Fra “marionéti” ci si intende

La polemica a distanza Trump-Zelensky non si placa affatto. Perché intanto Trump prende le distanze dal conflitto, quasi a volersi parare in caso la sua mediazione fallisca. «La guerra tra Russia e Ucraina è la guerra di Joe Biden, non la mia. Se io fossi stato presidente quando è iniziata l’avrei fermata sul nascere», dice, ripetendo un suo vecchio motto. Ma poi eccolo accusare sia l’ex presidente Usa che lo stesso leader ucraino. «Il presidente Zelensky e il corrotto Biden hanno fatto un lavoro assolutamente orribile nel permettere che questa fase della guerra iniziasse. Io sto semplicemente cercando di fermare distruzione e morte», commenta. (dal “Corriere della Sera” – Lorenzo Cremonesi)

Della follia di poi son piene le fosse di Trump. Intendiamoci bene, non è che sulla guerra fra Russia e Ucraina non siano stati commessi errori madornali dal punto di vista diplomatico prima e durante l’aggressione. Si poteva certamente fare di più per prevenire la situazione e per affrontarla. Ne sono sempre stato convinto e non cambio parere.

Di qui a sparare cazzate come sta facendo Trump…

Consentitemi di riportare un piccolo episodio davanti al video, vale a dire una delle solite vuote interviste propinate ai fanatici del pallone. Parla il nuovo allenatore di una squadra, non ricordo e non ha importanza quale, che ottiene subito una vittoria ribaltando i risultati fin lì raggiunti. L’intervistatore chiede il segreto di questo repentino e positivo cambiamento e l’allenatore risponde: “Sa, negli spogliatoi ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti che dovevamo vincere”. Non ci voleva altro per scatenare la furia ironica di mio padre che, scoppiando a ridere, soggiunse: “A s’ capìssa, l’alenadór äd prìmma, inveci, ai zugadór al ghe dzäva äd perdor”.

Cosa si può dire di fronte alle sbruffonate di un megalomane come Trump? Non invidio Giorgia Meloni, che qualche cazzata di rimando dovrà pur dirla durante il colloquio che ha scelto di avere con il presidente americano. Tra incoerenti megalomani ci si intende…Forse non sapremo mai cosa si saranno detti, e, tutto sommato, è meglio così… Come farà Giorgia a giustificare i bacetti scambiati con Biden? Come farà a spiegare gli abbracci con Zelensky e di essere stata sempre così schierata in suo favore?

Se avevo perplessità su Biden e la sua politica internazionale, alla luce degli sbruffoni del giorno dopo, mi vedo costretto a rivalutarlo. Stesso discorso vale per Zelensky. Solo ora capisco la testardaggine con cui Biden voleva mantenere la sua candidatura alla Casa Bianca: era l’estremo anche se tardivo tentativo di risparmiare agli Usa e al mondo una folle avventura.

Come si può impostare un dialogo serio con un personaggio inaffidabile come Donald Trump? Cosa ci può essere di serio nell’assetto mondiale che si va delineando? Solo i ricatti reciproci! I dazi non son forse tali?! Stia attenta la premier italiana, perché se i rapporti con la Ue dovessero precipitare finirà per essere tutta colpa sua. D’altra parte non è anche lei una specialista nel capovolgere le frittate, dando sempre le colpe a chi osa criticarla? È sempre tutta responsabilità dei governi precedenti! E le sue contraddizioni clamorose? “Solo i morti e gli stupidi non cambiano mai opinione”.

Da qualche giorno, dopo essere precipitato nello sconforto, sono portato a buttarla in ridere: il teatro dei burattini. Strana e incredibile diplomazia in cui tutto è paradossalmente possibile. In dialetto parmigiano, quando una persona assume atteggiamenti sfrontatamente in contraddizione col suo normale comportamento, viene immediatamente apostrofata con una espressione colorita: “avérgh un bècch äd fér”. Gilberto Govi, in dialetto genovese, li chiamava “marionéti”. 

 

 

 

 

 

I falsi filo-palestinesi amici del giaguaro filo-israeliano

Vetrine e pensiline dei mezzi pubblici danneggiate e imbrattate, scritte sui muri, un momento di tensione fra manifestanti e forze dell’ordine, sette persone portate in questura: sono arrivati in circa diecimila a Milano per il corteo nazionale per chiedere di fermare la guerra a Gaza a supporto della resistenza palestinese, più di quanti sfilino lungo le vie di Milano, in quello che è diventato ormai un appuntamento fisso pro-Pal del sabato pomeriggio. Più persone, ma soprattutto più incidenti e più polemiche, in particolare per la scritta in rosso “Spara a Giorgia” lasciata su una vetrina di Bpm che ha scatenato l’indignazione della politica, a cominciare da quella dei presidenti di Camera e Senato.
La manifestazione, partita da piazza Duca d’Aosta, davanti alla stazione Centrale non ha toccato il centro (motivo, questo, di proteste nei giorni scorsi per il diniego all’arrivo in piazza Duomo) ma dalla stazione si è diretta verso il quartiere Isola, per poi arrivare a piazzale Baiamonti e concludersi all’Arco della Pace. Tante le bandiere palestinesi, le scritte inneggianti alla resistenza ma anche sagome di Carlo Calenda e Elly Schlein con impronte di mani in vernice rossa e la scritta «complice del genocidio». La stessa scritta apparsa sulle vetrine danneggiate di banche, supermercati e locali come Unicredit, Carrefour e Starbucks.
E proprio in piazzale Baiamonti ci sono stati alcuni momenti di tensione con contatti fra i manifestanti e le forze dell’ordine in tenuta antisommossa con scudo e manganello. Di «fatti gravissimi che continuano a ripetersi a ogni manifestazione e che sono il frutto di una pericolosa campagna di demonizzazione dell’avversario politico e delle donne e degli uomini in divisa» ha parlato il presidente del Senato Ignazio La Russa. «Condanniamo con fermezza – ha assicurato il presidente della Camera Lorenzo Fontana – intimidazioni e linguaggio d’odio, che minano il confronto civile e democratico». Su X è intervenuto anche il ministro della Difesa, Guido Crosetto, che ha parlato di «clima pericolosissimo, come negli anni ’70. Le forze di polizia italiane non hanno nulla a che fare – aggiunge – con ciò che accade a Gaza. Così come nessun altro cittadino italiano, compreso il presidente Meloni. Perché dunque portare qui l’odio e la violenza che si vorrebbero censurare e combattere in Palestina? Accade da mesi». «Azioni scellerate che non c’entrano proprio nulla con il diritto democratico di manifestare» ha commentato il presidente della Lombardia Attilio Fontana. «Milano – ha aggiunto – non è quella rappresentata da questi personaggi che, mi auguro, rispondano personalmente dei danni arrecati in città». (dal quotidiano “Avvenire”)

Come quasi sempre succede nelle manifestazioni di piazza, il comportamento dissennato di alcuni soggetti borderline rischia di squalificare aprioristicamente e sbrigativamente le intenzioni dei partecipanti. Alcune scritte in rosso, peraltro più paradossalmente provocatorie che intenzionalmente violente, non bastano a coprire i silenzi colpevoli verso il massacro dei palestinesi. I coccodrilloni di turno si sono sbizzarriti nel gridare al lupo filo-palestinese per riequilibrare quello filo-israeliano. Non vedo un clima di odio e violenza scatenato contro la polizia, contro alcuni politici e contro i nostri governanti. Vedo soltanto una forte protesta contro chi non ha il coraggio di assumere alcuna iniziativa in difesa di una popolazione massacrata, scacciata dalle proprie terre e financo irrisa nei suoi sacrosanti diritti.

Purtroppo ai coccodrilloni vittimisti fanno riscontro gli infiltrati, dissennati e casinisti lupi amici del giaguaro. Abbiamo un pessimo campionario animalesco. In questa paradossale fattoria le vere vittime dell’odio e della violenza vengono sacrificate alla ragion di stato, alle amicizie internazionali, alla politica del più falso dei vogliamoci bene.

Ormai si è capito molto bene, quando l’attuale governo italiano va in evidente e chiara difficoltà, gioca a fare la vittima capovolgendo i termini delle questioni: migliore assist di quello dei cretini di piazza non poteva essere concesso.

Stiano tranquilli Giorgia Meloni e i suoi sodali che nessuno sparerà contro di loro: sono essi che da  due anni e mezzo sparano cazzate a vanvera e intorbidano le acque, volendo passare per agnelli che subiscono violenti (?) attacchi. Ma mi facciano il piacere…

I coccodrilli filo-israeliani

«La realtà a Gaza è una realtà post-apocalittica: tutto è stato distrutto, i combattimenti continuano, la zona è diventata una specie di zona di morte per la popolazione e stiamo sostanzialmente assistendo all’emergere di una sorta di interruzione post-apocalittica della guerra»: lo ha dichiarato il Commissario generale dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa), Philippe Lazzarini, in un’intervista all’emittente tv Al Jazeera.

Ebbene di fronte a questo desolante quadro la politica a livello internazionale oscilla fra la licenza di sterminare concessa da Trump a Netanyahu, fra la pilatesca posizione di chi (non) condanna Israele concedendogli l’attenuante della provocazione da parte di Hamas, fra le grida di cessate il fuoco regolarmente violato, fra le scandalizzate accuse di antisemitismo per chi osa criticare la spietatezza israeliana, fra la sostanziale e silenziosa sopportazione del comportamento israeliano e l’omertoso insensato menefreghismo di chi mette tutto e tutti sullo stesso piano.

Da parte del governo italiano le solite parole di circostanza usate dal coccodrillone ministro degli Esteri Antonio Tajani.  Mia sorella, per certi versi più netta di me nei giudizi, direbbe, usando una gustosa espressione dialettale: “niént pighè in t’na cärta” oppure “da lu a niént da sén’na…”.

Sempre mia sorella, da una escursione turistica nei territori israelo-palestinesi, aveva riportato una drastica impressione: “Gli israeliani sono spietati e sfruttano i palestinesi, i palestinesi sono insensati e si lasciano abbindolare dal terrorismo arabo”. Siamo ancora lì. Anche se la striscia di Gaza non esiste più, i restanti palestinesi sono totalmente allo sbando, i superstiti dei massacri dell’una e dell’altra parte saranno “costretti” a vivere di odio vendicativo.

In mancanza della politica, in Italia e nel mondo, fortunatamente si fa sentire la piazza.

Un lungo corteo con almeno 10mila partecipanti ha attraversato le strade di Milano, dalla stazione in direzione dell’Arco della Pace. É la manifestazione a sostegno della Palestina e per chiedere la fine della guerra nella Striscia di Gaza. Secondo gli organizzatori si sono toccate le 15mila presenze. Centinaia le bandiere palestinesi e gli striscioni per dire stop al genocidio. Tra gli slogan gridati prima della partenza: “Gaza libera, Palestina libera” e “intifada, intifada”. Presenti anche alcuni attivisti che tengono in braccio dei finti neonati coperti da un lenzuolo bianco sporco di vernice rossa. Numerosi, soprattutto nelle prime file, anche i cartelli e le bandiere per chiedere “libertà per Anan Yaeesh“, palestinese accusato in Italia di terrorismo per aver finanziato un gruppo armato e detenuto nel carcere di Terni. Tra gli altri, partecipano Anpi, Associazione dei Palestinesi in Italia, Giovani Palestinesi, Adl Cobas, Cub, associazioni studentesche e altre sigle sindacali, anche se si sono viste anche bandiere e striscioni dell’Alleanza Verdi-Sinistra e del M5s.

Nel tragitto si sono verificati alcuni danneggiamenti, imbrattamenti, scritte minatorie nei confronti della presidenza del Consiglio. Una vetrina di una sede di Unicredit, in via Pola, in zona Isola, è stata incrinata. “UniCredit complice del genocidio” hanno scritto con la vernice alcuni manifestanti, infrangendo il vetro, tanto che alcuni attivisti invitavano i presenti ad allontanarsi per il rischio che cadesse la vetrina. Infranta e imbrattata, poco prima, anche quella di Starbucks. Vernice anche sulla vetrata di Burger King. Poco dopo sono stati esplosi anche alcuni petardi. Una scritta “Spara a Giorgia” è comparsa sulla vetrina di una filiale di banco Bpm in piazzale Lagosta. Pochi metri più avanti è stata poi danneggiata anche la filiale di Banco Desio in via Traù, dove è stata bruciata una telecamera e fatta una scritta “No riarmo“. Infranta anche la vetrina di un punto vendita Carrefour. (Da “Il Fatto Quotidiano” – Simone Bauducco)

La sacrosanta protesta di piazza purtroppo viene condita da episodi di violenza (è un triste classico): tuttavia non basta per screditarla, per nasconderne le ragioni di fondo e per giustificare le coccodrillate filo-israeliane di cui sopra.

 

 

L’Europa bertoldiana

Donald Trump scivola nei sondaggi: il 51% degli americani interpellati in un rilevamento The Economist/YouGov ne disapprova l’operato, mentre il 43% lo approva. Lo stesso sondaggio due settimane fa aveva visto l’opinione pubblica divisa: 48% favorevoli e 49% sfavorevoli. Le due settimane hanno visto le mosse dell’amministrazione sui dazi che hanno messo le borse mondiali sulle montagne russe. Trump ha cominciato il suo secondo mandato con livelli di popolarità più alti che in ciascun punto del primo incarico da presidente. Il sondaggio ha toccato anche la questione dei dazi: il 52% è contrario alle misure adottate.

Intanto il presidente Usa, difende la sua politica tariffaria. Sta “funzionando molto bene” ha affermato nonostante la Cina abbia aumentato i dazi sui prodotti statunitensi al 125%, in una guerra commerciale tra le due maggiori economie mondiali. La portavoce Karoline Leavitt ha aggiunto che “il presidente è stato molto chiaro: quando gli Stati Uniti vengono colpiti, lui risponderà con ancora più forza”. Ieri il presidente cinese Xi Jinping ha rilasciato le sue prime dichiarazioni sulla questione, affermando – hanno riportato i media – che il suo Paese “non ha paura”. Xi ha aggiunto che l’Unione Europea e la Cina dovrebbero “resistere congiuntamente alle pratiche di intimidazione unilaterale”. Giovedì Trump aveva ribadito di voler raggiungere un accordo con Xi nonostante le crescenti tensioni. “È un mio amico da molto tempo. Penso che finiremo per trovare un accordo che sia molto positivo per entrambi i Paesi”, aveva detto e nelle ultime ore ha cercato di placare i timori sul dollaro. “Siamo la valuta preferita. Lo saremo sempre… Penso che il dollaro sia formidabile”, ha detto ai giornalisti a bordo dell’Air Force One.

Ma il nervosismo sui mercati non si calma. I controdazi della Cina contro gli Stati Uniti preoccupano e causano volatilità sulle piazze finanziarie, alimentando i timori sullo stato dell’economia globale. Le borse del Vecchio Continente hanno chiuso tutte in rosso, con Francoforte maglia nera d’Europa in calo dello 0,92%. Parigi ha perso invece lo 0,30% mentre Milano è arretrata dello 0,73%. Incerta in avvio di seduta, Wall Street ha chiuso in rialzo rassicurata dalla Fed pronta a intervenire per aiutare la stabilità sui mercati. Il Dow Jones ha segnato un aumento dell’1,56% e il Nasdaq del 2,06%. Lo S&P 500 ha guadagnato l’1,81% e archiviato la sua migliore settimana dal 2023, salendo del 5,7%. Le tensioni restano però alte sul dollaro e sul mercato dei Treasury, dove l’ondata di vendite non accenna a fermarsi facendo volare i rendimenti. Quelli sui titoli di stato a 10 anni sono saliti fino a quasi il 4,6%, mezzo punto in più rispetto alla settimana scorsa, mentre per i Treasury a 30 anni l’aumento è stato di 16 punti base a quasi il 5%. Un trend al rialzo che preoccupa gli economisti e gli analisti perché sembra indicare il trattamento dei titoli di stato americani come “asset rischiosi” e non più come il bene rifugio per eccellenza insieme all’oro. Il dollaro invece continua a perdere terreno nei confronti delle principali valute e scivola ai minimi da tre anni. (La Stampa – Redazione web)

Mentre le chiacchiere si sprecano, meglio partire dai dati oggettivi. Non accontentiamoci di stigmatizzare le turbe psicologiche di Donald Trump, non limitiamoci ad irridere ai volteggi di Giorgia Meloni nel barile internazionale, non giochiamo allo sfascio internazionale e post-valoriale.

I punti d’attacco per un discorso minimamente realistico e di qualche prospettiva mi sembrano sostanzialmente tre. Il primo riguarda la tenuta del consenso americano sulla presidenza Trump: qualcosa sembra muoversi. Può darsi che il favore popolare sia molto meno granitico del previsto e che basti qualche buccia di banana ben posizionata per metterlo in crisi. Forse alla facilità con cui si raccoglie consenso fa riscontro quella con cui lo si perde: tutto è ondeggiante e precario.

Il secondo punto è relativo alla forza economico-finanziaria e all’abilità diplomatica della Cina. Non so come se la potrà mettere Trump di fronte al regime cinese, che non ha problemi di tenuta interna e viaggia sulle ali dell’espansionismo all’esterno.

Il terzo aspetto dipende dal sistema finanziario molto complesso e refrattario alle stringenti logiche trumpiane: non bastano i ricchi epuloni insediatisi alla Casa Bianca a frenare i Lazzaro imbizzarriti e incontrollabili.

In questo bailamme internazionale manca il peso dei Paesi europei: anti-trumpiani sì ma solo un pochettino, filo-cinesi sì ma fino a mezzogiorno, uniti sì ma contro loro stessi.   Non c’è la strategia dell’Unione, ma nemmeno la tattica della disunione. Occorrerebbe coraggio. Chi vieta all’Europa di tentare un avvicinamento alla Cina? Chi vieta all’Europa di varare una politica economicamente espansiva e finanziariamente innovativa? Chi vieta all’Europa di rivedere seriamente l’atlantismo nei suoi meccanismi e nelle sue istituzioni fregandosene altamente degli ultimatum bellicisti e riarmisti? Chi vieta all’Europa di farsi promotrice di un nuovo ordine internazionale tenendo conto dei Paesi sciolti e in balia dei neocolonialismi imperialistici odierni?

In estrema sintesi, ai potenti della terra, che ne fanno una più di Bertoldo, non accontentiamoci di contrapporre la trovata di genio di Bertoldo stesso consistente nel chiedere che venga esaudita la nostra ultima volontà: quella di poter scegliere la pianta a cui essere impiccati.

La parolaccia e la politicaccia

Parlare come l’uomo della strada, perché no? Tentare un discorso da bar? Oppure atteggiarsi a bullo di quartiere, usando parole (e parolacce) in libertà. L’importante è farsi capire subito. «Questi Paesi mi stanno chiamando per baciarmi il c…» ha detto Donald Trump, in un discorso tenuto alla cena del National Republican Congressional Committee. Si era tra amici, ma fino a un certo punto. Milioni di persone pendono dalle labbra del tycoon, rilanciano i suoi messaggi, lo ascoltano. Questa comunicazione che ha ben poco di cerebrale, che non è più nemmeno di pancia e che sta pericolosamente scendendo nelle viscere del Paese è davvero ciò che l’America di John F. Kennedy e Martin Luther King, ma anche di Ronald Reagan e George Bush senior, si merita oggi? Certo la volgarità funziona, parla a quella parte maggioritaria del Paese che ha in Trump e Vance i suoi paladini, permette di esibire prepotenze e insulti gratuiti nei momenti difficili, sposta l’attenzione dal merito delle cose, consente a chi parla di occupare tutta la scena, senza provare imbarazzi. Ma fino a che livello dovremo scendere, tra riferimenti sessisti, allusioni e il solito machismo? «Potrei scendere sulla Quinta Avenue e sparare a qualcuno e non perderei nemmeno un voto» diceva il primo Trump, quello eletto nel 2016. Sembrava una bellicosa provocazione, la “sparata” fuori controllo di un ex immobiliarista di successo abbagliato dal mercato e dalle luci della politica. Invece era solo l’inizio delle performance mediatiche di dubbio gusto dell’uomo più potente del mondo. E nell’enciclopedia del cattivo gusto non è stata neppure la pagina peggiore. (da “Avvenire” – D.M.)

Non è questione di educazione, di galateo, di buongusto, di linguaggio, di stile. È una questione squisitamente politica. Forse addirittura culturale, se con questo termine intendiamo il modo di porsi di fronte alla realtà. È un modo efficace di dialogare con la gente mettendosi in sintonia con essa? La politica può essere intesa in due sensi: come adeguamento agli istinti delle persone per soddisfarli illusoriamente oppure come accoglimento delle istanze razionali delle persone per offrire ad esse soluzioni compatibili con l’interesse generale.

Trump sta facendo la peggior sintesi possibile: porta gli istinti delle persone a coincidere con l’interesse generale e viceversa. Spesso conversando di politica con gli amici ho posto la domanda se la politica abbia raggiunto o meno il fondo da cui poter seppur faticosamente risalire. Se Donald Trump avesse il merito di portarci a toccare il fondo per poi provare a darci un colpo di reni all’insù, sarebbe paradossalmente da ringraziare.

Credo invece che con le sue parolacce seguite dai fattacci ci porti a normalizzare la “politicaccia”.

Nel periodo in cui mio padre lavorava da imbianchino come lavoratore dipendente si trovò ad eseguire un lavoro del tutto particolare, scrivere sui muri, a caratteri cubitali, motti propagandistici fascisti (“vincere”, “chi si ferma è perduto” e robaccia del genere).

Al geometra che sovrintendeva, ad un certo punto, tra il serio ed il faceto disse: “ Quand è ch’a gh’dèmma ‘na màn ‘d bianch? “.   “Beh”, rispose in modo burocratico, “per adesso andiamo avanti così, poi se ne parlerà. A proposito cosa dice la gente che passa?”.  Era forse un timido ed innocuo invito ad una sorta di delazione ma mio padre, furbescamente, non ci cascò ed aggiunse: “Ch’al s’ mètta ‘na tuta e ch’al faga fénta ‘d njent e ‘l nin sentirà dil béli “. La zona era infatti quella del parmigiano Naviglio, autentico covo di antifascismo e papà mi raccontò come, tutti quelli che passavano di lì, uomini, donne e bambini le sparassero grosse anche contro di lui, senza tener conto del famoso detto “ambasciator non porta pena”.

Bisognerebbe che andassimo a scuola dagli abitanti di borgo del Naviglio per smascherare le trappole del linguaggio trumpiano, che non è una novità ma una continuità. Torno infatti per un attimo ai tempi della Brexit.

La propensione scozzese verso l’Unione Europea, seppure almeno in parte strumentale rispetto alle loro mire indipendentiste, sfociò in rabbia e trovò, per ironia del destino, un ulteriore motivo di ribellione nelle parole proferite proprio in Scozia nei giorni del referendum dall’aspirante candidato repubblicano alle presidenziali americane, Donald Trump: «Vedo un reale parallelo fra il voto per Brexit e la mia campagna negli Stati Uniti». Come riferì Pietro Del Re, inviato di Repubblica, nel pub di John Muir a Edimburgo, quando Trump apparve in tv, tutti i clienti si avvicinarono allo schermo. Poi, tutti assieme cominciarono a urlargli insulti di ogni genere, il cui meno offensivo era senz’altro pig, porco.

Lasciamoci influenzare, consigliare e indirizzare dai parmigiani di molto tempo fa e dagli scozzesi di qualche tempo fa: a volte è necessario e soddisfacente mettersi sullo stesso piano per sparare parole in libertà.

Almeno potremo sfogarci e consolarci: “Trump al s’dà dil bòti da càn, ma nuätor a ghe dsème dil robi da gozèn”.

 

 

 

O le borse o i dazi

Se il team di Trump offre compattezza, quanto accaduto fra Elon Musk e Peter Navarro, consigliere di Trump, evidenzia spaccature profonde. Anche se il loro sembra un regolamento di conti personale. Musk sabato aveva fatto un post dicendo che avere un master in economia ad Harvard (come Navarro, ndr) è una «pessima cosa non una buona». Quindi parlando al congresso della Lega aveva immaginato uno schema fra Europa e Usa a «tariffe zero». Ieri la replica di Navarro, abrasiva: «Musk? È uno che vende macchine». (Alberto Simoni – La Stampa)

Comincia a volare qualche straccetto? È tipico dei regimi avere contrasti fra gli uomini del capo. Non sempre il duce è capace di assorbirli o scioglierli. La storia insegna che spesso il tarlo decisivo per il crollo delle dittature è venuto dai conflitti interni: talmente alta e concentrata la posta in palio da renderne impossibile la tenuta nel tempo.

Mio padre diceva con molta gustosa acutezza: «Se du i s’ dan dil plati par rìddor, a n’è basta che vón ch’a guarda al digga “che patonón” par färia tacagnär dabón».

Non confidiamo troppo in queste prospettive. La società americana sta diventando sempre più incomprensibile. E il resto del mondo (Occidente compreso)? Lasciamo perdere…

Mentre il mondo s’interroga sull’effetto di medio e lungo termine dei dazi doganali americani che hanno scosso l’economia globale e fatto crollare i mercati azionari, una categoria di statunitensi ha già cominciato a subirne gli effetti: gli americani prossimi alla pensione e i neo-pensionati stanno trattenendo il fiato di fronte alle fluttuazioni di Wall Street, chiedendosi se i fondi sui quali contavano per gli anni d’oro dureranno quanto previsto, o se devono cambiare radicalmente i loro piani per la terza età. (da “Avvenire” – Elena Molinari)

Mio padre, da grande saggio qual era, sosteneva che per giudicare e fare i raggi etico-politici a una persona “bizoggnäva” guardarne e toccarne il portafoglio. È lì che casca l’asino, è lì la prova del nove di certa disponibilità teorica. «Tochia in-t-al portafój…». Funzionerà così anche negli Usa di Trump? Finita la sbornia, l’ideale sarebbe che si ricominciasse dai valori, ma sarebbe già qualcosa che si smettesse di ragionare di pancia per ripiegare sulla logica del portafoglio.

Ricordo i rari colloqui tra i miei genitori in materia politica: tra mio padre antifascista a livello culturale prima e più che a livello politico e mia madre, donna pragmatica, generosa all’inverosimile, tollerante con tutti. «Al Duce, diceva mia madre con una certa simpatica superficialità, l’à fat anca dil cozi giusti…». «Lasemma stär, rispondeva mio padre dall’alto del suo antifascismo, quand la pianta l’é maläda in-t-il ravizi a ghé pòch da fär…». Poi si lasciava andare a sintetizzare la parabola storica di Benito Mussolini, usando questa colorita immagine: «L’ à pisè cóntra vént…».

Non mi resta che sperare nelle pisciate contro vento di Donald Trump… Però bisognerebbe che almeno tirasse un po’ di vento, cosa che attualmente non vedo e non sento. Addirittura il tycoon per antonomasia, all’osteria della Casa Bianca, ostenta il fatto che tutti lo chiamano per baciargli il c..o. Niente male come benvenuto a Giorgia Meloni che si appresta a fargli visita.

Tuttavia il presidente Usa ha detto di “aver scritto con il cuore” il post con cui ha annunciato la sospensione per 90 giorni dei dazi nei confronti dei Paesi che non hanno annunciato ritorsioni agli Usa e che hanno chiesto di negoziare. E le borse hanno momentaneamente brindato. In che razza di sistema economico-finanziario viviamo? Forse siamo passati dall’economia globale al trucco nazionalista.

I casi sono diversi e forse concomitanti: Trump ha cominciato a temere di pisciare contro vento in presenza di brezza e allora sta ripiegando sulla vecchia tattica del bastone e della carota; ha spaventato le borse per lasciare campo ai suoi amici speculatori ed ora deve dare loro il tempo di realizzare i guadagni; ha, tutto sommato, paura della Cina, non certo della sbrindellata Europa che gli fa il solletico; è affetto da schizofrenia galoppante (molto peggio dell’ipotetica arteriosclerosi paralizzante di Biden).

 

 

L’arbitrio internazionale

Il presidente Mattarella non si stanca di richiamare gli Stati (Russia in primis) al rispetto del diritto internazionale. Chi vuole rimanere in tale solco dovrebbe avere riguardo verso le istituzioni che lo concretizzano: Onu, Corte penale internazionale, etc. etc.

C’è gente che afferma di credere in Dio e di osservarne le leggi, ma si rifiuta di riconoscere l’autorità della Chiesa: molto spesso è un pretesto per fare i propri comodi… Succede anche nei rapporti internazionali: delle risoluzioni dell’Onu non frega niente a nessuno, così anche dei provvedimenti della Corte dell’Aia.

Il 21 novembre 2024 la Corte penale internazionale (Cpi) ha emesso mandati d’arresto per crimini di guerra e crimini contro l’umanità nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, dell’ex ministro della difesa israeliano Yoav Gallant e del capo del braccio armato di Hamas Mohammad Deif.

Lasciamo da parte la Russia considerata fuori concorso per manifesta superiorità di violazioni, per i Paesi occidentali possiamo stilare la seguente classifica: la Cpi da alcuni Stati non è riconosciuta, da altri è riconosciuta ma categoricamente e vergognosamente smentita nei fatti, da altri ancora è elegantemente dribblata.

Tra gli Stati che non hanno aderito alla giurisdizione della Cpi ci sono in bella evidenza gli Usa, che quindi dialogano con Netanyahu e lo ricevono alla Casa Bianca: ultimamente gli hanno addirittura rilasciato di fatto una sorta di licenza di uccidere i palestinesi.

L’Ungheria ha ufficialmente annunciato l’intenzione di ritirarsi dal trattato fondativo della Corte Penale Internazionale, proprio durante la visita ufficiale a Budapest del Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

L’Italia predica bene e razzola malissimo: certamente (e non sarà l’unico Paese europeo a violare i dettami dell’Aia) non si farà scrupolo di accogliere a Palazzo Chigi il premier israeliano, magari dopo avere sparso abbondanti lacrime sulla striscia di Gaza tramite il coccodrillone Antonio Tajani. La più bella però è stata la vicenda del torturatore libico Almasri: l’acrobata Carlo Nordio ha fatto i salti mortali per violare la decisione della Cpi, che ne richiedeva l’arresto, e mandarlo libero in patria per inconfessabili ma facilmente intuibili motivi di vomitevole realpolitik.

Con tanti saluti al diritto internazionale e una subdola opzione per l’arbitrio internazionale. Come la storia insegna l’Italia si distingue per il suo cerchiobottismo. Mentre Orbàn ha il coraggio sovranista di mandare a quel paese l’Europa assieme alla Corte dell’Aia, mentre Trump se ne sbatte altamente del diritto dal momento che fonda la sua presidenza e la relativa strategia sulla legge del più forte, Giorgia Meloni esibisce un farisaico perbenismo, applicando ai rapporti internazionali il maanchismo di veltroniana memoria: con i palestinesi massacrati ma anche con Israele massacrante, con l’Europa ma anche con Orbàn che dell’Europa se ne fa un baffo, con la Ue ma anche con Trump che, in poche parole, la vuole distruggere.

Un mix di ideologia fascista targata sovranismo e populismo, di pragmatismo politico targato europeismo e atlantismo, di opportunismo nullafacente targato moderatismo, di menefreghismo istituzionale camuffato da efficienza democratica, di insofferenza verso le proteste e i dissensi targata sicurezza: questo è il governo italiano!

Che differenza c’è fra la dura arroganza sovranista di Viktor Orbàn e la morbida prassi sovranista di Giorgia Meloni. Per spiegarlo ricorro a una gustosa barzelletta.

Su un calesse trainato da un asino viaggia un gruppo di suore con tanto di madre superiora. Ad un certo punto l’asino si blocca e non vuol più saperne di proseguire. Il “cocchiere” le prova tutte, ma sconsolato si rivolge alla badessa: «In questi casi l’esperienza mi dice che l’unico modo per sbloccare la situazione, costringendo l’asino a proseguire, è la bestemmia. Mi spiace, ma non c’è altra soluzione…». La suora dopo qualche ovvio tentennamento pronuncia la sua sentenza: «Se è davvero così, non resta altro da fare, ma mi raccomando la bestemmia gliela dica piano in un orecchio…».

 

 

 

Le stitichezze dell’europeismo e le cagate della Ue

«Non è tutto bianco o tutto nero. Non si può dire riarmo o diplomazia». Rosy Bindi, ex ministra della Sanità e della Famiglia, ex presidente del Pd, non si allinea acriticamente né con le posizioni di chi è pronto a votare il piano europeo per il riarmo né con chi è pronto a respingerlo.

Quello che fino ad adesso conosciamo di questo piano è lo stanziamento di 800 miliardi, 150 di finanziamento europeo, e il resto come autorizzazione alla spesa fuori dal vincolo di bilancio per i singoli Stati. E si sa che forse non possono essere usati i fondi di coesione, condizione strappata da diversi Stati, compresa l’Italia. Ma al di là di questo, non si conoscono le linee di investimento e le priorità di spesa. Io penso che quando si stanzia una cifra così importante e si rompe il “sacro vincolo” del bilancio, si dovrebbe anche trovare un punto di incontro e di accordo su come vanno spese le risorse.

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Personalmente sono favorevole a una difesa europea comune e, almeno nella fase transitoria, ad un coordinamento delle spese per la difesa sostenute dai singoli Stati europei. Se la difesa fosse coordinata avrebbe bisogno di razionalizzazione e forse di innovazione. Ma un aumento senza uno strumento di coordinamento che faccia convergere in senso unitario gli strumenti delle difese nazionali rischia di far aumentare le spese militari dei singoli Paesi e di rallentare il cammino comune. Tutto ciò dovrebbe coinvolgere il Parlamento europeo e i Parlamenti nazionali.

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Io contesto la mancanza di strategia. Penso alla fretta con cui abbiamo risposto alle richieste di Trump, quando ci ha minacciato: tra alleati, a prescindere da chi guida i Paesi, ci dovrebbe essere un’interlocuzione. La Nato non è stata ancora sciolta e potrebbe essere la sede in cui iniziare un confronto. E poi c’è un altro aspetto: in questi anni di guerra siamo stati fin troppo subalterni o perché non abbiamo mai preso un’iniziativa diplomatica come Europa. Al là del cardinale Zuppi, quanto ci abbiamo provato? Noi abbiamo pagato prezzi altissimi di questa guerra. La vittima è senz’altro l’Ucraina, ma l’altra vittima è l’Europa, che ha pagato con l’inflazione e la crisi industriale. E quando è iniziato il dialogo tra Trump e Putin, noi non abbiamo chiesto di partecipare a quel tavolo, come di accompagnare Zelensky a Gedda. Siamo alleati, non sudditi. Io sono per la pace e per costruirla non si può continuare a produrre armi, ma dobbiamo lavorare sul piano diplomatico e produrre relazioni. Dovremmo riprendere la Via della seta per dialogare con la Cina e stabilire una relazione con i Paesi Brics. Non possiamo isolarci così. (dal quotidiano “Avvenire” – intervista rilasciata da Rosy Bindi a Roberta D’Angelo)

Concordo pienamente con l’analisi di Rosy Bindi: bisogna ragionare, dialogare, discutere, in una parola bisogna fare politica.

«Scusi, Lei è favorevole o contrario?» così chiese un intervistatore al mio professore di italiano, in occasione dell’introduzione del divorzio nella legislazione italiana, con l’assurda coda del referendum voluto a tutti i costi dalla gerarchia cattolica al cui volere la Democrazia Cristiana si piegò per ovvi motivi elettoralistici. «Tu sei un cretino!» rispose laicamente stizzito il professore. Credo non ci voglia molto a capire come l’intervistato rifiutasse il modo manicheo con cui veniva affrontato il problema. Di tempo ne è passato parecchio ed il populismo ha fatto molta strada al punto da ridurre tutta la politica, e non solo, ad un perpetuo referendum pro o contro qualcosa, ma soprattutto pro o contro qualcuno: un continuo strisciante plebiscito strumentalmente azionato, usato per ridurre a zero il dibattito sui problemi e fuorviare i cittadini con la ratifica delle finte ed illusorie soluzioni. Se non si discute, se si viene costantemente posti di fronte ad una facilona scelta di campo, lo sbocco è condizionato dai media e vince chi ha la voce più forte, vale a dire il peggiore.

Il piano europeo per il riarmo si inserisce in questo inaccettabile schema del prendere o lasciare. Il discorso e l’errore di fondo mi sembrano quelli di voler calare un provvedimento di portata enorme in una istituzione debole e divisa al limite dell’irrilevanza politica. È un po’ come mettere in mano una cifra spropositata ad un soggetto vanesio che vive alla giornata.

Difendersi è giusto, ma lo si deve fare assieme e compatibilmente con tutte le esigenze della comunità. Questo significa avere una strategia e non limitarsi alle tattiche del momento.

Potremmo dire che, bene o male, è stata fatta l’Europa Unita, ma gli europei non sono ancora stati fatti. E allora è conseguente che, in mancanza di europeismo convinto, ci si limiti ad adottare provvedimenti di mero ed esagerato opportunismo difensivo. Volendo usare una similitudine, l’Europa è una casa comune che si preoccupa soltanto di installare il più sofisticato dei sistemi antifurto e che però non riesce a gestire, spendere e utilizzare le risorse della casa perché ognuno le vuole tenere per sé.

 

La paura bifronte

Gli organizzatori dicono di puntare su un lavoro costante di lungo termine, una goccia che finirà per lasciare il segno. Ma una partecipazione con il contagocce ha un limite, grande: è tacciabile di scarsa rappresentatività. Un altro inconveniente è che non fornisce abbastanza copertura per attirare allo scoperto persone ordinarie che nutrono frustrazione nei confronti del nuovo governo, ma hanno bisogno della sicurezza di una marcia di massa, soprattutto oggi. Rispetto a otto anni fa, infatti, nel 2025 sia il partito conservatore che l’élite imprenditoriale si sono schierati dalla parte di Trump e la protesta è diventata più pericolosa. Il presidente ha detto che non avrà remore nell’usare l’esercito contro “i nemici interni” e non ha esitato, per arrestare gli studenti che hanno protestato a favore di Gaza, a usare tattiche di sorveglianza come il riconoscimento facciale, il tracciamento della geolocalizzazione e l’identificazione potenziata dall’intelligenza artificiale. 

Gli organizzatori delle manifestazioni di ieri hanno invitato i partecipanti a “non dare per scontato di essere al sicuro”, a indossare mascherine, a lasciare a casa il cellulare e a scrivere “un contatto di emergenza sulla pelle”. Non sono frasi che possono convincere la famiglia media a rimandare la spesa settimanale per andare a sventolare un cartellone a Washington. Come non lo sono le nuove leggi che rendono punibile “rallentare deliberatamente il traffico” o “indossare una maschera che fa sentire oppressa un’altra persona”. È innegabile che negli Stati Uniti rabbia e preoccupazione stanno aumentando. Nel clima politico di questi mesi, che cosa ci vorrà perché trascendano la paura e si distillino in una volontà collettiva impossibile da ignorare? La risposta, storicamente, è un tracollo economico. Potrebbe esserla anche questa volta. (da “Avvenire” – Elena Molinari)

E la chiamavamo democrazia! Sarò esagerato, ma mi viene spontaneo un paragone impossibile (?).

Mio padre mi diceva che, ai tempi del fascismo, bastava trovarsi a passare in un borgo, dove era stata frettolosamente apposta sul muro una scritta contro il regime, per essere costretti, da un gruppo di camicie nere, a ripulirla con il proprio soprabito (non c’era verso di spiegare la propria estraneità al fatto, la prepotenza voleva così).

Ciononostante sempre mio padre mi raccontava come esistesse un popolano del quartiere (più provocatore che matto) che era solito entrare nei locali ed urlare una propaganda contro corrente del tipo: “E’ morto il fascismo! La morte del Duce! Basta con le balle!”. Lo stesso popolano dell’Oltretorrente che aveva improvvisato un comizio ai piedi del monumento a Corridoni (ripiegato all’indietro in quanto colpito a morte in battaglia), interpretando provocatoriamente la postura nel senso che Corridoni non volesse vedere i misfatti del fascismo e di Mussolini, suo vecchio compagno di battaglie socialiste ed intervistate: quel semplice uomo del popolo, oltre che avere un coraggio da leone, conosceva la storia ed usava molto bene l’arte della polemica e della satira.  Ci voleva del fegato ad esprimersi in quel modo, in un mondo dove, mi diceva mio padre, non potevi fidarti di nessuno, perché i muri avevano le orecchie.

Dove voglio parare? Al fatto che gli americani si devono rendere conto di vivere in un regime, a cui purtroppo dolosamente, colpevolmente o ingenuamente hanno dato fiducia, e che ora dopo il peccato viene la penitenza, vale a dire la protesta e la resistenza, che non saranno facili e indolori. Esiste la paura bifronte, quella di chi comanda e spaventa i potenziali oppositori (è, tutto sommato, segno di debolezza politica, che lascia trapelare qualche speranza), quella dei potenziali oppositori che non osano scendere in piazza o assumere iniziative di protesta (è segno di mancanza di forza morale, che non induce alla speranza).

I contraccolpi economici potranno servire a svegliare le coscienze democratiche? Può darsi, ma non ne sarei tanto sicuro. Siamo dentro una deriva politica di tipo mediatico, in cui non vale più nemmeno il portafoglio a far ragionare la gente. L’egoismo è ormai talmente diffuso e incallito da paralizzare i cuori. La riscossa valoriale si allontana. Occorre il coraggio di scendere in piazza e, costi quel che costi, gridare: “É morto il nuovo fascismo! La morte di Trump! Basta con le balle di Musk!”.

 

 

Il pacifismo dal volto umano e…politico

Un’alternativa pacifista che Tarquinio sta provando a portare avanti anche in Parlamento, dove «stiamo lavorando per cercare di correggere la rotta dell’Unione in un momento in cui sta scegliendo la strada del riarmo dei singoli Stati europei, piuttosto che quella della costruzione di una dimensione comune su tutto, dal sociale alla difesa, che non è sinonimo di spesa militare, ma è anche azione diplomatica, cooperazione internazionale…» spiega. 

Ho scelto questa dichiarazione di Marco Tarquinio, parlamentare europeo, per dare un senso politicamente compiuto al sacrosanto pacifismo, ridotto dai più realisti del re a mera, manierata e inconcludente espressione di dissenso globale.

In questi giorni mi è venuta spontanea una riflessione. Checché ne dica Giorgia Meloni (mi fa più pena che rabbia…), stiamo vivendo una catastrofe etico-culturale prima e più che politica. Rassegnarsi alla guerra, consegnare il potere alle armi, è l’espressione più clamorosa della deriva in cui stiamo sprofondando e che ci sta portando a considerare la politica (e la democrazia che ne dovrebbe costituire la traduzione istituzionale) come ostruzionistico giochetto per gli ingenui.

Fino ad ora ho vissuto (cercato di vivere) sulla base della fede cristiana coniugata con la politica (anche la professione politicizzata nonché il pensionamento dedicato al volontariato e alla scrittura impegnata), vale a dire l’attenzione e l’impegno alla società in particolare ai soggetti più deboli e fragili.

Purtroppo la politica non esiste più!? Rimane la fede, ma rischia la paralisi di fronte ad un sistema becero, camaleontico, inesorabile, che non ammette repliche. Anche il volontariato spesso fa da foglia di fico all’ingiustizia dominante.

Allora?

Ci stiamo preparando alla Pasqua: dobbiamo risorgere. Il sepolcro era buio e sigillato, ma le donne di prima mattina sono andate timorose e lo hanno trovato aperto. Cosa c’è di più buio e sigillato dell’odierno sepolcro globale. Eppure bisogna sforzarsi di andare a vedere cosa succede…

Mi sento molto vicino ai discepoli di Emmaus: per loro era tutto finito. Aveva vinto il potere! Ma si è fatto loro vicino uno strano viandante che la sapeva lunga. Fidiamoci di questo viandante e ripartiamo da Lui. Non parlava apparentemente di politica, ma di sacre scritture e di eucaristia. Cenò con loro e tutto risultò chiaro anche se problematico.

Chi è Donald Trump per rovinare tutto e toglierci la speranza dal punto di vista umano e politico? C’è qualcuno che è più forte di Trump. Chi è Giorgia Meloni per faci credere che tutto andrà bene dandola su al più forte. C’è qualcuno che è più coerente e credibile di Meloni e c.

Conviene fare affidamento in Lui, ripartire sempre da Lui: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi”.