Guardando le immagini della caccia al bandito Igor, responsabile di crimini orrendi e in disperata ed estrema fuga, mi prende una grande pena per le vittime che ha seminato lungo il suo cammino, assieme a un incontenibile scetticismo per la romanzesca sfida che è stata ingaggiata contro di lui, per il paradossale dispendio di energie e di risorse in questa caccia all’uomo, per l’illusoria consolazione conseguente all’enorme spiegamento di forze impiegate, per la clamorosa ed enfatica dimostrazione di presenza dello Stato.
Da una parte colgo tutta la necessità di assicurare alla giustizia un orrendo criminale, dall’altra vedo l’esagerata mobilitazione per una “piccola” emergenza di ordine pubblico e faccio una riflessione estremamente provocatoria: se tutto questo impegno fosse messo in campo anche per la ricerca dei latitanti mafiosi…Ogni tanto ne viene arrestato uno, che magari viveva in una splendida latitanza da chissà quanti anni.
Mi si dirà che quello di Igor è un fatto straordinario e che una simile mobilitazione non è possibile mantenerla nel tempo, generalizzarla nello spazio, finalizzarla su tutta la criminalità organizzata. Lo capisco benissimo. Però…
Di fronte agli episodi più clamorosi di criminalità continuiamo a reagire su due piani. Vorremmo difenderci da soli, con la copertura totale della legge, con la facile detenzione di armi, con l’inasprimento delle pene carcerarie. Poi ci lasciamo incantare dalle rassicuranti e persino inopportune immagini di centinaia di uomini schierati alla caccia del killer e dalle rasserenanti parole del capo della polizia che garantisce il massimo sforzo. C’è già una forte contraddizione tra i due atteggiamenti.
Se poi allarghiamo la visuale ci accorgiamo che probabilmente stiamo solo focalizzando e ingigantendo un piccolo particolare, facendone un caso emblematico e spettacolare di guerra tra la società e un uomo, che abbiamo eletto ad “affascinante” prototipo di tutti i delinquenti, rischiando tra l’altro di provocare ulteriori vittime in un clima di caccia al mostro di Budrio. Abbiamo bisogno di mostri: servono a materializzare ed esorcizzare le nostre paure.
Con tutto il rispetto possibile per le vittime di Igor e la solidarietà per i loro famigliari, non abbiamo il senso delle dimensioni sociali: il particolare lo adottiamo come generale, mentre il generale ci sfugge e pensiamo di avere sistemato così la società e la coscienza, di risolvere un problema enorme guardandolo col microscopio.
Persino la moglie di Davide Fabbri, il barista ucciso durante il tentativo di rapina, intervistata dopo avere coraggiosamente riaperto il bar, ha manifestato un ammirevole pudore rispetto alla bagarre mediatica scatenatasi intorno all’avvenimento, ma soprattutto un correttissimo distacco dalla mastodontica operazione di polizia avviata per catturare il criminale in fuga. Ha detto quasi con fastidio un “basta” molto eloquente, lasciando intendere di non sentirsi affatto risarcita dalla mobilitazione, ritenendola una semplice cautela per evitare altri episodi ad opera dello stesso soggetto e rinviando giustamente il discorso alla effettiva prevenzione del fenomeno criminalità.
La politica populista, che ci viene incontro e ci liscia il pelo, risponde invece allo sciocco anelito di banalizzare e spettacolarizzare i problemi. Non ho ancora sentito invocare la pena di morte: se continuiamo così, ad incutere terrore, a martellare l’opinione pubblica, a soffiare sul fuoco, lo sbocco deleterio e fuorviante è quasi obbligato.