilato di nuovo lo interrogò dicendo: «Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!» Ma Gesù non rispose più nulla; e Pilato se ne meravigliava. (dal vangelo secondo Marco)

 

Non so se il presidente israeliano Herzog assomigli più a Pilato o ad Erode. Quanto a lavarsi le mani dell’eccidio perpetrato dai governanti del suo Paese, sembrerebbe avvicinarsi molto a Pilato che si lavò le mani dell’omicidio di Gesù; quanto al voler dialogare a tutti i costi col Vaticano, come se niente fudesse o sgattaiolando diplomaticamente, sembrerebbe un curioso Erode dei nostri tempi.

Mi pongo però anche un’altra maliziosa domanda: papa Leone assomiglia a Gesù, che non accettò di dialogare con Pilato e, ancor meno, con Erode? I motivi per tentare un qualche dialogo c’erano eccome, però Gesù non si sporcò la bocca con questi personaggi della politica di allora così simili a quelli della politica di oggi.

Dico la verità: avrei preferito che Prevost non avesse ricevuto Herzog. Il gioco diplomatico non vale la candela della verità e la verità è che Israele sta massacrando un intero popolo e bisognerebbe dirlo a chiare lettere senza usare le paroline fuorvianti della diplomazia.

Invece papa Leone è caduto nell’abile trappola tesa da Herzog: un vergognoso dribbling della tragica realtà, una sporca deviazione dialettica accompagnata da una scoperta “leccata” pseudo-religiosa.

È la diplomazia, stupido! E in questa materia nessuno la sa più lunga del Vaticano…Senonché ai bambini palestinesi delle acrobazie diplomatiche vaticane non può fregar di meno.

Mi auguro che, almeno nel dialogo a tu per tu, papa Leone abbia sbattuto in faccia al suo interlocutore l’inaccettabile realtà e abbia espresso fuori dai denti l’invito ad assumersi le proprie responsabilità a questo presidente fantoccio, un autentico e paradossale “coccodrillone”, che gioca a fare il poliziotto buono.

Chi sono io per insegnare il Vangelo al Papa? Lasciatemi aggiungere soltanto un’altra chicca evangelica: “Il vostro parlare sia sì, sì; no, no: il di più viene dal maligno!” (dal vangelo secondo Matteo).

 

 

 

 

 

 

 

Con un po’ di fantasia…

Si augura che da Pechino parta “un messaggio di pace”. Ma rimbalzando a Roma generano un vespaio di polemiche le parole di Massimo D’Alema, in piazza Tienanmen nella giornata della grande parata militare in occasione dell’ottantesimo anniversario della vittoria cinese nella seconda guerra mondiale. Da Carlo Calenda (Azione) a Galeazzo Bignami (FdI), passando per Maurizio Gasparri (FI), è un coro di indignazione, mentre non manca chi come Maurizio Acerbo del Partito della Rifondazione Comunista plaude all’ex presidente del Consiglio.

Occhiali da sole e maglioncino sulle spalle, D’Alema è stato intervistato da una tv cinese, e una quarantina di secondi di quel video, in italiano con i sottotitoli, sono rimbalzati sui social. “È importante ricordare la lotta eroica del popolo cinese, così importante non solo per la Cina ma per tutta l’umanità per la sconfitta del nazismo e del fascismo – le parole dell’ex segretario del Pds, ministro degli Esteri del governo Prodi -. Sì, viviamo un momento difficile nelle relazioni internazionali, io spero, confido che qui da Pechino venga un messaggio per la pace per la cooperazione, per il ritorno di uno spirito di amicizia fra tutti i popoli e per porre fine alle guerre che purtroppo insanguinano in modo così tragico diversi Paesi del mondo”.

A marzo in un dibattito assieme a Gianfranco Fini, D’Alema raccontò di un incontro con Voldymyr Zelensky che gli chiese “di andare in Brasile e a Pechino per capire se Lula e Xi Jinping potevano fare qualcosa”. La prima missione d Lula, spiegò, andò male. Nella seconda, raccontò, “il responsabile della politica estera del partito comunista (…), mi disse: si potrebbe pensare a una forza internazionale, un po’ come accadde nel Kossovo. Poi mi congedò con una frase che mi fece riflettere: sa, lei è il primo europeo venuto a parlarci di questo, gli altri ci chiedono solo di non sostenere la Russia”. (ANSA.it)

La politica richiede idealità temperata da concretezza, concretezza condita da fantasia. Interpreto questa mossa dalemiana in questo senso: è partito dalla lotta eroica del popolo cinese contro fascismo e nazismo per arrivare pragmaticamente a prendere atto che la Cina, al di là dei tatticismi di facciata più o meno filo-putiniani, rappresenta indubbiamente un elemento di notevole interesse a livello geopolitico in una prospettiva di revisione dei rapporti internazionali finalizzata ad una qualche ipotesi di convivenza pacifica.

L’incallirsi su schemi rigidi e superati che non stanno portando da nessuna parte viene spacciato come comportamento politicamente corretto atto e perpetuare uno status quo bellico. Fare qualche mossa, anche estemporanea, può aiutare ad uscire dall’impasse. L’intelligenza politica non fa certo difetto a Massimo D’Alema, purtroppo condizionata, per sua stessa ammissione, da una notevole dose di presunzione e di protagonismo.

Da parte mia interpreto questa mossa come una provocazione, che fa riflettere al di là delle scandalizzate reazioni della politica ufficiale. Il messaggio vuole mettere in rilievo l’importanza del ruolo cinese nello scacchiere internazionale e se non valga la pena di utilizzare questo dato incontestabile per avviare una ricerca di nuovi equilibri.

D’Alema ha recentemente affermato che l’assetto internazionale prescinde dai valori e financo dagli interessi per attestarsi su una deriva globale di potere più mediatico che effettivo. Forse rimettere al centro del mondo almeno gli interessi nazionali per trovarne una combinazione multilaterale non è un’idea peregrina.

Dall’alto (o dal basso) della sua comprovata capacità di mettere sale sulla coda di amici ed avversari, con questa strana (?) uscita ha spiazzato tutti, probabilmente anche in Italia, laddove governo, maggioranza ed opposizione sono bloccati su una visione usa-centrica e occidentalistica, peraltro superata dai fatti: tirare un sasso in questa penosa piccionaia non risolve nulla, ma tutto può servire a smuovere le acque stagnanti e sempre più putride.

Volete un esempio dello stagno pseudo-parlamentare in cui è bloccata la politica estera italiana?

La Russa: “Ho incontrato i capigruppo del Senato su necessità di convocare Aula su tema guerre”. “Il Senato già ieri ha ripreso i lavori con la possibilità delle Commissioni di convocarsi. Oggi ho incontrato separatamente, perché non era una capigruppo ufficiale, esponenti della maggioranza e i capigruppo dell’opposizione, quasi al completo, anche perché nel frattempo mi è arrivata la richiesta sia per telefono che per iscritto di una convocazione dell’Aula per affrontare i temi sui venti di guerra che purtroppo insanguinano ancora il mondo. É un tema che trova piena condivisione tra maggioranza e opposizione, con l’invito al governo a farci sapere chi verrà in Aula per questo confronto” così il Presidente del Senato Ignazio La Russa a seguito dell’incontro con esponenti della maggioranza e capigruppo delle opposizioni in Senato. (Fonte: Agenzia Vista).

Altro che sassi, qui ci vorrebbero dei macigni per svegliare il mondo parlamentare. D’Alema ha perlomeno tirato una pietra e tutti naturalmente si sono affrettati a ributtargliela addosso.

 

 

Inestetismi teatrali e patologie culturali

«La direzione invita il pubblico a scegliere un abbigliamento consono al decoro del teatro, nel rispetto del teatro stesso e degli altri spettatori», spiega il sito del Piermarini. E i nuovi cartelli informano il «gentile pubblico» che non sono consentite «canottiere, pantaloncini corti e ciabatte»: tutti indumenti barrati in rosso negli avvisi, insieme con il cibo e le bibite, così da essere ancora più chiari. E chi non si adeguerà non avrà diritto né a varcare le soglie del teatro né ad avere un rimborso del biglietto.

“D’istè as zuga a bòci!” così sentenziava Arturo Toscanini, intendendo preservare il melodramma e la musica classica dalle interferenze estive. Aveva ragione anche se non credo si preoccupasse tanto del pubblico in ciabatte quanto delle messe in scena e delle esecuzioni approssimative ad uso turistico.

Di fronte alla rigorosa presa di posizione scaligera mi chiedo provocatoriamente: sono più censurabili gli abbigliamenti casual degli spettatori o gli acuti sparati dai cantanti alla viva il parroco, le ciabatte dei turisti o le ciabattone regie teatrali anticonformiste, disturbano più i trilli dei telefoni cellulari o i messaggi snob di scenografi e costumisti d’assalto?

“Ho un mio modo irrinunciabile di concepire la cultura. Prude. Sono del parere che fa cultura chi si gratta e non chi scrive un trattatelo “Sui vari modi di grattarsi”: così scriveva il mio indimenticabile amico Gian Piero Rubiconi, esperto musicale e operatore teatrale di altissimo livello.

Gian Piero collezionava dischi non per una malcelata bulimia filologica, ma per la sete inestinguibile di ascoltare, di raffrontare, di approfondire, di commuoversi. L’enorme patrimonio di incisioni e registrazioni dal vivo non lo teneva per sé, ma amava comunicarlo, metterlo a disposizione di tutti, soprattutto dei suoi giovani amici appassionati. I suoi “colleghi” collezionisti lo rimproveravano di essere troppo generoso e di non difendere a dovere il proprio patrimonio discografico, ma soprattutto quello delle preziose ed appetibili registrazioni “pirata”. Qualcuno minacciava di non fare più con lui scambi di materiale, dal momento che tale materiale veniva poi troppo divulgato. Una volta si sfogò e mi disse: «Capirai… se mi metto a fare il custode impenetrabile di nastri su cui sono incisi autentici pezzi di cultura. Se me li chiedono, glieli do volentieri: li ascoltano, discutono, si divertono. La cultura è scambio, esige di essere fatta circolare, non è strettamente riservata ad alcuno…». Da una parte aveva un alto e professionale concetto di arte, di cultura, quasi al limite dell’aristocratico, dall’altra prediligeva il senso popolare della cultura stessa, ne perseguiva la diffusione, amava divulgarla. Sane ed apparenti contraddizioni: competenza, preparazione, alta qualità per chi produce; massima apertura e disponibilità per chi fruisce. In effetti l’opera lirica ha proprio la caratteristica di essere la sintesi tra l’élite dei musicisti e degli interpreti e il vasto pubblico degli amatori. Chi non è capace di sintetizzare i due aspetti della cultura si chiude in uno splendido quanto inutile isolamento e cade nello snobismo di chi magari si scandalizza dell’entusiasmo per un acuto. Gian Piero non era certamente uno snob anche se viveva in un ambiente, quello teatrale, che ne è zeppo.

Torno polemicamente alle scenografie e regie d’avanguardia, alle messe in scena antitradizionali etc. etc. Mio padre era drasticamente contrario a queste innovazioni, era un autentico “matusa” in questo campo, anche se ammetto non avesse tutti i torti. Cito un episodio significativo in tal senso.

Nell’ultimo atto dell’opera Falstaff, la vicenda si svolge in una foresta e Sir John dice espressamente “ecco la quercia” per identificare il luogo dell’appuntamento. “Mo indò éla?” gridò mio padre dal loggione, dal momento che la scena non aveva neanche l’odore della quercia. Maleducato? Sì! Aveva ragione: almeno un po’, sì!

L’etimologia della parola “educazione” rimanda al latino “educatio” e, prima ancora, a “educere”, che significa “trarre fuori” o “condurre fuori”. Questo suggerisce che l’educazione non è tanto un’azione di riempimento di nozioni, quanto piuttosto un processo di sviluppo delle potenzialità insite nell’individuo, portandole alla luce.

Chi è più maleducato? Chi trasgredisce certe regole o chi non crea i presupposti alle regole? Chi si gratta o chi scrive un trattatelo “Sui vari modi di grattarsi”?

 

 

 

 

 

 

Al centro con…papa Prevost

In questi giorni un caro e giovane amico mi ha regalato un libretto sui 100 pensieri tratti dagli scritti di Albino Luciani, sacerdote, vescovo e papa. Gli ho risposto come di seguito.

“Ti ringrazio del pensiero e dell’omaggio. Papa Luciani, che avevo inizialmente sottovalutato, mi è rimasto nella mente e nel cuore. Spero possa essere così anche per papa Prevost, anche se le attuali perplessità mi restano, non tanto sul suo conto, ma in merito al contesto e alle finalità della scelta operata in conclave. 

Mia sorella aveva una sua paradossale e intrigante versione della morte di papa Luciani. Diceva: “Gli hanno fatto conoscere Paul Marcinkus e gli è dato un colpo…”. Non ho idea di cosa direbbe di Leone XIV: probabilmente, come me, sarebbe condizionata dalla straripante umanità di Bergoglio e dalla portata innovatrice del suo pontificato”.

I papi, almeno quelli di cui ho potuto osservare e apprezzare l’impostazione pastorale, hanno quasi tutti, oserei dire sistematicamente, contraddetto le intenzioni dei loro elettori: i cardinali sono alla ricerca di conferma se non addirittura di conservazione, mentre i papi sono portati al rinnovamento.

Fu così per Giovanni XXIII, eletto in quanto anziano e transitorio “bontempone”, che seppe aprire dialoghi impensabili col mondo comunista, che cambiò l’approccio della Chiesa al tema della pace, che ebbe il coraggio di convocare un Concilio Ecumenico per un fortissimo rinnovamento ecclesiale tuttora incompiuto.

Fu così per Paolo VI, scelto nel segno della continuità e di un ritorno alla normalità dopo il terremoto conciliare, che seppe impostare un’altissima, magisteriale e soffertissima azione di rapporti col mondo contemporaneo e di elevazione della vita ecclesiale.

Fu così per Giovanni Paolo I, un papa che doveva essere ostaggio di una curia invischiata negli affari, che invece seppe smascherare questa atroce realtà fino al punto di morirne di crepacuore.

Giovanni Paolo II, probabilmente eletto per contrastare finalmente il mondo comunista, diede una svolta totale andando in tutto il mondo a “mendicare” scelte evangeliche da tutti gli uomini di buona volontà.

Benedetto XVI, simbolo di una ritrovata e per certi versi nostalgica ansia identitaria, seppe andare ben oltre il rigore dottrinale per affrontare una Chiesa con enormi problemi di correttezza istituzionale e comunitaria e rimanerne sconvolto al punto da dimettersi.

Papa Francesco fu eletto per ridare fiato e credibilità ad una Chiesa compromessa e invischiata negli affari e nelle porcherie del mondo. Senonché, ad un certo punto, andò talmente forte sulla strada del cambiamento da preoccupare parte dell’establishment, che lo vedeva scappare di casa per andare incontro agli uomini e alle donne del nostro tempo. Troppo umano per essere accettato e assecondato.

Arriviamo a papa Prevost: continuità o svolta normalizzatrice? La continuità la vedo più a livello di facciata, mentre la normalizzazione la colgo in tante continue scelte di vario tipo. Colgo una sorta di respiro di sollievo rispetto alle provocatorie mosse di papa Francesco. L’altro giorno ho seguito in tv la messa domenicale, trasmessa da una rete Mediaset, ripresa dalla Casa generalizia delle suore figlie di Santa Maria di Leuca in Roma, che si è celebrata col silenziatore sociale, con un’omelia al cloroformio, in un clima liturgico triste, ingessato e clericalizzato, che oltretutto era in netta contraddizione rispetto alla portata evangelica dei brani contenuti nella liturgia della Parola (sono venuto a portare il fuoco, la spada, etc. etc.).

Mi sono chiesto maliziosamente: è questa la normalizzazione che in tanti aspettavano? È questa la Chiesa che non dà fastidio al potere? È questo il nuovo indirizzo pastorale che riporta la Chiesa in sagrestia? Domande provocatorie! Unità nel conformismo? Tradizione ritrovata, curia mezzo salvata? Un papa che piace un po’ a tutti, non piace a me! Non so bene spiegare il perché, ma sento puzza di bruciato, vale a dire di ritorno ad una Chiesa più istituzionale che umana, che fa finta di essere nel mondo, ma rischia di finire fuori dal mondo, quello di chi soffre.

Adottando una metafora politica per rendere l’idea, in una Chiesa forzosamente e schematicamente divisa tra destra e sinistra, non esiterei a collocare papa Prevost al centro: un centro moderato, che guarda a sinistra, ma rischia di essere funzionale alla destra.

Spero di sbagliarmi. Probabilmente sono condizionato, come detto sopra, dalla straripante umanità bergogliana, dal suo parlare alle coscienze, dal suo stile prettamente evangelico, dal suo andare oltre gli schemi, dal suo incontenibile approccio misericordioso.

Roberto Benigni, presente in una trasmissione Rai ai tempi della contrapposizione fra Prodi e Berlusconi, ebbe a dire furbescamente: io non mi schiero né per l’uno né per l’altro, dico solo che Berlusconi non mi piace. Provo ad imitare Benigni: non faccio una scelta aprioristica tra Bergoglio e Prevost, però Prevost non mi sfagiola troppo… Magari col tempo mi ricrederò…

 

 

Il portafoglio nelle tasche bucate del PD

“Giorgia Meloni ha una strategia efficace, entra in sintonia culturale con mondi diversi dal suo. Il centrosinistra quella strategia non l’ha ancora trovata. Ma deve”.

 “Non voglio dare giudizi, ma siccome a me interessa che il centrosinistra vinca le elezioni, non posso non notare che mentre Meloni ascolta ed entra in sintonia culturale con mondi lontani da lei, come Cl o la Cisl, il centrosinistra sembra non essere in grado di mettere in campo una sua strategia per parlare a quanti, non sentendosi rappresentati, si rifugiano nell’indifferenza e quindi nell’astensionismo”.

Direi che la responsabilità di questa chiusura sia ascrivibile ad un certo sguardo dell’attuale Pd, fisso a sinistra. Solo a sinistra. Manca l’approccio interclassista. Perfino Togliatti, che pur si muoveva in un contesto ideologico che di per sé non facilitava l’ascolto di mondi diversi, parlava di ceti medi. Facendo capire che un partito di governo deve avere l’ambizione di usare anche il loro linguaggio”.

Sono alcuni passaggi di un’intervista Di Graziano Delrio, esponente del Partito democratico, rilasciata al Corriere della Sera.

Ho grande stima per Graziano Delrio e condivido il suo anelito “interclassista”. Devo ammettere però che il Partito Democratico è combattuto fra l’esigenza di colmare le proprie lacune programmatiche elaborando contenuti di sinistra (si pensi solo ai problemi della pace e dell’immigrazione) e la necessità politica di aprirsi a mondi non strettamente riconducibili alla sinistra. Elly Schlein non è riuscita in nessuno di questi due obiettivi: la proposta programmatica è troppo generica e limitata; la strategia politica è schiacciata sugli equilibrismi partitici e sulle pregiudiziali identitarie.

Non facciamoci dettare l’agenda da Giorgia Meloni: non penso valga la pena di ispirarsi tatticamente alle sue opportunistiche sintonie. Non bisogna temere che possa sfilare in tutto o in parte il portafoglio socio-politico dalle tasche bucate del PD.  Si lasci la Meloni al proprio destino assieme a quei mondi che sono suoi e che non aspettano altro che di imbarcarsi sulla sua nave. L’integralismo cattolico è destinato irrimediabilmente a sfociare a destra, non rincorriamolo per l’amor di Dio. Non illudiamoci di poter foderare le orecchie di certi mondi conservatori che hanno un piede nella tomba reazionaria per evitare che seguano le sirene della destra. Occorre invece entrare in dialogo con le forze sociali e con i cittadini aperti ad una politica progressista vincendo le loro perplessità e la loro sfiducia.

Quante volte mi sono chiesto chi possa avviare la rifondazione piddina. Graziano Delrio è certamente un personaggio adatto allo scopo, purché esca dal suo buonismo isolazionista e abbia il coraggio di buttarsi nella mischia. Fino ad ora la classe dirigente del PD è stata propaggine di comunisti e cattolici provenienti da esperienze alquanto superate. L’errore è stato probabilmente quello di mettere insieme due culture, che peraltro avevano fatto la fortuna della resistenza prima e della repubblica poi, pensando che potessero avere l’automatica capacità di interpretare un mondo nel frattempo molto cambiato. Esperimento valido in teoria, fallito in pratica.

La scelta Schlein voleva essere una variabile calda, oserei dire impazzita rispetto agli schemi di una fusione a freddo che non ha trovato compiuta realizzazione.

Non è corretto buttare la croce addosso a Elly Schlein: ha fatto e sta facendo quel che può anche se è estranea alla storia dei comunisti e dei cattolici. La botte dà il vino che ha… I piddini più critici sono indubbiamente quelli provenienti dall’area cattolica popolare e di sinistra a cui mi onoro di fare riferimento ideale ed esperienziale. Le loro sacrosante critiche hanno però un limite: non arrivano a concrete proposte di contenuto e di metodo, restano a mezz’aria o meglio dire nell’aria prepolitica. Sono uno fra i tanti (?) che aspettano una chiamata, ma al momento non la sento e allora…

Ci sono alcuni temi che chiedono e aspettano considerazione attiva da una sinistra degna di tale nome. Si parta di lì per allacciare rapporti, non per scimmiottare Giorgia Meloni, ma per fare una politica credibile, accattivante e coinvolgente.

Le pisciate di Trump alla prova del vento futuro

La frase “molti nemici, molto onore” è un’espressione idiomatica che significa che un gran numero di avversari e oppositori indica un grande valore e prestigio della persona. Non c’è un unico autore, ma è attribuita a vari personaggi storici, tra cui il condottiero tedesco Georg von Frundsberg.

“Molti nemici, molto onore”, firmato Mussolini. L’avevo letto fin da bambino sulle medaglie dei familiari che avevano combattuto nella guerra di Etiopia, una frase dipinta o scolpita sulle facciate dei palazzi dell’Era fascista. Avevo percepito subito un senso di orgoglio in quelle parole. Poi, crescendo, ho cominciato a studiare la storia e mi sono reso conto che è vero quello che diceva del Duce il re Vittorio Emanuele III, “è una brava persona ma ha studiato poco la storia”. 

La storia, infatti, dimostra il contrario, cioè che, se i nemici sono tanti, il rischio è grande. Di situazioni del genere se ne conoscono molte. Senza andare molto lontano nel tempo basta ricordare Napoleone, sicuramente un grande generale ed un amministratore accorto del suo impero, che però decide di combattere contro tutti in Europa, dall’Inghilterra alla Prussia, alla Russia. Così Hitler, alla guida di una potenza industriale ed economica che gli aveva consentito di realizzare un dispositivo militare indubbiamente potente, decide di combattere su tutti i fronti, in Africa in Russia, contro la Francia e l’impero Inglese, ignorando il possibile apporto degli Stati Uniti d’America, che nella Grande Guerra erano intervenuti a fianco degli inglesi. La Germania dimostra una evidente visione limitata del quadro internazionale che, peraltro, per quanto riguarda l’Italia, era stato correttamente rappresentato a Mussolini dai gerarchi più attenti, a cominciare da Dino Grandi che, da ambasciatore d’Italia a Londra per molti anni, di quel mondo e di quel popolo aveva percepito la straordinaria determinazione. Tanto che il Primo Ministro, Winston Churchill, nei momenti più drammatici della battaglia d’Inghilterra, avrebbe promesso ai suoi concittadini “lacrime e sangue”, mai la resa. 

E così il motto “molti nemici, molto onore” mi è tornato alla mente osservando la situazione politica attuale, le scelte della maggioranza che, nell’assumere responsabilità di governo promette di combattere contro tutti, di riformare la Costituzione, quanto alla forma di governo, di incidere sulla Magistratura eliminando reati e dividendo le carriere, di entrare in conflitto con mezza Italia con l’“autonomia differenziata”, di criticare l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), prevista da una legge di ratifica di un trattato internazionale, istituzione che fra l’altro è ben vista dai cittadini, di cercare di ridimensionare la Corte dei conti. (Salvatore Sfrecola)

Il più autorevole attuale personaggio politico che sta adottando la logica del “molti nemici molto onore” è Donald Trump: il discorso vale nei rapporti internazionali per i quali sta scombussolando le alleanze all’insegna del ricatto e della rivalsa, le inimicizie giocandole sul filo del rasoio del bastone e della carota, il mondo intero considerato un giocattolo da smontare e rimontare a suo piacimento.

Anche all’interno della società e delle istituzioni americane Trump ha dichiarato guerra a intere categorie di persone (immigrati, studenti, uomini di cultura, omosessuali, etc. etc.) nonché al Parlamento, alla Federal Reserve, all’Agenzia sanitaria nazionale, alle Corti d’appello e a chi osa mettere in discussione la legittimità delle sue scelte politiche.

Ogni giorno c’è un nemico da combattere o comunque un potenziale nemico da illudere e imbrogliare (vale anche per i cattolici statunitensi e alcuni dei loro vescovi catturati dalla rete dell’anti-trasgressione). Temo che persino il Vaticano possa vacillare, condizionato più o meno volutamente, dai natali statunitensi di papa Prevost. Quanto all’Europa altro che vacillamenti!

Fino a quando potrà andare avanti questa impostazione da autentico regime, che trova peraltro un certo riscontro anche nel centro-destra al governo in Italia? Se è vero che i cani abbaiano perché hanno paura, evidentemente Trump di paura ne deve avere parecchia.

Fare paura è lo sport preferito da chi ha paura.  Poco o tanto tutti però stanno a questo gioco perverso e non se la sentono di reagire, salvo qualche rara eccezione che purtroppo conferma la regola.

Mio padre si lasciava andare a sintetizzare la parabola storica di Benito Mussolini, usando questa colorita immagine: «L’ à pisè cóntra vént…». Spero che possa succedere anche a Trump, possibilmente prima che riesca a farci pisciare sangue come succede alle bestie distrutte dalla fatica.