Il pacifismo dal volto umano e…politico

Un’alternativa pacifista che Tarquinio sta provando a portare avanti anche in Parlamento, dove «stiamo lavorando per cercare di correggere la rotta dell’Unione in un momento in cui sta scegliendo la strada del riarmo dei singoli Stati europei, piuttosto che quella della costruzione di una dimensione comune su tutto, dal sociale alla difesa, che non è sinonimo di spesa militare, ma è anche azione diplomatica, cooperazione internazionale…» spiega. 

Ho scelto questa dichiarazione di Marco Tarquinio, parlamentare europeo, per dare un senso politicamente compiuto al sacrosanto pacifismo, ridotto dai più realisti del re a mera, manierata e inconcludente espressione di dissenso globale.

In questi giorni mi è venuta spontanea una riflessione. Checché ne dica Giorgia Meloni (mi fa più pena che rabbia…), stiamo vivendo una catastrofe etico-culturale prima e più che politica. Rassegnarsi alla guerra, consegnare il potere alle armi, è l’espressione più clamorosa della deriva in cui stiamo sprofondando e che ci sta portando a considerare la politica (e la democrazia che ne dovrebbe costituire la traduzione istituzionale) come ostruzionistico giochetto per gli ingenui.

Fino ad ora ho vissuto (cercato di vivere) sulla base della fede cristiana coniugata con la politica (anche la professione politicizzata nonché il pensionamento dedicato al volontariato e alla scrittura impegnata), vale a dire l’attenzione e l’impegno alla società in particolare ai soggetti più deboli e fragili.

Purtroppo la politica non esiste più!? Rimane la fede, ma rischia la paralisi di fronte ad un sistema becero, camaleontico, inesorabile, che non ammette repliche. Anche il volontariato spesso fa da foglia di fico all’ingiustizia dominante.

Allora?

Ci stiamo preparando alla Pasqua: dobbiamo risorgere. Il sepolcro era buio e sigillato, ma le donne di prima mattina sono andate timorose e lo hanno trovato aperto. Cosa c’è di più buio e sigillato dell’odierno sepolcro globale. Eppure bisogna sforzarsi di andare a vedere cosa succede…

Mi sento molto vicino ai discepoli di Emmaus: per loro era tutto finito. Aveva vinto il potere! Ma si è fatto loro vicino uno strano viandante che la sapeva lunga. Fidiamoci di questo viandante e ripartiamo da Lui. Non parlava apparentemente di politica, ma di sacre scritture e di eucaristia. Cenò con loro e tutto risultò chiaro anche se problematico.

Chi è Donald Trump per rovinare tutto e toglierci la speranza dal punto di vista umano e politico? C’è qualcuno che è più forte di Trump. Chi è Giorgia Meloni per faci credere che tutto andrà bene dandola su al più forte. C’è qualcuno che è più coerente e credibile di Meloni e c.

Conviene fare affidamento in Lui, ripartire sempre da Lui: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi”.

 

 

Melonicamente incerti, trumpianamente sicuri

Qual è il sentiment popolare che sostiene l’ondata di destra, quel sacco politico legato da Trump, che contiene molto più di Trump, vale a dire tutti coloro che ne condividono la logica populista e sovranista (detto fuori dai denti: il fascismo odierno!).

Il bisogno di sicurezza! Le classi dirigenti sfruttano questo disagio socio-culturale e lo trasformano politicamente in protezionismo, bellicismo e razzismo. Si sta formando una sorta di internazionale sovranista in cui trova posto anche il governo italiano.

Molti si chiedono perché Giorgia Meloni sia così ondivaga rispetto allo scenario trumpiano, così indecisa nell’atteggiamento da tenere rispetto agli equilibri che si stanno delineando. La risposta sta nel fatto che ideologicamente Meloni è collocata a destra e con la destra punta all’’Europa della non Europa, anche se si sforza di presentarsi come moderata e pragmatica.

Proprio in questi giorni il governo italiano ha varato il cosiddetto decreto-sicurezza, suscitando perplessità, inquietudini e contestazioni. La logica stringente di questo provvedimento è quella di devitalizzare la critica e la protesta, arrivando persino a criminalizzarle. Verrebbe spontaneo dire: trumpianamente sicuri.

L’inganno ai danni della gente sta nel farle credere che immigrazione=delinquenza, difesa=riarmo, pace= equilibrio bellico, benessere economico=protezionismo commerciale, coesistenza pacifica=legge del più forte, etc. etc.

Questo raggiro è in atto in tutto il mondo e, complice una imbelle politica da parte delle sinistre, sta letteralmente spopolando. In certe fasce sociali si tratta di disperazione, in altre di rassegnazione, in altre di illusione, in altre ancora di egoismo bello e buono.

Il paradosso consiste nello spacciare per sicurezza le più grandi e globali insicurezze. Potremmo dire che la sicurezza è inversamente proporzionale al dialogo, alla pace, alla giustizia sociale, in una parola alla politica. L’autorità diventa autoritarismo, l’amor di patria diventa sovranismo, il rispetto per il popolo diventa populismo, la difesa dei confini nazionali diventa nazionalismo, la democrazia diventa perdita di tempo. Ditemi: se questo non è fascismo…

Un po’ per alleggerire la tensione del discorso, un po’ per renderlo umanamente più assorbibile, ricorro alla saggezza e alla verve critica di mio padre.

É molto simpatica ed “anarchica” la battuta con cui fucilava l’autoritarismo dall’alto al basso e dal basso all’alto: “A un òmm, anca al pu bräv dal mónd, a t’ ghe mètt in testa un bonètt al dventa un stuppid”.

Si divertiva spesso a raccontare uno strano e paradossale episodio che lo aveva visto quale malcapitato protagonista alla stazione di Parma. Da zio affettuoso e premuroso aveva accompagnato in stazione una nipote di Genova che ci era venuta a far visita per qualche giorno con i suoi figli ancora molto piccoli. Valigie e bambini avevano consigliato mio padre a salire sul treno in partenza per poter meglio collocare il bagaglio e salutare i nipoti. Tutto fatto, scese dal treno.  Ed ecco un addetto della polizia ferroviaria si avvicina e chiede il biglietto. Risposta ovvia: “Non ho biglietto perché non ho viaggiato, sono salito solo per aiutare mia nipote.” Replica: “Per me lei è un viaggiatore che scende dal treno senza biglietto, favorisca i documenti.” Spazientito ma corretto si reca con il poliziotto nel piazzale antistante la stazione, dove aveva parcheggiato la motocicletta, per esibire la patente. Verbale redatto nonostante le resistenze. Dopo qualche giorno arriva a casa una sonora contravvenzione e mio padre, inizialmente orientato a pagare e tacere si lascia convincere a ricorrere al pretore. Processo bello e buono. Il giudice capisce la situazione quasi da farsa e chiede al poliziotto: “Ma a lei non è venuto in mente che, avendo la motocicletta nel piazzale, l’imputato potesse avere raccontato una verità piuttosto plausibile?” Risposta: “Per me era un viaggiatore che scendeva dal treno ed era senza biglietto!”.  Assoluzione con formula piena, nemmeno la sanzione per non aver pagato il biglietto entrando in stazione (allora per il solo fatto di varcare la soglia della stazione si doveva corrispondere un piccolo obolo), perché ormai nessuno osservava tale obbligo (cominciando dai nonni che conducevano i nipotini a vedere il treno).

La morale dell’episodio è piuttosto semplice: mio padre era rimasto vittima della…sicurezza. Per fortuna c’era stato un giudice che ragionava. Ecco perché tanta ostilità verso i giudici e quanti esercitano un contro-potere: non devono ragionare, ma legare l’asino dove vuole il padrone (si chiami Trump, Le Pen o Salvini).

 

 

I medici sbrigativi fanno il sessismo puzzolente

Il pugno duro contro chi si macchia di crimini di genere non può essere l’unica risposta a un fenomeno complesso e pervasivo come la violenza contro le donne, che ha una forte componente storica e culturale – residui del patriarcato, desiderio di controllo, incapacità di riconoscere e accettare l’indipendenza e l’autonomia delle donne da parte… Da una parte non sembra che un inasprimento della pena – teorico perché, come detto, già ora il femminicida può essere punito con il carcere a vita – possa avere una efficacia deterrente su un uomo che decide di uccidere “una donna in quanto donna”. Dall’altra il cambiamento non può che partire dai più giovani, e quindi dall’educazione alla parità e al rispetto, in famiglia e nelle scuole. Ma questo è un altro capitolo della storia. Il più urgente. (dal quotidiano “Avvenire” – Antonella Mariani)

Di fronte al fenomeno dei femminicidi, sempre più sconvolgente e invadente, ho una prima reazione di tipo etico-religioso dovuta alla considerazione che queste manifestazioni possano essere riconducibili alla violenza fine a se stessa (molto spesso i responsabili stessi non riescono a portare un minimo di giustificazione ai loro comportamenti). Il male per il male!  Un sottofondo demoniaco?

Mi risulta che papa Paolo VI, dopo avere dialogato con il professor Vittorino Andreoli, noto criminologo e famoso psichiatra, lo abbia accompagnato cortesemente all’uscita, suggellando in modo inquietante lo scambio di opinioni che avevano avuto: «Si ricordi professore che il diavolo esiste!». Ricordiamocene anche noi, non per sfuggire alla realtà, ma per inquadrarla compiutamente.

La seconda è la reazione alla reazione, cioè il rifiuto della scorciatoia giustizialista che può spontaneamente indurre in tentazione. Se evocare il demonio può diventare un alibi deresponsabilizzante e fuorviante, a maggior ragione può essere semplicistico il fantasma dell’ergastolo sventolato in faccia a chi è completamente accecato dall’istinto violento. Forse sarebbe più opportuno strutturare, sistematizzare e potenziare l’intervento a difesa e supporto delle donne nel mirino degli stalker.

Mio padre credeva così fermamente e ingenuamente alle regole ed alla necessità di rispettarle al punto di illudersi di risolvere il problema dell’evasione carceraria apponendo un cartello “chi scappa sarà ucciso”. “Chi usa violenza estrema alle donne sarà condannato all’ergastolo”: un sacrosanto cartello che servirà a ben poco…

Il problema dei femminicidi ha molte cause, viene da lontano, riguarda un po’ tutti gli aspetti della vita sociale. C’è al riguardo il discorso del dipanare la responsabilità individuale con quella sociale. Un mio conoscente, esperto ed impegnato allo spasimo nel recupero dei tossicodipendenti, era portato ad escludere (quasi) completamente le cause sociali da questa piaga, facendo prevalere nella caduta e nella ripresa la volontà personale. A prova di questa sua pur discutibile tesi portava la innegabile realtà di soggetti tossicodipendenti provenienti da famiglie modello e di famiglie disastrate con figli modello. Il discorso potrebbe valere anche per la violenza sessista.

Mia madre era portata a giustificare i delinquenti, soprattutto se giovani, commentando laconicamente: “jén dil tésti mati”. Qui mio padre, in un simpatico gioco delle parti, ricopriva il ruolo di intransigente accusatore: “J én miga mat, parchè primma äd där ‘na cortläda i guärdon se ‘l cortél al taja.  Sät chi è mat? Col che l’ ätor di l’à magnè dez scatli äd lustor. Col l’é mat!”.

Sul ruolo educativo della famiglia non esiste perfetta concordanza di vedute. Abbiamo visto la tesi dello psicologo scettico. Vediamo quelle di quanti credono fermamente nel ruolo e nella responsabilità genitoriali.

Mia sorella, acuta ed appassionata osservatrice dei problemi sociali, nonché politicamente impegnata a cercare, umilmente ma “testardamente”, di affrontarli, di fronte ai comportamenti strani, drammatici al limite della tragedia, degli adolescenti era solita porsi un inquietante e provocatorio interrogativo: «Dove sono i genitori di questi ragazzi? Possibile che non si accorgano mai del vulcano che ribolle sotto la imperturbabile crosta della loro vita famigliare?». Di fronte ai clamorosi fatti di devianza minorile, andava subito alla fonte, vale a dire ai genitori ed alle famiglie: dove sono, si chiedeva, cosa fanno, possibile che non si accorgano di niente? Aveva perfettamente ragione. Capisco che esercitare il “mestiere” di genitori non sia facile ed agevole: di qui a fregarsene altamente…

Voglio ad esempio riferire quanto detto da uno psicologo ad un mio carissimo amico in merito alla credibilità della testimonianza dei genitori nei riguardi dei figli. “I figli giudicano i genitori da due comportamenti molto precisi: da come si rapportano con il coniuge e da come affrontano il lavoro”. In questa regola potrebbe essere contenuta gran parte della spiegazione per la crisi dei rapporti fra genitori e figli.

Non mi sembra giusto buttare la palla dei femminicidi nella tribuna socio-culturale, così come ritengo pressapochista rifugiarsi nel corner dell’ergastolo. Una cosa è certa: questa piaga è causa-effetto di parecchi fattori. La deriva socio-culturale che caratterizza la nostra epoca ci deve spingere ad analizzare le situazioni e a concretizzare i rimedi uscendo da fariseismi e perbenismi.

In conclusione ricordo che, molti anni fa, monsignor Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, durante una conferenza all’aula magna dell’Università di Parma, raccontò di avere scandalizzato le suore della sua diocesi esprimendo loro una preferenza verso la stampa pornografica rispetto a certe proposte televisive perbeniste nella forma e subdolamente “sporche” nella sostanza. In fin dei conti la pornografia pura si sa cos’è e la si prende per quello che è, mentre è molto più pericoloso, dal punto di vista educativo, il messaggio nascosto che colpisce quando non te l’aspetti.

 

 

 

I dazi pagano dazio

La Camera di commercio degli Stati Uniti ha informato l’Amministrazione che i dazi previsti «non hanno precedenti, sconvolgeranno le catene di approvvigionamento e non faranno altro che aumentare il costo della vita per gli americani». Gli economisti hanno quantificato che tariffe medie del 20% costringeranno le famiglie americane a pagare dai 4mila ai 5mila dollari in più all’anno per le spese di base.

L’effetto sarebbe a catena, riducendo i consumi, gli investimenti delle imprese e le assunzioni, tanto che, secondo Moody’s, se tariffe permanenti entrassero in vigore nel trimestre in corso, l’economia americana precipiterebbe quasi immediatamente in una recessione che durerebbe più di un anno, portando il tasso di disoccupazione sopra il 7%. (dal quotidiano “Avvenire” – Elena Molinari)

Quindi la colossale manovra difensiva americana chi difende? A quanto pare non difende i consumatori, non le imprese, non i potenziali e/o già impiegati lavoratori. Si tratta della solita tattica bellica, che serve a catturare il consenso dei disperati: vale per le guerre in genere, anche per quelle commerciali.

Da cosa si difende Trump? Ebbene, improvvisamente si è accorto che gli Usa da anni sono letteralmente saccheggiati dal resto del mondo, subendo autentici furti di posti di lavoro e fabbriche e ha proclamato il giorno della liberazione per l’industria americana che rinasce, e l’America che ridiventa ricca.

Mi sembra la più colossale delle demagogie, vale a dire la totale degenerazione della democrazia, per la quale al normale dibattito politico si sostituisce una propaganda esclusivamente lusingatrice delle aspirazioni economiche e sociali delle masse, allo scopo di mantenere o conquistare il potere.

Quando in una stanza, per la presenza di troppe persone, manca l’ossigeno per respirare, esistono due possibilità: ci si può illudere di risolvere il problema facendo uscire qualcuno oppure si deve avere il coraggio di aprire le finestre.

Il protezionismo segue la prima di queste opzioni: ci si illude di risolvere i problemi chiudendosi in casa. Figuriamoci se può funzionare in un mondo globalizzato come l’attuale…

Quanto tempo impiegheranno gli americani per capire di essere stati ingannati? Non ho idea e soprattutto non si può fare affidamento sulla loro resipiscenza. Donald Trump è il fanfarone giusto per i fanfaroni, il miglior frutto del cretinismo americano: mai come in questo caso vale lo storico proverbio secondo il quale ogni popolo ha il governo che si merita. Il problema purtroppo sta nel fatto che, poco o tanto, tutto il mondo si merita Trump nella misura in cui ha subito pedissequamente gli indirizzi internazionali impressi dagli Usa, abbandonando completamente quel tanto di sano scetticismo anti-americano che oggi viene spontaneo rivalutare e rimpiangere.

Sforziamoci, nonostante tutto, di guardare avanti e allora torna in gioco l’Europa: o i Paesi europei reagiscono in ordine sparso, trattando più o meno singolarmente con gli Usa alla faccia dei trattati in essere e cercando di strappare disperatamente e ingenuamente qualche condizione di maggior favore, oppure fanno coraggiosamente e pazientemente massa critica, provando a impostare un’azione comune di politica commerciale che vada ben oltre le semplici e forse inevitabili ritorsioni.

Potrebbe essere una sorta di momento politico magico per rilanciare la UE, trovando finalmente anche consensi a livello delle forze economiche e sociali. La UE non sarà più considerata un’inutile sovrastruttura burocratica, ma un punto di riferimento imprescindibile.

Tutto il mal non vien per nuocere? Forse sì, a condizione che il male venga riconosciuto come tale e combattuto insieme in senso costruttivamente prospettico e strategicamente progressista.

 

Il ponte meloniano dei sospiri europei

Durante il periodo dell’esplodente berlusconismo, mia sorella Lucia mi raccontò di avere incontrato casualmente un esponente locale del CCD, rifugio di ex-democristiani in ceca di  sera dorotea, partito moderato che appoggiava Forza Italia. Conoscendolo, si permise di chiedergli provocatoriamente come mai dalla DC fosse approdato a Berlusconi. La risposta fu di quelle che fanno penosamente sorridere: «Sai Lucia, noi del CCD abbiamo come scopo quello di condizionare Berlusconi…». Mia sorella lo interruppe bruscamente in dialetto (certe battute non possono essere espresse o tradotte in italiano): «Co’ fät? Ma lasa pèrdor! At salut…».

Non mi soffermo ulteriormente su questo gustoso e pittoresco episodio. Ne faccio invece una similitudine con la velleitaria intenzione di Giorgia Meloni di fare da ponte fra Trump e l’Europa, in poche parole di condizionare Trump per arginarne la sua verve antieuropea. Mia sorella apostroferebbe la nostra premier con le stesse parole di cui sopra: «Co’ fät? Ma lasa pèrdor! At salut…».

E pensare che qualcuno ci crede e ci vota… Buttiamola in ridere per non piangere. Nel condizionamento statunitense si cimentarono nel passato fior di politici italiani, democristiani e non: ci riuscirono assai poco. Aldo Moro, l’unico che ebbe l’ardire di battere questa strada senza paura, la pagò cara!

Dopo aver letto dell’auto-investitura meloniana a fare da trait d’union fra Usa e Ue, ho immaginato il caustico commento di mio padre: «Pù che da pónt, la Meloni la farà da virgola…».

Concludo con lo spontaneo ricordo di una simpaticamente macabra gag che in un certo senso si attaglia al caso. «Parlèmma ‘d robi alégri» intimarono gli amici di mio padre alla compagnia in vena di discorsi penosi: uno di loro, accettando il perentorio invito, rispose: «Co’ costarala ‘na càsa da mòrt?».

 

 

 

 

 

Le Pen…ne intinte nel calamaio autocratico

Per la leader del Rassemblement National Marine Le Pen, per tre volte candidata sconfitta all’Eliseo, l’incubo più temuto diventa realtà: il tribunale l’ha condannata a cinque anni di ineleggibilità, con effetto immediato, compromettendo così la sua candidatura alla presidenza per una quarta volta nel 2027. Un voto per il quale i sondaggi la davano favorita almeno al primo turno.

Le Pen inciampa così nel processo degli assistenti parlamentari a Strasburgo: una frode da 2,9 milioni di euro ai danni del contribuente europeo, coperta da una quarantina di impieghi fittizi. In sostanza, l’ex Fn viene accusato di aver orchestrato un “sistema” di contratti truffa per rimpinguare con i soldi dell’Europa le malconce casse del partito.

Oltre all’ineleggibilità, la paladina della Fiamma tricolore bianca rossa e blu viene condannata a quattro anni di carcere di cui due senza condizionale ma con il braccialetto elettronico.

Elon Musk ha difeso su X la leader del Rassemblement National, Marine Le Pen, condannata in Francia per appropriazione indebita. “Quando la sinistra non può vincere al voto democratico abusa del sistema legale per incarcerare i suoi rivali”, ha scritto il miliardario, citando il caso Le Pen tra quelli di una presunta persecuzione globale dei populisti.

Musk ha definito la decisione un abuso giudiziario che – secondo lui – si ripete ovunque ci siano leader di destra anti-sistema. Nel post condiviso, Musk ha risposto a Mike Benz, ex funzionario dell’amministrazione Trump, che ha elencato altri casi simili: da Bolsonaro in Brasile a Imran Khan in Pakistan, fino a Salvini in Italia

Le parole di Musk si aggiungono a un coro di reazioni internazionali. Il portavoce di Vladimir Putin, Dmitri Peskov, ha parlato di “violenze alle norme democratiche” nei processi politici europei. Viktor Orban, premier ungherese e alleato politico di Le Pen in Europa, ha scritto su X: “Je suis Marine!”. Anche Matteo Salvini su X ha espresso solidarietà alla leader della destra francese. (dalle agenzie Ansa e Virgilio)

Qualche giorno fa, durante un occasionale incontro con alcuni miei conoscenti, mi è stato chiesto un sintetico e lapidario commento sulla situazione storica che stiamo vivendo. Me la sono cavata, rispondendo che non avrei mai più pensato di sprofondare in una palude tanto profonda e paralizzante di cui peraltro forse non abbiamo ancora toccato il fondo. La democrazia ostacola la libertà, la politica prescinde dalla giustizia, il popolo sovrasta le istituzioni, gli interessi nazionali scavalcano il diritto e le istituzioni internazionali.

Le succitate dichiarazioni rese da Elon Musk a latere della sentenza a carico Di Marine Le Pen sono la perfetta sintesi del marasma politico che stiamo vivendo. Gli anti-democratici ritorcono le loro porcherie sulla fantomatica persecuzione messa in atto dalla sinistra, che perderebbe nelle urne e tenterebbe di vincere nei tribunali. Forse mai la favola del lupo e dell’agnello fu così azzeccata.

Il dato di partenza non sono le pesantissime accuse rivolte a Marine Le Pen e la sua conseguente dura (?) condanna, ma la presunta perfida macchinazione politico-giudiziaria atta a metterla fuori gioco. Sarebbe come se in tribunale il soggetto sottoposto a giudizio, anziché difendersi, passasse all’attacco e pretendesse di processare i giudici, addirittura di squalificarli e tacitarli pregiudizialmente e irrimediabilmente.

È la nota metodologia di difendersi dal processo piuttosto che nel processo: è uno dei dati caratteristici degli autocrati di tutto il mondo, da Berlusconi a Trump. Imputato è il sistema democratico e tutto ciò che avviene è inquadrabile nell’abusiva resistenza contro le sacrosante destre anti-sistema.

Dopo avere incantato e messo fuori gioco il popolo, l’ultimo baluardo difensivo della democrazia viene individuato nel potere giudiziario da smantellare con paradossali riforme e/o con strumentali e generali squalifiche. Si tratta di una deriva globale che tenta di coinvolgere mediaticamente i cittadini mettendoli contro le istituzioni democratiche.

Il fatto che l’Europa e gli Usa siano, a livello di classe dirigente, impegnati in questa guerra di sfondamento della democrazia, pone una clamorosa e inquietante domanda: ci siamo sempre storicamente sbagliati nel considerare l’Occidente patria della democrazia oppure abbiamo consentito che progressivamente fra Occidente e democrazia si creasse una frizione fino ad arrivare ad una vera e propria frattura.

Saremo ancora in tempo a invertire la tendenza? Se aspettiamo che si ravvedano gli americani, stiamo freschi… Tocca agli Europei scuotersi dal sonno autocratico e risvegliarsi ad una nuova era democratica. Gli attacchi provenienti da oltre-atlantico dovrebbero quanto meno farci riflettere. Invece temo che ci spingano più al conformismo autocratico che al ribellismo democratico.

 

 

Tutti all’osteria di Calenda

Ma di fatto molte delle parole del leader di Azione ricevono il plauso di Meloni. Specie quelle sul centrosinistra: «Chiunque sostiene che esiste la pace senza la forza o non conosce la storia o è un pusillanime. E se chi lo dice ha sprecato miliardi sui bonus edilizi è un mentitore (e qui anche Crosetto si alza per applaudire, ndr). Con quei 200 miliardi il Paese metteva a posto sanità e scuola e arrivava al 2% per le forze armate. Ma li abbiamo dati ai ricchi per rifarsi le ville. Bel provvedimento di sinistra. L’unico modo per stare assieme al M5s è cancellarlo».  (da “Avvenire” – Matteo Marcelli)

Al di là dei soliti giochetti della farisaica ospitalità, tipici dei congressi di partito aperti a cani e porci, prendo spunto dalle convergenze tra Calenda e Meloni, finalizzate a dare addosso al nemico comune individuato nel M5S, per esprimere un disincantato parere su due provvedimenti legislativi che vengono ormai sistematicamente criticati a destra e manca, vale a dire il bonus edilizio e il reddito di cittadinanza.

Sembra che tutti i guai della finanza pubblica siano causati da questi due interventi: certamente hanno avuto difetti, ma non mi sento di criminalizzarli. Se la memoria non mi tradisce, il superbonus edilizio doveva dare una spinta alla crescita economica nel dopo-covid, mentre il reddito di cittadinanza doveva essere un aiuto per le fasce sociali più deboli.

Non mi avventuro di certo in una disamina contenutistica, mi limito a sottolineare come questi interventi legislativi abbiano avuto paternità plurime (quindi non solo il M5S) e abbiano avuto effetti non così disastrosamente negativi come vogliono far credere i tanti politici del senno di poi.

Cosa sarebbe successo all’economia se non ci fosse stata la spinta per il settore edile introdotta appunto col bonus? Come avrebbero sbarcato il lunario tante persone prive del minimo sostentamento?

Meglio invece pensare che i conti quadrerebbero perfettamente senza il bonus: tutto andrebbe a posto dalla sanità alla scuola alle forze armate. Cosa non si dice per strappare qualche consenso elettorale e conquistare qualche politicante spazio di manovra…

Mio padre sarebbe oltremodo d’accordo ed aggiungerebbe: “Sì. I pàron coj che all’ostarìa con un pcon ad gèss in sima la tävla i metton a pòst tùtt; po’ set ve a veddor a ca’ sòvva i n’en gnan bón ed fär un o con un bicér…”

 

Una ministra per spaventare i migranti

Kristi Noem ha scelto lo sfondo con cura: una delle maxi-celle dove decine di detenuti restano ammassati 24 ore al giorno. Alle spalle, dietro le sbarre, spunta un gruppo dei 238 venezuelani deportati in Salvador il 16 marzo, con le teste rasate e senza maglietta, in modo da mostrare i tatuaggi. Un dettaglio quest’ultimo non casuale: i disegni sulla pelle – secondo le accuse di familiari e organizzazioni per i diritti umani – sono stati esibiti come “prova” dell’appartenenza dei migranti alla gang Tren de Aragua. Con un berretto calato sul volto e al polso un orologio di lusso in bella vista, la ministra alla Sicurezza Usa si è piazzata davanti alle sbarre per registrare il proprio video-messaggio subito diffuso su X: «Se venite nel nostro Paese illegalmente, questa è una delle conseguenze che potrebbe accadervi. Sappiate che questa struttura è a nostra disposizione e non esiteremo a utilizzarla se commetterete crimini contro il popolo statunitense». Poi, guardando fisso verso la camera, ha concluso: «Se non ve ne andrete, vi daremo la caccia, vi arresteremo e vi metteremo in questo carcere salvadoregno». La prigione in questione è il Cecot, il maxi-penitenziario anti-terrorismo, offerto dal presidente Nayib Bukele all’alleato Donald Trump al costo di 20mila dollari l’anno per detenuto. Non è, però, solo una questione di soldi. Il leader salvadoregno, che ha messo in carcere l’1 per cento della popolazione e governa in permanente stato di emergenza, sa che “l’amicizia” del vicino è preziosa. Da qui l’accordo di cooperazione in materia di sicurezza firmato con Noem appena dopo il video. Quest’ultimo ha aggiunto nuove polemiche a una vicenda già incandescente. L’espulsione dei venezuelani è avvenuta nonostante lo stop dei giudici e senza fornire segni concreti del legame dei deportati con il Tren de Aragua. (da “Avvenire” – Redazione Esteri)

Posso azzardare un parallelismo? Questa è la politica di deterrenza da adottare per scoraggiare l’immigrazione? Non c’è una grande differenza con i centri allestiti dal governo italiano in Albania. Non sto a sottilizzare, sempre di lager si tratta! E non mi si dica che questo è un modo per gestire il fenomeno migratorio, per scoraggiare le migrazioni al buio. Questo è un modo per calpestare i diritti delle persone: punto e basta!

Non c’è sicurezza da garantire, legalità da difendere, finanche criminalità da combattere. I migranti non sono bestie da cui guardarsi, da trasferire da un lager all’altro, persone a cui dare la caccia.

Se è vero come è vero che non si possono accogliere tutti i potenziali migranti e che occorre selezionarli, accoglierli e integrarli in modo intelligente, è altrettanto vero che non bisogna esorcizzarne l’arrivo in modo barbaro, né tanto meno procedere sbrigativamente alla loro espulsione, né ancor meno criminalizzarli genericamente e trattarli come delinquenti.

O siamo in grado di considerare il fenomeno migratorio come una realtà da affrontare nel rispetto delle persone e dei loro diritti, oppure ripieghiamo sulle minacce, sui fieri accenti, sui venti razzisti, sulle deportazioni di massa, sulle intolleranze etniche, sugli schiavismi.

La gestione dell’immigrazione (innegabilmente un tema complicato e di quasi impossibile soluzione), infatti, richiede razionalità e concretezza e non sarà mai vincente se si affiderà all’arbitrio e alla negazione dell’inderogabile rispetto di ogni persona. Per una simile strada, come è dimostrato, si possono solo ottenere (pseudo) risultati mediatici, ma mai veri passi avanti. (Gazzetta di Parma – L’opinione di Giorgio Pagliari)

Spesso sento dire che certe zone urbane c’è da aver paura a percorrerle anche in pieno giorno, tanta la criminalità che in esse si annida. Tutta colpa dei migranti clandestini, sfaccendati e portati a delinquere!? Non sono d’accordo: il discorso è molto complesso e non mi sento di restringerlo al mero forzato contenimento della presenza dei migranti.

Attenzione, perché se partiamo da questi presupposti, ha ragione la ministra alla sicurezza Usa, ha ragione il governo Meloni che spaccia le lucciole dei lager albanesi per le lanterne di una gestione del fenomeno migratorio, ha ragione chi, come Trump, vuole ridurre l’umana convivenza alla prepotenza dei forti verso i deboli.

 

 

L’infantile convenienza batte la matura convinzione

Giorgia Meloni ha nella testa un progetto chiaro: mediare tra Usa e Ue. Avvicinare Trump all’Europa. Essere ponte. «I nostri rapporti con gli Stati Uniti sono i più importanti che abbiamo», spiega la premier in un’intervista al Financial Times. E va avanti: «L’Italia può avere buoni rapporti con gli Stati Uniti e se c’è qualcosa che può fare per evitare uno scontro con l’Europa lo farò… Se costruire ponti è nell’interesse degli europei lo farò». Meloni respinge con fermezza l’idea che l’Italia debba scegliere tra Stati Uniti ed Europa. Una scelta che considera tanto «infantile» quanto «superficiale». È un messaggio netto. Consegnato sulla scia del summit appena concluso a Parigi della coalizione dei Paesi europei volenterosi. La premier – scrive il FT puntualizzando che si tratta della prima intervista rilasciata dalla premier italiana a una testata straniera – ha anche chiarito di non vedere il presidente Usa Donald Trump come un avversario e di voler continuare a rispettare il «primo alleato» dell’Italia. «Io sono conservatrice, Trump è un leader repubblicano. Sicuramente sono più vicina a lui che a molti altri». E ancora: «Capisco un leader che difende i suoi interessi nazionali… Io difendo i miei». Il passo verso i dazi è scontato. Meloni ha un messaggio all’Europa: «Bisogna mantenere la calma… Evitare di reagire d’istinto e lavorare pe una buona soluzione comune». Meloni ammette che i dazi su alcuni beni specifici stanno causando attriti. Ma «ci sono grandi differenze sui singoli beni. È su questo che dobbiamo lavorare per trovare una buona soluzione comune». È un altolà alla Commissione europea che ha promesso di reagire contro i dazi annunciati da Trump. «Su questi argomenti bisogna dire “mantenete la calma, ragazzi. Pensiamoci…». Meloni invita l’Europa alla “calma” e parallelamente “assolve Trump. Gli Stati Uniti perseguivano da tempo un programma sempre più protezionistico e a questo proposito la premier cita l’Inflation Reduction Act di Joe Biden. «Pensate davvero che il protezionismo negli Stati Uniti sia stato inventato da Donald Trump?», si chiede retorica. Domande e risposte si accavallano. Meloni riflette sull’idea che l’approccio «conflittuale» di Trump alla difesa europea possa rappresentare uno «stimolo» necessario per assumersi le proprie responsabilità sulla sicurezza: «Mi piace pensare che la crisi nasconde sempre una opportunità». Anche perché la Russia potrebbe diventare una minaccia a lungo termine, ma le «minacce possono arrivare a 360 gradi» e «noi dobbiamo trovare un modo per essere pronti a difenderci da ogni tipo di minaccia che possiamo avere…». Non basta. Meloni si è poi detta «d’accordo» con il vicepresidente americano JD Vance in merito alle sue critiche all’Europa: «Lo dico da anni. L’Europa si è un po’ persa». Ma subito sottolinea che a essere contestata è la «classe dirigente» europea e non il popolo: le critiche dell’Amministrazione Trump – precisa Meloni – sono alla «classe dirigente e all’idea che si possa imporre la propria ideologia invece di leggere la realtà e trovare modi per dare risposte alle persone». (dal quotidiano “Avvenire” – Massimo Chiari)

Finalmente un po’ di vergognosa chiarezza! Scusi lei è favorevole o contraria a Trump? La risposta avrebbe potuto essere: sono favorevole ad uno stretto rapporto di collaborazione con gli Usa, ma non condivido gli attuali indirizzi politici impressi dalla presidenza americana. Probabilmente Giulio Andreotti avrebbe risposto così.

Invece Giorgia Meloni gioca a fare la Taviani, cioè la pontiera. A Paolo Emilio Taviani, in un lontano periodo storico, venne appioppato il ruolo di pontiere all’interno della Democrazia Cristiana fra le diverse correnti: mission impossible!

Lasciamo stare il passato e gli esponenti della DC a cui Meloni non è degna nemmeno di slegare i lacci dei sandali e concentriamoci su una prova di maturità al presente.

È più infantile scegliere fra l’Europa e gli Stati Uniti o illudersi di lavorare a soluzioni comuni con chi vuole distruggere politicamente l’Europa?

È più infantile rispondere unitariamente all’attacco sui dazi commerciali o tentare di scaricare la colpa dei dazi su Joe Biden?

È più infantile discutere obtorto collo un serio ed equilibrato progetto europeo di difesa comune o ritenere addirittura che l’approccio conflittuale di Trump ci faccia del bene costringendoci ad entrare in piena logica militarista?

È più infantile puntare ad un fronte comune sovranazionale europeo pur nella diversità delle visioni politiche o scommettere sull’omogeneità fra conservatori italiani (direi piuttosto reazionari) e repubblicani statunitensi (direi piuttosto imperialisti spinti all’eccesso)?

È più infantile cercare di superare i nazionalismi e i sovranismi di qua e di là dall’Atlantico o rassegnarsi ad una concezione di mera difesa dei propri interessi nazionali?

È più infantile superare il protezionismo dei propri cortili o spartirsi i giocattoli per non litigare in attesa che dai giochi di cortile si passi alle guerre di quartiere?

È più infantile lavorare per un miglioramento delle Istituzioni europee e per il rinnovamento della loro classe dirigente o strizzare l’occhio all’amico del giaguaro che contesta e squalifica l’Europa?

È più infantile credere, nonostante le difficoltà, nel futuro dell’Europa dei popoli o coltivare il populismo spicciolo che mette in egoistica contrapposizione i popoli e le persone?

In conclusione chiedo ai cittadini italiani, che hanno espresso alle ultime elezioni nazionali ed europee un voto favorevole ai partiti di destra (il centro infatti non lo vedo e, se lo vedo, lo disprezzo!): è più infantile ammettere che errare humanum est (le cazzate giornaliere sono lì a dimostrarlo) o piuttosto perseverare diabolicamente nell’errore (la perseveranza oggi si chiama Trump)?

 

 

 

 

Bambini di tutto il mondo preparatevi a morire

Mentre ieri a Parigi si riuniva il Nutrition for Growth Summit, vertice dedicato alla nutrizione del pianeta, nuove stime diffuse da un gruppo di esperti su Nature hanno evidenziato quanto l’improvviso stop agli aiuti avrebbe conseguenze letali per anni a venire. Oltre all’annunciato smantellamento di Usaid, anche altri tra i principali donatori occidentali hanno manifestato l’intenzione di diminuire i loro impegni, dal Regno Unito (-40%) alla Francia (-37%), dai Paesi Bassi (-30%) al Belgio (-25%). In totale questi tagli equivarrebbero a un calo del 44% rispetto agli 1,6 miliardi di dollari donati nel 2022 all’Oms sul fronte degli obiettivi per la nutrizione. La malnutrizione acuta grave, sottolineano gli esperti, è la più letale forma di malnutrizione: è responsabile fino al 20% della mortalità infantile e colpisce 13,7 milioni di bambini ogni anno nel mondo.

Una diminuzione globale – come annunciato di 704 milioni di dollari per i programmi contro la fame si tradurrebbe in un calo di 290 milioni per trattamenti contro la malnutrizione acuta grave. Vorrebbe dire uno stop ad interventi in favore di 2,3 milioni di bambini nei Paesi a medio e basso reddito, con il rischio di ulteriori 369mila morti l’anno tra i bambini sotto i 5 anni, morti che si potrebbero invece prevenire. Il solo stop di Usaid lascerebbe un milione di bambini senza accesso ai trattamenti, con la morte di 163.500 bambini. (da “Avvenire” – Paolo M. Alfieri)

Ricordo che mio padre, con la sua solita e sarcastica verve critica, di fronte agli insistenti messaggi statistici sulla morte di un bambino per fame ad ogni nostro respiro, si chiedeva: «E mi alóra co’ dovrissja fär? Lasär lì ‘d tirär al fiè?». Lo diceva forse anche per mettere fine ai pietismi di maniera che non servono a nulla e vanno molto di moda.

Un conto però sono i pietismi pubblicitari, un conto è la realtà che si sta profilando in conseguenza dell’ondata egoistica mondiale guidata dagli Usa di stampo trumpiano: i rapporti impostati sulla forza, una sorta di colonialismo riveduto e scorretto, un tutti contro tutti all’insegna del “mors tua vita mea”, un globalizzato “chi fa per sé fa per tre”.

«Amare, nella sua radice sanscrita kam, significa desiderare. Non è semplice tolleranza o indifferenza alla differenza. Non è subire, ma agire in modo nuovo, diventare artigiani di pace» (Chiara Giaccardi). Non si tratta di reagire, ma di cambiare le regole del gioco, sostituendo alla violenza qualcosa di più forte e duraturo: la non-violenza efficace, come diceva Simone Weil. E allora, che c’entra l’amore? Si può davvero costruire il bene senza amare il nemico? Comincio a credere che sia, più che questione di morale o di buona volontà, soprattutto di sopravvivenza umana. Che amare il proprio nemico non sia solo un gesto di bontà, ma una necessità. È questa la sfida radicale del Vangelo: non basta smettere di odiare, bisogna persino fare del bene a chi ci avversa. Solo così nasce la pace: dura, difficile, ma possibile. D’altronde, se amiamo solo chi ci ama, che merito ne abbiamo? “Amate i vostri nemici” è forse il proposito più difficile di tutto il Vangelo. Perché “nemico” non è una parola qualunque: porta con sé sofferenza, offese, rabbia, rancore. È un comandamento che scandalizza, perché ci spinge fuori dalla nostra zona di conforto, oltre ciò che ci appare logico e ragionevole. Eppure, proprio lì, in quell’apparente follia, potrebbe nascondersi la più grande rivoluzione possibile. (da un’omelia di don Umberto Cocconi) 

E allora torno da mio padre, che combatteva aspramente la grettezza d’animo, la meschinità e la tirchieria. Nelle sue colorite espressioni, ricordo come rifiutasse la logica dell’avaro: «S’a t’ tén sarè la man, a ne t’ cäga in man gnanca ‘na mòsca». Non sopportava le mentalità chiuse, quanti non sapevano guardare oltre il proprio naso: «Bizoggna volär ält, a stär bas as fa sémpor in témp».

Resto in ambito famigliare. Mia sorella andava profondamente in crisi di fronte alle immagini dei bimbi denutriti o morenti: si commuoveva, pronunciava parole dolcissime di compassione e spesso si allontanava dal video non reggendo al rammarico dell’impotenza di fronte a tanta innocente sofferenza. Sì, perché il cuore viene prima della mente, la sofferenza altrui deve essere interiorizzata prima di essere affrontata sul piano della concreta solidarietà e della risposta politica. Sarà quindi il caso di aprire le mani e i portafogli pubblici e privati, di volare alto, non con i satelliti di Elon Musk, ma con il cuore per vedere e soccorrere le miserie di questo mondo.