Verrà un giorno…, anzi, è già venuto.

In una recentissima intervista al quotidiano la Repubblica papa Francesco ha affermato: «L’ho detto più volte e lo ripeto: la violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato. Rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo. Nel peggiore dei casi può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura di tutti». Ogni commento è superfluo.

Il tempo di girare la pagina di giornale e mi sono imbattuto in una incredibile dichiarazione di Donald Trump: «Io e Xi stavamo mangiando una bella torta al cioccolato quando ho ordinato l’attacco alla Siria». Ogni commento è superfluo.

Sempre lo stesso giorno leggo sul quotidiano Avvenire l’intervista a Jared Daimond, scienziato e premio Pulitzer Usa, nella quale questo illustre personaggio esterna le sue riflessioni: «Sto pensando a questo pianeta dal futuro così incerto e sempre più in balia delle decisioni di pochi uomini. Sto pensando al rischio nucleare. Se Trump spingerà un bottone, anche la Cina spingerà un bottone. A una guerra atomica resisteranno gli insetti; ma dei mammiferi non sopravviverà nessuno. Moriranno uomini ed elefanti. Penso spesso a quello che può combinare il presidente americano e confesso di aver paura. Penso che guidare un grande stato non sia esercitarsi su twitter; è qualcosa di enormemente complesso». Ogni commento è superfluo.

Accendo il televisore e su televideo appare una notizia: la leader del Front National, Marine Le Pen, candidata alle elezioni presidenziali francesi, in un intervista al quotidiano La Croix ha detto di essere “estremamente cattolica”, ma al tempo stesso “arrabbiata” con papa Francesco per le sue parole sui migranti. Che il Papa faccia appello “alla carità, all’accoglienza dell’altro, non mi meraviglia”, ma che inviti gli Stati a “non porre condizioni all’accoglienza degli immigrati, può costituire un’interferenza politica”, spiega Le Pen. Ogni commento è superfluo.

Nell’agenda della visita che il presidente Usa farà in occasione del G7 di Taormina (26-27 maggio) non figura la tappa in Vaticano per l’udienza dal Pontefice. Nessuna richiesta è arrivata al Vaticano dallo staff della Casa Bianca. A questa punto mi concedo un breve commento: meglio così, mangi le sue torte, lanci le sue bombe, dica le sue cazzate, si goda le sue ricchezze, prosegua nelle sue follie a suon di muri, pugni di ferro, minacce e blandizie. Continui a prender per i fondelli gli americani che l’hanno votato e quanti nel mondo simpatizzano per lui. Faccia visita a Marine Le Pen, Viktor Orbán e, se vuole rimanere in Italia, a Matteo Salvini e Beppe Grillo. Sappia comunque che, come dice Fra Cristoforo a don Rodrigo nei Promessi sposi, anche per gli uomini (pre)potenti come lui, “verrà un giorno…”. Anzi è già venuto, è la Pasqua di Cristo!

 

Un estremo calcio al calcio

La cessione del Milan ai Cinesi segna la fine di un’epoca negli assetti societari del calcio italiano e non solo italiano. Con Berlusconi il mondo pallonaro era stato adottato dall’alta imprenditoria (?) Fininvest, che ne aveva fatto un elemento strategico della galassia economico-finanziaria ruotante attorno al cavaliere. Era un astro, un pianeta, un satellite? Di tutto un po’. Una stella luccicante attorno a cui ruotavano gli occhi bovini dei tifosi e quindi un formidabile collettore di consenso. Un pianeta ruotante attorno all’astro berlusconiano, inserito perfettamente nel coacervo di interessi dalla pubblicità alla politica, dai media alla finanza, dal mattone al pallone; nello stesso tempo ruotante su se stesso alla megalomane ricerca di un mecenatismo di ultima ed assurda generazione. Un satellite funzionante come dependance, come cortile di lusso in cui far giocare figli, amici e cortigiani: la ciliegiona del calcio parlato, talmente importante e invitante da mettere in second’ordine la torta del calcio giocato .

L’intreccio tra calcio e affari non è stata un’invenzione berlusconiana, viene più da lontano, ma il cavaliere lo ha istituzionalizzato, aggiungendovi da una parte la raccolta del consenso politico e dall’altra uno stretto, scoperto e spudorato legame aziendalistico con le realtà imprenditoriali del gruppo.

Anche se oggi i commentatori vanno leccaculisticamente a gara nel trovare i meriti e i successi di questo lungo sodalizio, enumerando i tanti trofei conquistati, bisogna riconoscere criticamente che si è trattato di una tappa fondamentale e decisiva nel cammino snaturante, deviante e squalificante dello sport in genere e del calcio in particolare. Berlusconi ha tolto al calcio l’ultima parvenza sportiva che gli rimaneva per trasferirlo definitivamente e completamente nel mondo degli affari con tutte le conseguenze del caso.

Forse però è finito anche questo ciclo integrato, che potremmo definire “imprenditoriale”: la crisi economica non consente distrazioni ed eccoci arrivati alla fase puramente “finanziaria e speculativa”, con il calcio ridotto a bene rifugio in cui investire spregiudicatamente grossi capitali provenienti dall’estero, dal capitalismo emergente (Cina) e da quello deviato (Russia), una sorta di mega-forno in cui riciclare i puzzolenti rifiuti finanziari del capitalismo più equivoco se non sporco.

Non riesco a intravedere quale sarà l’impatto sul livello qualitativo e spettacolare dello sport, perché noto una sempre più netta e insanabile frattura tra la proprietà e l’utenza. Forse sta iniziando il calcio estraneo, il calcio “estremo”, dove non c’è nemmeno un posticino in curva per gli appassionati, forse nemmeno più davanti al video; il tifo prezzolato diventerà la regola, gli stadi diventeranno contenitori polifunzionali, lo sport sarà solo un pretesto per ben altri discorsi. Può darsi che si restringa drasticamente il numero degli attori protagonisti (costano troppo, allora pochi ma buoni) e che molta gente che vive ai margini del circo debba cambiare mestiere e questo non sarebbe poi un gran male.

Un mio zio da disincantato osservatore del fenomeno calcio diceva con grande e simpatica ironia: «Vintidu òmmi ca còrra adrè a ‘n balón… mi andrò a veddor il partìdi quand ag sarà vintidu balón ca còrra adrè a ‘n omm…». Ci stiamo per caso avvicinando, in un certo senso, alla fantasiosa e provocatoria ipotesi di mio zio? Con l’aggiunta di un elemento fondamentale: i sòld chi fan còrror tùtti.

Il mostro di Budrio

Guardando le immagini della caccia al bandito Igor, responsabile di crimini orrendi e in disperata ed estrema fuga, mi prende una grande pena per le vittime che ha seminato lungo il suo cammino, assieme a un incontenibile scetticismo per la romanzesca sfida che è stata ingaggiata contro di lui, per il paradossale dispendio di energie e di risorse in questa caccia all’uomo, per l’illusoria consolazione conseguente all’enorme spiegamento di forze impiegate, per la clamorosa ed enfatica dimostrazione di presenza dello Stato.

Da una parte colgo tutta la necessità di assicurare alla giustizia un orrendo criminale, dall’altra vedo l’esagerata mobilitazione per una “piccola” emergenza di ordine pubblico e faccio una riflessione estremamente provocatoria: se tutto questo impegno fosse messo in campo anche per la ricerca dei latitanti mafiosi…Ogni tanto ne viene arrestato uno, che magari viveva in una splendida latitanza da chissà quanti anni.

Mi si dirà che quello di Igor è un fatto straordinario e che una simile mobilitazione non è possibile mantenerla nel tempo, generalizzarla nello spazio, finalizzarla su tutta la criminalità organizzata. Lo capisco benissimo. Però…

Di fronte agli episodi più clamorosi di criminalità continuiamo a reagire su due piani. Vorremmo difenderci da soli, con la copertura totale della legge, con la facile detenzione di armi, con l’inasprimento delle pene carcerarie. Poi ci lasciamo incantare dalle rassicuranti e persino inopportune immagini di centinaia di uomini schierati alla caccia del killer e dalle rasserenanti parole del capo della polizia che garantisce il massimo sforzo. C’è già una forte contraddizione tra i due atteggiamenti.

Se poi allarghiamo la visuale ci accorgiamo che probabilmente stiamo solo focalizzando e ingigantendo un piccolo particolare, facendone un caso emblematico e spettacolare di guerra tra la società e un uomo, che abbiamo eletto ad “affascinante” prototipo di tutti i delinquenti, rischiando tra l’altro di provocare ulteriori vittime in un clima di caccia al mostro di Budrio. Abbiamo bisogno di mostri: servono a materializzare ed esorcizzare le nostre paure.

Con tutto il rispetto possibile per le vittime di Igor e la solidarietà per i loro famigliari, non abbiamo il senso delle dimensioni sociali: il particolare lo adottiamo come generale, mentre il generale ci sfugge e pensiamo di avere sistemato così la società e la coscienza, di risolvere un problema enorme guardandolo col microscopio.

Persino la moglie di Davide Fabbri, il barista ucciso durante il tentativo di rapina, intervistata dopo avere coraggiosamente riaperto il bar, ha manifestato un ammirevole pudore rispetto alla bagarre mediatica scatenatasi intorno all’avvenimento, ma soprattutto un correttissimo distacco dalla mastodontica operazione di polizia avviata per catturare il criminale in fuga. Ha detto quasi con fastidio un “basta” molto eloquente, lasciando intendere di non sentirsi affatto risarcita dalla mobilitazione, ritenendola una semplice cautela per evitare altri episodi ad opera dello stesso soggetto e rinviando giustamente il discorso alla effettiva prevenzione del fenomeno criminalità.

La politica populista, che ci viene incontro e ci liscia il pelo, risponde invece allo sciocco anelito di banalizzare e spettacolarizzare i problemi. Non ho ancora sentito invocare la pena di morte: se continuiamo così, ad incutere terrore, a martellare l’opinione pubblica, a soffiare sul fuoco, lo sbocco deleterio e fuorviante è quasi obbligato.

Le foto di guerra per fare la guerra

Quando ho visto l’ambasciatrice statunitense all’Onu Nikki Haley mostrare al Consiglio di Sicurezza le foto sulla strage in Siria con le armi chimiche ho ricordato immediatamente quella di Colin Powel allora segretario di Stato americano che mostrava   un reperto a dimostrazione della presenza di armi atomiche in Iraq. Allora fu l’inizio di una guerra inutile volta ad abbattere il regime di Sadam Hussein, oggi potrebbe essere l’avvisaglia della virata bellicista   contro il regime di Assad nell’ambito della guerra contro l’Isis.

A volte, nella storia passata e recente, sono state adottate decisioni epocali e drammatiche sulla scorta di elementi falsi (guerra all’Iraq), di ricostruzioni romanzate, di finte battaglie di principio (guerra alla Libia), di menzogne spudorate sciorinate per catturare consenso all’interno del proprio Stato, di questioni democratiche messe in campo per coprire sporchi interessi speculativi. Non dimenticherò mai appunto l’impudenza con cui fu preso in giro il Consiglio di sicurezza dell’Onu con autentiche “patacche spionistiche”: ne nacque una guerra in Iraq con migliaia e migliaia di morti le cui conseguenze stiamo ancora pagando e probabilmente pagheremo per non so quanto tempo.

E che dire del Presidente francese Sarkozy che promosse una guerra, spalleggiato dai soliti guerrafondai inglesi, quella contro Gheddafi, non perché questi fosse un dittatore sanguinario e feroce, non perché la Libia meritasse finalmente un po’ di democrazia, ma perché bisognava puntare su una forte iniziativa internazionale per ricuperare il consenso a livello nazionale: oltretutto non gli bastò nemmeno ad essere confermato presidente.

Si dirà che questa volta l’hanno fatta grossa, che ci sono le prove, che non si può sorvolare, che il sangue dei giusti grida vendetta, che va dato un segnale forte di reazione.

Purtroppo le guerre hanno sempre alla propria base pretesti plausibili, anche piuttosto convincenti, che poi si sgretolano miseramente nel divenire della storia. Talora possono dare persino l’illusione di essere giuste, di poter ripristinare un ordine clamorosamente violato. Ci si continua a cascare: la fretta opportunistica nel voler abbattere certe dittature, magari sostenute e puntellate in precedenza, senza che esistano i presupposti per un cambio effettivo di regime a livello democratico; la sbrigativa vendetta contro violazioni delle regole umanitarie e del diritto internazionale senza considerare le conseguenti reazioni a catena. Sono le più praticate motivazioni a supporto di operazioni belliche che non portano mai a nulla di positivo.

I missili statunitensi contro la base siriana servono solo a Donald Trump per battere un colpo, ma non servono certo a risolvere i problemi del Medio Oriente e del terrorismo islamico. Posso capire una epidermica reazione di consenso: un “basta” gridato a suon di bombe. Ma non è un basta, è solo l’inizio di una serie interminabile di ulteriori brutture e tragedie. Le foto di quei bambini martoriati dal gas nervino in Siria non ci chiedono assurde vendette o ulteriori guerre, ci chiedono solo di tornare ad essere uomini e non di continuare a comportarci da bestie feroci. L’unica arma da usare è quella della diplomazia, non in seconda battuta, ma come prima ed assoluta scelta. Anziché sfruttare le facili motivazioni per fare la guerra (ce ne sono a iosa), bisogna pazientare alla ricerca delle difficili opportunità di pace.

 

 

La strana mappa del terrorismo islamico

Il terrorismo islamico sembra colpire a casaccio, senza una strategia, sembra sparare nel mucchio: fino ad ora ha colpito, seppure in modo più o meno drammatico ed eclatante, diversi Stati europei, Spagna, Gran Bretagna, Francia, Germania, Belgio, Svezia. L’Italia manca all’appello. In molti si chiedono come mai. Si tratta di una lacuna jihadista, di una distrazione terrorista, di un puro caso o di una scelta dell’Isis e dei suoi adepti?

Le ipotesi possono essere tante e provo ad elencarle in rapida successione, sperando di non “gufare” cabalisticamente e di non essere smentito prossimamente.

La prima ragione potrebbe riguardare un più efficiente controllo a livello poliziesco e dei servizi di sicurezza. Si è fatta strada infatti l’idea che l’Italia abbia in tal senso un apparato meglio organizzato, più capillare e più consistente rispetto ai partner europei. Noi siamo soliti sottovalutarci ed autoscreditarci, ma, in questo caso, dobbiamo pur ammettere di non essere secondi a nessuno, anzi… Non credo tuttavia   basti a giustificare una certa esenzione dal terrorismo.

Forse in Italia, tutto sommato, c’è più accoglienza, più integrazione e conseguentemente meno radicalizzazione degli islamici? Anche questo potrebbe essere un motivo valido da considerare: guardando spannometricamente la mappa del terrore in Europa, non sembra tuttavia individuabile una scala di intensità degli attentati collegabile al diverso livello e modello di integrazione degli immigrati.

Potrebbe trattarsi invece di una scelta tattica riconducibile al fatto che il nostro Paese sia molto esposto ai flussi migratori e quindi non convenga al jihadismo irritarlo col rischio di provocare innalzamento di “muri” e scelte politiche di sbarramento: una sorta di tolleranza verso la porta di ingresso da cui passano le correnti migratorie all’interno delle quali direttamente o indirettamente pesca la centrale del terrore a livello di foreign fighter di andata e di ritorno. A ben pensarci anche la Grecia, che può essere geograficamente assimilata   a questo tipo di discorso, non è stata significativamente colpita (almeno che io ricordi).

Oltre la geografia anche la storia potrebbe giustificare in parte questo esonero italiano: l’Italia nella sua politica passata e presente non è stata particolarmente aggressiva verso il mondo arabo (anzi…), non ha rappresentato una punta di diamante nella guerra all’Islam, non si è distinta a sostegno di operazioni belliche impegnative. Non si tratta certo di una medaglia al valor islamico, ma potrebbe collocarci ad un livello di rischio attentati inferiore rispetto ad altri Paesi ben più intolleranti e bellicisti.

In questi ultimi tempi ho sentito una fantasiosa ma interessante motivazione da bar sport, sulla quale confesso di avere esitato prima di accantonarla come la solita sparata chiacchierona. Qualcuno sostiene che ci difenda paradossalmente la mafia con i suoi infiniti tentacoli che arriverebbero anche alle centrali del terrorismo islamico. Che la mafia possa concludere affari con gli scafisti è molto probabile, che possa intravedere un business nella gestione dell’accoglienza e dell’integrazione degli immigrati pure, che ne approfitti per arruolare manovalanza a livello di sfruttamento del lavoro e financo di delinquenza da utilizzare non mi stupirei affatto, ma che possa addirittura incidere sulla strategia globale del terrorismo islamico candidandosi ad esserne una quinta colonna nel nostro Paese francamente mi sembra un po’ eccessivo.

Una cosa è certa, non possiamo illuderci di essere fuori dal mirino e di poter sbrigare all’italiana questa complessa pratica. Mi riferisco all’immigrazione ed alla lotta al terrorismo, due discorsi collegabili e collegati, non per l’assurda e razzistica equivalenza migrante=terrorista, ma nel senso di accogliere e gestire razionalmente le migrazioni a valle, di rimuovere a monte le cause del fenomeno migratorio e di evitare quindi un possibile brodo di coltura per il jihadismo islamico.

È una delle tante sfide, forse la più difficile, che il mondo pone all’Europa e che l’Europa fatica ad affrontare in modo coordinato ed integrato. Un muro di qua, un bel gesto di là, una sparata razzista qui, una iniziativa aperturista lì. Tra il macabro gioco del rimpallo degli immigrati e l’inconcludente spezzatino dei servizi di sicurezza. In questo modo non si va da nessuna parte.

Multiculturalismo non vuol dire multiviolenza

Si fa presto a dire multiculturalismo. Più difficile è accettarlo concretamente. Ancor più arduo coniugarlo con i principi assodati del nostro vivere civile. Il problema emerge quando si scoprono gli ostacoli che la nostra società frappone all’integrazione degli immigrati, ma anche quando gli immigrati non si impegnano nel difficile cammino dell’integrazione e si chiudono in un atteggiamento puramente difensivo al limite del rifiuto.

Si verificano episodi che evidenziano in modo eclatante il corto circuito nei rapporti interculturali: mi riferisco agli atteggiamenti duri, violenti o ai limiti della violenza, di alcune famiglie che vogliono imporre ai loro figli i costumi dell’islamismo, nonostante queste giovani (si tratta infatti soprattutto di ragazze) intendano adottare lo stile di vita occidentale.

Da una parte c’è il diritto dei genitori a educare i figli secondo la loro cultura, dall’altra c’è il diritto dei figli ad integrarsi pienamente nella nuova società: in mezzo, spesso, episodi di maltrattamenti e violenze volti a frenare la spontanea adesione “all’affascinante” proposta occidentale.

A volte si rende necessario l’intervento di polizia, servizi sociali e magistratura per sottrarre i minori da queste situazioni conflittuali e violente: si rischia di lacerare le famiglie, di creare ulteriori traumi, di recidere legami parentali, di isolare le persone dal contesto culturale originario, di sottovalutare i valori trasmessi all’interno della famiglia, ma nello stesso tempo bisogna difendere l’incolumità di queste ragazze, tutelarle da atti di maltrattamento e da un clima educativo oppressivo e violento.

Credo non esistano ricette facili e generalizzabili: ogni caso va seriamente affrontato nella sua particolarità e specificità. Mi sembra tuttavia che si possa cercare un punto critico al di là del quale occorre intervenire: la violenza. Quando la difesa dei valori scantona nella imposizione degli stessi, quando la proposta educativa diventa una prigione, quando i rapporti famigliari si trasformano in dure imposizioni, quando la persuasione diventa sanzione violenta, quando la cultura si trasforma in una camera di tortura, quando la dignità della donna viene calpestata, bisogna intervenire con equilibrio e tatto, ma senza eccessivi riguardi.

Gli islamici devono rendere compatibile l’osservanza della loro religione con i principi fondamentali del vivere in una società occidentale che li ospita e che intende integrarli (seppure in mezzo a mille contraddizioni e difficoltà di vario genere), così come da parte nostra non possiamo pretendere che gli islamici abbandonino la loro storia per tuffarsi acriticamente nella nostra.

L’integrazione è un cammino arduo da ambo le parti: non sono ammesse le scorciatoie del radicalismo. Non esiste altra soluzione rispetto al dialogo.

La corrispondenza biunivoca dei macellai

Mio padre era estraneo alla mentalità militare, ne rifiutava la rigida disciplina, era allergico a tutte le divise, non sopportava le sfilate, le parate etc., era visceralmente contrario ai conflitti armati. Quando capitava di ascoltare qualche notizia riguardante provocazioni fra nazioni, incidenti diplomatici, contrasti internazionali era solito commentare: “S’ag fis Mussolini, al faris n’a guera subita. Al cominciaris subit a bombardar”.

In Siria è successo proprio così. Alla strage effettuata con armi chimiche dal regime di Assad, Donald Trump ha pensato bene di rispondere inviando una sessantina di missili contro le postazioni militari dell’esercito siriano, sotto l’occhio attonito di Vladimir Putin e con l’approvazione di parecchi Stati, tra cui l’Italia. Per fare giustizia ai bambini siriani massacrati col gas? No, per battere un colpo a livello internazionale e riprendersi il ruolo di superpotenza, per risalire a livello interno la china di un disastroso avvio della sua presidenza, per smentire chi lo dava in ignobile connubio con la Russia, per avvertire la Cina e per recuperare i rapporti in crisi con la UE.

Per dirla fuori dai denti abbiamo messo le sorti dell’umanità in mano a due populisti macellai patentati. Uno viene dalla scuola comunista dell’Est, Vladimir Putin, un freddo e sanguinario capo dei servizi segreti dell’URSS, che non so quanti cadaveri abbia sulla coscienza e quanti crimini contro l’umanità abbia commesso nel passato remoto e prossimo e nel presente.

L’altro viene dalla scuola capitalistica coniugata con tutti i peggiori “ismi” della storia, dal razzismo al protezionismo, dal nazionalismo al populismo. Si chiama Donald Trump: è un folle tycoon prestato alla politica.

Sono perfettamente in sintonia, forse in questa fase stanno facendo finta di litigare, perché i loro subdoli accordi (espressi o taciti) stavano venendo un po’ troppo a galla e allora meglio ripiegare sullo schema tipico dei “ladri di Pisa”.

Qualcuno pensava (forse si sta ricredendo in fretta e furia) addirittura che dalla combinazione di questi due squallidi personaggi potesse arrivare una ventata di novità: bisogna avere molta fantasia… Il terrorismo, tutto sommato è funzionale alle loro scorribande internazionali. Se per combattere i macellai del terrorismo islamico abbiamo bisogno di questi due super-macellai attorno ai quali ronzano i peggiori capi di stato del mondo, stiamo freschi. È un po’ come combattere la delinquenza facendo patti con la mafia. La storia qualcosa ci dice al riguardo: gli Usa non si fecero scrupolo di farsi aiutare dalla mafia per sconfiggere il nazi-fascismo annidato nel meridione d’Italia. Oggi ci si fa aiutare da Assad, Erdogan e compagnia bella.

Mi si dirà: è la guerra bellezza. Lo so e proprio per questo torno agli insegnamenti paterni: mio padre ogni volta che sentiva notizie sullo scoppio di qualche focolaio di guerra reagiva auspicando una obiezione di coscienza totalizzante: «Mo s’ pól där ch’a gh’sia ancòrra quälchidón ch’a pärla äd fär dil guèri?»

 

Il caotico traffico fra politica e magistratura

Il nuovo presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Eugenio Albamonte, ha rilasciato immediatamente dopo la nomina un’intervista. Mi aspettavo affrontasse innanzitutto e soprattutto i problemi inerenti il funzionamento della giustizia, invece, forse fuorviato dall’intervistatrice (Liana Milella de la Repubblica), forse spinto dai forti richiami all’attualità, ha puntato sul rapporto tra politica e magistratura o meglio sulla possibilità dei giudici di accedere alle cariche politiche (andata) e sulle condizioni per poter rientrare dopo aver fatto politica (ritorno).

Sinceramente non capisco questa smania dei giudici ad impegnarsi direttamente in politica: la loro funzione e la loro carriera, checché se ne dica, li mettono in una condizione difficile rispetto alla politica attiva. Vale anche per un magistrato il diritto costituzionale all’elettorato passivo, ma occorre rendere tale diritto compatibile con la separazione dei poteri e con l’autonomia di giudizio da garantire ai cittadini.

Il viavai tra procure della repubblica, aule giudiziarie e aule parlamentari non mi convince. Ho un concetto molto alto di magistrato, lo colloco al di sopra delle parti e quindi desidererei fosse totalmente ed inequivocabilmente distaccato rispetto alle vicende politiche, che invece sono di parte, anche se non necessariamente di partito.

Mettiamo pure vincoli e condizioni sia all’ingresso che all’uscita, ma rimarrà pur sempre il dubbio che le due esperienze possano intersecarsi e condizionarsi a vicenda. La Corte di Strasburgo, alcuni anni fa, ricorda Albamonte, ha detto che il pregresso incarico parlamentare non costituisce causa di ricusazione e non crea di per sé un pregiudizio di parzialità sulla decisione presa dal giudice, dal momento che la sua terzietà può essere valutata leggendo le motivazioni della sentenza. Certo, ma per arrivare a sentenza c’è un processo e anche durante questo bisogna che il giudice sia terzo, e che la sua terzietà sia trasparente fin dall’inizio, non solo quindi dimostrabile a posteriori, ma indiscutibile a priori.

I paletti di legge serviranno, ma resto del parere che serva soprattutto una deontologia professionale rassicurante: i giudici prima di sentirsi intoccabili devono dimostrare di esserlo, prima di pensare ai propri diritti si preoccupino di quelli dei giudicandi. Il loro potere è grande. Hanno, totalmente o parzialmente, in mano il destino delle persone. Quando mi seggo davanti ad uno di essi per essere giudicato, devo potermi sentire tranquillo sulla sua autonomia e sulla sua obiettività.

Ci sono delle professioni che mal si conciliano con la politica. Per i giudici come per i medici la commistione non è il massimo. Non è un caso che per queste due funzioni sia previsto anche un abito esteriore ad hoc, camice o toga che sia, a significare la totale adesione esistenziale alla missione vera e propria.

Di fronte a tanta responsabilità l’Associazione dei magistrati faccia quindi ben altre battaglie: per avere mezzi e risorse migliori, per avere una legislazione di base più chiara e precisa possibile e norme procedurali efficaci e snelle, per essere preservati da ogni e qualsiasi pressione e/o intromissione, per contare su trattamenti economici e normativi equi e tali da rappresentare una difesa contro le tentazioni sempre possibili. I giudici non sono isole, ma tutto quanto sa di corporativo e di politico mi sembra superfluo se non fuorviante. La politica lasciamola ai politici… È meglio per tutti.

L’imboscata degli imboscati

La vicenda della nomina del presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato assume per me un rilievo tutto particolare, considerata la grande amicizia e prima ancora la grande stima che nutro nei confronti del senatore Giorgio Pagliari, candidato dal PD a ricoprire questo incarico e purtroppo vittima di una vera e propria imboscata parlamentare.

In Parlamento, come nella società, la persona non vale niente, non conta nulla l’interesse generale, prevalgono su tutto gli interessi di parte ed in base a quelli ci si orienta e ci si muove. La candidatura era di alto spessore e tale da garantire correttezza in un dibattito politico in cui l’importante è gridare offese a vanvera, in una situazione politica delicata che viene affrontata col garbo dell’elefante nel negozio di cristalleria.

Questa Commissione dovrà occuparsi della riforma elettorale: sono sicuro che Giorgio Pagliari l’avrebbe presieduta con competenza, professionalità e rigore, senza prevaricazioni, senza forzature, nell’assoluto rispetto dei colleghi appartenenti a tutte le forze politiche. Non sarebbe andato a fare il portavoce di Matteo Renzi pur essendo espressione del Partito Democratico, non avrebbe forzato la mano su un sistema elettorale pur aderendo alle proposte del suo partito, avrebbe tenuto certamente conto di tutte le sensibilità ed opzioni di maggioranza e di opposizione, operandone, nei limiti del possibile e dei suoi poteri, una leale sintesi, quale utile base per il lavoro parlamentare d’aula sulla materia.

Questo voto, a dir poco anomalo, mette in obiettiva difficoltà, non tanto il Governo, ma il Parlamento che, in questo modo, ha lanciato il deleterio segnale di preferire subdole trasversalità a leali confronti, opachi accordi a franche discussioni. Continuino così e la distanza coi cittadini diventerà sempre più incolmabile.

Innanzitutto stupisce (?) che in questa logica cadano, fra gli altri, anche coloro che si ergono a portatori di una diversità nel vivere le Istituzioni. Mi riferisco al M5S. Perché non hanno avuto il coraggio di esternare il loro intendimento ed hanno preferito rifugiarsi nel voto segreto,   operando un attacco politico che nulla ha a che vedere con l’Istituzione di cui si doveva eleggere il presidente? Se proprio volevano distinguersi, come hanno fatto diverse volte, avevano altre possibilità: il non votare, il votare scheda bianca, il votare un loro candidato. Invece hanno fatto convergere tatticamente i loro voti su un outsider di maggioranza, solo ed esclusivamente per creare confusione o, ancor peggio, per sostenere chi promette loro un piatto di lenticchie sulla legge elettorale, per la quale fino ad ora non hanno voluto saperne di dialogare seriamente con nessuno.

Vengo brevemente al comportamento parlamentare del nuovo Movimento dei Democratici Progressisti, i fuorusciti dal PD, che avevano lasciato intendere un leale appoggio al governo Gentiloni: su 934 voti espressi da quando è nato questo nuovo raggruppamento alla Camera, in 329 casi i Demoprogressisti hanno votato contro il governo (dati forniti dal capogruppo PD Rosato e non smentiti). Sorgono seri dubbi sul loro comportamento in generale e anche su quello tenuto nella vicenda in questione.

Ed eccomi ad Area popolare, il gruppo di Alfano: da un po’ di tempo non nasconde una certa insofferenza verso le linee dell’alleato PD e del governo di cui fa parte. Lascia emergere o subisce una candidatura alternativa a quella di maggioranza e su quella viene ottenuto il voto delle minoranze; Alfano, piccolo leader (?) di un piccolo ondeggiante partito, messo alle strette, farfuglia qualche scusa, prova a rivoltare la frittata che gli brucia in mano, punta sul ravvedimento operoso, ma Salvatore Torrisi, il presidente eletto, sembra non volerne sapere di farsi da parte a costo di espulsione (tanto, cambiare camicia, per i neo-centristi, è un divertimento).

Seguo la politica da quando avevo quattordici anni, non sono un ingenuo e nemmeno un “bacchettone”, ne ho viste e sentite di tutti i colori. Proprio per questo non mi si vengano a raccontare balle che stanno in poco posto. Non c’è bisogno di fare della dietrologia per capire cosa è successo: una “porcata” in vista della legge elettorale, laddove porcata chiama porcata. Non è un caso che il leghista Roberto Calderoli – lui di porcate se ne intende – lo abbia chiaramente spiegato ed abbia esultato, intravedendo la possibilità di votare una legge, che non risponda ai principi di rappresentatività, governabilità e stabilità tanto sbandierati, ma allo scopo ben preciso di votare in fretta dando un colpo a Renzi. Continua il disegno referendario: tutti uniti contro Renzi.

Uniti sì, ma contro la DC, si urlava nelle piazze degli anni settanta. Uniti sì, contro Renzi, si sussurra in Parlamento. Ne ha fatto le spese il senatore Giorgio Pagliari, troppo bravo per essere votato. Lo ammette, direttamente e indirettamente, perfino il sedicente playmaker dell’imboscata, Roberto Calderoli. D’altra parte non era già successo a Giorgio Pagliari per la candidatura a sindaco di Parma? Guarda caso allora, nel 2012, artefici di quella inqualificabile manovra furono Bersani e c. Sappiamo i risultati che ottennero.

La storia si ripete, non proprio con identiche manifestazioni e identici protagonisti, ma la morale della favola è sempre la stessa. Allora fu consegnata Parma a un grillino, che oggi abiura (con qualche ragione) alla sua fede. Di questi tempi si finirà col dare il governo in mano a un grillino per portarci alla deriva in Italia, in Europa e nel mondo. Grazie di tutto!

La mafia non è una malattia ereditaria

Una giovane neo-laureata in economia si è suicidata. Non per la disperazione di non trovare lavoro, non per una grossa delusione sentimentale, non sotto l’effetto di stupefacenti. Sembra – il condizionale è oltremodo d’obbligo trattandosi di scandagliare il profondo dell’animo di una persona, laddove si può concepire una simile tragica scelta di non vita – per il vuoto sociale creatosi intorno a lei in conseguenza del fatto di avere candidamente ammesso di essere la nipote e la figlia di noti appartenenti alla ‘ndrangheta calabrese.

Il procuratore capo della Dda ha dichiarato: «È un episodio gravissimo che deve toccare la coscienza di tutti. Siamo tutti responsabili di questa tragedia. Abbiamo perso una ragazza che si è fatta una strada nella vita scolastica per la propria onestà, perché non abbiamo avuto la sensibilità di comprendere che vi sono mutamenti a cui tutti devono concorrere. Se noi perdiamo queste occasione per recuperare la libertà, l’onestà, l’etica, non c’è speranza per il futuro».

Stando alle dichiarazioni degli insegnanti, dei suoi colleghi ed al suo comportamento in ambito universitario, la situazione famigliare non avrebbe pesato più di tanto sui rapporti sociali e allora si tratterebbe solo di un estremo disagio psicologico a livello etico, una sorta di rifiuto della propria esistenza così come poteva emergere dai suoi legami parentali: in parole povere si sarebbe suicidata per vergogna.

Un suicidio – lo dico anche per triste esperienza – lascia in chi rimane una insondabile eco angosciosa, una sorta di rimorso per non averne capito per tempo le ragioni e per non aver avuto la sensibilità e il coraggio di affrontarle assieme alla persona schiacciata sotto il peso della disperazione. Il dramma è questo, non quello di disquisire sulla moralità della scelta e sull’astratto principio del rispetto per la vita.

Quando una giovane di 24 anni prende una simile decisione, qualunque sia la causa che l’ha spinta, pone inquietanti interrogativi a tutti. Vorrei però riflettere un attimo sull’ipotesi socialmente più delicata, vale a dire quella che sembra risalire agli imbarazzanti legami famigliari con la mafia.

Se questa persona è rimasta schiacciata sotto il peso di questo marchio, magari dopo averne verificato l’incancellabilità, ci chiede di non fare mai giustizia sommaria o semplicistiche generalizzazioni: ogni persona vale per quello che è e non per la sua genealogia e va aiutata a liberarsi di certe brutte eredità che la possono condizionare.

Mi sforzo di capire il dramma interiore di un figlio o di una figlia di un mafioso, che non aderisce alla scelta criminale del padre, anzi la condanna apertamente, ma nello stesso tempo non può rinnegare il legame sentimentale col proprio padre: più che all’isolamento sociale penso a questo devastante conflitto interiore quale possibile causa del suicidio della giovane calabrese. Certo, avrebbe avuto bisogno di essere capita ed aiutata e invece probabilmente si è vista circondata dal sospetto e dalla freddezza, se non addirittura dalla tacita condanna.

La seconda riflessione mi porta ad annoverare tra le vittime della criminalità organizzata anche i famigliari coinvolti loro malgrado in queste storie: si può essere vittima della mafia anche in questo senso. Dobbiamo abituarci ad inserirli nel lungo elenco e tra i primi auspicabili protagonisti del riscatto culturale e sociale dal fenomeno mafioso.

Un ultima parola di elogio per il magistrato che sta seguendo con tanta attenzione e sensibilità l’inchiesta: sta facendo onore alla categoria, gliene do atto molto volentieri, nonostante i dubbi e le perplessità su certi atteggiamenti della magistratura.