Il piatto di lenticchie che stuzzica don Patriciello

“Tante persone, non potendo prendersela con Roma che è troppo lontana, se la prendono con chi ha invitato Giorgia Meloni a Caivano. E quindi questo prete che sta davanti a voi è diventato fascista, omofobo, tra poco diventerà anche pedofilo. Appena faranno quest’altro passo, poi scatteranno tutte le denunce contro chiunque perché adesso poi non se ne può più”. Sono le parole di don Maurizio Patriciello, il prete anticamorra di Caivano (Napoli), che in qualità di consulente ha partecipato all’audizione della Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di sicurezza e sullo stato di degrado delle città e delle loro periferie, presieduta dal deputato di Forza Italia Alessandro Battilocchio.

Il parroco della chiesa di San Paolo Apostolo nel Parco Verde respinge le accuse di essere filo-meloniano e sottolinea: “Io sono un prete di tutti, ma se questo è il prezzo da pagare, va bene. Non voglio niente da nessuno, tutte le volte che è venuto a Caivano qualche ministro e qualche parlamentare in parrocchia ci abbiamo rimesso anche i soldini per il caffè e per il dolcino. Vogliamo solo il bene di questo territorio che veramente è proprio maltrattato e bistrattato – continua con toni appassionati – Avevate a Caivano una discarica e adesso avete un gioiello. Dovete dire grazie, e mi rivolgo soprattutto a coloro che non sono di Fratelli d’Italia. Certo, si tratta solo di un gradino, la scala è lunga e alta, ma ringraziamo il Signore, diamo fiducia al popolo e sosteniamo padre Maurizio, anziché fargli i video e dire su di lui cose schifose accusandolo di essere fascista e omofobo”.

Il religioso parla della genesi del suo rapporto con la presidente del Consiglio e rifila una frecciata al presidente regionale Vincenzo De Luca: “Caivano per la seconda volta vede la propria amministrazione sciolta per infiltrazione camorristica, una cosa orribile. Quando la camorra entra nel santuario della democrazia e della civiltà quale un’amministrazione comunale, vuol dire che le cose veramente non vanno bene e bisogna porsi delle domande molto serie non solamente a livello comunale – prosegue – ma anche a livello regionale e nazionale. Quando De Luca l’anno scorso ha detto che a Caivano lo Stato non c’è, ha affermato una grande verità che io ho sottoscritto. Ma questa cosa la posso dire io che sono un prete, non la può dire il presidente della Regione, no, questo no. In quest’ultimo anno qualcosa è cambiato, c’è poco da fare. Chi dice il contrario sta mentendo a se stesso e anche alla nostra bella Italia”.

Poi gli elogi a Meloni: “Tutto è nato lo scorso anno con l’episodio dello stupro delle bambine. Ho scritto un messaggio a Giorgia Meloni il 25 agosto e non ci avrei mai giurato che il 31 agosto la presidente del Consiglio sarebbe venuta con mezzo governo. Io ho ricevuto Conte, Andrea Orlando, Galletti, Renzi, quindi non c’era nessun mio tentativo di mettere un timbro politico. Era semplicemente la richiesta di un parroco disperato alla presidente del Consiglio. Lei mi ha ascoltato con grande attenzione – conclude – e questa è una cosa molto bella che non succede sempre: si è messa in ascolto. Io le ho detto: ‘Noi sappiamo fischiare e sappiamo applaudire, ma siamo stanchi di fischiare, abbiamo troppo fischiato a tutti voi che siete a Roma. In queste periferie siamo stati abbandonati e ora abbiamo un grande desiderio di applaudire. Per cortesia prenditi i nostri applausi’. Lei ha fatto delle promesse, le ha mantenute e il mio compito è applaudire”. (da Il Fatto Qutidiano.it)

Sono allergico ai preti che tendono ad interpretare il loro ruolo in chiave spiritualista e che quindi non si sporcano le mani affondandole nei problemi sociali. Qualcuno li ha chiamati pretacci: sono i miei preferiti. Non ho quindi niente da ridire sull’impegno di don Maurizio Patriciello contro la camorra e i guasti sociali da essa provocati.

Temo però che in assoluta buona fede e a fin di bene si stia facendo strumentalizzare in chiave partitica e, forse ancor peggio, in senso favorevole alla premier Giorgia Meloni. Capisco benissimo che di fronte ad una politica assente la tentazione sia quella di dare credito a chiunque dimostri un minimo di attenzione e disponibilità concreta verso i problemi di un territorio letteralmente disastrato dalla camorra.

Un autorevole esponente parmense del cattolicesimo democratico, allorché arrivò a Parma il vescovo Benito Cocchi, con tanto di biglietto da visita dell’impegno mattutino ad accudire anziani, mi sconvolse facendomi presente come la storia della Chiesa sia piena di personaggi caritatevolmente ineccepibili ed evangelicamente fulgidi, politicamente conservatori o addirittura reazionari. Non fu il caso del vescovo Cocchi, messo in crisi da ben altre contraddizioni diocesane. Non sono in grado di valutare se la suddetta analisi storica sia attendibile, ma una cosa è certa: la politica è la forma più alta di carità a condizione che non cerchi nel “particolare caritativo” il muro di gomma dietro cui nascondere la mancanza del “generale politico”.

L’ex vescovo di Parma, monsignor Benito Cocchi, sosteneva con molta acutezza e sapienza, che non basta fare del bene, bisogna anche esserne capaci. Credo volesse proprio alludere anche ai pericoli di puntare al bene a tutti i costi, pagando fuorvianti prezzi socio-politici e rubando il mestiere a chi di dovere.

Il politico non va misurato sull’aiuto che dà ai progetti scaturenti dal volontariato cattolico, ma in base al coraggio di elaborare e concretizzare progetti di giustizia su cui anche i cattolici possono impegnarsi. Giorgia Meloni non è brava se risponde alle coinvolgenti provocazioni di don Patriciello, ma se fa della lotta alla camorra una priorità del suo programma di governo con tutto quel che ne consegue. Non solo, ma anche se è capace di puntare ad una politica di pace, di giustizia e di apertura al sociale.

Attenzione alle rondini che non fanno primavera, ma spargono l’illusione che l’inverno possa essere mite a macchia di leopardo.

Don Andrea Gallo sosteneva: «La Chiesa deve vivere delle offerte dei suoi fedeli, non di ricche e non disinteressate mance del principe. Che oltretutto i soldi per quelle mance li preleva dalle tasche di tutti, fedeli e non».

Vorrei chiedere a don Patriciello se i suoi appelli non rischino di essere richieste di raccomandazioni per l’ottenimento di aiuti interessanti, paradigmatici, accattivanti, ma pur sempre sporadici e oltre tutto compromettenti.

Don Luigi Ciotti, fondatore e presidente del gruppo Abele e di Libera, dice: «Ho sempre cercato di saldare Cielo e Terra e i miei riferimenti sono innanzitutto il Vangelo e poi la Costituzione. Nel Vangelo c’è molta “politica”, laddove si denunciano i soprusi, le ingiustizie, le ipocrisie. E la Costituzione ha uno spirito evangelico quando afferma la dignità e l’uguaglianza di tutte le persone».

Vorrei chiedere a don Patriciello come si possa dare credito a una politica che mette la Costituzione sotto i piedi facendo finta di applicare il Vangelo.

La Comunità di S. Cristina e S. Antonio Abate aveva un sogno: «Che la politica guidi l’economia, che l’etica guidi la politica, che la sobrietà cancelli lo spreco, che la giustizia, la coesione, la solidarietà mettano al riparo i più deboli. Che la democrazia cresca».

Vorrei chiedere a don Patriciello se nell’attuale governo e nella maggioranza politica che lo sostiene intraveda qualcosa di simile al sogno di cui sopra.

In conclusione vorrei fare ancora riferimento al pensiero di don Andrea Gallo: «Non mi curo di certe sottigliezze dogmatiche perché mi importa solo una cosa: che Dio sia antifascista!».

Don Patriciello crede che Giorgia Meloni sia antifascista oppure crede anche lui che l’antifascismo sia superato e superabile con qualche piatto sociale di lenticchie?

 

 

 

Il masochismo del perfetto meloniano

Il consenso resta dunque il principale punto di forza di Meloni, al culmine di questo biennio. Certo, il partito degli astenuti è ancora il primo e i sondaggi misurano sostanzialmente la tenuta delea varie “tifoserie” di appartenenza (più o meno invariate). Ma a differenza degli altri cicli volatili che hanno preceduto la vittoria di FdI del settembre ’22 (il Pd renziano, il M5S dimaiano, la Lega salviniana), proprio questa tenuta comporta due riflessioni.

La prima è che, al momento, Meloni non ha alternative, benché lei stessa sia ossessionata in modo permanente dal complottismo delle Forze oscure del progresso e delle élite. La seconda è che di questo passo, con il campo largo più disunito che mai (per dirla alla Sorrentino), la Sorella d’Italia potrebbe mirare a un altro record: essere la prima presidente del Consiglio a rivincere le elezioni. Sinora non è mai accaduto: i governi uscenti hanno sempre perso al voto, anticipato o no. Ma il 2027 è ancora lontano e in mezzo ci sono vari test importanti (le Regionali di questo autunno e della prossima primavera) e soprattutto la grande incognita del referendum sull’autonomia differenziata. Il pronostico è più che aperto. (da “Il Fatto Quotidiano” – Fabrizio D’Esposito)

Che il consenso a Giorgia Meloni tenga botta o addirittura tenda a crescere è un mistero della politica italiana. Non mi convincono le due riflessioni di Francesco D’Esposito. La mancanza di alternativa non può essere un motivo serio e plausibile, ripiegherei invece sulla totale mancanza di senso critico da parte dei cittadini elettori che hanno ormai assorbito il concetto che fare politica voglia dire fare i furbi e quindi, siccome Giorgia Meloni è senza dubbio una furbacchiona, ben venga. È, tutto sommato, una variante del virus berlusconiano: siccome era capace di fare i propri interessi si sperava che riuscisse a fare anche quelli del popolo italiano. Siccome la Meloni è furba chissà che non sopporti e valorizzi tutte le furbizie del popolo italiano: dal non pagare le tasse in su e in giù.

D’altra parte è così anche per la vergognosa politica estera che la nostra premier incarna: un colpo al cerchio e uno alla botte, un bacio di Tizio e una leccata di Caio, e lo chiamano multilateralismo… Cosa dice la gente? È una furbacchiona, li mette tutti nel sacco e l’Italia ne esce rafforzata nella sua dignità internazionale. A parte che mettere nel sacco Elon Musk sarà una gara dura, così come flirtare con il futuro presidente Usa, così come raccontare alla Ue balle spaziali che prima o poi non riusciranno a stare nel poco posto della penosa politica italiana, gli italiani ci credono o fanno finta di crederci.

In secondo luogo è pur vero che la vocazione alla perpetua sfida elettorale possa essere un punto di forza del regime meloniano, ma si tratta della versione riveduta e scorretta della scorciatoia plebiscitaria dei regimi autoritari: funzionerà e fino a quando? Fintanto che la gente si asterrà dal voto e non ricomincerà ad accettare l’improba sfida democratica nelle piazze e nelle urne.

Qualcuno pensa che sia necessario toccare il fondo per poi risalire. Ho seri dubbi. Intanto ci beviamo, salvo imprevedibili sviluppi, il governo Meloni con tutto quel che segue. Ho già scritto che c’è chi chiama la premier signora Cocomeri (o Angurie come dir si voglia…). É un’arguta variazione sul tema di cui sopra.

A proposito di meloni e di angurie, mio padre raccontava un simpatico aneddoto relativo ad un bambino che, recitando in famiglia la poesia di Natale, cadde in un dialettale strafalcione. “Tanti ingurii al papà” disse. E il papà ironicamente aggiunse: “Sì, e un mlón in tla schén’na a tò mädra”. La “meloni” di destra nella schiena ce l’abbiamo noi e sembra che ci sia paradossale voglia di proseguire negli strafalcioni elettorali.

 

 

 

 

Sex and the religion

Continua lo stillicidio di rivelazioni che riguardano la figura dell’Abbé Pierre. A sette settimane dalle prime notizie vengono ora fuori 17 nuove testimonianze che tornano ad accusare il religioso francese di violenze sessuali tra gli anni ’50 e gli anni 2000. «A oggi, è possibile identificare almeno altre 17 persone che hanno subito violenze» da parte del popolarissimo sacerdote scomparso nel 2007 a 95 anni, si legge in un rapporto pubblicato dallo studio specializzato Egaé, citato dall’agenzia France Presse e dal quotidiano cattolico La Croix.

Lo studio Egaé è stato incaricato il 17 luglio dall’associazione Emmaus e dalla stessa Fondazione Abbé Pierre di raccogliere potenziali testimonianze. Nel documento riferisce di aver ricevuto il 2 settembre una cinquantina di email e una ventina di messaggi telefonici in merito ai comportamenti del prelato francese amatissimo dai cittadini d’Oltralpe e che ha consacrato la vita all’aiuto dei più deboli.

Egaé precisa di aver raccolto 12 testimonianze dirette e 5 indirette riguardanti violenze sessuali perpetrate su donne minorenni e maggiorenni, testimonianze che si aggiungono alle sette deposizioni annunciate a luglio. Le nuove testimonianze evocano contatti «non sollecitati sul seno», «baci forzati», «fellazioni forzate», «ripetuti contatti sessuali su persona vulnerabile», «atti ripetuti di penetrazione sessuale», «contatti sessuali su un bambino». I fatti denunciati risalgono a un periodo incluso tra gli anni Cinquanta e gli anni 2000, soprattutto in Francia, ma anche in Stati Uniti, Marocco e Svizzera.

La prima ondata di rivelazioni ha scioccato la Francia, dove la figura del prete noto per la sua azione a favore dei poveri e dei senzatetto era molto stimata anche al di fuori del perimetro ecclesiale. Ribadendo il suo «sostegno totale» alle vittime, la Fondazione Abbé Pierre ha annunciato la chiusura definitiva del luogo di culto a lui dedicato, a Esteville, dove è sepolto, e la decisione di cambiare il proprio nome.

La Conferenza episcopale francese, in un comunicato stampa, ha espresso la sua «costernazione per queste nuove rivelazioni e soprattutto la sua profonda compassione verso tutte le vittime di queste azioni» ribadendo «la propria disponibilità, e quella di tutte le diocesi della Chiesa in Francia, a mettere a disposizione del Dipartimento di Giustizia i propri archivi e le risorse necessarie». (dal quotidiano “Avvenire” – r.r.)

Vinco la tentazione del silenzio di fronte a questa ennesima e spiacevolissima vicenda riguardante la Chiesa nei suoi componenti anche gerarchicamente e sostanzialmente autorevoli. La prima attenzione e preoccupazione deve essere rivolta alle vittime, ma anche ad una profonda revisione di impostazione per evitarle. Anche papa Francesco, rispondendo ad una sacrosanta domanda di una giornalista francese durante la conferenza stampa sull’aereo di ritorno dal recente viaggio in Indonesia, Papua Nuova Guinea, Timor-Leste e Singapore, è riandato sull’argomento degli abusi sessuali compiuti da uomini di Chiesa.

Simon Leplâtre, Le Monde

Santo Padre, in primo luogo grazie tante per questo viaggio affascinante. A Timor Est, ha parlato delle giovani vittime di abusi sessuali. Naturalmente, ci è venuto in mente il vescovo Belo. In Francia abbiamo un caso simile, quello dell’Abbé Pierre, fondatore dell’associazione benefica Emmaus, per molti anni eletto personaggio preferito dai francesi. In ambedue i casi, il carisma di queste due persone ha reso molto più difficile credere a quanto accaduto. Vorrei chiederLe: cosa sapeva il Vaticano dell’Abbé Pierre, e cosa Lei potrebbe dire a tutte quelle persone che fanno fatica a credere che una persona che ha fatto tanto bene possa anche avere commesso dei crimini?

Papa Francesco

Tu hai toccato un punto molto dolente, molto delicato. Gente buona, gente che fa il bene – hai nominato l’Abbé Pierre – che poi, con tanto bene che ha fatto, si vede che questa persona è un peccatore brutto. E questa è la nostra condizione umana. Non dobbiamo dire “copriamo, copriamo, perché non si veda”. I peccati pubblici sono pubblici e vanno condannati. Per esempio, l’Abbé Pierre è un uomo che ha fatto tanto bene, ma è anche un peccatore. E noi dobbiamo parlare chiaro su queste cose, non nascondere. Il lavoro contro gli abusi è una cosa che tutti noi dobbiamo fare: ma non solo contro gli abusi sessuali, contro ogni tipo di abuso: l’abuso sociale, l’abuso educativo, cambiare la mentalità alla gente, togliere la libertà… L’abuso è, a mio giudizio, è una cosa demoniaca, perché ogni tipo di abuso distrugge la dignità della persona, ogni tipo di abuso cerca di distruggere quello che tutti noi siamo: immagine di Dio. Io sono contento quando questi casi vengono fuori. E vi dirò una cosa, che forse ho detto un’altra volta: cinque anni fa, abbiamo fatto un incontro con i presidenti delle Conferenze episcopali sui casi di abusi sessuali e di altri abusi, e abbiamo avuto una statistica molto ben fatta, credo delle Nazioni Unite. Dal 42 al 46 per cento degli abusi si verificano in famiglia o nel quartiere… [interruzione] Per finire: l’abuso sessuale dei bambini, dei minorenni è un crimine, è una vergogna.

La prima cosa relativamente spiacevole è che questa vicenda relativa all’Abbé Pierre venga snocciolata in un crescendo scandalistico nell’assenza del diretto interessato, morto da diciassette anni. D’altra parte è tipico di tutti gli scandali sessuali, riguardanti uomini di Chiesa e non solo, emergere a distanza di tempo: evidentemente le vittime hanno bisogno di tempo per elaborare i danni umani riportati e per superare i timori di un coinvolgimento scandaloso, anche se una certa maggiore tempestività di denuncia gioverebbe alla ricerca della verità e alla battaglia contro questi abusi. Non sempre chi è oggetto di violenza trova il coraggio di reagire, spesso subisce e tace per paura, in quanto sente attorno a sé un clima di scetticismo se non di ostilità preconcetta. E allora tutto diventa ancor più difficile da scoprire, giudicare e sanzionare.

Un secondo elemento riguarda il fatto che ormai sembra definitivamente (?) squarciata la cappa di omertà che ha condizionato nel tempo il comportamento delle gerarchie cattoliche. Forse si sta addirittura esagerando rischiando di buttare via il bambino assieme all’acqua sporca: in effetti è difficile fare questa distinzione, ma sarebbe giusto e opportuno evitare di squalificare tutto e tutti.

Mi spiego meglio: non credo che la testimonianza esistenziale dell’Abbé Pierre debba essere cestinata in riparazione delle sue pur numerose e financo disgustose trasgressioni e violenze sessuali, così come non credo sia giusto concedere attenuanti ai trasgressori per il fatto di rivestire o avere rivestito, magari in modo altrimenti ineccepibile, funzioni di un certo tipo e di un certo livello.

Un terzo discorso è relativo ai rapporti tra religione e sesso. Mentre l’atteggiamento papale sembra orientato a ripulire la Chiesa non è assolutamente indirizzato a cercare di togliere, coraggiosamente e nei limiti del possibile, le cause della formazione della sporcizia. Tento nel mio piccolo di farlo (nei miei scritti ci sono molte tracce al riguardo), stigmatizzando il silenzio che regna nelle sacre stanze (compresa purtroppo quella papale a Santa Marta).

Nella vita della Chiesa la sessualità è stata vista come una pietra d’inciampo se non addirittura una colpa da evitare scrupolosamente, dimenticando che la sfera sessuale è parte integrante della natura umana e della vita cristiana. Questa errata impostazione non è ancora terminata, basti pensare al tabù del celibato sacerdotale e della donna vista come diavolessa tentatrice e, ancor prima, all’educazione sbagliata inflitta ai giovani in generale e nei seminari in particolare. I disastri combinati in tal senso lasceranno un segno nei secoli. Non solo si tende a chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati, ma addirittura si finisce col riempire insistentemente la stalla di buoi pronti a scappare.

È inutile chiedere perdono e risarcire moralmente le vittime se non si evitano i presupposti perché gli abusi sessuali possano ripetersi in futuro. Sarò fissato, ma ritengo che la vera pulizia debba essere fatta a monte a livello educativo, formativo e pastorale. Un sacerdote mezzo uomo può essere tentato di riempire la sua vuota metà sentimentale con un’overdose di sfrenata e disordinata sessualità. Un cristiano inibito e oppresso da regole moralistiche può finire col reagire sconsideratamente facendo del sesso una sorta di riscatto e rivincita esistenziali.

Mi permetto di insistere su questo tasto: il sesso deve essere valorizzato e vissuto come dono e non considerato un pericolo da evitare. Molti problemi verrebbero semplificati e molte energie verrebbero liberate da assurdi vincoli più perbenisti che finalizzati al bene integrale delle persone.

 

Fermate il mondo, non voglio scendere

Siamo in un tempo segnato dalle guerre aperte che si vanno eternizzando, ossia non finiscono, come attesta ciò che sta accadendo in Ucraina o in Terra Santa; dalla minaccia di un conflitto globale; da una cultura pubblica che ha espulso ogni riferimento al tema della pace. Ormai si parla solo di armamenti e di attacchi. È un gravissimo problema che dice come la nostra sia una cultura pietrificata in cui l’immaginazione si è spenta. Invece è urgente tornare a sognare la pace e a pensarla. (Andrea Riccardi – intervista al quotidiano “Avvenire”)

Sembra effettivamente che ci sia una resa globale alla logica bellica, una sorta di rassegnazione contagiosa: la narrazione mediatica è orientata alla mera descrizione senza alcun gemito di protesta, ma soprattutto senza alcun tentativo di proposta alternativa. Stiamo subendo la follia generale e ci limitiamo a giudicare chi sia più folle. Spero non sia così a livello di coscienza individuale, anche se gli individui non riescono a far decollare la loro indignazione verso una qualche forma di reazione/rivoluzione culturale e pacifica. Le istituzioni in campo internazionale sembrano impegnate a discutere sul sesso degli aggressori più che sul disastro incombente.

Rapporto Draghi sull’economia europea: cooperazione, debito comune e sfide per la competitività. Il rapporto di Mario Draghi sulla competitività dell’economia europea esorta a maggiore coordinamento e cooperazione, proponendo anche l’idea di debito in comune. Il rapporto evidenzia il divario di crescita tra Ue e Stati Uniti, l’aumento della competizione con la Cina e la mancanza di presenza europea nel settore tecnologico. Draghi sottolinea l’importanza dell’innovazione, dell’energia e della sicurezza come pilastri per una crescita sostenibile. Il rapporto suggerisce anche la necessità di completare il mercato unico, rendere coerenti le politiche industriali e finanziare in comune i beni pubblici europei (dal Sole 24 ore – Beda Romano)

Mario Draghi si sforza di coniugare l’economia bellica con l’europeismo pragmatico. Ammirevole, ma sembra prescindere da ogni e qualsiasi spinta ideale relegando il processo di unione europea nell’utopismo fragile dei sognatori che devono lasciare il posto ai manovratori. Senza fondamenta valoriali la bussola non può che segnare l’equilibrio economicistico che fa rima con egoistico e che prelude alle guerre.

Non condivido l’idea che l’Europa abbia irrimediabilmente perso la sua “presa” sui popoli e non sappia più indicare una strada credibile. Il Green deal rischia sì di fallire, con conseguenze nefaste sulla nostra competitività, ma non per i motivi di cui discutiamo nei dibattiti nazionali. Il tema, lo ripeterò sino alla noia, sono le risorse e i governi hanno la responsabilità storica di trovare un accordo. E il mondo ha bisogno di un’Europa capace di costruire una solida economia più rispettosa dell’Ambiente e dell’uomo. Con tutti i difetti evidenziati un giorno sì e l’altro pure, io credo che l’Unione abbia in sé i valori e le capacità per costruire un modello nuovo che rifletta anche i principi della Dottrina sociale e il magistero di papa Francesco. Da questo punto di vista c’è anche una precisa responsabilità dei credenti. (Enrico Letta – intervista al quotidiano “Avvenire”)

Enrico Letta si sforza di trovare nel recupero ecologico la spinta europea verso accordi di salvezza globale. Il punto d’attacco è interessante e lampante, ma si rischia di celebrare le nozze ambientali coi fichi secchi nazionali. E poi, esiste davvero una sensibilità collettiva a queste tematiche o c’è soltanto uno strampalato e inconcludente susseguirsi di amari pianti sulle macerie ambientali?

Verso il vertice Onu. La ragione deve aiutarci a superare la logica del conflitto. Non c’è dubbio, infatti, che le tante crisi globali sono la prova dell’inadeguatezza degli assetti istituzionali costruiti dopo la Seconda guerra mondiale. Che vedevano proprio nell’Onu l’embrione di un una nuova forma di governance internazionale. Una crisi che ha nell’involuzione del Consiglio di sicurezza, bloccato dai veti incrociati delle grandi potenze (Usa, Cina, Russia, Regno Unito e Francia), la sua manifestazione più evidente. In realtà, il Summit intende sollevare proprio tale questione: come va riprogettata l’Onu di fronte alle sfide del tempo presente? Negli ultimi novant’anni il mondo ha fatto enormi passi in avanti, tutti nella direzione di rendere ancora più urgente il rafforzamento di una governance globale. Citiamo tre grandi trasformazioni: la possibilità della guerra atomica che minaccia l’umanità; l’integrazione tecno-economica che ha ormai tessuto un’interdipendenza da cui non ci si può più separare; l’emergere del cambiamento climatico che colpisce il pianeta nella sua interezza. (dal quotidiano “Avvenire” – Mauro Magatti)

In effetti si ha l’impressione che la massima espressione istituzionale della convivenza internazionale, vale a dire l’Onu, sia ritualmente bloccata su cose di un altro mondo. Se non si riesce ad andare d’accordo nel condominio europeo, figuriamoci nel villaggio globale. Forse però è proprio allargando il campo visivo ed il terreno di azione che si potrà trovare la quadra per dare al mondo un riferimento non certo perfetto, ma almeno agibile di fronte al casino totale. In conclusione ben vengano le voci che, imprimendo qualche spinta e dando qualche scossa, pur senza scodellare verità assolute e conclusive, pure accolte in chiave critica e non in senso miracolistico, spingano all’impegno costruttivo piuttosto che al disimpegno distruttivo. Potranno sembrare velleitarie, ma cerchiamo almeno e se non altro di prendere paura e chissà che in un mondo così disastrato la paura non possa fare novantuno.

 

 

L’improvvisa ruminazione antimafiosa

Rita Dalla Chiesa indica Andreotti dietro la morte di suo padre: “Ucciso per un favore a un politico”. Rita Dalla Chiesa, ospite della trasmissione Rai “Tango”, parla della morte di suo padre, il generale assassinato a Palermo 42 anni fa. E parla di un politico che sta dietro l’omicidio. Pur non pronunciandone il nome (“c’è una famiglia, preferisco non farlo” dice Dalla Chiesa) il riferimento è inequivocabile, citando una frase che è sempre stata attribuita ad Andreotti: “Quel politico disse a mio padre che chi si metteva contro la sua corrente era un uomo morto”.

Devo innanzitutto ammettere che non ammiro più di tanto i famigliari delle vittime civili, che si buttano in politica lasciandosi, più o meno, strumentalizzare e utilizzando la scia tracciata dai loro congiunti. Discorso di carattere generale che vale anche per Rita Dalla Chiesa, ma non solo per lei, un andazzo che si verifica a destra e sinistra nel panorama politico italiano.

Fatta questa spietata, delicata e personalissima premessa, vengo alla confessione scoop di cui sopra, che, per la verità, non mi stupisce più di tanto.

Ho militato nelle file della Democrazia Cristiana, seppure molto lontano dalla corrente andreottiana, e posso testimoniare che all’interno del partito tutti sapevano dei legami di Giulio Andreotti con il mondo mafioso: si pensava non fossero diretti ma mediati, che fossero conseguenza di un approccio, pragmatico per non dire cinico, scettico per non dire omertoso, nei confronti della mentalità e dello stile mafiosi: Andreotti forse aveva la triste presunzione di riuscire a fare i conti  con una realtà da lui considerata imprescindibile e di contenerla alla meno peggio. Fin qui la vox populi democristiana.

Le vicende giudiziarie, a cui peraltro Andreotti non si è sottratto, hanno fatto emergere una realtà più gravemente complessa, pericolosa e compromettente, anche se la verità processuale è rimasta a mezz’aria tra prescrizioni di reato e assoluzioni con formula dubitativa e piena. Probabilmente gli era sfuggita di mano la situazione, non era riuscito a mantenere i taciti patti stipulati e “qualcuno” gliel’ha fatta pagare.

Nel recente e stupendo film di Marco Bellocchio sulla vicenda del rapimento e della morte di Aldo Moro, nella sua ipotetica confessione il prigioniero Moro ammette di avere sottovalutato e tollerato, in nome dell’unità e della necessità del partito, certe porcherie inammissibili che avevano sporcato la storia d’Italia e della Democrazia Cristiana. L’allusione a Giulio Andreotti era lampante.

Che a riprendere sbrigativamente il discorso dei rapporti tra mafia e Andreotti sia Rita Dalla Chiesa mi pone due questioni. Una comprensibilmente umana: la figlia che vuole fare un po’ di chiarezza sul sacrificio del padre, tirando in ballo, seppure in grave ritardo, chi ha avuto responsabilità nel mandare allo sbaraglio il generale. Lo posso ammettere ed accettare purché anche questo non diventi un esibizionismo piuttosto sgradevole. Le dichiarazioni di Rita Dalla Chiesa non possono avere riscontri oggettivi se non dalla narrazione dell’arcinota vox storica. Il resto quindi è patrimonio etico proveniente dal sacrificio del generale a prescindere dai sassi in piccionaia lanciati dalla figlia, che rischiano più di togliere che di aggiungere alla testimonianza del padre.

Una seconda riflessione piuttosto piccante è di carattere politico. Rita Dalla Chiesa si è mai accorta di fare parte di una forza politica nient’affatto esente da ombre in merito ai rapporti con il mondo mafioso? Se Giulio Andreotti era un politico spregiudicato, Silvio Berlusconi non era certo un ingenuo uomo di governo. E potrei continuare nella similitudine sul piano politico, storico e finanche giudiziario. Non lo faccio per carità e perché capisco che i legami famigliari possano fare premio sugli altri legami.

La pietra scagliata da Rita Dalla Chiesa non tiene conto dei peccati ascrivibili alla sua parte politica. E allora tutto perde mordente etico e significato storico. La fulgida testimonianza del generale Dalla Chiesa non ha bisogno di queste ricostruzioni, che sanno molto di ricerca di visibilità mediatica più che di verità storica.

 

L’irrispettosa compassione e la sdegnosa laicità

Gran Bretagna. Pregava vicino ai centri abortivi. Dopo l’arresto, scuse e risarcimenti. Si è chiuso con un risarcimento da 13mila sterline (circa 15mila euro) e pubbliche scuse della polizia la battaglia di Isabel Vaughan-Spruce, codirettrice dell’associazione March for Life Uk, per il diritto a pregare, in silenzio, per le donne che ricorrono all’aborto e per i bambini non nati. Libertà che le è costata già due arresti. Il primo risale a novembre 2022. La donna era raccolta in preghiera a 150 metri dalla Robert Clinic, una clinica per le interruzioni di gravidanza di Birmingham. Si era fermata all’esterno dalla “buffer zone”, la zona di cuscinetto creata per tenere alla larga i pro-life, quando è stata avvicinata dagli agenti della polizia delle West Midlands che, invocando il divieto a manifestare qualsiasi forma di «approvazione o disapprovazione» dell’aborto, l’hanno prima perquisita e poi arrestata. È seguito un processo che, a febbraio 2023, si è concluso con l’assoluzione. Poche settimane dopo, la situazione si è ripetuta

Un video diffuso dall’Alliance Defending Freedom, l’associazione conservatrice americana che ha assunto la difesa legale di Vaughan-Spruce, mostra chiaramente un agente che le si avvicina e le chiede: «Sta protestando?», “Sta pregando per i bambini non nati?». La donna gli risponde: «No, sto solo pregando in silenzio, nella mia testa, per chi sta soffrendo a causa dell’aborto». «Non lo può fare», l’ammonisce il poliziotto che, incurante delle precisazioni sull’esito del processo da poco concluso, l’arresta di nuovo. È a quel punto che è scattata la contro mossa: Vaughan-Spruce ha denunciato la polizia per due arresti illegittimi, detenzione arbitraria e violazione dei suoi diritti umani. Ne è seguita un’inchiesta di sei mesi che si è risolta a suo favore: la donna aveva ragione. Il dossier è stato chiuso e archiviato con tanto di scuse e risarcimento. «La preghiera silenziosa non è un crimine, nessuno dovrebbe essere arrestato semplicemente per i pensieri che ha nella sua testa – ha dichiarato l’attivista – eppure mi è successo due volte».

(…)

Il ministero degli Interni si è per adesso limitato a sottolineare che «è priorità di questo governo proteggere i diritti delle donne» e fare in modo che «l’accesso legale ai servizi di aborto sia sgombro da molestie e intimidazioni». (dal quotidiano “Avvenire” – Angela Napoletano)

 

Parecchi anni or sono, quando andavo a fare visita ad una mia carissima cugina, ricoverata all’ospedale maggiore di Parma in stato di coma vegetativo, mi capitava di imbattermi all’entrata in un gruppetto di donne che recitavano ostentatamente il rosario in riparazione dei peccati riconducibili all’aborto. Mi davano un senso di tristezza e di pochezza. Per non mancare loro di rispetto frenavo l’impulso di interrogarle provocatoriamente: «Ma voi cosa sareste disposte a fare per una donna sull’orlo dell’aborto? Avreste il coraggio di ospitarla in casa vostra? Avreste la generosità di sostenerla economicamente in modo continuativo? Avreste la forza di aiutarla umanamente ad una scelta così difficile rispettandone la sofferta decisione? Sareste disponibili a fare qualcosa di concreto in aiuto di chi si trova ad affrontare situazioni estremamente difficili?».

Don Andrea Gallo ammetteva con sofferto realismo e concreta carità: «Non incastriamoci nei principi. Se mi si presenta una povera donna che si è scoperta incinta, è stata picchiata dal suo sfruttatore per farla abortire o se mi arriva una poveretta reduce da uno stupro, sai cosa faccio? Io, prete, le accompagno all’ospedale per un aborto terapeutico: doloroso e inevitabile. Le regole sono una cosa, la realtà spesso un’altra. Mi sono spiegato?».

Mi risulta che durante un colloquio tra papa Giovanni Paolo II e monsignor Hilarion Capucci, arcivescovo cattolico e attivista siriano, un personaggio controverso della vita religiosa e politica del Medio Oriente, sia stata presa in considerazione la drammatica situazione di monache stuprate per le quali si sarebbe posta l’eventuale possibilità dell’aborto. Monsignor Capucci era favorevole ad affrontare con grande flessibilità e realismo questi dolorosi casi. Il papa era drasticamente contrario ad ogni eccezione alla regola antiabortista. Ad un certo punto la tensione salì e il “trasgressivo” porporato chiese provocatoriamente al papa: «Ma Lei Santità crede di essere Dio?». Il papa, probabilmente preso alla sprovvista, non seppe rispondere altro che: «Preghiamo, preghiamo…».

È comodo pregare per o addirittura contro… È facile mettere a posto la coscienza snocciolando una cinquantina di avemaria e…chi ha il problema si arrangi… Non sopporto questo atteggiamento pseudo-religioso, lo giudico profondamente anti-cristiano. Negli Usa zelanti vescovi e cardinali volevano addirittura negare la comunione eucaristica a Joe Biden, reo di avere posizioni possibiliste sulla legislazione abortista. “Io non ho mai rifiutato l’Eucarestia a qualcuno” disse Papa Francesco. Lo ha ripetuto al Presidente degli Stati Uniti in persona, che qualche prelato del suo Paese vorrebbe bloccato da un diniego nel momento in cui si accosta al sacramento, causa la sua posizione sull’aborto.

Sul piano civile il diritto a pregare esiste tanto come il diritto ad abortire. Non sopporto che chi prega assuma l’atteggiamento presuntuoso e provocatorio verso chi esercita il diritto di abortire, così come non sopporto chi fa del diritto ad abortire una bandiera da sventolare contro chi si permette di sollevare problemi di coscienza per sé e per gli altri.

La preghiera è molto di più di un’arma di protesta politica contro la pur discutibile legalità, così come chi difende una legge non può considerare illegale la preghiera che non risponde ai canoni della legge. Sono due atteggiamenti settari, uguali e contrari nella propria intolleranza.

In questo caso, sotto sotto, chi prega ha la presunzione farisaica di essere dalla parte del giusto e di considerare peccatrici le altre persone; chi rifiuta sdegnosamente la preghiera altrui ha la presunzione laicista di considerare bigotte le altre persone.

Chi sono io per giudicare una donna che ricorre all’aborto e per farle cadere dall’alto una pelosa preghiera? Chi sono io per giudicare una persona che prega e metterne in discussione la buona fede? Posso ragionare con l’una e con l’altra con uguale rispetto e disponibilità al dialogo, togliendo di mezzo la presunzione e l’integralismo da entrambe le parti.

E se provassimo, come diceva don Andrea Gallo, a non incastrarci nei principi e ad affrontare le realtà con rispetto e solidarietà?!

 

 

La politica assente e la disperazione presente

Due dottori della guardia medica di Melito di Napoli sono stati aggrediti ieri sera da tre donne e due uomini dopo il rifiuto dei sanitari, un 31enne e una 38enne, di effettuare una visita domiciliare a un loro parente. Sul posto è intervenuta una pattuglia dei carabinieri. I due medici si sono recati autonomamente al pronto soccorso dell’ospedale di Giugliano in Campania per lievi ferite alla testa e al collo. L’associazione Nessuno Tocchi Ippocrate sul suo profilo Facebook ha diffuso un video dell’accaduto. (dal quotidiano “La Stampa”)

Da tempo ho la sensazione che ai consensi di facciata verso l’attuale assetto governativo faccia da contraltare una forte insoddisfazione innescata soprattutto dalla grave situazione del sistema sanitario. Mi sono da tempo detto: prima o poi qualcosa dovrà capitare sul piano sociale.

Sta capitando e sta prendendo una brutta piega: purtroppo la protesta, non riuscendo a trovare sbocchi politici (la sinistra) e sociali (il sindacato), si sfoga in una sorta di ribellismo, che rischia di essere fine a se stesso o addirittura controproducente con la sbrigativa criminalizzazione di chi si lascia tentare dalla violenza.

Le tre forze della sinistra politica non sono credibili agli occhi della gente esasperata, che non ha più pazienza di aspettare il Godot dell’alternativa. Anziché creare i presupposti per un cambiamento politico, l’insoddisfazione rischia di provocare politiche ulteriormente reazionarie e repressive. C’è di che preoccuparsi seriamente.

Non è un caso che questi episodi di ribellismo avvengano in meridione laddove la conflittualità soffre particolari condizioni esplosive. Anche la prospettiva del regionalismo esasperato e discriminatorio offre un facile detonatore per le bombe sociali in attesa di esplodere. Non è detto che il fenomeno non possa allargarsi ad altre zone e ad altre problematiche.

É grande lo sconcerto per l’alluvione che si è accanita contro la popolazione romagnola. Ad essa si aggiunge l’agghiacciante polemica politica dello scaricabarile. Di questo passo ai cittadini disperati ed esasperati potrebbe rimanere solo la ribellione contro i pubblici poteri. All’indomani di un terremoto, davanti all’inerzia dei soccorritori, l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini non esitò a schierarsi dalla parte della gente contro le Istituzioni che non svolgevano il loro ruolo. Fu grande polemica, ma, come si dice, quando ci vuole ci vuole. Non mi dispiacerebbe che Sergio Mattarella alzasse la sua voce contro l’indegna gazzarra politica che si sta verificando: i problemi sono enormi e davanti ad essi il senso di responsabilità dovrebbe prevalere.

Conversando con un amico mi è venuto spontaneo un impossibile paragone. Moro al governo e Berlinguer all’opposizione non avrebbero mai dato un simile triste spettacolo come quello al quale stiamo assistendo. Ma, come noto, io sono un incallito nostalgico. Non insisto su questo tasto. In politica ho visto di tutto, ma allora c’era un limite a tutto. Oggi no!

Speriamo che la solidarietà fra la gente faccia scudo alle tentazioni ribellistiche che oso prospettare.

Sarebbe infatti più qualunquista la popolazione romagnola che smettesse di pagare le tasse e di osservare le regole oppure chi governa e litiga sulle colpe da assegnare al centro e alla periferia?

Di fronte a queste situazioni drammatiche la sinistra non può discutere sul sesso dei propri angeli, giocare a nascondino all’interno dei propri penosi recinti e non deve quindi dare l’idea dell’impotenza. Ha una grande responsabilità! Quella di comprendere, rappresentare e indirizzare il malcontento. E lo deve fare in fretta dando segnali concreti di interesse ed impegno. Altrimenti… La storia insegna che quando la sinistra non riesce a interpretare la società che soffre, questo vuoto viene riempito dalla demagogia di destra (leggi fascismo o roba del genere) o di sinistra (leggi terrorismo e/o violenza di piazza): oltre tutto le due derive si intersecano e finiscono col sostenersi a vicenda.

Fin qui la cruda realtà socio-politica. Poi, se dall’inferno della sanità terra-terra, ci spostiamo nel paradiso della sanità scientifica le cose cambiano.

Policlinico Gemelli (primo in Italia), Ieo, Rizzoli, Bambino Gesù, Monzino, San Raffaele, Gaslini: è la sanità italiana ai vertici. La classifica globale di Newsweek premia le eccellenze. Il Policlinico Gemelli di Roma è il miglior ospedale italiano per Ginecologia e Ostetricia, Gastroenterologia e Pneumologia secondo la classifica di Newsweek, collocandosi nella classifica mondiale al quarto posto nel settore Ginecologia e all’ottavo posto per la Gastroenterologia. Sia la Ginecologia che la Gastroenterologia del Gemelli risultano inoltre prime tra i Paesi dell’Unione europea. A certificarlo è la classifica sui migliori ospedali per specialità – la World’s Best Specialized Hospitals 2025 – stilata dal magazine americano “Newsweek” e giunta alla quita edizione, in collaborazione con Statista, una piattaforma di intelligence di dati globali.

Italia ai primi posti anche per l’oncologia: l’Istituto europeo di oncologia (Ieo) di Milano si colloca al nono posto a livello mondiale, al decimo l’Istituto nazionale tumori (Milano) e all’undicesimo ancora il Gemelli. Per la Cardiologia e la Cardiochirurgia, il primo classificato tra gli ospedali italiani è il Centro cardiologico Monzino (Milano), all’undicesimo posto nella classifica mondiale per la Cardiologia (mentre al 12° c’è l’Istituto San Raffaele di Milano) e al 23/mo per la Cardiochirurgia. Per l’Ortopedia l’Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna è al nono posto a livello mondiale. E ancora: per la Pediatria il sesto posto nella classifica mondiale è occupato dall’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, seguito al settimo posto dall’Istituto Giannina Gaslini di Genova. (dal quotidiano “Avvenire”)

Sono i misteri della nostra società. Alla miseria galoppante attestata dal crescente ricorso alle mense della carità rispondono la corsa agli “apericena” e l’assalto a ristoranti e pizzerie. Alla moltitudine dei poveracci che non si possono permettere nemmeno uno straccio di vacanza si contrappongono strade ed autostrade scoppiettanti di traffico vacanziero. La crisi dell’industria automobilistica si scontra con i tempi biblici di consegna delle auto a chi ha la possibilità di comprarle. L’occupazione cresce e il livello economico di vita cala. Ai misteri della fede si aggiungono quelli socio-economici. Forse si tratta dell’inganno globale della società capitalistica che ha i secoli contati. Dicono che anche gli immigrati rimangano vittime di questo inganno, con la differenza che loro sono disperati e noi siamo rincoglioniti e ci accontentiamo delle briciole paradisiache che cadono dalla tavola del benessere virtuale.

 

 

 

 

La preghiera batte le sottigliezze vaticane

Per Medjugorje arriva il via libera ai pellegrinaggi e al culto, dato che i frutti spirituali maturati negli ultimi quarant’anni sono eccellenti. Ma ciò non significa che ci sia una soprannaturalità dei fenomeni raccontati dai famosi “veggenti”. Su questo per il momento la Santa Sede non si pronuncia. Né che i loro messaggi siano da attribuire alla Madonna, come rivelazioni private. Letti nel loro complesso, e al netto di qualche elemento problematico, sono da considerare, come ha spiegato il prefetto del Dicastero della Dottrina della Fede, «testi edificanti».
Sono queste in sintesi le conclusioni della Nota “Regina della Pace”, diffusa ieri per mettere comunque un punto fermo sulla dibattuta questione, che va avanti dal 24 giugno 1981, quando cominciarono le presunte apparizioni. Il documento del Dicastero per la Dottrina della Fede, approvato da Francesco lo scorso 28 agosto, non si pronuncia sulla soprannaturalità ma riconosce gli abbondanti frutti spirituali legati alla parrocchia-santuario della Regina della Pace e formula un giudizio complessivamente positivo sui messaggi pur con alcuni chiarimenti. Tra questi frutti spirituali, vi sono «le abbondanti conversioni, il frequente ritorno alla pratica sacramentale, le numerose vocazioni alla vita presbiterale, religiosa e matrimoniale, l’approfondimento della vita di fede, una più intensa pratica della preghiera, molte riconciliazioni tra coniugi e il rinnovamento della vita matrimoniale e familiare».
Tutto questo, viene ribadito, non implica «una dichiarazione del carattere soprannaturale» e dunque «nessuno è obbligato a credervi». (dal quotidiano “Avvenire” – Mimmo Muolo)

La gerarchia ecclesiastica ha sempre tenuto un atteggiamento di estrema prudenza di fronte ai fenomeni di eventuale carattere soprannaturale: ad una sacrosanta cautela verso il pericoloso bigottismo ha sempre fatto riscontro il clericale timore di perdere il potere monopolistico nei rapporti fra la creatura ed il creatore. Difficile stabilire dove arrivi il timore di fuorviare la devozione con un’inflazione di apparizioni, fin dove si tratti di scetticismo aprioristico, fin dove si scada nella paura sacerdotale di perdere carisma.

Certo che fa stupore e stridore la differenza tra la sobrietà, la semplicità e l’immediatezza delle apparizioni da una parte e la lungaggine burocratica delle procedure e delle inchieste messe in atto dai vertici ecclesiastici dall’altra parte. È pur vero che la speculazione commerciale è sempre in agguato e rischia di rovinare tutto.

Sembra che il Vaticano (il dicastero per la dottrina della fede) abbia assunto una posizione, molto politicamente mediana e poco coraggiosamente religiosa, della serie “sì ai pellegrinaggi a Medjugorje”, ma dicendolo piano in un orecchio alle migliaia di pellegrini che non si possono deludere. Sì al devozionismo, no al miracolismo!

Esiste una contraddizione: la devozione, nel caso di Medjugorje, nasce ed è basata sulle apparizioni; se cade l’autenticità delle apparizioni mariane, perde forza la devozione. D’altra parte troppo grande era il fenomeno per poter essere misconosciuto e allora si è scelto il compromesso. Se non vado errato anche la verità di fede dell’Assunzione al cielo di Maria in anima e corpo ebbe un abbondante e lungo preludio a livello di credenza popolare, quindi non sottovalutiamone il peso ed il significato.

Gli amici e conoscenti, che fin dall’inizio si erano recati a Medjugorje, mi dicevano che in quel luogo si respirava un’aria di forte spiritualità ben lontana dal fanatismo e si assisteva ad episodi non miracolosi in senso materiale (guarigioni, etc.), ma in senso spirituale (conversioni, ritorno ai sacramenti, fervente preghiera, etc.).

Da cattolico in strisciante odore di eresia azzardo il mio parere a prescindere dai burocratici pronunciamenti vaticani: non me ne frega (quasi) niente del dicastero della dottrina della fede, mi interessa pregare Maria vergine e quindi ben vengano i luoghi dove regna un clima di spiritualità che aiuta la devozione, senza stare troppo a sottilizzare sulle apparizioni, che qualcosa di straordinario pure avranno (altrimenti sarebbe già crollato tutto l’ambaradan), e senza lasciarsi scandalizzare dagli affari che circondano i santuari mariani di tutto il mondo (che andrebbero evitati, ma che non si riescono purtroppo ad eliminare).

Forse non è un caso che Maria abbia sempre scelto di apparire agli sprovveduti e abbia accuratamente schivato i sacri palazzi: sapeva e sa perfettamente che c’è più disponibilità alla fede da parte dei piccoli che da parte dei sapienti e degli intelligenti.

Ricordiamo la barzelletta che piaceva a don Andrea Gallo, con Gesù che non vuol saperne di andare in vacanza, ma per l’insistenza del Padre e dello Spirito Santo decide finalmente di andare in Vaticano, perché non c’era mai stato. A Medjugorje, evidentemente c’era andato…magari assieme a sua madre.

Mi risulta che Bernadette rispondesse con tanta semplicità ai suoi inquisitori in merito alle apparizioni a Lourdes: “Voi dite quel che volete, ma io l’ho vista!”. D’altra parte anche il cieco nato guarito da Gesù dovette sottostare all’inchiesta dei farisei. Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo».

A proposito di pratiche devozionali, certo, mi infastidiscono le abbondanti carezze riservate alle statue del Sacro Cuore e ancor più quelle alle statue della Madonna e ancor più quelle alle statue dei Santi: un devozionismo spicciolo che prescinde dai sacramenti, Eucaristia in primis. Non bisogna però sottilizzare troppo: solo Dio è in grado di valutare il fervore e la buona fede del nostro pregare. Vale in tutti i casi, Medjugorje compreso. Checché ne pensi e ne dica il ministro vaticano della fede.

A proposito, a quando lo sbaraccamento di queste sovrastrutture: non sarebbe il caso che chi ci lavora andasse a fare dell’altro, che so, ad aiutare i poveri e i sofferenti, a servire le comunità di base, a pregare assieme al popolo di Dio, a fare del bene, senza preoccuparsi troppo di certificare il bene fatto dagli altri?

 

Il PD che paga il Fitto alla patria padrona

Errare humanum est, perseverare diabolicum. Se il sì del Partito democratico (e dei Socialisti europei) al secondo mandato di Ursula von der Leyen è stato, a luglio, un gravissimo errore, un nuovo sì alla vicepresidenza di Raffaele Fitto rappresenterebbe ora un diabolico accanimento, e soprattutto certificherebbe l’incapacità del Pd di elaborare una prospettiva politica – e, prima, culturale – alternativa a quella che ha condotto l’Europa alla negazione stessa della sua ragione di esistere.

L’Europa nacque con una missione su tutte: sradicare la guerra dal continente, spegnendo per sempre il fuoco dei nazionalismi europei. Rinnegando tutto questo di fronte all’invasione russa dell’Ucraina, invece di imporre subito le inevitabili trattative di pace (e di farsene sede e promotrice) l’Unione si è trasformata in una succursale della Nato, ha messo la guerra e le armi in cima alle sue ragioni sociali, e la sua presidente tedesca ha rispolverato una atroce retorica della vittoria che ha ridato diritto di cittadinanza a fantasmi osceni, che credevamo esorcizzati per sempre, almeno in Europa. Confermando Von der Leyen, i socialisti, e con loro il Pd, si sono schierati dalla parte della guerra, del tradimento dell’idea stessa di Europa: nel migliore dei casi, un chiaro segnale di impotenza politica.

Se ora il Pd decidesse di votare anche per il commissario Fitto “perché è italiano”, l’intera operazione assumerebbe un colore anche più nero, perché significherebbe soddisfare “lo stupido sentimento patriottico che guarda ai colori dei pali di confine ed alla nazionalità degli uomini politici che si presentano alla ribalta, invece che al rapporto delle forze ed al contenuto effettivo”. Sono, queste, parole del Manifesto di Ventotene (1941), altissimo programma morale per l’Europa che sarebbe nata dopo la guerra. Un suo passaggio centrale prendeva atto che “la linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale”. Sembravano parole antiche: oggi tornano attualissime. (da “Il Fatto Quotidiano” – Tomaso Montanari – storico dell’arte e saggista)

Il partito democratico deve capire che una vera politica di sinistra non parte dalle casalinghe scaramucce con i parenti serpenti, ma dai massimi sistemi ideali e valoriali che oggi più che mai si chiamano pace ed Europa unita. Si potrebbe dire che il punto focale sia quello dell’Unione europea a servizio della causa della pace (e viceversa) e, come premessa e conseguenza, al di sopra dei nazionalismi e patriottismi riveduti e scorretti. Era stata ideata così e c’è bisogno di tornare allo spirito dei padri fondatori.

Ebbene, la nomina di Raffaele Fitto a commissario e vice-presidente della Commissione europea viene sbandierata dal governo italiano come una unificante conquista patriottica, mentre in realtà è il risultato di una velleitaria, soffocante e campanilistica azione antieuropea.

Il PD rischia di cadere nella ricattatoria trappola del vogliamoci bene per difenderci dall’Europa anziché rimanere dignitosamente e coraggiosamente ancorato alla visione salvifica dell’Europa cha abbatte gli steccati nazionali.

È ora di uscire dalla melassa unitaria guerrafondaia e sostanzialmente reazionaria di un lasciamoci reciprocamente in pace, ognuno a casa sua: europeisti fino a mezzogiorno, poi, quando si fa sul serio, tutti per uno e ognuno per sé. Mi permetto al riguardo una emblematica digressione estratta dai ricordi di vita parentale.

Alla vivacità socio-culturale di mio padre si aggiungeva occasionalmente quella di suo fratello, uno zio che veniva di rado a trovarci, partendo da Genova dove abitava con la sua famiglia e dove lavorava. Si inseriva perfettamente nel contesto familiare e portava il suo alto contributo al clima “battutistico”, anche perché aveva mantenuta intatta la verve parmigiana e continuava a padroneggiare l’uso del dialetto mischiandolo a volte con quello genovese. Ne sortiva una miscela esplosiva di sortite originali e accattivanti.

Quando tornava a Parma e incontrava gli amici di un tempo si ricreava immediatamente il rapporto cameratesco condito dai ricordi. Al termine di questi fitti dialoghi mio zio sparava quasi sempre una simpatica battuta. Al momento dei saluti rivolto all’amico di turno, dopo avergli dato una pacca sulla spalla e/o avergli stretto calorosamente la mano, diceva: «Veh, arcòrdot bén, quand at me vól gnir a catär…sta a ca tòvva».

 

La Commistione europea

In totale sono 40% di donne (11 su 27). La lista iniziale dei nominati dai governi ne contava appena il 22%, “del tutto inaccettabile” ha detto Von der Leyen, confermando i suoi numerosi interventi sui governi per cambiare i nomi. Il caso più recente è quello della Slovenia, con l’arrivo di Marta Kos al posto di Tomaz Vezel, che ha creato uno scontro interno tra opposizione e governo a Lubiana che ha portato al rinvio della presentazione del collegio, previsto per la settimana scorsa e ora in fase di soluzione. Quanto ai colori politici, ci sono 14 commissari del Ppe, quattro Socialisti (cinque se si considera anche Sefcovic, il cui partito Smer è membro sospeso del gruppo), cinque Renew (Liberali e macroniani), due conservatori e un indipendente. Se davvero il nodo sloveno sarà chiuso prestissimo, le audizioni dei commissari di fronte alle rispettive commissioni europarlamentari potrebbero cominciare già in ottobre, nel tentativo di arrivare al voto in aula sull’intero collegio lo stesso mese, in modo che la nuova Commissione Europea possa entrare in funzione il primo novembre. Altrimenti, scenario molto più probabile, si avrà uno slittamento di un mese. (dal quotidiano “Avvenire”)

A quanto pare, i criteri per la scelta dei commissari europei, sono stati la rappresentanza geografica, la parità sessuale e l’equilibrio politico. Molto difficile combinarli: ogni Stato-membro infatti è portato a privilegiare personaggi in grado di portare avanti le logiche e gli interessi nazionali; le quote rosa sono uno specchietto femminista per le allodole progressiste; l’appartenenza politica risulta molto sfumata e piuttosto debole. Non sono in grado di valutare il livello qualitativo dei componenti la Commissione, che tuttavia mi sembra abbastanza basso al punto da far temere un pesante ed ulteriore condizionamento della mastodontica struttura burocratica sulla traballante autonomia dell’organo di governo comunitario.

In estrema sintesi mi sembra che la debolezza istituzionale partorisca una politica comunitaria, che dovrebbe essere espressa dal Parlamento, ma che in realtà è frutto di equilibrismi geopolitici peraltro imbalsamati dall’assurda e paralizzante regola dell’unanimità.

I valori e le idealità, che dovrebbero essere espressi e garanti dai partiti, finiscono col non essere di fondo ma sullo sfondo: conseguenza immediata è la scarsa convinzione nei processi di vera integrazione e l’attestazione sulla pregiudiziale scelta confederale rispetto a quella federale.

Il parterre istituzionale europeo può essere brutalmente configurato nella stanza dei bottoni in cui entrano e comandano i Paesi forti per accedere alla quale però si passa da un’anticamera in cui ognuno grida e fa valere i propri interessi, bloccando le velleità decisionali dei maggiorenti, senza contare che la vera stanza di comando rischia di essere a latere, vale a dire quella tecnocratica e burocratica.

L’accordo politico tra i maggiori partiti (socialisti, popolari e liberali) assomiglia molto ad un patto di non belligeranza a garanzia di una vuota continuità e a costo di un assordante silenzio sulle troppo impegnative questioni sociali (politica migratoria in primis) e sugli inevitabili equilibri bellici (conflitti in atto e latenti).

Staremo a vedere cosa succederà quando il Parlamento dovrà votare la fiducia al Collegio: avrà la forza di verificare convinzione europeistica, rappresentatività politica, competenza ed esperienza programmatica dei singoli commissari e dell’intera commissione? Sarà una semplice ratifica con qualche marginale maldipancia?  Sarà un esercizio retorico con i dissensi ridotti a sfoghi populisti o demagogici? Sarà uno sfogatoio personale del dissenso a livello di belle coscienze?

La struttura istituzionale europea sembra fatta apposta per occultare il peso comunitario a favore di quello nazionale, per mettere la politica nel cassetto degli affari: conseguenza è la marginalità, sulle scene interna ed internazionale, di un gigante coi piedi di argilla. E tutti pensano di contare qualcosa, mentre in realtà non contano niente.  E i pionieri e fondatori dell’Europa Unita si scaravoltano nelle tombe su cui non rimane che piangere amaramente.