Le vittorie di Pirro e le sconfitte di La Pira

Otto paci e una guerra. Trump “il pacificatore” – non si stanca di ripeterlo – ha messo fine ai conflitti nei punti più cruenti del globo, dal Congo a Gaza. Tanto da meritare il Nobel – precisa con una buona dose di stizza –, scippatogli alla fine «per ragioni politiche». Nel suo Continente, però, lo stesso presidente ha deciso di avviare un conflitto di intensità inedita. Una sorta di “nuova guerra dell’oppio” – o meglio, del Fentanyl –: nel mirino formalmente ci sono i narcos, «il Daesh dell’Occidente», «terroristi ansiosi di avvelenare i cittadini statunitensi». In gioco, tuttavia, c’è molto di più. La riconquista dell’egemonia perduta a Sud del Rio Bravo – il vecchio “Giardino di casa” – nei decenni post-Guerra fredda quando la Casa Bianca s’è lasciata distrarre da altri scenari, dal Medio Oriente all’Ucraina. Nonché, soprattutto, tanti buoni affari. Incluso il “business dei business” secondo The Donald: lo sfruttamento dei minerali critici per la transizione energetica, di cui l’America Latina ospita ingenti riserve. Il “triangolo del litio” è solo una: il Brasile, ad esempio, ha la seconda maggior concentrazione al mondo di terre rare. La “dottrina Monroe 2.0” del tycoon – riadattamento dell’adagio pronunciato dall’allora presidente James Monroe, “L’America agli americani”, presupposto di oltre un secolo di ingerenza Usa nella parte centro-meridionale del Continente – è un mix di nostalgie imperiali, ossessione anticinese – il nemico geostrategico per antonomasia – e tecniche di vendita da immobiliarista navigato. A cucirle insieme un tratto caratteriale che il presidente ha trasformato in principio guida dell’azione politica: l’imprevedibilità. “Madman theory”, la teoria del matto, la chiamano i politologi: un leader riesce a convincere gli avversari di essere capace di qualunque cosa, esercitando nei loro confronti una forma importante di coercizione. Non è la prima volta che un capo della Casa Bianca la adotta. Di nuovo – come per la guerra alla droga, ufficialmente dichiarata nel 1971 – il riferimento è Richard Nixon. Nessuno, però, l’aveva portata all’estremo trumpiano. (“Avvenire” – Lucia Capuzzi)

Come noto, Federico Rampini fotografò il prevedibile confronto elettorale americano fra Biden e Trump come lo scontro fra un demente e un delinquente. Il demente (tale demenza forse era l’unica estrema arma da giocare contro la furbizia del delinquente) fu sostituito all’ultimo minuto da Kamala Harris, una parvenue democratica che di democratico aveva ben poco, e il delinquente vinse a piene mani. Adesso impariamo che è anche un “matto”, che la sa molto lunga e che ha come villaggio il mondo.

Mia madre era talmente contenuta nei giudizi sulle persone da giustificare i delinquenti, commentando laconicamente: “jén dil tésti mati”. Qui mio padre, in un simpatico gioco delle parti, ricopriva il ruolo di intransigente accusatore: “J én miga mat, parchè primma äd där ‘na cortläda i guärdon se ‘l cortél al taja.  Sät chi è mat? Col che l’ätor di l’à magnè dez scatli äd lustor. Col l’é mat!”.

Donald Trump non è matto, perché le scatole di lucido da scarpe le fa mangiare a noi e noi le stiamo mangiando senza fare una piega, anzi le mangiamo con appetito e soddisfazione. Pazienza gli americani, ma anche noi!

Non so fino a che punto reggerà la sua imprevedibilità: forse è meglio lasciarlo bollire, costi quel che costi, nel suo brodo. Penso sia la tattica putiniana. Forse tutto il mal non vien per nuocere, al punto da costringerci a ripartire dai principi e dai valori, ciò che non riescono a fare il partito democratico statunitense e tutti i partiti di sinistra sparsi nel mondo. La politica deve cedere il passo all’etica. Ecco perché papa Francesco era l’unico personaggio di riferimento per chi sognava un mondo diverso.

Arriveremo in tempo? In questi giorni il mio carissimo amico Pino, che, suo malgrado e a suo rischio e pericolo, sta diventando un mio prezioso consigliere diplomaticamente coraggioso, mi ha comunicato di avere conservato un articolo dello scrittore israeliano Amos Oz del 2011, in cui si dice fra l’altro che la speranza non è virtù per tempi tranquilli, ma è l’unica virtù di cui abbiamo necessità nelle epoche di incertezza e instabilità come quella che stiamo vivendo. È morto nel 2018. Cosa direbbe se fosse ancora vivo…Abbiamo bisogno di personaggi di questo calibro, che trasmettano speranza…

Giocando sulle parole si potrebbe dire che è Maduro il tempo di…sperare. Questa è la follia da contrapporre a quella trumpiana: Giorgio La Pira docet. Probabilmente, se fosse ancora in vita, andrebbe a parlare col presidente americano, facendosi accompagnare dalle preghiere di un esercito di suore di clausura. Gli spiattellerebbe in faccia questa sua vena diplomatica surreale a cui probabilmente Trump risponderebbe col suo “opinionistico” esercito di cattolici americani del piffero e magari con la subdola promessa di inviare le forze armate statunitensi in Nigeria se il Paese non arginerà le aggressioni ai cristiani da parte degli islamisti.

La Pira rifiuterebbe sdegnosamente un tale folle contentino e continuerebbe la sua gara apparentemente vocata alla sconfitta. Così come esistono le vittorie di Pirro ci sono però anche le sconfitte di La Pira.

 

Non tutte le provocazioni vengono per nuocere

Le dichiarazioni di Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo, sull’incidente verificatosi questa mattina ai Fori Imperiali e in cui sono rimasti feriti alcuni operai stanno sollevando un polverone diplomatico fra Italia e Russia. «Finché il governo italiano continuerà a spendere inutilmente i soldi dei suoi contribuenti» per aiutare l’Ucraina, «l’Italia crollerà tutta, dall’economia alle torri», scrive la portavoce di Sergej Lavrov in un post pubblicato su Telegram. Per queste sue parole l’ambasciatore russo è stato convocato alla Farnesina. (open.online)

A questa provocazione va fatta la tara, consistente nello sciacallaggio sulle macerie della Torre Imperiale e nella faziosità difensiva della Russia che interpreta tutto alla luce del proprio folle imperialismo. Al netto di questi disgustosi e maliziosi attacchi resta tuttavia una verità, quella del governo italiano che sperpera i soldi dei contribuenti non tanto per aiutare l’Ucraina (che comunque andava e andrebbe aiutata non in una logica meramente bellica, ma in un, seppur impervio, percorso di pace), ma nella pazza corsa al riarmo e nella visionaria politica infrastrutturale del Ponte sullo Stretto.

Anziché scandalizzarsi e creare incidenti diplomatici, sarebbe meglio fare un esame di coscienza: a volte anche da pulpiti e metodi sbagliati possono infatti giungere prediche opportune e giuste.

Il crollo della Torre Imperiale non pone dubbi sulla scriteriata spesa pubblica, ma semmai sul tema della sicurezza sul lavoro (che sta diventando ogni giorno che passa più drammatico ed emergenziale) e su quello della difesa e valorizzazione del patrimonio artistico-culturale.

Non facciamo polveroni politico-diplomatici dietro cui nascondere le responsabilità di una politica dissennata del nostro Paese. Chiediamoci invece se la corsa al riarmo sia una scelta accettabile in mezzo ai mille problemi sociali che ci angustiano. Chiediamoci se la costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina sia una scelta socialmente oculata e strategicamente giustificabile per un Paese dove è quasi impossibile raggiungere in tempi utili il centro delle città partendo dalle periferie e dove si toglie il pane dalla bocca degli affamati (leggi abolizione del reddito di cittadinanza) per darlo ai megalomani dell’affarismo fine a se stesso.

Ricordo cosa avvenne tanti anni fa: rappresentavo le cooperative sociali nei loro difficili rapporti con le Unità Sanitarie Locali, che, udite-udite, volevano risparmiare facendo pagare il pasto agli operatori che assistevano i soggetti svantaggiati. Ad un certo punto la funzionaria che seguiva il settore sbottò e propose provocatoriamente agli amministratori pubblici in vena di austerità di accompagnarli in un giro di perlustrazione in queste realtà all’ora dei pasti: “Vedrete, disse in modo provocatorio, in quali condizioni mangiano questi operatori assieme ai loro assistiti: il meglio che può capitare a loro è di trovarsi uno sputo sulla bistecca…”. Seguì un gelo fatto di imbarazzo e fortunatamente i bollenti spiriti risparmiosi terminarono.

I nostri governanti facciano qualche giro di perlustrazione fra i soggetti che vivono in balia delle vecchie e nuove povertà: forse ne usciranno un po’ meno sicuri del fatto loro e più disposti ad accettare le critiche da chiunque provengano (persino dalla impertinente e indisponente portavoce di Lavrov).

 

 

La guerra è un suicidio globale

«È ancora fecondo il grembo da cui nasce la guerra. Non basta far abortire il mostro, occorre togliere l’utero. L’unica violenza permessa a un pacifista» (B. Brecht).

«Adulto, maschio: uccidi. Spara per uccidere». Se ad approssimarsi sono «donne e bambini: spara per allontanarli. Se si avvicinano alla recinzione, fermali». Laddove «fermare» vuol dire anche guardare nel mirino e premere il grilletto. Non dice quante volte abbia ricevuto quegli ordini, né quante volte li abbia eseguiti, ma i ricordi del reduce, riportati in parlamento sotto anonimato, mulinano nella sua testa giorno e notte. C’è chi impara a convivere con l’orrore di Gaza. E chi la fa finita. Nel 2024 in Israele ci sono stati 358 casi di tentato suicidio: 279 erano era soldati delle forze di difesa in servizio o di rientro da Gaza, il 78% del totale. In nessun altro Paese del mondo con una storia di conflitti alle spalle si sono registrate proporzioni simili negli ultimi decenni, a meno di tornare ai postumi del Vietnam per gli Usa. Un rapporto pubblicato dal Centro di ricerca e informazione della Knesset, il parlamento israeliano, ha rivelato che tra gennaio 2024 e luglio 2025 per ogni soldato che si è tolto la vita, altri sette hanno provato a fare lo stesso. Secondo il dossier gli episodi segnano un drammatico aumento rispetto agli anni precedenti, quando il tasso di militari coinvolti oscillava tra il 42% e il 45% sul totale del Paese, mentre nel 2023 non arrivava al 17%. La scomposizione del fenomeno non lascia prevedere niente di buono. In totale, secondo l’organismo del parlamento, tra il 2017 e il luglio 2025 sono morti suicidi 124 soldati. Il rapporto ha chiarito che le cifre si riferiscono solo ai militari in servizio regolare che di riserva al momento della morte o del tentativo di suicidio, e non includono i veterani che si sono tolti la vita dopo aver completato il servizio nelle forze armate. Tra i casi censiti, il 68% erano coscritti, il 21% erano in servizio di riserva attiva e l’11% erano soldati di carriera. Molti di questi suicidi si potevano forse prevenire. Il rapporto della Knesset ha rivelato che solo il 17% dei soldati che si sono uccisi negli ultimi due anni, avevano incontrato un ufficiale di salute mentale nei due mesi precedenti la morte. La maggior parte dei dati è stata fornita dal centro di salute mentale del Corpo medico dell’Idf, dopo che erano stati richiesti da Hadash-Ta’al Ofer Cassif, parlamentare della sinistra israeliana noto per essere stato allontanato con la forza dall’emiciclo non appena aveva accusato il suo Paese di genocidio a Gaza. «Non c’è niente di più prezioso della vita umana», ha affermato Cassif. «L’epidemia di suicidi, che probabilmente peggiorerà ora che la guerra è finita – ha osservato -, richiede la creazione di sistemi di sostegno reali per i soldati e, soprattutto, la fine delle guerre e la realizzazione di una pace vera». (“Avvenire” – Nello Scavo)

Se c’era bisogno di un’ulteriore dimostrazione di come la guerra sia una sconfitta per tutti, eccola! Non solo, ma è una sconfitta che lascia dei segni incalcolabili ed incancellabili oltre che nelle strutture anche e soprattutto nelle menti e nei cuori. Recentemente il Parlamento israeliano ha celebrato trionfalmente la tregua, ma evidentemente non si è ricordato delle cifre di cui sopra. Le ferite della guerra non si rimarginano enfatizzando le conquiste e le vittorie, ma cambiando radicalmente l’approccio ai rapporti fra gli Stati e gli uomini. La tregua infatti non sta tenendo: ogni giorno si hanno clamorose e drammatiche violazioni, continue reciproche minacce.

Catherine Russel (direttrice generale Unicef) sostiene che i bambini di Gaza non hanno iniziato questa guerra, ma la pagano tutta. In una paradossale e interminabile catena di effetti perversi la pagano persino coloro che hanno ammazzato questi bambini. Peggio di così…

«È ancora fecondo il grembo da cui nasce la guerra. Non basta far abortire il mostro, occorre togliere l’utero. L’unica violenza permessa a un pacifista» (B. Brecht)

 

Separazione dei poteri, delle carriere e…degli italiani

Come ho già ripetutamente detto e scritto, sono molto perplesso di fronte alla cosiddetta riforma della giustizia, approvata dal Parlamento e rimessa al vaglio referendario dei cittadini italiani: non riesco a coglierne i sostanziali aspetti positivi e negativi così come emergenti dal dibattito in corso.

Il clima politico che fa da substrato a questa revisione costituzionale non è certo dei migliori e si differenzia faziosamente e strumentalmente da quello che caratterizzò tutta la fase costituente: si misero da parte gli interessi di parte per discutere e deliberare su principi e valori democratici. Siamo molto, troppo lontani da quelle virtuose condizioni preliminari. I reiterati tentativi di riforma costituzionale che si sono avvicendati nel tempo sono tutti naufragati proprio a causa del mare politico tempestoso in cui sono stati discussi, effettuati, valutati e votati.

Il Parlamento ha terminato, molto male, il suo iter radicalizzando politicamente il discorso: una destra fegatosa all’attacco dei magistrati invadenti, inconcludenti e rompicoglioni; una sinistra lumacosa in difesa dei magistrati intoccabili e perfetti; da una parte la trionfalistica rivincita del berlusconismo ed il riscatto dagli enormi guai etico-giudiziari di cui fu costellato il suo cammino; dall’altra parte la magistratura vista come insormontabile baluardo contro la corruzione nella e della politica; da una parte la semplicistica illusione di evitare gli errori giudiziari, di efficientare e spoliticizzare il sistema; dall’altra parte l’autonomia del potere giudiziario visto come una sorta di permanente e garantistica autoreferenzialità pseudo-costituzionale.

Mi permetto una piccola digressione un po’ macabra ma ironicamente significativa. L’affermazione che Silvio Berlusconi volesse fare la parte del morto ai funerali non trova riscontri oggettivi. Potrebbe però essere finalmente la sua occasione: il morto che parla nella mano agli italiani. Nelle urne referendarie Berlusconi ti vede i magistrati no.

Il governo spaccia il tutto come battaglia di civiltà e come ricerca di corretti rapporti fra potere esecutivo e potere giudiziario; l’opposizione giudica il tutto come un tentativo antidemocratico di squilibrare le istituzioni attaccando il principio fondamentale e costituzionale della separazione dei poteri.

Mi sono chiesto: potrà la separazione delle carriere evitare o almeno alleviare gli errori giudiziari? potrà lo sdoppiamento del CSM comportare un controllo più efficace dell’attività della magistratura? potrà la nomina a sorteggio dei componenti degli organi di autogoverno mettere la magistratura al riparo da esagerazioni e degenerazioni correntizie? potrà la riveduta macchina giudiziaria viaggiare più speditamente abbreviando tempi e semplificando procedure?

Ho pochissime certezze e molti seri dubbi! Le certezze dovrebbero costituire le premesse indispensabili per una seria fase ricostituente, invece…

Il referendum si prospetta in modo inquietante: diventerà un voto sul governo Meloni? sarà   un processo piazzaiolo ai magistrati? sarà una sorta di “arridateci er puzzone” riferito agli eredi più o meno legittimi di Silvio Berlusconi; sarà un più o meno convinto e sterile arroccamento costituzionale?

Si potrebbero scontrare due tendenze: da una parte il qualunquistico “tanto peggio tanto meglio”, dall’altra parte “stiamo ai primi danni”.

Mi spaventa l’astensionismo che potrebbe farla da padrone. La Costituzione simbolo e canovaccio di un’Italia frutto di una storia che migliore non si può, ridotta a Carta stiracchiata da una politica che peggio non si può.

 

 

Il passo felpato di un Leone senza unghie

Leone XIV ricorda i 60 anni di “Nostra aetate”, la dichiarazione conciliare datata 28 ottobre 1965 che ha riscritto i rapporti fra la Chiesa cattolica e le altre religioni. A cominciare dall’ebraismo. E, di fronte a decine di migliaia di pellegrini che riempiono piazza San Pietro per l’udienza generale del mercoledì, condanna ogni forma di avversione al popolo dell’Alleanza. «La Chiesa non tollera l’antisemitismo e lo combatte, a motivo del Vangelo stesso», ribadisce con decisione il Papa. Accanto ai rappresentanti delle diverse fedi del mondo che si trovano sul sacrato della Basilica Vaticana, chiede di essere insieme «vigilanti contro l’abuso del nome di Dio, della religione e dello stesso dialogo, nonché contro i pericoli rappresentati dal fondamentalismo religioso e dall’estremismo». Poi ricorda il «ruolo fondamentale» che le «nostre religioni» hanno per costruire «la pace» e per «rifondare quella speranza nel nostro mondo devastato dalla guerra e nel nostro ambiente naturale degradato». Del resto, tiene a precisare il Papa, «il vero dialogo affonda le sue radici nell’amore, unico fondamento della pace, della giustizia e della riconciliazione, mentre respinge con fermezza ogni forma di discriminazione o persecuzione, affermando la pari dignità di ogni essere umano».

Udienza dedicata al dialogo interreligioso. Perché, sottolinea il Papa, “Nostra aetate” ha aperto «un nuovo orizzonte di incontro, rispetto e ospitalità spirituale» dove i seguaci di altre religioni non sono più visti «come estranei, ma come compagni di viaggio sulla via della verità». Ed è ampio lo spazio che nella sua riflessione il Pontefice dedica alle relazioni con il mondo ebraico. «Non possiamo negare – dice – che in questo periodo ci siano stati anche malintesi, difficoltà e conflitti, che però non hanno mai impedito la prosecuzione del dialogo. Anche oggi non dobbiamo permettere che le circostanze politiche e le ingiustizie di alcuni ci distolgano dall’amicizia, soprattutto perché finora abbiamo realizzato molto». Implicito il riferimento alle tensioni soprattutto con Israele per la guerra a Gaza. Per questo il Papa dice di «guardare con gratitudine a tutto ciò che è stato realizzato nel dialogo ebraico-cattolico in questi sei decenni». (da “Avvenire” – Giacomo Gambassi)

Il Papa, quando condanna l’antisemitismo sfonda una porta aperta, peraltro tenuta chiusa in passato proprio dalla Chiesa Cattolica. Sarebbe però opportuno ammettere innanzitutto che il pulpito da cui arriva la predica è credibile dal punto di vista evangelico ma non da quello della tradizione cattolica.

In secondo luogo occorre considerare anche le cause dell’insorgenza dell’antisemitismo: non è un male senza agenti e fattori, che, soprattutto in questo periodo, sono ampiamente ascrivibili al dissennato comportamento dei governanti dello Stato di Israele. Se purtroppo esiste un fuoco storico-culturale malefico di discriminazione e persecuzione, dobbiamo ammettere che troppa benzina viene gettata su questo fuoco da parte degli ex discriminati e perseguitati.

La condanna dell’antisemitismo, se non è accompagnata da una ferma, inequivocabile e fattiva condanna del comportamento discriminante e persecutorio da parte della società israeliana nei confronti dei palestinesi, sfociato in questi ultimi due anni in un vero e proprio genocidio come dir si voglia, resta fine a se stessa. Non è infatti sufficiente ascrivere ai governanti israeliani le terribili colpe accumulate nel tempo ed accentuate dalla carneficina vendicativa di Gaza; bisogna ammettere che la società israeliana è coinvolta più che mai, basti pensare alla illegittima e inarrestabile occupazione di terre da parte dei coloni israeliani, basti pensare al potere esercitato dalle fortissime caste sacerdotali che giustificano, Bibbia alla mano, la vendetta contro i nemici palestinesi identificati tout court con i terroristi di Hamas, basti pensare che Netanyahu e c. sono al potere in quanto eletti democraticamente (?), basti pensare che l’opinione pubblica israeliana interna ed esterna è piuttosto ondivaga e titubante nei confronti della belligeranza massacrante giustificata (?) dal ritornello antiterrorista.

Solo la questione pur drammatica degli ostaggi ha creato un’opposizione alla strategia governativa; poche, anche se autorevoli, le voci dissonanti a livello culturale e politico; troppa l’omertà interna ed internazionale su cui si appoggia il governo israeliano; squallido e inaccettabile l’appoggio acritico dell’Occidente, Italia compresa, bloccato sulle condanne meramente verbali dall’opportunismo affaristico prevalente.

Troppo felpate le considerazioni papali sullo stato dei rapporti fra Vaticano e Israele. Si parla di circostanze politiche e di ingiustizie di alcuni: ma stiamo scherzando? È in atto un vero e proprio genocidio verso i palestinesi e il Papa lo retrocede a ingiustizie di alcuni? È in atto da tempo una sistematica e illegittima aggressione verso i palestinesi e le loro terre e il Papa la chiama circostanza politica?  Il dialogo non è un valore assoluto a cui sacrificare ingiustizie e crimini contro l’umanità! Si parla di amicizia: con dei massacratori di bambini non si può usare la prudenza; non si può avere alcuna comprensione per chi esercita la più brutale delle vendette.

Se la Chiesa non ha il coraggio di denunciare apertamente e concretamente i crimini israeliani, perde il mordente evangelico, nascondendosi dietro la pur sacrosanta condanna dell’antisemitismo.

Sarò fissato, ma penso che papa Francesco avrebbe un atteggiamento diverso. Spesso lo criticavano per mancanza di senso politico e di diplomazia. Se il senso politico non parte dalla giustizia e se la diplomazia non serve a difendere i deboli, si riducono a mere alchimie anti-evangeliche (il vostro parlare sia sì-sì, no-no).

Se il dialogo interreligioso naviga in superfice e non affonda nel mare della lotta contro le ingiustizie, resta una messa in scena. Se il dialogo non è supportato dalla coraggiosa ricerca morale e culturale di concrete convergenze, rimane una pantomima pseudo-politica che non porta da nessuna parte.

Anche la comunità di sant’Egidio a mio giudizio sta ripiegando su una linea troppo morbida e teatrale: d’altra parte l’aria che tira nella Chiesa di Prevost è questa. Per me non è respirabile!

 

 

 

L’amichettismo meloniano

La canzone s’intitola “Me ne frego” ed è un celeberrimo coro fascista. È martedì sera. La intonano a squarciagola due giovani. Sono in una viuzza del centro di Parma, davanti all’ingresso della sede locale di Fratelli d’Italia, quartiere Borgo del Parmigianino. Il locale è aperto, illuminato, come fosse in corso o si fosse appena concluso un incontro. Al suo interno qualcuno agita una bandiera tricolore. Sulla vetrina è appiccicato un manifesto in cui campeggia il nome di Giorgia Meloni. Si tratta probabilmente di militanti di Gioventù Nazionale, il vivaio politico del partito della premier, spesso associato a derive nostalgiche del Ventennio e ad azioni che ricordano lo squadrismo. A valle della notizia, il coordinamento regionale del gruppo ha deciso di commissariare la sezione emiliana.
Tutto è ripreso in un video, pubblicato questa mattina dal portale Fanpage. Un terzo ragazzo, che possibilmente fino a poco prima si trovava assieme agli altri all’interno della sede ha un atteggiamento annoiato. Si appoggia alla colonna mentre gli altri cantano la strofa finale del testo: «Se il sol dell’avvenire è rosso di colore, me ne frego di morire sventolando il tricolore! Ce ne freghiamo della galera, camicia nera trionferà. Se non trionfa sarà un bordello col manganello e le bombe a man». Poi, si sente gridare: «Duce, Duce» e uno dei due applaude sé stesso. (“La Stampa – Filippo Fiorini)

Non so se provo più pena o rabbia. Vado al sodo: questi sono gli amichetti di Giorgia Meloni, ne ha parecchi, non mi fanno paura, mi fanno schifo. Non può dissociarsi sul serio, perché quella radice malata è purtroppo anche la sua e tagliarla comporterebbe grossi rischi esistenziali di natura politica ed elettorale. Poi, in fin dei conti, anche lei sventola il tricolore in Italia, in Europa e nel mondo e non le importa di far morire la democrazia, l’europeismo e il multilateralismo dell’Italia. E pensate un po’, riceve gli applausi da tanta gente in buona o in mala fede e finanche da Donald Trump.

 

Il ponte dei tormenti

Il Ponte sullo Stretto è seriamente a rischio. Ieri sera la Corte dei Conti ha detto «no» al visto di legittimità e alla registrazione della delibera Cipess numero 41 del 2025, inerente il «collegamento stabile tra la Sicilia e la Calabria» e l’assegnazione delle risorse del Fondo sviluppo e coesione. Il motivo lo si apprenderà tra trenta giorni. Tecnicamente il Governo potrebbe anche andare avanti nell’iter inerente l’opera, ma servirebbe una delibera del Consiglio dei ministri che attesti un «superiore interesse pubblico».

Per il vicepremier e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini è una doccia gelata: «La decisione della Corte dei Conti – reagisce il capo della Lega – è un grave danno per il Paese e appare una scelta politica più che un sereno giudizio tecnico. In attesa delle motivazioni, chiarisco subito che non mi sono fermato quando dovevo difendere i confini e non mi fermerò ora, visto che parliamo di un progetto auspicato perfino dall’Europa che regalerà sviluppo e migliaia di posti di lavoro da Sud a Nord. Siamo determinati a percorrere tutte le strade possibili per far partire i lavori». Pochi minuti e arriva anche la replica, altrettanto dura, della premier Giorgia Meloni, a mostrare che la decisione della Corte dei Conti era attesa: «La mancata registrazione da parte della Corte dei conti della delibera Cipess riguardante il Ponte sullo Stretto è l’ennesimo atto di invasione della giurisdizione sulle scelte del Governo e del Parlamento. Sul piano tecnico, i ministeri interessati e la Presidenza del Consiglio hanno fornito puntuale risposta a tutti i rilievi formulati». Secondo Meloni c’è «capziosità» da parte della Corte dei Conti. «Una delle censure – dice – ha riguardato l’avvenuta trasmissione di atti voluminosi con link, come se i giudici contabili ignorassero l’esistenza dei computer. La riforma costituzionale della giustizia e la riforma della Corte dei Conti, entrambe in discussione al Senato, prossime all’approvazione, rappresentano la risposta più adeguata a una intollerabile invadenza, che non fermerà l’azione di Governo, sostenuta dal Parlamento». (da “Avvenire” – Marco Iasevoli)

Può darsi che la Corte dei Conti si stia formalizzando, ma, dal momento che “contro la forza la ragion non vale”, ben venga anche un po’ di sana burocrazia. Staremo a vedere le motivazioni della decisione dei giudici contabili.

Il Ponte sullo Stretto è un’opera faraonica e inutile, voluta soltanto a scopo propagandistico: serve alla Lega per recuperare consenso ed è il contentino di lusso che gli alleati le concedono, una sorta di sfogatoio demagogico per Salvini e c.

Adesso rischia di diventare addirittura un ulteriore pretesto per le riforme anti-costituzionali. Da bambini, quando il gioco diventava rischioso e si profilava la sconfitta, il più forte, normalmente detentore degli strumenti del gioco, con un colpo di mano, cambiava le regole per incanalare a suo vantaggio l’inerzia del gioco stesso.

Anche dal punto di vista dialettico, quando uno degli interlocutori si accorge di non avere argomenti validi per sostenere il proprio punto di vista, è disonestamente normale il tentativo di cambiare argomento o almeno di aggirare l’ostacolo introducendo nel discorso variabili polemiche e devianti dal nocciolo della questione.

Potrebbe essere una buccia di banana per l’esecutivo, tanto sono evidenti la inconsistenza strategica del progetto e la sua pretenziosa e velleitaria fattibilità. Gli italiani ingoieranno anche questo rospo pur di garantire una squallida continuità all’attuale governo? Sarà la Corte dei Conti a salvarci dalla deriva? Saranno ancora una volta gli autori della Costituzione a far valer i loro diritti? Pensiamo se in questo momento in Italia non ci fosse un Presidente della Repubblica dotato di rappresentanza politica e di relativi poteri: è l’unico baluardo che abbiamo contro un governo assai poco rappresentativo e molto autoreferenziale, che tenta di carpire il consenso più che di conquistarlo.

Lasciamo lavorare in pace i giudici contabili e auguriamoci che anche la Corte dei Conti sappia fare la sua parte in attesa che i cittadini facciano la loro.

Durante i moti insurrezionali del Risorgimento si chiedeva la Costituzione, vale a dire una legittimazione del potere in senso democratico. Oggi la Costituzione fortunatamente ce l’abbiamo, chiediamo, senza stancarci, che venga rispettata e non aggirata e/o stravolta.

 

 

 

 

 

Il perbenismo filo-israeliano e le smerdate filo-palestinesi

Un gruppo di attivisti pro Pal ha interrotto per protesta un dibattito sulle prospettive di pace in Medioriente nell’Università di Ca’ Foscari a Venezia. All’evento, con ospiti il presidente di Sinistra per Israele – Due Popoli due Stati Emanuele Fiano e Antonio Calò presidente di Ve.Ri.Pa, alcuni studenti con uno striscione contro i sionisti nelle università si sono messi a intonare slogan critici verso le posizioni dell’incontro.

“Ho provato in tutti i modi a continuare ma hanno continuato a parlare e a dire su di me falsità”, ha riferito Fiano. Gli attivisti – un gruppo di studenti della Sinistra giovanile – gridavano “fuori i sionisti dall’università”. “Sono scioccato da quanto accaduto”, ha aggiunto l’ex parlamentare: “Impedire a una persona di parlare è fascismo. L’ultima volta che hanno espulso un Fiano da un luogo di studio è stato nel ’38, con mio padre. Noi eravamo lì a parlare di pace tra due popoli, di ingiustizie, di dolori, di violenza e di pace. Chi non vuol sentire parlare di queste cose la pace non la vuole”, ha concluso.

L’incontro era stato organizzato dall’associazione “Futura” in collaborazione con la Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace. “Assieme ad alcuni studenti – ha detto Fiano – si doveva svolgere un dibattito sulle prospettive di pace in Medioriente nella logica dei ‘due popoli due stati‘. Nei giorni scorsi il ‘Fronte gioventù comunista’ aveva annunciato una manifestazione”. “Si tratta dell’ennesimo episodio di violenza politica su danni proprio di chi da sempre è impegnato per la pace e la risoluzione del conflitto in Medioriente”, si legge in una nota di Sinistra per Israele. (da “Il Fatto Quotidiano”

So di avventurarmi in un terreno delicatissimo, ma nella mia vita ho sempre avuto il coraggio di affrontare criticamente, pagando di persona, anche le situazioni più scomode, esponendo apertamente e coraggiosamente il mio parere. Non avevo sempre ragione, non avevo sempre torto: una cosa è certa, ho esercitato pienamente il mio diritto di pensiero, di parola e di azione al di là degli schemi e del politicamente corretto.

Seguendo questo stile comportamentale, prima di procedere con le condanne sommarie in cui si esercitano i benpensanti di turno, sono portato a chiedermi il perché di queste clamorose proteste giovanili.

Ricordo come Aldo Moro, di fronte ad un poster che ritraeva un giovane con in mano una P38, si interrogasse sulle motivazioni di questa estrema manifestazione di protesta prima di giungere alla sua inesorabile condanna.

Perché certi giovani esprimono questa totale e incondizionata repulsione verso le ragioni israeliane? Hanno tutti i torti provenienti da un pregiudiziale radicalismo che li porta a generalizzare e ad essere intolleranti verso tutti coloro che appartengono, direttamente o indirettamente, alla nazionalità israeliana? Esistono motivazioni serie alla base di tali aprioristiche contrapposizioni?

C’è innanzitutto la smania del rifiuto di una totalizzante narrazione storico-culturale comunque favorevole alle ragioni israeliane fino a giustificarle con la manichea contrapposizioni al terrorismo di marca palestinese: in mezzo totale silenzio sulle ingiustizie patite dalla popolazione palestinese, costretta a vivere senza diritti, senza patria, senza classe dirigente. L’impulso è quello di reagire sposando acriticamente la causa palestinese e squalificando tutti coloro che sono dall’altra parte della barricata.

Aggiungiamo una certa quale ignoranza storica condizionata dall’assolutizzazione della pur sacrosanta memoria dell’olocausto, che per gli ebrei è purtroppo un alibi per la vendetta e per i palestinesi una folle spinta alla illegittima difesa: davanti a questo paradossale bivio non c’è alternativa, non si riesce a ragionare, sionismo ante litteram provoca antisemitismo, antisemitismo chiama guerra totale e perpetua in una perversa spirale di odio.

Consideriamo inoltre la fisiologica giovanile propensione alla radicalizzazione delle risposte ai problemi, che reagisce alla insopportabile melina diplomatica la quale finisce col privilegiare il più forte, nel caso specifico il governo israeliano, che si sovrappone peraltro allo Stato e alla popolazione israeliani. Come resistere alla tentazione di radicalizzarsi di fronte al balletto verde di Trump e Netanyahu con tanto di opportunistici applausi arabi?  Tutta colpa di Hamas? Ma fatemi il piacere…

Non è facile rimanere lucidi e imparziali in questo ginepraio culturale, storico e politico. Occorre molta pazienza e comprensione verso chi in assoluta buona fede si ribella rischiando di confondere capre e cavoli. Se devo essere sincero sono portato a capire l’atteggiamento dei giovani universitari di Ca’ Foscari, i quali di fronte al massacro di una popolazione non riescono a disquisire ma usano zappa e badile. Capisco molto meno l’Europa e il governo italiano che condannano a parole e non si immischiano, rifiutando i fatti concreti quali il blocco delle forniture di armi ad Israele e l’isolamento commerciale di questo Stato.

È comodo non fare niente e scandalizzarsi di chi vuole fare qualcosa ma finisce suo malgrado nella rete della confusione imperante.

Chiudo ricordando una barzelletta con protagonista uno storico personaggio di Parma, Stopàj: questi, piuttosto alticcio, sale in autobus e, tonificato dall’alcool, trova il coraggio di dire impietosamente la verità in faccia ad un’altezzosa signora: «Mo sale che lè l’è brutta bombén!». La donna, colta in flagrante, sposta acidamente il discorso e risponde di getto: «E lu l’è imbariägh!». Uno a uno, si direbbe. Ma Stopaj va oltre e non si impressiona ribattendo: «Sì, mo a mi dmán la me pasäda!». Al lettore l’incarico di uscire dalla metafora, sostituendo ai personaggi della gustosa gag le parti in campo a Ca’ Foscari.

Alla protesta esagerata si risponde con la squalifica scandalizzata, al perbenismo del galateo internazionale si risponde con una smerdata generalizzata. L’importante sarebbe che dopo gli insulti reciproci alla fine si riuscisse a riprendere il filo del ragionamento. E chi dovrebbe fare il primo passo se non la politica, sforzandosi di capire le ragioni della protesta piuttosto che trincerarsi dietro l’esasperazione di chi protesta.

 

Meloni e Orban compagni d’armi

Gli ingenti finanziamenti legati al Piano di riarmo europeo al servizio di una “tregua” tra Ungheria e Bruxelles sul dossier-Ucraina. Stringi stringi, dall’incontro a Palazzo Chigi tra la premier Giorgia Meloni e il leader magiaro Viktor Orbán emerge il tentativo di una difficile ricomposizione, con Roma in un ruolo di mediazione, benché complicato e segnato da diversi imbarazzi.

I due sono amici e uniti anche dal punto di vista politico-culturale. Ma sulla visione d’Europa ormai, da tempo, divergono. E dunque a fine incontro Palazzo Chigi trasmette una nota ufficiale in cui non si indugia – come in altre circostanze – sul tenore del colloquio, ma si cerca di lasciare poco spazio alla fantasia. Il colloquio, si spiega, ha consentito di confrontarsi su «situazione in Ucraina, sviluppi in Medio Oriente e agenda europea». Immancabile, ma di maniera, il riferimento a una «gestione efficace e innovativa dei flussi migratori». La traccia da seguire sta nel finale della nota di Palazzo Chigi: «I due leader hanno infine discusso delle opportunità offerte dallo strumento europeo Safe, valutando possibili sinergie tra Italia e Ungheria a sostegno delle rispettive capacità industriali e tecnologiche».

L’Ungheria riceverà 16,2 miliardi di prestiti europei dal programma Safe, più dell’Italia. La “logica” del riarmo stabilito in sede Ue è proprio la comune visione sul pericolo russo. È evidente che le posizioni di Orbán su Putin renderebbero quasi contraddittoria la partecipazione dell’Ungheria al programma. Il leader magiaro pone veti sull’ingresso di Kiev nell’Unione e ora è in “lotta” con Bruxelles sulle nuove sanzioni a Mosca. Non solo, Orbán è in rotta anche con Trump per la scelta americana di sanzionare l’export di petrolio russo, di cui si serve.

Dalla nota italiana si comprendono sia le difficoltà del colloquio sia la richiesta di Meloni a una maggiore disponibilità al dialogo, motivata dalle “opportunità” legate al piano di riarmo. (“Avvenire” – Marco Iasevoli)

Per il commento a questo compromesso diplomatico, basato sul riarmo e lo stanziamento dei relativi fondi, cedo la parola a mio padre e alle sue caustiche riflessioni. Ai suoi tempi Giorgia Meloni e Viktor Orbán non erano nemmeno nati: così non si potrà dire che ho dei pregiudizi negativi su questi personaggi.

Di fronte ai duri contrasti tra governanti osservava amaramente: «Quand as trata ‘d fabricär dil ca par la povra genta i tacàgnon parchè an gh’é mäi i sòld, quand as trata ‘d fabricär dilj armi ien tùtt d’acordi e ‘d sold a gh’nè anca tròp».

Nella sua semplicità, quando osservava l’enorme quantità di armi prodotta, rimaneva sconfortato e concludeva per un inevitabile inasprirsi dei conflitti al fine di poter smaltire queste scorte diversamente invendute ed inutilizzate. «S’in fan miga dil guéri, co’ nin fani ‘d tutti chi ilj ärmi lì?» si chiedeva desolatamente.

Di ritorno dalla toccante visita al sacrario di Redipuglia si illudeva di convertire tutti al pacifismo, portando in quel luogo soprattutto quanti osavano scherzare con nuovi impulsi bellicosi. «A chi gh’à vója ‘d fär dil guéri, bizògnariss portärol a Redipuglia: agh va via la vója sùbbit…». Pensava che ne sarebbero usciti purificati per sempre.

 

 

 

 

Da coraggiosi pionieri a insulsi epigoni dell’europeismo

Nel corso delle comunicazioni alle Camere prima del Consiglio europeo Giorgia Meloni ha iscritto d’ufficio l’Italia al gruppo dei Paesi che intendono mantenere il meccanismo dell’unanimità di voto e quindi il potere di veto per i singoli Stati: «Non intendo formulare una proposta di revisione dei Trattati nel senso di allargare il voto a maggioranza in luogo dell’unanimità», ha detto la presidente del Consiglio. Ben noto è il diverso orientamento sul tema di Sergio Mattarella, manifestato anche davanti alla Commissione Europea: con l’Europa a 27, sostiene il Capo dello Stato, il voto all’unanimità «paralizza l’Unione», e rappresenta una «formula ampiamente superata». Il Quirinale, certo, non ha competenze dirette in politica estera, ma il mandato presidenziale fu concepito di 7 anni dai padri costituenti a garanzia di una continuità istituzionale che vada oltre le oscillazioni derivanti dai cambi di legislatura, e questo conferisce al Capo dello Stato anche il ruolo di garante dei Trattati internazionali, materia che non a caso in Costituzione è stata tenuta fuori dai temi che possono essere oggetto di referendum.

Ma al di là della forza cogente che possono avere o meno le posizioni espresse sull’argomento dal Capo dello Stato è bene fare i conti con la forza dei suoi argomenti. Non ci si può infatti richiamare a Mattei in politica estera e a De Gasperi sulla politica domestica e comunitaria tralasciando il filo rosso che unisce questi due padri della Repubblica, in virtù di una visione comune che fece del primo l’interprete simbolo di una politica post-colonialista e non predatoria in Africa, e del secondo uno dei padri del progetto europeo. Una comune visione cristiana che tratteggiava un futuro di collaborazione fra i popoli, in un quadro di crescente cessione di sovranità da garantire agli organismi sovranazionali, in primo luogo in Europa, lasciandosi alle spalle una storia di nazionalismi che avevano fatto da innesco a due devastanti guerre mondiali.

D’altronde occorre essere conseguenti. Non ci si può lamentare del ruolo poco incisivo dell’Europa, anche su questioni cruciali che la toccano da vicino come i conflitti in Medio Oriente e in Ucraina, e poi precluderle quel cambio dei meccanismi decisionali che, unico e solo, può garantire l’auspicabile salto di qualità. (“Avvenire” – Angelo Picariello)

Non voglio enfatizzare il tema anche perché sono convinto che la politica dipenda dalla volontà e non dai sistemi di voto. Tuttavia il discorso del voto unanime in sede europea ha una notevole importanza.

Il mondo brucia. E dove non brucia, corre. Davanti a questi sconvolgimenti l’Europa è ferma. La presidente Ursula Von der Leyen dimostra ogni giorno la sua incapacità. Quanto all’Italia, Meloni non ha mai aperto al superamento del diritto di veto: la sua storia è concettualmente antieuropeista, è ovvio che smentisca Tajani. E del resto non è la sola a smentirlo nella maggioranza.

Mario Draghi ha proposto intanto per la Ue un “federalismo pragmatico”. Tutti gli danno ragione e nessuno gli dà ascolto. Le considerazioni di Draghi sono giustissime. Ma purtroppo lui per primo deve rendersi conto che non bastano più gli appelli pubblici. Manca la politica, come ha detto ad agosto al Meeting di Rimini. Draghi ha fatto la differenza quando era seduto nella stanza dei bottoni e continuo a sognare il suo coinvolgimento in un percorso istituzionale: l’unico modo per essere pragmatici, oggi, è sporcarsi le mani in prima persona facendo politica. (“Avvenire” – intervista a Matteo Renzi)

Il problema non dipende soltanto dalle scelte italiane al riguardo, ma appare quanto meno antistorico il ruolo del nostro Paese, che, dopo avere ideato la macchina europea come incisivo e decisivo strumento di collaborazione fra i popoli, tende a frenarla rendendola sostanzialmente ininfluente. Abbiamo una premier in netta controtendenza rispetto al ruolo svolto dal Paese in materia europea: fatto di una enorme gravità!

Esistono delle divergenze a livello istituzionale e finanche a livello governativo: mentre Sergio Mattarella ha ruolo e idee da proporre, Antonio Tajani avrebbe ruolo (è infatti vice-presidente del Consiglio), ma non ha idee al di là di una stucchevole berlusconizzazione della politica e di un vago richiamo all’ondivago Pee di cui peraltro fa parte senza che nessuno se ne accorga.

Mi sembra che Tajani in tutto e per tutto svolga la mesta funzione di opposizione a sua maestà Meloni: lasciamo quindi perdere e parliamo di personaggi politici seri. È il caso di Mario Draghi.

L’ex presidente della Bce è tornato a parlare della condizione in cui versa l’Europa. Le sue parole non si discostano da quelle già pronunciate in occasione della conferenza stampa ‘A un anno dal report Draghi’, tenutasi assieme alla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen: “Oggi le prospettive per l’Europa sono le più difficili che ricordo”, ha detto. “Quasi tutti i principi su cui è stata fondata l’Unione sono tesi. Costruiamo la nostra prosperità sull’apertura e sul multilateralismo, ma ora siamo di fronte al protezionismo e all’azione unilaterale. Abbiamo creduto che la diplomazia potesse essere la base della nostra sicurezza, tuttavia ora assistiamo al ritorno del duro potere militare. Ci impegniamo per la leadership nella responsabilità climatica, ma ora vediamo qualche ritiro mentre ci assumiamo costi crescenti. Per Draghi la soluzione è una: “Un nuovo federalismo pragmatico è l’unica strada praticabile. Si tratta di un federalismo basato su questioni specifiche, flessibile e capace di agire al di fuori dei meccanismi decisionali più lenti dell’UE. Sarebbe costruito attraverso coalizioni di persone disposte a farlo intorno a interessi strategici condivisi, riconoscendo che i diversi punti di forza che esistono in Europa non richiedono a tutti i paesi di muoversi allo stesso ritmo”. (agenzia di stampa nazionale “Dire”)

Qualcuno sostiene che il voto a maggioranza o la Ue a diverse velocità siano pericolosi in quanto porterebbero acqua al mulino delle estreme destre antieuropee. L’argomento è però esclusivamente tattico e non può compromettere visioni strategiche: è come quando per evitare scontri su un argomento fondamentale lo si accantona. Ne esce vincente a priori l’antieuropeismo! Ed è quanto sta già ampiamente succedendo anche per responsabilità dell’Italia.

Questa dovrebbe essere una battaglia delle sinistre, ammesso e non concesso che esistano ancora. Il pericolo antidemocratico che corre l’Italia è proprio quello di essere trascinata in un subdolo e strisciante nazionalismo a copertura dei problemi reali della gente ed a censura dei principi fondamentali di una democrazia.

Ritorno a Matteo Renzi che acutamente e pragmaticamente dice nell’ambito della succitata intervista: “Non vedo rischi per la democrazia, ma vedo rischi per il portafogli. Il ceto medio soffre e il crollo delle nascite è impressionante. La Meloni però cerca diversivi. Ecco perché dice che la sinistra è come Hamas e attacca la Schlein quando la segretaria del Pd le risponde a tono. Ma è puro wrestling verbale. La vera domanda che il centrosinistra deve fare agli italiani è: state meglio o peggio di tre anni fa? Gli indicatori economici dicono che i mercati finanziari sono contenti, i mercati rionali no. Utili record per il mondo della finanza, povertà delle famiglie mai così alta”.

Attenzione però a non fare del tutto una questione pur incisiva di bottega: ci sono principi da rispettare su cui impostare la soluzione dei problemi. Dovrebbe stare in questa combinazione la forza della sinistra. Non possiamo fregarcene dei principi, così come non possiamo dimenticare che i principi toccano anche il portafoglio della gente inteso come esigenza di vita dignitosa e serena.