Genocidi a gogo

«Non avremmo mai immaginato di scrivere questo rapporto, ma negli ultimi mesi abbiamo visto una realtà che non ci ha lasciato nessuna scelta se non quella di riconoscere la verità: Israele sta commettendo un genocidio». Lo ha detto in ebraico, arabo e inglese la presidente dell’Ong B’Tselem, Orly Noy. È la prima volta che due Ong israeliane, B’Tselem e Physicians for Human Rights (Phr), utilizzano la parola genocidio per descrivere le politiche attuate dallo Stato di Israele nei confronti del popolo palestinese nella Striscia di Gaza. L’occasione è stata la pubblicazione di due studi che raccolgono una considerevole mole di dati, testimonianze e documenti, presentati alla stampa riunitasi nella sala conferenze dell’hotel Ambassador, nel quartiere di Sheikh Jarrah, Gerusalemme Est.

«Per ventidue mesi gli ospedali sono stati attaccati, ai pazienti sono state negati trattamenti salva-vita e gli aiuti sono stati impediti. Questo è un chiaro modello volto alla distruzione di un popolo. È nostro dovere di medici affrontare la verità e fare tutto ciò che è in nostro potere per proteggere i nostri colleghi, che a Gaza rischiano la vita per salvare le persone in condizioni impossibili», ha affermato Guy Shalev, direttore esecutivo di Phr.

Il nostro genocidio e Distruzione delle condizioni di vita: una analisi medica del genocidio di Gaza, da ieri disponibili in rete, sono due report di 88 e 65 pagine, rispettivamente. Entrambi, sostengono i rappresentanti delle due Ong, sono attraversati dallo stesso schema di fondo: la lunga storia di violenza, discriminazione e isolamento cui sono stati sottoposti i palestinesi nel regime di occupazione militare ha creato le condizioni perché il sistema politico, culturale e sociale israeliano, innescato dall’attacco terroristico del 7 ottobre, reagisse con pratiche che chiaramente esulano dal diritto internazionale, fino all’estrema conseguenza del genocidio. Le ricerche affondano nel passato e paventano un’estensione dei metodi utilizzati nella Striscia alla Cisgiordania, già parzialmente in atto. (da “Avvenire.it – Luca Foschi)

La cruda verità era nota da tempo per chi la voleva vedere, ora è impossibile chiudere gli occhi o voltarsi dall’altra parte dopo un simile rapporto steso da istituzioni più che attendibili e credibili appartenenti al mondo ebraico. Dopo di che i governanti occidentali, italiani in primis, continueranno a fare i pesci in barile? Le astuzie diplomatiche, i pianti coccodrilleschi, gli alibi hamasiani stanno in poco posto.

Si impongono precise iniziative a livello internazionale anche se i pulpiti da cui dovrebbero venire le prediche non sono purtroppo credibili. Come fa l’Europa a pressare Israele se coltiva progetti riarmisti e bellicisti? Come fanno gli Usa a mettere in riga Netanyahu dopo averlo ricevuto con tutti gli onori e averlo aiutato in una sporca guerra imperialista? In molti si chiedono come sia possibile che il governo israeliano spadroneggi la situazione, facendo orecchie da mercante persino verso coloro che osano chiedergli un alt alla carneficina in atto. In un mondo governato dall’egoismo tutto è possibile e tutto è ammissibile: non si può togliere nemmeno un pezzo al castello bellico, perché potrebbe cadere e allora si scoprirebbero tutti gli altarini, le complicità, le omertà, le vigliaccherie.

D’altra parte non c’è solo Gaza se nel mondo 673 milioni di persone soffrono la fame. Secondo l’annuale rapporto Sofi diffuso dall’Onu al vertice di Addis Abeba, la quota di persone che soffre di insicurezza alimentare è dell’8,2%, ma resta drammatica la situazione in Africa.

E allora il difetto sta nel manico che sgoverna il mondo. Ricordo che mio padre, con la sua solita e sarcastica verve critica, di fronte agli insistenti messaggi statistici sulla morte di un bambino per fame ad ogni nostro respiro, si chiedeva: «E mi alóra co’ dovrissja fär? Lasär lì ‘d tirär al fiè?». Lo diceva forse anche per mettere fine ai pietismi di maniera che non servono a nulla e vanno molto di moda e per evidenziare come la questione fosse e sia talmente colossale da lasciarci veramente senza respiro.

In assenza di forti posizioni etico-politiche capaci di mettere all’angolo i governanti di Israele e chi li sostiene direttamente o indirettamente a tutti i livelli, riprende a funzionare l’insensata trappola dell’odio che si sfoga a vanvera.

Torna l’allarme antisemitismo in Italia. Un turista francese di religione ebraica ha denunciato di essere stato aggredito in un’area di servizio a Lainate, in provincia di Milano, mentre si trovava con il figlio di sei anni. Secondo il suo racconto, alcune persone lo avrebbero riconosciuto come ebreo per via della kippah che indossava e lo avrebbero prima insultato e poi colpito, gridando frasi come “Free Palestine” e “Assassini”. L’uomo ha ripreso parte dell’episodio con il cellulare e il video è rapidamente diventato virale sui social. Nelle immagini si sentono chiaramente alcune persone rivolgersi a lui dicendo: «Palestina libera», «Qui non è Gaza, siamo in Italia» e «Assassini». Sul caso sta ora indagando la Digos, che ha acquisito le registrazioni delle telecamere di sorveglianza presenti nell’autogrill per ricostruire l’accaduto e valutare eventuali ipotesi di reato.

Immediata la reazione della comunità ebraica. «L’aggressione a una famiglia francese perché di religione ebraica avvenuta in un area di servizio su un autostrada milanese al grido di “Free Palestine” ci segnala per l’ennesima volta come l’antisemitismo sia in forte crescita nel nostro Paese» il commento del direttore del museo della Brigata ebraica, secondo cui lo slogan «sta sostituendo la frase “Allahu Akbar” detta dai terroristi». «Esprimo a nome di tutta la Comunità Ebraica di Roma la nostra indignazione, il nostro sconcerto e la piena solidarietà alla Comunità Ebraica di Milano per l’aggressione antisemita avvenuta all’Autogrill dell’Autostrada Milano Laghi» ha tuonato il presidente Victor Fadlun. «Ci appelliamo alle istituzioni, alla politica e alla società civile per dare una risposta comune e porre un argine a questa inquietante deriva antisemita» ha aggiunto. E la politica ha subito risposto, con condanne biaprtisan, a cominciare da quella del presidente del Senato Ignazio La Russa, che ha parlato di un episodio «inquietante e inaccettabile». (da “Avvenire.it” – redazione attualità)

Parliamoci chiaro: l’antisemitismo è un male antico duro a morire anche perché chi ne soffre fa di tutto paradossalmente per accentuarlo e attualizzarlo. Sarà semplicistico, ma mi sento di dire a malincuore: chi semina genocidio raccoglie antisemitismo.

 

Il mondo in mano a pazzi e sciocchine

L’accordo tra Unione Europea e Stati Uniti sui dazi è stato raggiunto: la tariffa base per l’Ue sarà del 15% e non del 30%, come minacciato precedentemente da Washington. Ma l’Europa dovrà acquistare dagli Usa 750 miliardi di dollari di energia. Oltre a “un’enorme” – anche se ancora non precisata – quantità di armi. Rimane tutto invariato per quanto riguarda gli scambi commerciali di acciaio e alluminio, per i quali i dazi sono confermati al 50%. “Considero positivo che ci sia un accordo, ma se non vedo i dettagli non sono in grado di giudicare al meglio”, ha commentato la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Le opposizioni, dal Pd ai 5 stelle, attaccano l’intesa: “Doveva essere zero a zero sui dazi, invece Ursula e la pontiera Meloni rimediano una disfatta bella e buona”. (da “Il Fatto Quotidiano”)

Al solo pensarci mi vengono i brividi. Abbiamo trattato sui dazi e il compromesso lo abbiamo ottenuto con l’acquisto di armi: roba da matti! Meglio mettere in crisi le imprese o creare i presupposti per ulteriori guerre? Questo il dubbio amletico proveniente dall’incontro fra un pazzo criminale e una sciocchina qualsiasi.

Se questa è la politica, meglio lasciar perdere, meglio un “laissez faire” globale. Nel ’68 credevo che tutto fosse politica, oggi mi devo ricredere perché la politica non conta niente, contano le armi e gli sporchi affari che si costruiscono su di esse. Comincio a diventare un qualunquista politico o un demagogo etico? A chi mi legge l’ardua sentenza…

Non merito non aggiungo niente, Trump e Von der Leyen hanno già detto tutto. Faccio volentieri a meno di conoscere i dettagli, per non angosciarmi ulteriormente. Li lascio alla valutazione della sciocchina nostrana.

Tutto è perduto fuorché la coscienza

L’ultimo in ordine di tempo è stato il giovane paracadutista Dan Mandel Phillipson, che si è sparato durante un periodo di addestramento in una base nel sud di Israele ed è morto in ospedale pochi giorni dopo. Prima di lui il riservista Daniel Edri si era dato fuoco in un bosco nei pressi della città di Safad dopo aver trascorso un lungo periodo di servizio a Gaza. «Dopo quello che aveva visto non riusciva a liberarsi da un terribile tormento interiore», ha spiegato sua madre alla tv israeliana. Dai primi di luglio, in appena due settimane, sono già quattro i soldati dell’Idf (le Forze di difesa israeliane) che si sono tolti la vita. Quello dei suicidi nell’esercito – ben diciannove dall’inizio di quest’anno, il numero più alto di sempre – è un fenomeno spesso taciuto o minimizzato che si unisce all’aumento allarmante delle diserzioni determinando una vera e propria emergenza. Non una falla tecnica o strategica ma una profonda perdita di fiducia negli apparati dello Stato. Le operazioni in corso a Gaza ormai da quasi due anni e la conseguente catastrofe umanitaria stanno facendo vacillare il morale dei soldati aggravando la grave spaccatura interna alla società israeliana.

Ma i numeri raccontano solo una parte della storia. Le testimonianze di chi ha vissuto l’esperienza diretta parlano di un impatto devastante. Soldati tornati a casa che non riescono a scrollarsi di dosso l’incubo delle operazioni, delle perdite, delle decisioni impossibili. E così, molti scelgono di non tornare più in servizio, non per diserzione ma per una forma di resistenza silenziosa alla guerra che li ha cambiati per sempre. A ben poco è servito il fatto che l’Idf abbia attivato una linea telefonica di supporto psicologico attiva 24 ore su 24 e aumentato il numero di specialisti in salute mentale disponibili.

(…)

Le diserzioni nei ranghi dell’esercito – ufficialmente non codificate – crescono in modo esponenziale sotto forma di assenze non giustificate o di atti di disobbedienza: soldati che rifiutano di presentarsi in servizio, che trovano il modo di sottrarsi a un ulteriore tour, che si sentono traditi da un sistema che non tutela chi ha già dato tutto. E si moltiplicano anche le petizioni che chiedono la fine dei combattimenti e dipingono la campagna di Gaza come priva di obiettivi chiaramente realizzabili, accusando il governo di aver fatto trapelare la promessa di un accordo sul rilascio degli ostaggi solo per giustificare un prolungamento del conflitto. L’ultima lettera, promossa dal gruppo pacifista Soldiers for the Hostages, è stata inviata qualche settimana fa a Netanyahu, al ministro della Difesa Katz e al capo delle forze armate con la firma di una quarantina di alti ufficiali dell’Unità 8200 dell’Idf, i quali hanno annunciato che non parteciperanno più a operazioni di combattimento «chiaramente illegali» spiegando che il governo sta conducendo a Gaza una guerra «infinita e ingiustificata». (da avvenire.it – Riccardo Michelucci)

Le più moderate proteste contro la guerra, condotta spietatamente da Israele, si limitano a chiedere che siano risparmiate almeno le vittime fra la popolazione civile (si sta arrivando alle incredibili sparatorie sugli affamati in cerca di cibo): appelli minimalisti ma irrealisti, considerata l’attuale assetto dei teatri bellici, l’impatto incontrollabile delle armi utilizzate e la sempre più bestiale geometria, in cui partendo dall’ipotesi che in guerra tutto è lecito si arriva alla conseguente logica tesi di sparare anche sulla Croce Rossa.

Ironia della sorte: più che le silenti vittime palestinesi sono forse e paradossalmente gli obiettori militari israeliani a mettere a nudo le atrocità e le insensatezze della guerra in atto, che lascerà una impronta indelebile di odio e rimorso, una scia infinita di ferite inguaribili.

Saranno forse più i disagi dei vincitori che la disperazione dei perdenti ad imporre una fine o almeno una tregua a questa guerra. Netanyahu, prima o dopo, oltre che con la propria coscienza, dovrà fare i conti col disagio dei reduci. La storia purtroppo insegna che ciò comporta il rischio di ulteriori sconvolgimenti socio-politici e di nuove guerre: un gatto che si morde la coda.

Papa Francesco ha ripetutamente espresso il concetto della guerra in cui tutti sono perdenti e tutto è perduto.  Mio padre, ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra, reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante: “Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guèri?”.

Fra tanta disperazione bipartisan quale può essere l’unica speranza? Che i rimorsi di coscienza prevalgano sui desideri di vendetta, che la constatazione dei disastri possa scuotere gli animi al fine di evitarne altri. Credo molto più alla massa critica delle coscienze che alla mobilitazione delle diplomazie.

Il grande merito di papa Francesco è stato quello di puntare a “turbare” l’animo delle persone, cattoliche e non, con la provocatoria forza d’urto evangelica, piuttosto che riformare le strutture ecclesiali ad intra e influire sugli equilibri internazionali ad extra con le pur necessarie iniziative vaticane.

Ecco perché sono tanto in ansia rispetto al nuovo Papa: adotterà ancora l’arma dell’umana evangelica debolezza o ripiegherà su quella della diplomatica ecclesiastica forza? Saprà parlare direttamente ai poveri del mondo o si limiterà a raccomandarli ai potenti?

 

 

I tempi favorevoli agli umili non sono mai maturi

Nella Striscia di Gaza è in corso “una catastrofe umanitaria” che “deve finire subito”. È quello che affermato Regno Unito, Francia e Germania alla fine di una call fra i leader Keir Starmer, Emmanuel Macron e Friedrich Merz. L’appello sembra una risposta indiretta al governo d’Israele che aveva negato la carestia in corso a Gaza, nonostante le denunce dell’Onu e di altre organizzazioni internazionali. “Noi chiediamo al governo israeliano di revocare immediatamente lo stop alla consegna di aiuti e di consentire urgentemente alle Nazioni Unite e alle Ong umanitarie di svolgere il loro lavoro per combattere la carestia e la fame”, continua la dichiarazione. Una posizione che arriva nel giorno in cui la Francia di Emmanuel Macron ha annunciato l’intenzione di riconoscere lo Stato di Palestina. Una mossa che ha spinto numerosi parlamentari in Gran Bretagna e in Italia a mettere pressione ai rispettivi governi. Oggi, sulla tragedia in corso a Gaza si è espresso anche Josep Borrell, che dal 2019 al 2024 è stato alto rappresentante per la politica estera dell’Ue. “Noi europei, che predichiamo il rispetto del diritto, siamo complici. Le Nazioni Unite sono paralizzate dal veto. Europa è incapace di arrivare a un accordo” su sanzioni a Israele “perché la Germania e altri paesi continuano a opporsi negando la realtà per i loro complessi di colpa del passato”, ha detto, spiegando di avere “perso la speranza che l’Europa reagisca” davanti alla mattanza sulla popolazione di Gaza, dove i civili vengono uccisi nei campi rifugiati mentre sono in fila per il pane e i bambini muoiono di fame. L’Europa resta inerte davanti alla carestia che sta uccidendo nella Striscia, “mentre seimila camion con medicine e alimenti sono bloccati alla frontiera dall’esercito israeliano”. Una situazione che, dice, “come europeista mi produce un’enorme tristezza”. “Li stanno uccidendo come topi quando vanno a cercare cibo. Non sto esagerando”, ha assicurato l’ex capo della diplomazia europea, deplorando il blocco israeliano a causa del quale “ci sono due milioni di persone che muoiono di fame”. Nel suo intervento a Cadena Ser, Borrell cita la Germania che, imbrigliata nel senso di colpa per il nazismo, “nega la realtà”. (da “Il Fatto Quotidiano”)

Josep Borrell Fontelles è un politico, ingegnere aeronautico, economista e docente spagnolo, membro del PSOE. È stato dal 1º dicembre 2019 al 1º dicembre 2024 Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza.  Non è l’ultimo arrivato! Finalmente una visione chiara che fotografa una situazione vergognosa e un invito ad uscire dai tatticismi e dalle menate diplomatiche.

Ho l’impressione che la Germania sia prigioniera della propria impresentabile storia, il Regno Unito tenti di risalire in corsa sul treno europeo e la Francia esibisca il suo solito sterile protagonismo. Il loro appello è meglio del silenzio, ma è poco più di una vocina del sen fuggita o, se volete, un timido tentativo di affrancarsi dal controllo Trumpiano.

L’Italia sembra tagliata fuori da queste mosse diplomatiche: troppo azzardate per essere praticabili, troppo incaute per essere ingoiate dai trumpiani di casa nostra. La linea di Meloni sulla Palestina: «I tempi non sono maturi. Due popoli due Stati sia un punto di arrivo». Cosa aspettiamo ad agire che la Palestina non esista più? Un punto d’arrivo richiederebbe anche un punto di partenza: da dove incominciamo?

Ecco il recente messaggio inviatomi dal carissimo amico Pino: “Non dimentichiamo il parroco di Gaza, è quello che più si sporca le mani perché rischia la sua vita restando lì: un santo padre Romanelli. Umile, semplice, eroico senza nessun atteggiamento da eroe. Io mi devo impegnare di più a pregare per chi vive in quell’inferno, perché sono preso di più dai sofferenti che sono qui e che hanno a che fare con me. Bisognerebbe andare sul posto e vedere di persona: ti coinvolge di più (vedi cardinale Pizzaballa). Ci siamo abituati troppo a vedere immagini di sofferenza in tv”.

Aggiungo che, non avendo la possibilità di recarci in mezzo ai disastrati, dobbiamo accontentarci di andarci almeno col cuore. Il percorso dovrebbe partire dalla pietosa osservazione, per passare alla incontenibile indignazione, poi all’aperta e coraggiosa denuncia, poi alla solidarietà con chi soffre, poi alla preghiera, poi alla politica che, come sosteneva Paolo VI, è la più alta forma di carità: Giorgio La Pira è forse l’unico personaggio che è riuscito a fare tutto questo virtuoso percorso.

Mia sorella andava profondamente in crisi di fronte alle immagini dei bimbi denutriti o morenti: si commuoveva, pronunciava parole dolcissime di compassione e spesso si allontanava dal video non reggendo al rammarico dell’impotenza di fronte a tanta innocente sofferenza. Sì, perché il cuore viene prima della mente, la sofferenza altrui deve essere interiorizzata prima di essere affrontata sul piano della concreta solidarietà e della risposta politica. Chissà come soffrirebbe per i bambini di Gaza! Poi però aggiungerebbe parole infuocate di condanna contro i governanti di Israele: le pronunciò anche in tempi non sospetti al rientro da un viaggio in Terra Santa.

Questi sentimenti di sofferta partecipazione al dramma palestinese sono abbastanza diffusi nella gente così come la repulsione alla guerra e ad ogni forma di riarmo. Perché i nostri governanti non se ne fanno minimamente carico? Ricordo un recente intervento parlamentare di Gianni Cuperlo con un appello alla premier Meloni ad interpretare questo sentimento popolare quando si siede ai tavoli dei potenti, che prima o poi “saranno rovesciati dai troni” (magnificat di Maria).

Forse Giorgia Meloni non ha nemmeno voglia di sedersi a quei tavoli. Magari teme che vengano rovesciati non da Dio, ma da Trump…

 

 

 

 

 

 

Il ditone giustizialista e il ditino scacciapensieri

L’ex sindaco di Pesaro ed ex presidente di Ali, Autonomie Locali Italiane, figura di spicco del centrosinistra marchigiano, ha reso noto di essere destinatario di un avviso di garanzia nell’ambito dell’indagine “Affidopoli”, che riguarda presunti affidamenti irregolari effettuati dal Comune di Pesaro durante il suo mandato. A comunicarlo è stato lo stesso Ricci, che in un video diffuso sui social ha espresso stupore e delusione, ribadendo al contempo la propria convinzione di non aver commesso alcun illecito.

L’inchiesta, avviata circa un anno fa dalla procura, si concentra su una serie di affidamenti diretti effettuati dal Comune di Pesaro durante l’ultima amministrazione Ricci, per un ammontare complessivo superiore ai 500mila euro.

I fondi, secondo gli inquirenti, sarebbero stati assegnati a due specifiche associazioni senza passare attraverso gare pubbliche o procedure comparative, come invece previsto in linea generale per l’utilizzo di risorse pubbliche.

Gli interventi finanziati comprendevano iniziative culturali e simboliche, tra cui la realizzazione di un murale in onore della senatrice a vita Liliana Segre, volto a promuovere la memoria della Shoah, e l’installazione di una grande scultura a forma di casco, dedicata al pilota Valentino Rossi, destinata a celebrare il legame del territorio con il campione motociclistico.

A Ricci, tuttavia, non viene attribuito alcun arricchimento personale: le contestazioni mosse dalla procura riguardano esclusivamente un presunto vantaggio in termini di consenso politico. In altre parole, l’ex sindaco – secondo l’ipotesi accusatoria – avrebbe potuto trarre giovamento in termini di immagine e popolarità dalle opere realizzate e dagli eventi finanziati, rafforzando la sua posizione pubblica in vista di future competizioni elettorali. 

Una tesi che Ricci ha già definito “curiosa” e “infondata”, negando qualsiasi tipo di strategia orientata a ottenere visibilità attraverso l’utilizzo delle risorse comunali.

Nel suo intervento, Ricci ha chiarito di non aver mai gestito personalmente gli affidamenti pubblici, delegando tali responsabilità ai dirigenti competenti: «In quindici anni da amministratore, ho sempre riposto piena fiducia nei miei collaboratori. Non ho mai seguito direttamente le procedure di assegnazione», ha affermato, aggiungendo di non avere mai ricevuto alcuna segnalazione su presunte anomalie.

L’ex primo cittadino ha anche sottolineato di non aver avuto rapporti diretti con le associazioni coinvolte: «Non le conoscevo, né ho mai interagito con loro». La contestazione avanzata dai pm, che fanno riferimento a un’ipotetica “utilità politica”, viene definita da Ricci “piuttosto singolare” e completamente priva di fondamento. «Non ho mai pensato di ottenere consenso attraverso questi atti. Se qualcuno ha commesso errori, e lo si dovesse accertare, io per primo sarei parte lesa».

Non è mancata una riflessione sul tempismo dell’avviso, recapitato a poche ore dall’ufficializzazione del voto regionale. «Un anno di indagini, e proprio il giorno dopo l’annuncio delle elezioni mi arriva questa comunicazione. È difficile non notare la coincidenza. Mi amareggia e mi lascia interdetto», ha dichiarato Ricci, visibilmente provato.

Nonostante la situazione, l’ex sindaco si è detto sereno e determinato ad affrontare la vicenda con trasparenza. «Non ho nulla da nascondere. Continuerò a metterci la faccia, come ho sempre fatto. La politica per me è impegno civile, dedizione e confronto, non certo opportunismo». (lentepubblica.it)

Credo che la procura competente abbia agito con un certo qual accanimento giudiziario: non vorrei che si fosse aperto un vero e proprio ciclo di emulazioni fra procure per vedere chi ne incastra di più. Sarà la ricattatoria concomitante risposta preventiva alla riforma della giustizia?

Queste maliziose insinuazioni sono ben lungi dal criminalizzare la magistratura e beatificare la politica, ma mi vengono spontanee in un rissoso clima di confronto tra potere politico e potere giudiziario: un incrocio istituzionale molto delicato.

Superati i possibili reciproci veleni, vorrei svolgere due riflessioni. Mi sembra innanzitutto che l’accusa rivolta a Matteo Ricci sia assai poco rilevante sul piano giuridico e basata soltanto su presupposti etici, rispettabilissimi ma troppo generici e poco concreti. Che la politica tenti di utilizzare l’amministrazione della cosa pubblica per accaparrare consensi e ottenere appoggi è cosa vecchia come il cucco anche se a dir poco criticabile. Di qui a intravedere sempre e comunque la gatta che ci cova… Un po’ più di rigore giudiziario e di obiettività indagatoria non guasterebbero.

Devo però essere altrettanto sincero nel considerare debole la difesa di Matteo Ricci laddove nasconde la propria assoluta estraneità dietro il comportamento dei funzionari alle sue dipendenze: non so se possa scattare o meno una sorta di responsabilità oggettiva, ma comunque gli amministratori pubblici devono essere attenti agli atti dei loro uffici. Altrimenti, mi spieghino cosa ci stanno a fare e cosa fanno. Le solite chiacchiere programmatiche?

Sono stanco di sindaci (compreso il tanto osannato ed argenteo sindaco di Parma) che danno aria ai denti, elaborando progetti a raffica e ad impatto zero sulle effettive necessità dei cittadini (soprattutto quelli con gravi problemi). Dimostrano di non avere in mano la macchina amministrativa ed al contempo di avere scarsa sensibilità umana e sociale: allora può sorgere il dubbio che agiscano per motivi squisitamente “politici”. Dovrebbero essere i cittadini stessi a farlo presente, ma purtroppo sono imbambolati dai media, dalle polemiche di partito e dalla sfiducia dilagante. Ecco allora spuntare il giustiziere della notte, la procura che va alla ricerca del pelone nell’ovetto usando magari l’occhio del bue.

 

 

 

 

Per Gaza si deve fare di più

«Cristo non è assente da Gaza. È lì, crocifisso nei feriti, sepolto sotto le macerie, presente in ogni gesto di misericordia, in ogni mano che consola, in ogni candela accesa nel buio». Sono parole enormi, quelle che il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme, decide di usare nel corso della conferenza stampa convocata presso il Notre Dame Jerusalem Center, dopo la sua visita nella Striscia insieme al Patriarca ortodosso Teophilus III. 

(…)

In mezzo a rovine e disperazione, la presenza dei cristiani è rimasta silenziosa ma tenace. «Abbiamo sentito ripetere da loro: ho una casa, ho un negozio in fondo alla strada – ha raccontato Pizzaballa -. Usano il tempo presente. È la lingua del trauma, ma anche della speranza che resiste». Il messaggio che i due patriarchi hanno portato alla stampa internazionale è chiaro: i cristiani sono a Gaza per restare, e saranno parte attiva nella futura riconciliazione, quando la guerra sarà finita. Ma la speranza non è cieca. Il cardinale ha lanciato un appello esplicito alla comunità internazionale: «Ciò che accade a Gaza è moralmente inaccettabile e ingiustificato. Occorre proteggere i civili, impedire punizioni collettive e lo spostamento forzato della popolazione. Si applichi la legge umanitaria. Si ponga fine a questa guerra».  (dal quotidiano “Avvenire” – Luca Foschi)

Ci si domanda scetticamente cosa serva andare sul posto delle tragedie se non a dare pietose, formali e superficiali solidarietà di maniera. Può succedere, ma non è detto. Mi risulta che papa Francesco telefonasse giornalmente al parroco di Gaza: “Con Francesco, le conversazioni erano quotidiane e qui, tutti, cristiani e musulmani, lo considerano un padre. Anche Leone, però, ci è vicino: con la sua preghiera e il suo lavoro per la pace. Quando si decideranno i leader ad ascoltarlo?”.

Mi sono chiesto ora come allora: si può fare di più? È sempre possibile fare di più! La Chiesa sta facendo tutto il possibile per aiutare i palestinesi? Come può convincere i governanti di Israele ad interrompere lo sterminio? Innanzitutto distinguerei la Chiesa in prima linea da quella del quartier generale vaticano. Bisognerebbe allargare la prima linea e restringere il quartier generale. Il cardinal Pizzaballa può essere considerato il trait d’union tra le due presenze. Allora perché nella scelta del nuovo papa ci si è accontentati di qualificare il comando generale e non si è avuto il coraggio di schierarsi concretamente a fianco delle popolazioni che soffrono? L’attivismo di Pizzaballa vuol essere un modo per colmare la lacuna?

“Lo scorso maggio, l’autorevole cardinale inglese Timothy Radcliffe è volato in Vaticano per partecipare al Conclave, che oggi descrive come «un’esperienza affascinante». I dettagli che si vedono nel film Il Conclave, rivela Radcliffe, «sono corretti, ma l’atmosfera è completamente diversa. Sai di stare facendo una scelta di grande responsabilità, ma si ride e si scherza insieme». E di cosa parlavano i cardinali riuniti nella cappella sistina? «La sfida maggiore era stata individuata da papa Francesco: tutti dovevano venire accolti, “Todos, todos, todos”, ripeteva sempre. Non importa cosa hai fatto, chi sei, qual è il tuo orientamento sessuale, questa è casa tua e dobbiamo ascoltarti», spiega Radcliffe.

Secondo il cardinale inglese, è anche per questo che la scelta è ricaduta su Prevost. «Con Leone», spiega l’ecclesiastico, «arriva un momento nuovo: dobbiamo proseguire quello che ha fatto Francesco, che però aveva spaventato alcuni, che devono potersi sentire a casa». Il nuovo pontefice, dice ancora Radcliffe, «è molto bravo a fare la pace, a costruirla. Ha il grande dono di riunire le persone, guarire le ferite, le tensioni. È molto umano». (da open.online)

Prendo atto con estremo piacere di questa versione di prima mano, però mi sia consentito “insinuare” come non sia bello che, mentre il Patriarca latino di Gerusalemme viaggia in mezzo a rovine e disperazione, papa Leone si riposi in quel di Castelgandolfo.  Papa Bergoglio, come scrisse Liliana Cavani, si defilò dal Palazzo per vivere in una casa normale. Questa scelta fu uno dei primi discorsi di papa Bergoglio, un fatto che pare abbia fatto arrossire alcuni cardinali e anche incavolare altri cardinali o prelati di rango.

So già che sarò accusato di demagogia pseudo-evangelica e post-bergogliana, ma la mia boccaccia religiosa non può starsene zitta. Di parole buone se ne sentono tante anche se spesso non di rottura, di opere un po’ meno. Non vorrei che ci fosse una sorta di delega ai cristiani della periferia palestinese per il “lavoro sporco” e finanche per ostentare le proprie vittime, mentre il papa e il Vaticano si riservano il lavoro diplomatico.

Il problema è che siamo in un mondo che ha riabilitato la guerra come strumento di risoluzione dei conflitti e le parole del Papa ci aiutano a non dimenticare la pace che è l’autentica soluzione dei problemi. Una grande figura come Yitzhak Rabin, poi ucciso, l’aveva immaginata per Israele e i palestinesi. Oggi, non solo ci troviamo in un conflitto con bombardamenti fuori da ogni logica, ma anche con una accresciuta, incredibile tensione in Terra Santa e in Medio Oriente. La mia è una speranza di pace, perché credo che sia ragionevole, che non ci siano alternative al convivere nella sicurezza, perché è scritto nella storia e nella geografia. La strada è lunga e ci vorrà uno sforzo convergente dei grandi attori internazionali. Ci troviamo in una situazione nuova, ad esempio, in Siria, di cui bisogna preservare l’integrità accanto al fragile Libano. Ringrazio il Papa perché non ha abbassato lo stendardo della pace. L’anno scorso abbiamo tenuto la nostra preghiera della pace nello spirito di Assisi a Parigi e abbiamo scelto il titolo “immaginare la pace”. Perché ormai quasi l’abbiamo dimenticata come vera soluzione del problema. (dall’intervista rilasciata da Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio, al quotidiano “Avvenire”)

Devo essere sincero: non mi bastano le parole del Papa, credo che soprattutto non bastino alle vittime del massacro in atto a Gaza. Con papa Francesco le parole avevano il sapore dell’empatia nei confronti dei poveri. Non la percepisco più. Oltre che demagogo sarò anche sentimentaloide.

Il problema però non riguarda soltanto il papa e le alte sfere vaticane: chi ha sentito durante le messe periferiche di questo periodo parole di pace compromettenti e non i soliti generici oranti bla-bla?

Mi sbaglierò, ma ho la sensazione di un applaudito ed auspicato ritorno alla cittadella del clericalismo che non punge ed ai suoi schemi: teniamo presente che il clericalismo ha fatto nascere la Chiesa in una botte per farla morire in un fiasco.

La guerra dei battoni anti-costituzionali

Il Senato ha approvato ieri la riforma costituzionale che introduce la separazione delle carriere dei magistrati, e lo ha fatto confermando il testo licenziato dalla Camera. I sì del centrodestra sono stati 106, i no di Pd, M5s e Avs sono stati 61 e le astensioni di Iv e Azione sono state 11. Si tratta di «un momento decisivo della legislatura» e non solo per questa riforma, come ha detto Maurizio Gasparri, ma perché questo secondo sì avvicina il referendum confermativo che inevitabilmente sarà un pronunciamento su tutto l’operato del governo Meloni. La premier si giocherà dunque l’osso del collo su una riforma non certo sua, e questo contribuisce a spiegare la sensazione di stranezza che si è respirata ieri a Palazzo Madama.

Il primo aspetto di stranezza è arrivato dalla stessa seduta, in cui i toni non sono stati così alti come lo scontro politico e anche pubblico su tale riforma faceva presumere. Finalmente si è visto in Aula il ministro Carlo Nordio, per la prima volta da quando questo ddl è arrivato a Palazzo Madama. Gli altri scranni del governo erano vuoti, con il solo ministro Luca Ciriani e il viceministro di Fi Francesco Paolo Sisto accanto al guardasigilli a rappresentare il governo per una riforma uscita dal Consiglio dei ministri e nemmeno sfiorata in una virgola dal Parlamento. Dopo l’approvazione Giorgia Meloni si è limitata ad un post sui social (seguito da un video), con parole di circostanza: L’approvazione «segna un passo importante verso un impegno che avevamo preso con gli italiani e che stiamo portando avanti con decisione. Il percorso non è ancora concluso, ma oggi confermiamo la nostra determinazione nel dare all’Italia un sistema giudiziario sempre più efficiente, equo e trasparente». Ma per avere «un sistema giudiziario più efficiente» bastavano leggi ordinarie sui nodi noti della giustizia, senza aprire una guerra civile che porta, come ha detto Dario Franceschini, «in terreni ignoti». Il ddl, infatti, prevede due Csm, uno per i magistrati giudicanti ed uno per quelli requirenti; ma questi ultimi, autogestiti, staccati dalla cultura giurisdizionale, «rischiano di diventare dei superpoliziotti». Rischio paventato anche da Alfredo Bazoli del Pd.

Tra le opposizioni   Avs, con Peppe De Cristofaro, M5s, con Roberto Scarpinato e anche il Pd con Francesco Boccia temono un altro scenario: quello di una subordinazione al governo dei pm dell’intera magistratura, con la fine della separazione dei poteri. Questo attraverso le leggi attuative che potrebbero attenuare l’obbligatorietà dell’azione penale e attraverso l’Alta Corte disciplinare. Infatti il potere disciplinare verrà sottratto ai due Csm e verrà attribuito a una apposita Alta Corte. Nel ridisegnare il sistema disciplinare – è il timore delle opposizioni – il centrodestra potrebbe introdurre meccanismi ricattatori verso le toghe.

Non a caso al momento del voto sono scattate le proteste: i senatori del Pd hanno esposto il frontespizio della Costituzione capovolta, mentre M5s ha mostrato le foto di Falcone e Borsellino con la scritta «non nel loro nome». (da “Il Manifesto” – Kaspar Hauser)

Si ha l’impressione che dei contenuti veri della riforma costituzionale in discussione in Parlamento non si abbia piena consapevolezza e che tale riforma venga utilizzata e sbandierata solo come duplice pretesto per arrivare a una resa dei conti referendaria sull’operato del governo e per dare un eloquente avvertimento ai magistrati affinché si mettano in riga.

Dario Franceschini paventa un clima da guerra civile che porta in terreni ignoti: espressione a dir poco inquietante. Viene spontanea la domanda se la separazione delle carriere sia lo scopo o soltanto lo specchietto per le allodole a copertura di una ben più profonda ricollocazione costituzionale del potere giudiziario in linea con la revisione autocratica delle democrazie occidentali.

La Magistratura rischia di diventare il terreno di scontro politico fra destra e sinistra con i cittadini costretti a schierarsi nella guerra fra toghe e governo: un clima molto pericoloso!

Se da una parte non vedo sinceramente la portata reazionaria nella separazione delle carriere, temo tuttavia che si tratti del grimaldello per far saltare l’assetto costituzionale dei rapporti fra i poteri dello Stato.

Se temo una magistratura invadente e autoreferenziale, temo ancor più una magistratura condizionata dagli umori governativi o addirittura asservita al potere esecutivo.

Ho la negativa impressione che le scaramucce pregiudiziali siano già iniziate: da una parte il governo che armeggia contro i giudici, dall’altra parte i giudici che battono dei colpi di avvertimento verso l’intera classe politica sparando a casaccio (vedi indagini su sindaci e amministratori pubblici) o meglio sparando a destra per respingere gli assalti del nemico e a sinistra per sollecitare la discesa in campo dell’amico.

È questo ciò a cui fa riferimento Dario Franceschini? Se fosse così, l’unico antidoto sarebbe il presidente della Repubblica, il quale, dopo un messaggio ad hoc alle Camere e una presa di posizione nella sua qualità di presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, potrebbe addirittura minacciare il ricorso alle urne in una sorta di immediato referendum costituzionale confermativo: una sorta di “mortus” agli scriteriati belligeranti di regime e di “vivus” ai saggi difensori della democrazia.

E chi sono io per giudicare parlamento, governo e magistratura? E per suggerire iniziative al Capo dello Stato? Un semplice cittadino provocatoriamente ansioso di vivere in una autentica democrazia e che non ci sta ad assistere allo scempio della Costituzione.

 

 

 

Sala d’aspetto a sinistra

Giuseppe Sala tira dritto. Nessun passo indietro, il sindaco di Milano resta in sella nonostante il terremoto provocato dalle inchieste sull’urbanistica nel capoluogo lombardo dove anche lui risulta tra gli indagati. Non si dimette e rilancia, con tanto di riferimenti – quasi spericolati – a Tangentopoli: “Non esiste una singola azione che possa essere attribuita a mio vantaggio, le mie mani sono pulite”, afferma nelle sue comunicazioni in Consiglio comunale dove lancia anche un altro messaggio: “Giustizia e politica devono occuparsi di ambiti diversi”. Subito dopo prende la parola il suo assessore alla Rigenerazione urbana Giancarlo Tancredi che annuncia, invece, di avere già rassegnato le dimissioni. “Giungo a questa decisione, profondamente sofferta, perché ritengo sia la migliore”, ha detto l’ormai ex assessore durante il suo intervento. La sua posizione nell’inchiesta è più complessa: per lui la Procura di Milano ha chiesto gli arresti domiciliari. “Oltre che amareggiato per questa inchiesta e per il lavoro che non potrò portare a termine, sono sconfortato e molto deluso per quella che in questi giorni è stata la posizione espressa da alcune forze di maggioranza di questa città”, afferma in un passaggio del suo discorso. Il riferimento è evidentemente al Pd che ha richiesto le sue dimissioni prendendo, invece, da subito le difese del sindaco Sala. Nelle dichiarazioni di Sala non c’è però nessun riferimento ai conflitti di interesse nel sistema dell’urbanistica milanese, questione centrale della maxi-indagine della Procura di Milano che oggi vede 74 indagati. (da “Il Fatto Quotidiano”)

Parto da un riferimento alla mia vita: ho sempre avuto un “debole” per le dimissioni allorquando avvertivo una certa qual mancanza di consenso nei miei confronti o se mi rendevo conto di qualche inadeguatezza personale rispetto alle esigenze della funzione ricoperta. Sono sempre stato malato di “dimissionismo” acuto: presunzione di perfezionismo? attitudine al disimpegno? ansia e conseguente fuga dalle responsabilità? Forse di tutto un po’… Fatto sta che non ho mai aspettato che qualcuno mi chiedesse di farmi da parte e ho sempre giocato d’anticipo.

In chi riveste funzioni politiche esiste la tendenza inversa, vale a dire quella di rimanere al proprio posto a dispetto dei santi. Non pretendo il dimissionismo, ma mi preoccupa il continuismo, anche se ammetto che forse nel caso del sindaco di Milano Giuseppe Sala non si tratti tanto di dare o meno le dimissioni, ma di fare un serio esame di coscienza per avviare possibilmente un cammino di conversione.

Conosco, per sentito dire, una persona che, quando affronta questioni politiche, chiede al suo interlocutore: «Ti sit äd sinistra?». Credo non sia una faziosa pregiudiziale ideologica, ma la necessità di capire la coscienza e la sensibilità politica della persona con cui ci si confronta.

Voglio arrivare al fatto che da un amministratore della cosa pubblica, che si colloca in area di sinistra, pretendo un comportamento diverso non tanto per la impossibile purezza quanto per la indispensabile tensione ideale. Questo vale a maggior ragione quando scricchiola il rapporto fiduciario con gli elettori: farsi da parte per operare una immediata e profonda verifica sarebbe più che opportuno.

Sono (quasi) sicuro che il sindaco Sala non si sia macchiato di corruzione o di altri reati nello svolgimento del suo importante e faticoso compito, ma vorrei capire se nelle sue scelte sia stato coerente con una visione progressista e aperta alle problematiche delle fasce sociali più deboli. La magistratura, volenti o nolenti, ha lanciato un sasso nella piccionaia della sua amministrazione e ciò impone una seria revisione della macchina, cosa che si può fare portandola in officina e non continuando a girare per le strade milanesi, seppure con prudenza e attenzione.

Ammetto di avere stima ed ammirazione per Giuseppe Sala al punto da inserirlo nel toto-presidente della Repubblica del dopo Mattarella: più di così…Proprio per questo mi permetto di esigere da lui un bel passo indietro, magari solo per prendere la rincorsa.

Oltre tutto si è dimesso un suo assessore nell’occhio del ciclone: cosa facciamo? una scarpa e una ciabatta? un disgustoso giochetto a nascondino? un distinguo così sottile da puzzare di strumentalismo e opportunismo di partito e/o di schieramento?

Mi sono già permesso di consigliare a Giuseppe Sala un riesame della sua sindacatura alla luce sfolgorante degli insegnamenti lapiriani: ribadisco la richiesta, allargando il discorso a tutta la politica. O chi si definisce di sinistra dimostra di esserlo veramente alla prova dei fatti, altrimenti finisce male con destra e sinistra per me pari sono. E qual è la prova del nove?  L’atteggiamento di estrema e sofferta attenzione verso tutte le forme di povertà e fragilità che caratterizzano la nostra società.

Mi permetto quindi di copiare quella persona di cui sopra che pretende giustamente di fare i raggi ai suoi interlocutori e chiedo, in dialetto parmigiano (magari persino maccheronico), al sindaco di Milano: «Lu el äd sinistra? Alóra ch’äl m’la dimostra!».

 

 

L’ape Maga

Il 18 luglio l’avvocata e procuratrice generale di Donald Trump, Pam Bondi, dovrebbe chiedere la revoca del segreto professionale per i documenti che riguardano il finanziere Jeffrey Epstein, un caso che imbarazza il presidente americano da diversi giorni.

Giovedì il Wall Street journal ha pubblicato un articolo che attribuiva al miliardario newyorchese diventato presidente degli Stati Uniti la responsabilità di aver scritto, nei primi anni duemila, una lettera a Jeffrey Epstein in occasione del suo cinquantesimo compleanno con dei dettagli compromettenti per Trump.

Il 17 luglio il presidente ha annunciato la sua intenzione di intentare una causa contro il giornale e il suo proprietario, il magnate Rupert Murdoch. Sotto la pressione di alcuni politici del suo stesso schieramento, ha anche chiesto alla sua avvocata di chiedere la desecretazione di tutte le testimonianze “rilevanti” del procedimento legale riguardante Epstein, morto nel 2019 prima del processo.

La procuratrice Pam Bondi ha confermato di essere “pronta” a chiedere a un tribunale di revocare il segreto d’ufficio sulla testimonianza resa davanti a un gran giurì su questo caso. Nel sistema giudiziario americano il gran giurì è composto da gruppo di cittadini selezionati, che analizza prove e testimonianze per decidere un possibile rinvio a giudizio.

La decisione di pubblicare le testimonianze sarà “soggetta all’approvazione del tribunale”, ha dichiarato Donald Trump il 17 luglio. Ma questi documenti “riguarderanno solo Epstein e (Ghislaine) Maxwell”, la sua compagna già condannata, e non altri nomi, ha dichiarato Daniel Goldman, deputato democratico ed ex procuratore federale.

Il presidente americano è alle prese da oltre una settimana con le accuse mosse da alcuni dei suoi stessi sostenitori, che accusano la sua amministrazione di voler chiudere la questione troppo in fretta.

Jeffrey Epstein è stato arrestato e accusato nel luglio 2019 di sfruttamento sessuale di minori e associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento sessuale di minori.

La morte di Epstein, amico di molti personaggi famosi e potenti, trovato impiccato nella sua cella di New York prima del processo, ha alimentato numerose teorie non verificate secondo cui sarebbe stato assassinato per impedire rivelazioni che coinvolgessero personaggi di alto profilo.

Era già stato condannato a una breve pena detentiva nel 2008, dichiarandosi colpevole di aver fatto uso di prostitute, tra cui una minorenne.

Personaggi vicini al movimento “Make america great again” (Maga) di Donald Trump si battono da anni per la pubblicazione di una presunta lista segreta dei clienti di Jeffrey Epstein.

Ma circa dieci giorni fa, il dipartimento di giustizia e la polizia federale, l’Fbi, hanno stabilito in un rapporto congiunto che non vi erano prove dell’esistenza di questa lista, né di ricatti nei confronti di alcune figure.

Questi annunci hanno scatenato un’ondata di messaggi di rabbia da parte degli account Maga sui social network.

Donald Trump si è mostrato apertamente infastidito, definendo “stupida” questa parte dei suoi sostenitori e chiedendo loro di voltare pagina, accusando allo stesso tempo l’opposizione democratica di avere “orchestrato” ipotesi sul suo coinvolgimento. (internazionale.it)

Ucci ucci sento odor di scandalucci! Per Donald Trump si profila una ulteriore e delicatissima emergenza giudiziaria: assomiglia per certi versi allo scandalo Watergate, per altri al Clintongate, per altri ancora al bunga-bunga berlusconiano.

La giustizia americana (non) farà il suo corso, invischiata com’è nel potere esecutivo. Quando poi le indagini arrivano a certi gotha si è quasi sicuri dell’insabbiamento.

Non mi diverte guardare dal buco della serratura di nessuno, men che meno dei potenti di turno. Il teorema che striscia sotto la sabbia americana, qualora fosse dimostrato, sarebbe però veramente molto grave.

Per Donald Trump c’è oltre tutto una complicazione: il bigottismo Maga che gli ha fatto tanto comodo sul piano elettorale potrebbe ritorcersi contro di lui e risvegliare un certo elettorato dal torpore in cui è sprofondato.

A volte basta poco per inceppare certi meccanismi apparentemente intoccabili: il sesso sfrenato potrebbe essere il sassolino che inceppa la macchina. Da una parte sarebbe l’ulteriore prova che gli americani non capiscono niente; dall’altra parte sarebbe la dimostrazione che il diavolo insegna a fare le pentole ma non i coperchi.

La storia italiana insegna che per mettere in discussione il potere berlusconiano ci volle anche la maniacale deriva sessuale del cavaliere: la Chiesa lo godeva, ma quando si aprirono certi cassetti non poté più far finta di niente; così anche all’estero la sputtanata pesò eccome.

Nel frattempo il mondo è cambiato ed è diventato ancor più impermeabile a certo rigore etico. Si scontreranno due atteggiamenti: da un lato il “sono tutti sporcaccioni” meglio lasciar perdere; dall’altro lato il “però tutto ha un limite”.

Di una cosa sono certo: la premier Meloni non si azzarderà a censurare Trump per queste sue eventuali avventure. Si sentirebbe rispondere: ma tu da che mondo vieni? non eri amica del Berlusca? E allora fammi il piacere… Non ho idea di cosa dovrebbe fare di brutto Trump, che non stia già facendo, per essere criticato dall’attuale governo italiano. E poi diciamolo pure: un po’ di (in)sano garantismo non si nega a nessuno, figuriamoci al presidente statunitense…

 

Buttiamo le berrette cardinalizie oltre l’ostacolo

«Ogni giorno che passa appare sempre più chiaro che non esiste legge, la legge è il potere», dichiara all’assemblea il cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme, chiamato insieme all’ortodosso Teophilus III a riassumere il sentimento delle Chiese. Sono necessarie «unità, solidarietà, l’interesse attivo della diplomazia, della comunicazione, della comunità internazionale». Un appello ecumenico alla forza della parola, della presenza, contro l’oblio dove ogni cosa può accadere, anche un’accelerazione del lento, progressivo dissolvimento della comunità cristiana in Terra Santa. (da “Avvenire.it)

 

A voi che impugnate le leve del potere – governi in doppiopetto, consigli d’amministrazione oliati come ingranaggi, alleanze militari dalla voce di metallo – dico che il Vangelo non fa sconti né ammorbidisce la verità. Non domanda tessere, non pretende incenso: impone di riconoscere l’uomo quando lo si vede, di chiamare male ciò che schiaccia l’uomo. «Avevo fame e mi avete dato da mangiare, ero straniero e mi avete accolto» non è un soprammobile pio: è norma primaria scritta con il polso di Dio. Non esistono clausole, non c’è piè di pagina abbastanza piccolo per nascondere l’egoismo.

Se volete essere guida e non timone allo sbaraglio, fermate i convogli carichi di morte prima che varchino l’ultima dogana; smontate i macchinari che colano piombo e forgiatene aratri, tubature, banchi di scuola. Portate i bilanci di guerra sulla cattedra di un maestro stanco: trasformate milioni stanziati per missili in sale parto illuminate, ambulanze capaci di raggiungere finanche le sofferenze più remote.

E voi che sprofondate nelle poltrone rosse dei parlamenti, abbandonate dossier e grafici: attraversate, anche solo per un’ora, i corridoi spenti di un ospedale bombardato; odorate il gasolio dell’ultimo generatore; ascoltate il bip solitario di un respiratore sospeso tra vita e silenzio, e poi sussurrate – se ci riuscite – la locuzione «obiettivi strategici». (cardinale Domenico Battaglia su “Avvenire”)

Appelli così chiari e forti dovevano arrivare dalla gerarchia cattolica: due cardinali che hanno partecipato all’ultimo conclave. Saranno riusciti a scuotere l’inamidato consesso, brandendo provocatoriamente il Vangelo? Avranno infuso nella coscienza del nuovo Papa queste benefiche e sacrosante inquietudini? Avranno alzato la loro voce e sfoderate le loro spade per chiedere che la Chiesa sia veramente fermento di vera pace, che «non è la semplice distruzione delle armi e neppure l’equa distribuzione dei pani a tutti i commensali della terra, ma mangiare il proprio pane a tavola insieme con i fratelli nella convivialità delle differenze» (d. T. Bello, vescovo e profeta)?  Saranno riusciti a spiegare ai loro colleghi (i signori cardinali così burocraticamente definiti da papa Ratzinger) che la Chiesa si deve dare una mossa per recuperare il ritardo di duecento anni di cui parlava il cardinal Martini? Avranno chiarito che non basta affacciarsi alla loggia di S. Pietro e dire “Pace a voi”, ma occorre soffrire fino a morire assieme a chi soffre e muore per le guerre per poi risorgere e pronunciare credibilmente parole di pace? Avranno chiarito che il Papa non è all’interno della Chiesa il mediatore fra conservatori e progressisti, ma il “piantagrane” per antonomasia e il “provocatore” di vocazione come Gesù? Saranno riusciti a creare un asse tra i cardinali impegnati in prima linea sul fronte della radicalità evangelica in tema di pace? Avranno alla fine votato per Prevost convintamente o come male minore?

É stato rivolto a papa Leone un garbato ma pressante invito da parte di alcuni docenti universitari – Roberta De Monticelli, già docente alle Università di Ginevra e San Raffaele di Milano; Giacomo Costa, già docente all’Università di Pisa; Tommaso Greco, docente all’Università di Pisa; Sergio Massironi, docente all’Università Cattolica – pubblicato su “Il manifesto” e che riporto di seguito integralmente sentendomi di sottoscriverlo a piene mani.

Santo Padre,

credenti di tutte le fedi, e semplici persone senza altra fede che quella in ciò che è dovuto agli umani, oggi si stringono a lei nel ricordo delle parole con cui inaugurò il suo pontificato – l’augurio, rivolto ai vivi di tutta la terra, di una pace disarmata e disarmante. Lo fanno non solo guardando ai cattolici di Gaza, ma a tutti gli innocenti sterminati, menomati, privati di casa e cibo e scuola e memoria e futuro e speranza, nella striscia di Gaza dove le ruspe israeliane stanno da qualche giorno demolendo tutto quello che le bombe avevano risparmiato, e anche in Cisgiordania dove la violenza incontrollata dei coloni imperversa, assassinando impunemente chiunque, bruciando case e villaggi.

Abbiamo saputo che il Patriarca latino di Gerusalemme è entrato a Gaza con tutti gli aiuti che poteva portare. Ma molti di noi si chiedono: perché non ci va il papa, a Gaza, perché non leva la sua voce al cielo di Rafah, di Khan Yunis, di Gaza City, di Al Zaytun? Non sarebbe più grande l’aiuto che oggi ne verrebbe anche all’umanità intera sfigurata dallo sterminio inesorabile e quotidianamente documentato di un popolo già da tanto tempo privato della sua terra, della sua libertà e dignità?

Lei, Santo Padre, leverebbe la sua voce che per un miliardo e mezzo di persone in questo mondo è quella del vicario di Cristo – mite forse ma di pura fiamma: «Si addice alla Parola la temperatura del fuoco» (Mario Luzi).

Ma non solo i cattolici, non solo il mondo cristiano, non solo i fedeli di ogni religione: l’umanità intera oggi l’ascolterebbe, questa sua voce, supplicando che si levi più alta della vergogna dei potenti, che potrebbero impedire l’ecatombe e invece la sostengono, che potrebbero gridare basta e invece tacciono. Che affianchi la voce troppo flebile o violentemente tacitata dell’Onu. Che supplisca alla voce della nostra Europa, la quale oggi ha strappato le sue radici – non di sangue e terra ma di carta e ragioni universali, e tanto vilmente ha taciuto, e ancora tace. Che sopravanzi la voce delle sue Americhe, e soprattutto di quella di cui parla la lingua materna, e i cui attuali governanti corsero in San Pietro a renderle omaggio, a cercare una complicità che fu negata.

Abbiamo saputo che il premier israeliano l’ha personalmente invitata in Israele. È vero, l’uomo è oggi accusato di crimini di guerra dalla Corte Penale Internazionale, è vero, porta la responsabilità istituzionale che per la Corte Internazionale di Giustizia grava su Israele chiamato in giudizio con l’accusa di genocidio. Ma se fosse, questo invito dettato da ciniche strategie geopolitiche, la porta per entrare non in Israele ma in Gaza, lei potrebbe farsi guida delle persone, delle genti innumerevoli pronti a seguirla oltre quella soglia, a testimoniare per lei, ad accompagnare la sua voce con il nostro grido o in silenzio, come ci chiederà. Potrebbe, anche, recare conforto ai tanti giusti di Israele – e della diaspora – che non ci stanno, a questo «suicidio di Israele». Perché oggi Gaza è «porta dell’universo per i vivi» (Ibrahim Nasrallah, Maria di Gaza).

Io, però, in questa fase di delicato passaggio ecclesiale, preferisco stranamente rivolgermi a nuora (leggi cardinali in prima linea a livello territoriale e culturale) perché suocera (il Papa in vacanza a Castelgandolfo tra fuorvianti manifestazioni di giubilo) intenda. Ho scelto come miei interlocutori virtuali due cardinali: uno, Pizzaballa, credibile in quanto coinvolto per umana e religiosa vicinanza alle vittime della guerra; l’altro, Battaglia, (mai cognome fu così appropriato!), grintoso esponente della Chiesa dei poveri.

Una persona di mia indiretta conoscenza desiderava ardentemente poter parlare con un cardinale forse più per carpirgli i segreti vaticani che per scoprire le ansie ecclesiali. Come vorrei poter parlare con Pizzaballa e Battaglia per capire cosa è successo in conclave, perché più i giorni passano e meno ci vedo chiaro. Forse mi direbbero che il conclave è un passaggio importante ma non decisivo, mi inviterebbero a non fossilizzarmi sugli assetti gerarchici, che pagano il prezzo degli equilibri strutturali, ma a guardare in lungo e in largo alle spinte comunitarie, che rendono la Chiesa una irrinunciabile e imprescindibile “casta meretrix”. Forse mi incoraggerebbero a sentirmi artigiano di pace e a trovare il coraggio di compiere gesti concreti per costruire la pace (così come prega il cardinale Zuppi).

Ebbene, signori cardinali, dateci dei punti di appoggio per sollevare il mondo dalla deriva bellica in cui sta sprofondando! Solo voi potete farlo e vi supplico: fatelo! Se necessario trascinate papa Prevost fuori dagli equilibrismi vaticani e portatelo in prima linea. Sì, proprio come chiedono anche gli intellettuali di cui sopra.