Le scadute ricette ideologiche

Come noto, le ricadute sono ancor peggio della malattia originaria e spesso ci colgono quando meno le aspettiamo, pensando di essere definitivamente guariti. Non so se l’ideologismo datato sia stato una malattia che ha colpito la politica. Certamente ne ha condizionato la concreta efficacia, deviandola verso le astratte questioni di principio e imprigionandola in schemi teorici.

Il muro di Berlino, che materializzava lo scontro idelogico tra capitalismo e marxismo o meglio tra occidente liberale e oriente comunista si pensava fosse caduto e il suo crollo   avesse rappresentato la fine della sterile contrapposizione teorica per riportare la politica al confronto pragmatico sui programmi.

Ebbi subito all’epoca il timore che assieme alle ideologie se ne andassero anche le idee, che si corresse il rischio di buttare assieme all’acqua sporca del manicheismo ideologico anche il bambino valoriale.

Ricordo una stupenda vignetta di Forattini che dalle due parti del muro crollato metteva, se non erro, l’entusiasmo degli orientali finalmente liberi dalle catene comuniste e il dramma della tossicodipendenza degli occidentali con le siringhe infilate nel braccio. Dalla padella del comunismo alla brace del capitalismo.

Nel frequente dialogo con un carissimo amico comunista scambiavo l’ansia di ritrovarsi alle prese con una politica bottegaia, dove si avrebbe finito col scegliere il miglior cibo prescindendo dalla credibilità dell’offerente, ma soprattutto dal valore nutritivo del bene in vendita.

Il fatto è che oltre il danno di avere precipitato la politica nel gorgo affaristico, in senso proprio e figurato,   ci ritroviamo anche fra i piedi i devianti rigurgiti ideologici, che vogliono riportarci al secolo scorso, lasciandoci intravedere i fantasmi delle dottrine superate, come sta avvenendo a Busseto e dintorni con i fantasmi di Giuseppe Verdi.

In questi giorni sono ben tre le questioni che hanno offerto e offrono l’occasione per reintrodurre alla grande lo scontro ideologico: l’abolizione dei voucher, il Daspo urbano e la nomina dei manager di Stato.

La CGIL si è presa la grave responsabilità di equivocare sul recupero del proprio ruolo invadendo brutalmente il campo legislativo e governativo e di reintrodurre nel discorso del mercato del lavoro elementi di vera e propria contrapposizione ideologica. I voucher sono diventati il simbolo dello sfruttamento e della precarizzazione   del lavoro, scatenando una furia iconoclasta e spaccando il Paese con la richiesta di un referendum abrogativo di sapore pansindacale. Uno strumento, utilizzabile per impostare alla luce del sole e legalizzare i piccoli rapporti di lavoro, impossibili da inquadrare nelle fattispecie canoniche della contrattualistica codificata e burocratizzata, viene combattuto ed esorcizzato come fosse uno strumento di tortura a danno dei lavoratori saltuari e precari e soprattutto un’occasione per affamare il popolo. Tutto giustificato demagogicamente dall’abuso che di tale strumento si sarebbe fatto e si farebbe per coprire evasione salariale, contributiva e fiscale. Un’opportunità per far emergere il lavoro nero diventa occasione per ributtare nel nero i rapporti regolari. Queste le motivazioni della guerra dichiarata ai voucher. Ogni e qualsiasi strumento, anche il più neutro,   nelle mani dell’uomo si presta ad essere abusato: vale per i farmaci, per il cibo, per il danaro, per gli abiti, per ogni e qualsiasi cosa.

Mio padre, persona costituzionalmente anti-ideologica, era capace di sdrammatizzare anche le più gravi situazioni, aveva l’abilità dialettica di ridurre le questioni ai minimi termini, non per evitarle, ma per affrontarle in modo pacato e realistico. Di fronte alle reazioni esagerate e catastrofiste metteva in campo una curiosa similitudine: «Se a vón ag va ‘d travèrs un gran ‘d riz, an magnol pu al riz par tutta la vitta? No, al sercarà ‘d stär pu atenti…». Si trattava proprio di stare più attenti, di controllare meglio, di regolamentare con maggior precisione, ma certo non era e non è il caso di farne una guerra ideologica. Oltretutto adesso tutta la colpa ricade sul governo, perché di fronte a chi spingeva a forza la porta, ha avuto l’idea di aprirla improvvisamente depotenziando, forse nel peggiore dei modi, la carica dei distruttori: anche il governo infatti ha finito con l’agire indirettamente sotto il condizionamento ideologico, preferendo sgombrare il campo dalla questione piuttosto che affrontarlo, col rischio di spaccare il Paese su una questione di politica del lavoro rinviata a data da destinarsi.

Ma non ci sono solo i voucher. Vediamo il cosiddetto Daspo urbano. Da tempo è in atto, anche all’interno della sinistra, la discussione sulla necessità di garantire sicurezza ai cittadini, non lasciando ai populisti di professione questo tema così delicato e sentito dalla gente. Ebbene, non appena un ministro, che oltretutto viene da una formazione culturale e politica di sinistra, tenta, di concerto con i comuni, di regolamentare la vita urbana e di arginare, peraltro in modo soft (sanzioni pecuniarie per chi si rende protagonista di episodi di degrado urbano, ordinanze dei sindaci con riferimento alla vendita di alcolici e alle situazioni di grave incuria al territorio, interventi a difesa dell’ordine pubblico in occasione di cortei e manifestazioni) writers, mendicanti, ubriachi, ambulanti non autorizzati, parcheggiatori abusivi, scoppia un finimondo di polemiche sulla presunta criminalizzazione degli emarginati, sullo spostamento dei problemi dal centro alle periferie, sul solito benaltrismo sociale, etc.

Siamo ancora nel campo puramente ideologico. Ha un bel dire il ministro Minniti che non si tratta di legge di destra: lo stanno mettendo in croce, perché ha avuto l’ardire di provare a risolvere qualche problema a livello di civile convivenza. «È uno strumento del tutto inefficace perché sposta il problema senza alcuna ambizione di risolverlo e soprattutto trasforma la guerra alla povertà e alla marginalità in una guerra contro i poveri e i marginali. È ipocrita, razzista e cattivo: penso abbia aspetti incostituzionali, prevedo un ricorso alla Corte suprema e noi faremo una battaglia politica durissima contro questa abdicazione definitiva della cultura di sinistra verso quella di destra», così il commento al decreto da parte del segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni. Pura ideologia, inconcludente e datata.

Arriviamo al punto tre: la nomina da parte del Governo dei Manager di Stato. Apriti cielo! Il blog di Beppe Grillo si scatena: «Renzi si sta dedicando, senza aver alcun titolo, a gestire le nomine e a piazzare i suoi uomini. Grave, intollerabile e pericoloso». Mi sembra normale che l’opinione di Renzi abbia influito: era Presidente del Consiglio da tre anni fino a tre mesi or sono e questa partita l’aveva certamente istruita da tempo. Che non siano stati rinnovati un paio di manager per scarsa sintonia con le linee politiche del governo non mi scandalizza affatto. Si tratta di manager di Stato nominati dal governo: a chi dovrebbero rispondere? A Beppe Grillo? Agli editorialisti de la Repubblica in vena di antirenzismo a tutti i costi?

L’allora sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, chiedeva con tutta l’insistenza possibile a Enrico Mattei, Presidente Eni, di salvare “La Pignone” e il posto di lavoro dei suoi dipendenti: un dialogo diventato storicamente emblematico e culturalmente stimolante. Allora mi chiedo perché Renzi non possa chiedere all’amministratore delegato di Poste di intervenire per rilevare il risparmio gestito Pioneer da Unicredit in modo da evitare che finisca in mani francesi, di dare una aiuto per risolvere il problema Monte Paschi Siena. Erano operazioni antieconomiche? Tutto da dimostrare nel tempo a venire e nel contesto generale. Intromissioni politiche? Se non si intromette sugli Enti di Stato, cosa ci sta a fare il governo a livello economico-finanziario?

Mi sembra di essere tornato al periodo in cui il PCI faceva opposizione ideologica e generalizzata su tutto, con il piccolo particolare che almeno la sapeva fare, mentre oggi siamo a livello di penosi dilettanti della politica e di replicanti della storia strapassata. Le ideologie uscite dalla porta rientrano dalla finestra e condizionano il confronto politico riducendolo a scontro pregiudiziale. Non sarà il caso di darsi una regolata?

I sindaci usurati

Mi ha sinceramente colpito una dichiarazione del sindaco uscente di Genova, Marco Doria, raccolta da la Repubblica: «Un consigliere regionale o un parlamentare non lo cerca nessuno e prendono stipendi molto alti. Un sindaco è al centro di tutto, carico di responsabilità. Un peso che può spaventare tanti». Di rimando il cronista   si è posto la piccante domanda: un mestiere usurante per 3 mila euro al mese, ne vale la pena?

Ho già espresso in un precedente commento cosa penso del trattamento economico da riservare ai politici, ma qui viene introdotto il delicato e difficile discorso delle responsabilità.

In effetti si nota, in giro per l’Italia, una crescente riluttanza alla ricandidatura a sindaco per gli uscenti logorati da cinque anni di problemi, contrasti e polemiche, ma anche una certa confusione nelle candidature ex novo e soprattutto una progressiva loro caduta di livello qualitativo.

Croce e delizia della carica di sindaco è quella di essere a contatto piuttosto immediato con i cittadini e i loro bisogni. Viene spontanea al singolo o ai gruppi, in concomitanza con l’insorgenza di piccole e gravi questioni, l’idea di rivolgersi al sindaco: è il primo autorevole referente, che, a volte, rischia di essere anche l’unico. Pur volendo non riesce a nascondersi dietro qualcun altro; l’unica arma di difesa in suo possesso è la scarsità dei fondi, quella vale sempre e comunque, date le ristrettezze della finanza pubblica, ma non interessa ai cittadini con l’acqua alla gola.

Capisco la solitudine dei sindaci: trovano nella prefettura un interlocutore freddamente burocratico; nella Regione un’entità intermedia restia ad assumersi responsabilità, pronta a rivendicare i meriti ed a scaricare le colpe; nei parlamentari di collegio le primule rosse in tutt’altre faccende affaccendate, introvabili nei momenti top della discussione romana; nel governo centrale un’autorità lontana, impegnata sempre in questioni di più alto respiro. Mestiere difficile e ingrato quello del sindaco. Chi vuol fare politica lo sta capendo e opta per altri incarichi.

La riforma elettorale a livello comunale, da tempo varata e che, a detta di quasi tutti, funziona (personalmente ho non poche perplessità), concede al sindaco l’investitura popolare assieme a parecchi poteri, ma con il rovescio della medaglia di enormi responsabilità e rischi. Sì, perché è un attimo finire sotto inchiesta e sotto processo per abuso d’ufficio o altre simili reati in cui ci si può infilare senza accorgersene. Emblematico il caso del sindaco di Bologna sotto inchiesta per non aver interrotto l’erogazione dell’acqua ai poveracci, occupanti abusivi di case popolari fatiscenti. I giudici si dice fanno il loro mestiere: forse, a volte, farebbero meglio a cambiare mestiere.

A Genova i candidati sindaco dell’era post-Doria non si trovano. Ma Genova è perfettamente in media. A sinistra la bagarre è grande e un candidato sindaco prima che dei problemi del potenziale suo comune deve preoccuparsi degli equilibri di partito e di coalizione. I pentastellati fanno fatica a trovare candidature serie, non hanno classe dirigente, quella poca se la giocano nelle polemiche interne pro o contro Grillo, e ripiegano su personaggi usciti da comunarie burletta con numeri da cabina telefonica (purché strettamente fedeli al padrone del vapore grillino). Il centro-destra o trova il leghista di turno, che cavalca i ben noti discorsi del populismo a dimensione comunale, oppure si assenta in attesa di risolvere i tira e molla berlusconiani. Restano i funghi del civismo: molto spesso coprono operazioni di riciclaggio delle forze politiche a corto di uomini e di argomenti credibili.

Un panorama tendente allo squallido. Credo non sia prevalentemente una questione di portafoglio, anche quella ha indubbiamente la sua importanza, ma di equilibri politici e istituzionali. A parziale incoraggiamento è vero che una sindacatura in una città importante può essere il lancio per una carriera politica di più alto livello, meno probabile il contrario: la storia recente dimostra l’uno e l’altro caso scuola.

Credo che, tutto sommato, i sindaci siano gli ultimi Mohicani, i capitani coraggiosi della nave   sbattuta dalle onde nel mare tempestoso della frattura tra elettorato attivo e passivo, in poche parole le vittime della politica politicante e assente dai bisogni della gente. Non è un caso se tra di loro riescono a trovare intese che vanno oltre i partiti di appartenenza, solidarietà tra colleghi su problemi comuni, meccanismi virtuosi di rappresentanza comune verso regioni e governi.

Se i partiti non si sforzeranno di qualificare e fortificare la loro presenza sul territorio – i sindaci ne sono i facitori istituzionali – avranno una classe dirigente sempre più inadeguata da collocare in Regioni – coi governatori megalomani – che giocano a fare gli staterelli, in un Parlamento di fantasmi, in un Governo costretto a preferire i tecnici. Il tutto davanti ad un elettorato sempre più vacanziero. Poi magari alla fine tutti daranno la colpa all’Europa, che ha le spalle buone, fino ad un certo punto.

 

Chi scherza col fuoco?

Ascoltando e leggendo la notizia di un gruppo di turisti, giornalisti e guide, colpito, per fortuna solo di striscio, da una pioggia di materiale incandescente sputato dall’Etna – notizia che per certi versi assomiglia molto a quelle riguardanti sciatori investiti da slavine e valanghe, alpinisti colti dallo sgretolamento delle montagne o da drammatiche tempeste di neve – non ho potuto frenarmi ed ho immediatamente pensato: non si può scherzare col fuoco.

Purtroppo però ci sono molti tipi di fuoco e di scherzi. Ne faccio un breve elenco, non certo esaustivo, ma solo esemplificativo: si tratta di fuochi e incendi virtuali, fenomeni molto più pericolosi e meno controllabili, che finiscono però col ripercuotersi anche su coloro che non hanno alcuna intenzione di scherzare e con l’infiammare l’intera società.

Prendo spunto e mi limito all’attualità. Il vice-presidente della Camera dei Deputati, il grillino Luigi Di Maio, candidato premier in pectore (Dio ce ne scampi e liberi…), di fronte alla bocciatura, da parte del Senato, della decadenza del suo componente Augusto Minzolini, postasi all’ordine del giorno in quanto condannato a 2 anni e 6 mesi per peculato, un reato commesso quando era dipendente Rai, ha reagito con parole incendiarie rivolte ai colleghi, rei a suo dire di scambi di favori a livello castale: «Non vi lamentate se i cittadini vengono a manifestare in modo violento».

Cari amici grillini, tempo fa vi davo atto di avere intercettato, interpretato e rappresentato forme di protesta, che avrebbero potuto esplodere in modo violento e piazzaiolo; oggi le parti, a quanto pare, si sono invertite e siete voi a giustificare ed istigare il ricorso alla protesta violenta, lanciando subdoli avvertimenti, tirando sassi sul Web e nascondendo la mano, usando continuamente frasi e parole dette apposta per creare un clima di rissa, candidandovi al ruolo istituzionale, non tanto di governo, ma di fiammifero di Stato. State scherzando col fuoco:   attenti perché la storia è piena di situazioni simili, finite in veri e propri drammi sociali e politici.

Anche i parlamentari del partito democratico devono stare in campana e non giocare col fuoco del voto di coscienza. IL PD fa un po’ troppo ricorso a questo meccanismo: da una parte la libertà di voto fa onore ad una formazione politica, ma può anche diventare una fuga dalle proprie responsabilità. Nel partito democratico e dintorni si assiste ad un tira e molla vergognoso su troppi argomenti e in troppi casi. Prendiamo il discorso voucher: sembrava che Renzi avesse sconvolto il mondo del lavoro, limitandosi solo ad allargare le maglie di una rete gettata da altri. I voucher sono strumenti per regolare i lavoretti, vale a dire quei rapporti di lavoro che non rientrano, per loro caratteristiche oggettive, nelle fattispecie contrattuali classiche. Ebbene la CGIL (altro soggetto specializzato nello scherzare col fuoco) ne ha fatto una battaglia ideologica, chiedendo un referendum; molti piddini le hanno fatto da sponda e, adesso fanno i furbi dicendo che il governo, chiudendo definitivamente la partita, avrebbe “saltato il fosso andando oltre il ragionevole” (il solito Bersani: lui non ha saltato il fosso ma il fiume…) e che i voucher in certi casi potrebbero continuare a sussistere e si rammaricano perché di punto in bianco migliaia di soggetti non sapranno che pesci pigliare (a monte, dopo avere rotto i coglioni per mese e mesi su questa faccenda, si grida a chi, a valle, avrebbe esagerato con l’eliminazione dei voucher). Siamo sempre nel caso di chi getta il sasso e nasconde la mano, di chi accende un fiammifero vicino alla benzina e poi grida al fuoco se scoppia l’incendio.

È già cominciato il balletto delle coscienze in materia di biotestamento. Insomma alla fine sono forse più i voti in difformità dalle linee di partito di quelli nel rispetto delle stesse. Non invidio i capi-gruppo PD impegnati a tenere uniti questi parlamentari sguscianti da tutte le parti. Lasciamo perdere quanti si sono resi responsabili della scissione di questo partito (loro sì che se ne intendono): hanno giocato e giocano col fuoco distruttivo di una forza politica fondamentale nello scacchiere politico italiano.

La rassegna arriva ai magistrati. Devono smetterla di scherzare col fuoco del fare politica, dentro e fuori dai partiti, come se fossero degli esercizi pubblici in cui si entra e si esce con la massima libertà, candidandosi a ricoprire funzioni parlamentari per poi tornare a lavorare nelle procure e nei tribunali; andando in aspettativa per fare politica, con la possibilità di tornare indietro in ogni momento, nascondendosi dietro il dito della Costituzione che vieterebbe solo di iscriversi ad un partito, ma non di rappresentarlo in Parlamento. In poche parole brutali, non sanno dove tenere il culo. Facessero i giudici e la piantassero di “pendolare”, finendola di scherzare col fuoco dell’invasione della politica e dello screditamento della magistratura. La recente vicenda del giudizio parlamentare in dissenso da quello della magistratura, relativo ad Augusto Minzolini, è figlio soprattutto di questo casino politico-giudiziario.

Dello scherzar col fuoco dei leghisti ho già parlato in un precedente commento e non voglio ripetermi: è assurdo e colpevole incendiare le piazze e poi scandalizzarsi quando si finisce per subire degli autogol piazzaioli e violenti.

A livello internazionale voglio solo fare l’esempio della Turchia: con questo Stato-regime in troppi hanno scherzato e ora l’incendio è divampato. Troppo spago si è offerto a questo “sporca per casa” di un Erdogan e adesso potrebbe essere tardi per fare marcia indietro.

Lasciamo perdere lo scherzar col fuoco degli americani elettori di Trump: forse abbiamo raggiunto il massimo del virtuale incendio colposo e gli effetti si avranno (ci sono già) in tutto il mondo, non so per quanto tempo (sicuramente parecchio).

Basta così. Penso di avere reso l’idea di cosa voglia dire scherzare col fuoco a livello sociale e politico. I turisti dell’Etna se la sono fortunatamente cavata con leggere ferite. Il turismo della politica crea ferite talmente vaste e diffuse che non si notano, ma si sentono e si sentiranno sempre più.

 

Le dighe olandesi e i ponti scozzesi

Sul mio libro di lettura della scuola elementare vi era un raccontino di fantasia, molto semplice e retorico, ma anche molto significativo. Era ambientato in Olanda terra delle dighe. In una di essa si era creato un piccolo foro e un bambino-eroe teneva il dito dentro quel foro in attesa che arrivassero gli uomini addetti alla manutenzione per riparare il danno.

Ebbene gli olandesi in queste loro elezioni hanno tenuto il dito nel foro dell’ultradestra populista e xenofoba e per il momento la diga ha tenuto, ma devono arrivare le politiche   convincenti a riparare definitivamente i danni e mettere in sicurezza l’Europa.

Seppure con una certa fatica e con dati non esaltanti ed estremamente frammentati, la politica olandese esce da questa consultazione elettorale con un Parlamento al limite della ingovernabilità, ma saldamente contrario all’avventurismo populista.

Bisogna lavorare di fantasia, ma alla fine si trova nel panorama partitico uscito dalle elezioni olandesi un senso politico incoraggiante: un’area di centro destra piuttosto articolata, moderata, liberale ed europeista; un’area di sinistra fragile e divisa tra i laburisti in caduta libera e i verdi in forte ascesa; gli anti-tutto della destra estrema che sono il secondo partito, fuori gioco rispetto alle prospettive di governo.

Vorrei tentare un parallelismo con la situazione italiana. Vediamo in rapida sintesi l’Olanda uscita dalle urne dopo una terapia d’urto a base di aspirina per abbassare la febbre populista. Possiamo dire che l’Olanda è sfebbrata, non certo guarita.

A sinistra dominano le divisioni, anche se il segnale olandese segna una preferenza verso una impostazione non ideologica, moderna, aperta, giovane e multiculturale. “Credo che d’immigrati ne vadano accolti e aiutati molti di più di quanto facciamo noi. Sono soltanto loro che possono diventare quella linfa vitale in grado di salvare una società come la nostra che è sempre più stanca e sempre più vecchia”, così dice una giovane studentessa sostenitrice del partito ambientalista.

Il centro-destra, messo sotto scacco dai populisti, ha saputo trovare la sua ragion d’essere, senza rincorrere la destra xenofoba, garantendo in senso moderato, democratico ed europeista la difesa dell’identità nazionale.

Il populismo, pur cavalcando l’onda di brexit e di Trump e   collegandosi con le forze di tale stampo emergenti negli altri Stati europei, non ha sfondato e si è chiuso in un recinto pericoloso, ma minoritario e senza grosse prospettive politiche.

E in Italia? La sinistra è divisa, ma non riesce a trovare la cifra della modernità, intestardendosi nelle nostalgie identitarie e indulgendo al solito puritanesimo ideologico. Il centro-destra italiano non riesce ad affrancarsi dal condizionamento dei partiti populisti (Lega e FdI) e ondeggia: l’estemporanea trovata di Berlusconi sulle due monete (euro e una moneta nazionale di scorta) la dice lunga in tutti i sensi.

Gaetano Quagliariello, un inquieto ma intelligente ex-berlusconiano, parlamentare da tempo alla ricerca di una collocazione di prospettiva, così sintetizza la situazione politica italiana: «Sono preoccupato, a sinistra si menano come fabbri, i cinquestelle sono minoranza istituzionalizzata e a destra siamo in cerca d’autore…».

L’area populista in Italia è sdoppiata (?) tra leghismo e grillismo. Mi ha fatto quindi una certa impressione leggere come Marc Lazar, autorevole politologo francese, classifichi gli italiani   Cinquestelle tra i populisti tout court, assimilandoli al partito olandese di Wilders e al francese Front National di Marine Le Pen. Forse più simili al primo che al secondo, assai più vicino alla Lega: Grillo infatti, come Wilder, è un membro unico del suo partito, con una base improvvisata alle spalle, sempre a rischio di implosione da un momento all’altro: lo si vede dalla necessità di tenere alta la violenza verbale, di giocare costantemente allo sfascio e di puntare allo splendido isolamento; lo si è visto nel momento dello sbando per la collocazione nel Parlamento europeo; lo si nota dalle indiscrezioni sulla sua squadra di governo a livello nazionale, francamente risibile se non ridicola.

Forse dall’esterno le cose si vedono meglio e si diradano certe distinzioni di lana…grillina. Questa, nella mia estrema e provocatoria sintesi, l’Italia politica di oggi.

Il succitato esperto francese afferma: «Assistiamo ad un cambiamento di portata storica per cui l’antagonismo non è più tra destra e sinistra, ma tra favorevoli e contrari all’Europa. Servirebbe maggiore integrazione economica, sociale e politica e ci vorrebbe più democrazia. Serve una battaglia politica e culturale europea, pedagogica, per spiegare ai cittadini che anche di fronte ai problemi l’unica soluzione è l’Europa».

Dobbiamo abituarci a ragionare in questi termini, adottando lo schema europeista nelle nostre analisi politiche e programmatiche. Così come, sempre a detta di Marc Lazar, dobbiamo prendere atto che oggi non ci sono più movimenti che attaccano apertamente la democrazia in favore della dittatura, ma la critica è contro la democrazia rappresentativa. Si vorrebbe una democrazia immediata, quasi diretta, senza l’abolizione del Parlamento, ma con continue convocazioni di referendum. E allora ecco la necessità di riforme istituzionali che aprano, nei limiti del possibile, le porte della politica, arginando le conseguenti derive populiste.

Come sostiene un importante ed autorevole intellettuale olandese, Geert Mak, intervistato da la Repubblica, l’Europa non può stare tranquilla: «L’Ue così com’è non funziona. E se non cambia, collasserà come la vecchia Repubblica olandese. È una struttura statica e squilibrata, con regole inadatte agli imprevisti, che non fa nulla per proteggere i suoi cittadini da una globalizzazione troppo veloce, da una finanza feroce e dalla volubilità dei mercati. Non fa nulla per farli sentir a casa gli europei, né si spende per farli sentire sicuri. O diventiamo una vera federazione oppure l’Europa è destinata a morire. L’Europa deve essere un posto dove vivere, non solo uno spazio».

Sarà il caso quindi, ad esempio, di non fare melina con gli Scozzesi, trincerandosi dietro procedure di lungo tempo e corto respiro: ben vengano, se credono nell’Europa a differenza degli inglesi. I tatticismi lasciano il tempo che trovano, la paura dei secessionismi non deve condizionare, anzi il federalismo europeo potrebbe proprio essere la cartina di tornasole delle rette intenzioni dei separatisti presenti in altri stati membri.

Tutti spunti di riflessione. La fase elettorale, che dovrebbe fare la prova del nove all’Europa, è cominciata. Non male del tutto. Vedremo in Francia, in Germania e poi…in Italia. Speriamo, come Italiani, di rimanere protagonisti e di non accodarci semplicemente all’aria che tira.

 

 

 

La (Pisa)pia illusione a sinistra

Nel farraginoso panorama italiano della sinistra politica da qualche tempo si aggira un personaggio relativamente nuovo, che ha bazzicato culturalmente gli ambienti più radical chic, un giurista di alto livello, un alto borghese prestato al proletariato, un sindaco di saldatura di un’area che va dal ceto medio al sottoproletariato, un uomo moderato nei toni ma di forte ispirazione laico-progressista. Si tratta di Giuliano Pisapia.

Si aggira come un fantasma nelle attuali stanze della sinistra, tenendosi in disparte da tutti, ma dialogando con tutti e dando l’illusione di essere con loro; tiene aperto un canale di collegamento con i fuoriusciti dal PD (non mi sono ancora abituati a chiamarli Movimento dei Democratici Progressisti), ha agganciato i frazionisti di Sel e Si, piace un po’ a tutti (Landini compreso, la Camusso non si sa perché è troppo indaffarata a disfare quanto ha fatto il governo negli ultimi anni), non si pone in conflitto col PD, anzi lo ritiene un interlocutore obbligato e di questo partito coinvolge, a livello di dialogo, parecchi personaggi di primo piano oltre ai candidati alla segreteria in opposizione a Renzi, ha l’appoggio dei camali di porto, degli studenti arrabbiati, dei giovani disperati, dei borghesi illuminati, del terzo settore, degli intellettuali sfaccendati, degli artisti interessati, dei cattolici (non solo di sinistra) e dei laici. In molti guardano a lui (un po’ troppi, secondo me). Ha, seppure con altro stile e spunto, e con tendenza a segnare nettamente il territorio sulla destra, qualcosa in comune col maanchismo veltroniano.

Ha il suo brand e il suo movimento, “Campo progressista”: lo ha pensato con calma olimpica, dopo il gran rifiuto a ricandidarsi sindaco di Milano, e intendendo riproporre a livello nazionale l’ampia ed articolata esperienza milanese. Tutti i senza casa di sinistra guardano a lui con speranza e sollievo, perché in teoria riesce a coniugare identità, storia, lotta, governo, uguaglianza, modernità.

Nella sua strategia, peraltro ancora piuttosto vaga e (quasi) tutta da costruire, in pratica, si intravedono, assieme a prospettive interessanti, alcune latenti contraddizioni politiche e anche sociali. Giuliano Pisapia non è indenne dalla sindrome autoreferenziale e purista della sinistra: ha (im)posto infatti al PD un confine a destra verso quelle forze che si autodefiniscono di centro moderato, un vespaio di ex berlusconiani che hanno sostenuto in questi anni il governo (prima assieme a Berlusconi, poi senza) e che potrebbero essere ancora disponibili, soprattutto qualora il sistema elettorale ci consegnasse un Italia frammentata e ingovernabile. Qui Pisapia è in una certa controtendenza rispetto alla “sua”operazione milanese. Pisapia ha vinto le elezioni amministrative milanesi del 2011 saldando la sinistra tradizionale con gli ambienti della borghesia e financo con ambienti cattolici vicini a Comunione e Liberazione, senza farsi giustamente scrupolo di imbarcare uomini provenienti da esperienze politiche diverse dalla sua, come ad esempio Bruno Tabacci. Non capisco perciò questa conversione puritana. Probabilmente ritiene di recuperare socialmente certe fasce moderate di elettorato senza bisogno di blandirne i target partitici. Non vorrei fosse il condizionamento psicologico della sinistra anti-renziana a tutti i costi. Probabilmente paga un prezzo, che però potrebbe rivelarsi pericoloso e controproducente.

Una seconda difficoltà la sta incontrando con i progressisti ex PD: rischia di ascoltarli troppo e di essere risucchiato dai D’Alema e dai Bersani, che strumentalmente gli stanno dando corda, ma hanno in testa ben altre idee. In effetti Giuliano Pisapia è stato preso in contropiede dalla scissione PD, di cui voleva essere l’esorcista esterno, e quindi la sua manovra ha preso ancora più indeterminatezza e confusione rispetto alle intenzioni iniziali.

Su tutto poi, a breve termine, grava l’incertezza del sistema elettorale, che potrebbe aiutare, ma anche mettere in seria difficoltà il “federalismo” di sinistra, o consacrandone la deriva frazionista spinta dal sistema proporzionale o soffrendo la forzata necessità di un aggregazione nel sistema maggioritario senza coalizione.

Da ultimo Pisapia ignora il movimento cinque stelle: punta a recuperare la sfiducia “di sinistra” albergata provvisoriamente in esso. Grillo, ai tempi dell’operazione Milano, lo chiamava “Pisapippa”. Oggi, per il momento tace, perché di “pippe” ne ha già abbastanza tra le sue file.

Se ho ben capito, Giuliano Pisapia, tra un dubbio amletico e l’altro, punta alla riaggregazione dell’area a sinistra del PD, senza conflittualità ma addirittura con attenzione collaborativa verso il PD. Auguri!

 

Il gioco politico del lotto punta su Lotti

Ho ascoltato con grande attenzione, sgombro da ogni pregiudizio, l’intervento del ministro Luca Lotti in Senato al termine della discussione sulla mozione di sfiducia verso di lui, presentata dal movimento cinque stelle.

La questione si pone a tre dimensioni e livelli. Sul piano giudiziario è in atto un’indagine che, mi pare, non abbia raccolto grandi prove contro il comportamento di Lotti per rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento: tutto ruota infatti attorno alla testimonianza di un manager di Stato che avrebbe rivelato di essere stato informato dal ministro dell’inchiesta in atto e della installazione di microspie nel suo ufficio. Della serie “stai attento perché ti stanno spiando nell’ambito di una indagine riguardante episodi di corruzione nelle procedure sulle gare d’appalto adottate dall’azienda di cui sei amministratore delegato”. Il ministro avrebbe avuto queste indiscrezioni da ambienti delle forze dell’ordine, tanto che risultano indagati anche alti esponenti dell’arma dei carabinieri.

La giustizia farà il suo corso. Il ministro Lotti dice di avere fiducia nella magistratura e di collaborare con essa. Nega con assoluta decisione di avere mai e poi mai violato segreti e favorito con informazioni riservate persone coinvolte nell’inchiesta di cui sopra.

Si profila un caso classico di due verità che si scontrano: o sono magari mezze verità oppure una delle due è una falsità. Probabilmente non se ne uscirà. Ricordo come durante un processo tenutosi al tribunale di Parma proprio in materie simili, chiesero al Presidente di procedere ad un confronto fra due persone che si smentivano a vicenda clamorosamente. Il Presidente non ammise alcun confronto, perché sostenne saggiamente che processualmente non serviva a nulla: ognuno avrebbe mantenuto la sua posizione e tutto sarebbe stato teatralmente interessante, ma giudizialmente inutile. Non esistono quindi allo stato motivi che a termini di legge comportino incompatibilità o decadenza dalla carica di ministro. Principio di garanzia che dovrebbe valere sempre e per tutti.

Dal punto di vista politico non vedo sinceramente come si possa dimostrare che sia venuta meno la fiducia sulla base di accuse categoricamente smentite dall’interessato. Siamo, caso mai, nel campo dell’opportunità o meno che un ministro sottoposto ad indagini si dimetta in quanto anche solo il dubbio potrebbe compromettere la credibilità e la trasparenza dell’azione di governo: ecco infatti che i più “smagati” politici, a livello parlamentare, hanno ripiegato su una mozione di richiesta di dimissioni e/o di invito al Presidente del Consiglio a ritirare la delega al ministro. Il secondo discorso fatto in aula dal Ministro è stato proprio questo: dopo aver chiarito la correttezza del suo comportamento anche sul piano politico, ha giudicato meramente strumentale l’attacco, in quanto utilizza solo un dato giuridico provvisorio, e quindi irrilevante, per arrivare in realtà a formulare giudizi politici riguardanti l’azione di governo, della serie “attacco nuora (Lotti) perché suocera (Gentiloni e Renzi) intenda”.

Arriviamo per gradi al piano della sensibilità individuale. Tutto alla fine si risolve lì. Se Lotti cioè ritenga opportuno, pur senza la benché minima ammissione di colpa, farsi da parte per, come si suol dire, agevolare il corso della Giustizia, per potersi meglio difendere, per sgombrare il campo da ogni e qualsiasi ombra sul suo operato e sulla credibilità del governo di cui fa parte. Evidentemente non lo ritiene opportuno né dal punto di vista personale (ammissione indiretta di colpa), né dal punto di vista politico (indebolimento del governo). Altrimenti lo avrebbe già fatto, senza aspettare le inutili e poco credibili spallate degli avversari storici e di quelli anti-storici. Inutile e pretestuosa è la ricerca di analogie col comportamento di altri ministri, in altre situazioni, in altri momenti storici: se si tratta di valutazioni personali e politiche, ogni caso fa storia a sé.

Un’ultima riflessione (in cauda venenum). Pierluigi Bersani avrebbe deciso di presentare, assieme agli amici scissionisti del PD (mi viene spontaneo definirli così, prima o poi mi abituerò a chiamarli col nuovo nome che hanno assunto, vale a dire MDP), una mozione, come detto sopra, che chiede a Gentiloni di ritirare le deleghe a Lotti. Bersani aggiunge con la sua solita lapalissiana verve da bottegaio in pensione: «Qui o ha ragione Lotti o ha ragione Marroni». Deduzione di altissimo spessore giuridico, politico ed etico: ragionamento tendente alla scoperta dell’acqua calda. Forse, effettivamente e tutto considerato, ha ragione Lotti a rimanere al suo posto, anche se io, al suo posto, me ne sarei andato al primo accenno di indagine a mio carico. Ma questo fa parte della mia cronica “dimissionite” e non fa testo.

Se si strappassero tutti i veli…

In questi giorni è tornato d’attualità il dibattito sul velo quale simbolo religioso indossato dalle donne musulmane. L’occasione per ritornare su questo argomento, spesso affrontato con uno stupido contorno di ironiche supponenze occidentali, è data dalla sentenza della Corte di giustizia europea, che ha ritenuto legittimo interrompere il lavoro con una dipendente che indossa il velo, purché esista una norma interna all’azienda che vieta di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso.

Una sentenza piuttosto pilatesca, che sposta il problema e non lo risolve, che crea ulteriore divisione, che rischia indirettamente di alimentare ulteriori discriminazioni, che offre scappatoie alle emarginazioni di vario tipo.

La scorsa estate si era discusso parecchio sul burkini, la versione light del burka. Anche per quel caso erano scattati dei divieti a livello pubblico (spiagge, piscine ,etc). Fortunatamente, almeno in queste vicende l’Italia non è in prima linea.

Sono due (false) questioni piuttosto simili. Abbiamo sempre bisogno di simboleggiare i problemi, senza preoccuparci di ridurli a mere contrapposizioni teatrali, senza evitare la banalizzazione su cui scatenare infiniti, vuoti e mercantili dibattiti.

Forse tutto serve a (non) affrontare i problemi veri. Tuttavia anche l’adozione di certi usi ha o può avere un suo significato. Vietare   alle donne islamiche di indossare sul luogo di lavoro o negli uffici pubblici il velo, così come vietare in spiaggia una sorta di calzamaglia per potersi immergere in acqua senza mostrare le proprie nudità (lasciandole solo immaginare: a volte potrebbe avere una maggior carica erotica, quello che i musulmani vorrebbero evitare) viene interpretato in due modi.

In senso positivo quale impulso a interrompere la subdola e pretestuosa continuazione della deriva sessuofobica, maschilista e ipocrita dell’Islam nei confronti della donna. In senso negativo quale ulteriore discriminazione verso i musulmani, che finisce con l’implementare l’imposizione sulle donne costrette da obblighi duali, uguali e contrari.

Ho avuto modo di definire “pirandelliana” questa diatriba, perché ci sono versioni diverse e tutte ugualmente fondate e motivate. Nell’un caso ci si insinua nei comportamenti religiosi pretendendo di giudicarli e vietarli sulla base del principio della laicità o sulla scorta del principio di uguaglianza fra uomo e donna; nell’altro caso si vorrebbe evitare ogni e qualsiasi discriminazioni su base religiosa rispettando le culture, le tradizioni, che si esprimono anche nel modo di vestire.

Sarà importante per le donne islamiche avere il diritto di nascondersi in tutto o in parte sotto un velo o sotto il burkini quasi a sottrarsi dal manifestare apertamente la loro corporeità femminile? Sarà una cosa seria impuntarci laicamente a vietare questi usi che peraltro stanno assumendo persino un pizzico di sana civetteria islamica?

Come spesso accade, mi pare lo avesse teorizzato Dante Alighieri, ci concentriamo sull’aspetto più superficiale di un problema per evitare di affrontarlo in profondità. La questione infatti non è burkini sì burkini no, velo sì velo no, ma il rapporto tra le religioni, tra stato e religione, tra uomo e donna in tutte le religioni, ma l’uso della religione per discriminare la donna, la presenza del laico antifemminismo, con diversi connotati e diverse intensità, in tutte le società di questo mondo.

La laicità dello Stato non si difende vietando i simboli religiosi che a volte stanno proprio a significare un forte richiamo al rispetto reciproco, alla tolleranza e alla pace, ma togliendo di mezzo comportamenti concreti discriminatori e razzisti.

Se ad esempio in un’azienda privata o in un ente pubblico si vieta l’esposizione ambientale e personale dei simboli religiosi e poi si trattano le donne come lavoratrici di serie b, si discriminano i musulmani o viceversa si discriminano i cristiani, si sopportano comportamenti lesivi della dignità delle persone, le donne in particolare, si licenziano i portatori di handicap perché non producono a sufficienza, ci prendiamo in giro tutti con o senza velo, con o senza croce al collo.

In conclusione voglio rilanciare un mio provocatorio e atroce dubbio, che fa arrabbiare tutti e che, proprio per il mio innato gusto di andare controcorrente, voglio riportare, senza tanti fronzoli e distinguo: siamo così sicuri che siano più emancipate le donne occidentali che esibiscono il loro corpo al limite dell’autocompiaciuta indecenza a confronto delle donne islamiche che nascondono il proprio corpo al limite dell’autocolpevolizzante rigore etico-religioso? Accetto pareri, obiezioni e persino contumelie.

 

Biotestamento tra assenteismo, bizantinismo e bigottismo

La discussione alla Camera dei Deputati sul biotestamento o sulla dichiarazione anticipata di trattamento è partita col piede sbagliato, non tanto per la sparuta presenza dei parlamentari nella seduta che ne prevedeva la discussione generale, ma per la contrapposizione tra chi considera nutrizione e idratazione cure rinunciabili e chi le considera trattamenti vitali e non atti medici e quindi irrinunciabili, nonché tra chi vuole che sia il paziente a decidere sulle cure e chi intende assegnare al medico una forte interferenza sulle decisioni del paziente.

Tutte le volte che mi capita di vedere le aule parlamentari deserte o semi-vuote mi sento profondamente ferito nello spirito democratico. Ricordo nitidamente quando ancora ragazzino ebbi l’occasione di visitare le aule parlamentari: l’emozione era grande, sentivo che in quei luoghi si era fatta e si faceva la storia istituzionale e politica italiana. Non ho cambiato idea. Voglio essere buono e comprensivo: forse le tante assenze sono dovute all’eccedenza quantitativa nel numero dei deputati e senatori, che riduce a mero mortificante votificio la vita dei due rami del Parlamento; forse sono troppe e ripetitive le funzioni, tali da creare confusione e smarrimento. Ma gli Italiani con il referendum costituzionale non hanno detto che il Parlamento andava bene così com’è? Allora…

Vengo invece ai bizantinismi dei difensori ad oltranza della (non) vita. Se per nutrirmi mi devono fare un buco nello stomaco o mettere un sondino naso-gastrico, chi mi vuol far credere che non siamo in presenza di atti medici? Questo è fariseismo puro. Perché non deve essere il paziente a decidere sulle cure? Non è sua la vita che è in gioco? Finito il suo turno il medico se ne torna a casa, mentre il malato resta inchiodato alla sua sofferenza insopportabile. Finiamola con questi assurdi atteggiamenti, che finiscono inevitabilmente in un concetto dolorista della vita a tutti i costi. La coscienza civile del Paese è nettamente favorevole ad una impostazione che va ben oltre i contenuti nel testo in discussione alla Camera; si approvi almeno quello che mi sembra già frutto di sufficienti mediazioni al ribasso.

Il biotestamento non è un obbligo, può essere cambiato in ogni momento; il medico resta sempre e comunque un punto di riferimento per il malato, i suoi familiari, il fiduciario, al punto che può intervenire con la sua decisione qualora siano intervenute nuove terapie non prevedibili al momento della sottoscrizione del biotestamento; questa legge non può dare adito a equivoci e non è l’anticamera di niente, se non un piccolissimo passo avanti nell’affrontare le problematiche del fine-vita.

Non è in gioco alcun serio contrasto tra sensibilità laica e cattolica, ma solo la bigotta difesa di principi astratti sulla pelle di chi soffre. Paola Binetti parla di eutanasia passiva e omissiva: adesso basta! Il Papa è Francesco e non Pio XII e poi il papa non c’entra niente. Questi rappresentanti del cosiddetto mondo cattolico devono capire e rendersi conto di essere membri del Parlamento Italiano e non della Confraternita xyz, anche perché con ogni probabilità ci sono preti e suore con idee molto più laiche, aperte e avanzate di loro.

Valga per tutti quanto scrive Enzo Bianchi Fondatore della Comunità monastica di Bose, che mi pare sgombri il campo da ogni appiglio dottrinale: «Ogni cristiano non contempla l’ipotesi di mettere fine alla propria vita né che altri lo decidano al posto suo, ma conserva la libertà di rifiutare ogni accanimento terapeutico e il ricorso a mezzi straordinari gravosi, come interventi chirurgici, che provocano maggiori sofferenze e non ottengono risultati. Alleviare le sofferenze del morente, anche a rischio di accorciare le ore di vita restanti, è non solo comprensibile, sia umanamente che cristianamente, ma anche necessario. La preoccupazione sovrana dovrebbe essere assicurare la miglior qualità di vita possibile anche nel morire».

Chiedo scusa a tutti, ma non ne posso più degli atteggiamenti dogmatici, nella vita della Chiesa, figurarsi in politica. È dal 1974 che mi scontro con queste mentalità e sarebbe ora di finirla. Sono seriamente intenzionato a fare il biotestamento e non voglio che sia Paola Binetti a rompermi i coglioni con dissertazioni sui sondini e roba del genere. Posso, onorevole Binetti, decidere in autonomia se accorciare la mia vita per evitare situazioni che provocano solo sofferenze? Nessuno imporrà a lei il testamento, ma pretendo che nessuno tolga a me il diritto di sottoscriverlo, in base, spero, ad una legge, che interpreti il comune sentire degli italiani e abbia il voto dell’auspicabile maggioranza dei parlamentari.

In potere di un Mandrake qualsiasi

Della tempestosa vicenda grillin-capitolina non mi stupiscono la clamorosa inesperienza (era quasi scontata), la notevole impreparazione (non ci si improvvisa amministratori pubblici a certi livelli), l’incertezza nel muovere i primi passi (è più che normale quando si comincia a camminare sulle proprie gambe), gli errori iniziali (al primm cavagn al vôl bruzä). Che mi lascia interdetto è la debolezza del sistema immunitario rispetto alle manifestazioni infette del potere.

Raffaele Marra, uomo indiscutibilmente legato al divenire del potere capitolino, riesce, con la collaborazione di Salvatore Romeo, altro chiacchierato personaggio, con una facilità estrema, stando alle carte dell’inchiesta in cui è coinvolto in prima persona, a diventare il burattinaio del grillismo romano, il suggeritore di Virginia Raggi, il play maker del nuovo (?) corso politico in Campidoglio.

«Ho messo in fila le cose per lo staff del sindaco. Ho segnalato incarichi e possibili retribuzioni. Ho lasciato tutto a Virginia Raggi»: questo scriveva Marra in vista delle elezioni. E pochi giorni prima del trionfo grillino mandava un messaggio a Romeo: «Domani ti mando un foglio Excel con i provvedimenti da adottare subito ed un foglio Word in cui ci sono i possibili incarichi e le possibili retribuzioni».

Ma chi era questo potentissimo soggetto? Il Mandrake della situazione? E Grillo dov’era? Il movimento cinque stelle si apprestava a curare l’epidemia capitolina affidandosi ad un portatore sanissimo della malattia? Il tutto ha dell’incredibile, anche se spiega quanto è capitato successivamente.

Qualcuno sospetta che l’ingenuità sia stata eccessiva e che ci possa essere stato qualcosa di più: un patto sporco per occupare il potere con disinvoltura ed amministrare senza scrupoli. Non arrivo a tanto, ma forse se si resta sulla mera ingenuità è ancor peggio. Della serie buoni ma stupidi, ben peggio che cattivi e intelligenti.

A Roma è partito infatti un tormentone che temo non finirà mai: c’è il punto critico nella radice e quindi…La capitale italiana in mano a un manipolo di imbecilli, manovrati da uno spregiudicato uomo d’apparato.

E questi signori vorrebbero governare l’Italia? Sappiano che nell’alta burocrazia ministeriale c’è ben più di un Marra qualsiasi. Gente capace di stritolare Grillo, Casaleggio, Di Maio, Di Battista e chi più ne ha più ne metta. Ma mi facciano il piacere. Il grave è che la gente non riesce a scoprire il gioco di prestigio. È talmente prevenuta da affidarsi a questi sprovveduti catapultati in politica per puro caso, che oltretutto cominciano a prenderci gusto.   E si pensava che potessero fare da argine per incanalare e rappresentare l’irruenta e generale spinta al nuovo. Andiamo proprio bene.

Ovviamente…non c’è niente di ovvio

Avevo un compagno di classe che, quando veniva interrogato a sorpresa, senza essere adeguatamente preparato, sciorinava dei “diciamo così” a tutto spiano, suscitando l’irritazione degli insegnanti e l’ilarità degli alunni.

Una cara amica di mia madre era invischiata in una serie interminabile di intercalari dialettali, che compromettevano gravemente il filo del discorso: “al fa’”, “al dis”, “at capì”, “al g’ha ditt”.

Molte persone più colte e raffinate si rifugiano in “è vero”, “mi spiego” e roba del genere.

Da qualche tempo va di gran moda “ovviamente”: non c’è personaggio rispettabile che non vi faccia ricorso con una frequenza assurda e irritante. Anche perché, mentre gli altri intercalari sono abbastanza neutri, questo assume un rilievo provocatorio: per il fatto che non c’è proprio niente di ovvio sotto il sole.

Giornalisti, commentatori, conduttori, attori, cronisti, politici, ministri, presidenti, chiunque insomma prenda in mano un microfono o se lo veda sbattere sotto il naso, ripiega su questa litania di “è ovvio”, “ovviamente” etc. etc.

Credo che le scelte a livello di linguaggio abbiano sempre un loro significato, al di là dell’effetto emulazione: se un grande e importante personaggio televisivo fa uso frequente di questi termini, finisce che chi ascolta, per non essere da meno, si lascia influenzare e ripete a macchinetta questo assillante “ovviamente”.

Partiamo dal vero significato dell’aggettivo “ovvio” con la sfilza dei suoi sinonimi: ciò che si presenta subito alla mente, di immediata comprensione, evidente, logico, naturale, patente, lampante, comprensibile, chiaro, facile, banale, lapalissiano. Innanzitutto quindi si potrebbe ogni tanto, almeno per rompere la monotonia, fare ricorso a uno di questi sinonimi: ne guadagnerebbe la brillantezza del discorso.

Credo però ci sia nel subconscio personale e collettivo la voglia di atteggiarsi a chi la sa lunga e che quindi può dare per scontato tanti concetti. Faccio un esempio: “questa legge in discussione dovrà, ovviamente, essere approvata dai due rami del Parlamento prima di entrare in vigore. Una volta entrata in vigore, ovviamente, dovrà essere rispettata dai cittadini e, ovviamente, applicata dai giudici.

Non è affatto ovvio che una legge presentata in Parlamento venga discussa e tanto meno approvata. Ammettiamo che succeda. In quel momento non è per niente ovvio che i cittadini la osservino: probabilmente è più ovvio il contrario, se vale il detto “fatta la legge, fatto l’inganno”. E i giudici? Tra lentezze, interpretazioni cavillose, punti controversi, contrasti con la Costituzione, prassi, giurisprudenza e dottrina, quella legge avrà ottime probabilità di finire nel conto delle tante fonti del diritto di cui (non) tenere conto.

Voglio raccontare in forma anonima un episodio effettivamente capitatomi durante   l’attività professionale. Stavo aspettando con ansia il varo di un provvedimento che esentasse le cooperative dall’imposta di registro in caso di aumento del capitale sociale.   Finalmente ebbi la certezza della sua approvazione dalle pagine del sole 24 ore: aveva pubblicato integralmente il decreto che entrava immediatamente in vigore. Dovevo procedere al deposito di un atto di aumento del capitale e quindi con una certa tranquillità informai il collega addetto all’esecuzione di queste pratiche. Dopo un paio d’ore ritornò e mi chiese: «Sei sicuro che questa norma sia stata approvata e sia in vigore? Perché   il funzionario addetto mi ha categoricamente smentito e allora per evitare guai ho ritirato la pratica e chiederei gentilmente a te di seguirla direttamente». Capito, ci penso io. Contemporaneamente mi chiamò il direttore di questa cooperativa che doveva presentare l’atto, dopo la sua registrazione, nell’ambito di una urgente e importantissima pratica di finanziamento pubblico. Gli spiegai l’inghippo e lo pregai di pazientare un minimo di tempo affinché potessi recarmi direttamente all’ufficio competente e sbrigare la faccenda. L’esenzione in ballo riguardava una cifra tutt’altro che insignificante, però alla cooperativa stava a cuore la pratica principale per cui, al limite, mi dissero, siamo disposti a pagare l’imposta pur di sveltire i tempi e le procedure. Capii il ragionamento, ma insistetti e mi recai immediatamente, con la documentazione necessaria, all’ufficio competente in materia fiscale.

Il funzionario mi disse innanzitutto, con una certa presunzione burocratica, che gli uffici pubblici dialogano con i pubblici poteri non tramite il Sole 24 ore, ma con le circolari applicative: fino a quel momento non era arrivato nulla al riguardo e quindi… Mi irritai immediatamente, anche perché pensai, senza dirlo, che al cittadino non è permessa l’ignoranza della legge, mentre al burocrate evidentemente sì. Non trattavo una mia pratica personale e quindi cercai di rimanere calmo e dialogante.

Spiegai che la legge era già in vigore e gliene porsi il testo, illudendomi che andando alla sostanza si sarebbe potuto superare la forma. Nemmeno per sogno. Il funzionario lesse attentamente il testo e mi disse che la mia interpretazione era sbagliata e che quindi la cooperativa, in quel momento da me rappresentata, doveva pagare l’imposta. La calma cominciava a farmi difetto, ma provai a spiegare la cosiddetta “ratio” del provvedimento che conoscevo da tempo, ben prima che fosse approvato definitivamente. Niente da fare, trovai il muro. Mi allontanai dalla scrivania di questo impiegato e uscii. A quel punto, per orgoglio personale, per rispetto dei diritti e per convenienza, decisi di andare a parlarne con il capo in testa. Per fortuna era presente e, seppure in modo molto freddo, mi accolse e mi fece descrivere la questione. Gli spiegai l’accaduto, gli misi sotto il naso il testo della legge, lo prese e lo lesse attentamente e pignolamente, più di una volta. Me lo restituì e mi disse: «Ha ragione lei!». Rinfrancato da questo primo risultato ebbi comunque l’ardire di chiedere il suo intervento sul funzionario in questione, dal momento che la pratica non poteva essere sbrigata dal capo, ma da quel suo testardo sottoposto.

«Mi faccia la cortesia, dottore, di informare il suo funzionario e di convincerlo al riguardo» gli chiesi con molto garbo. Capì, accettò, sollevò il telefono è parlò con l’impiegato del No. Niente da fare, compresi che anche lui stava trovando del duro, al punto che si alzò e mi disse di seguirlo: andavamo direttamente in bocca al “leone”. Dentro di me dicevo: “Sono curioso di vedere come va a finire…”. Il direttore spiegò il significato della legge, ma non riuscì a convincere il suo collaboratore, certamente irritato dal fatto di essere stato da me bellamente scavalcato. Cosa che non mi piaceva, ma a cui avevo dovuto fare ricorso: ad estremi mali, estremi rimedi.

Il direttore insistette, garantì di prendersi lui la responsabilità di questa decisione e finalmente la questione si sbloccò, l’atto venne regolarmente registrato in esenzione da imposta. Il direttore mi salutò con un piccolo accenno di sorriso e, se ben ricordo, aggiunse: «Ci vuole molta pazienza…». Ricambiò cordialmente il saluto e ringraziai.

Uscendo comunicai con un pizzico d’orgoglio l’esito della mia missione alla cooperativa, che incassò il risultato senza concedermi (giustamente dal suo punto di vista) nessun particolare merito.

Arrivai in ufficio, chiamai il collega che aveva iniziato la trafila di quella sofferta pratica e lo invitai caldamente a non rivolgersi più, per altre eventuali situazioni difficili, a quel funzionario testardo: i motivi li lascio intuire a chi avrà la pazienza di leggere questo raccontino.

Penso di essere stato chiaro e di avere reso l’idea del perché mi irrito, quando sento abusare dell’intercalare da cui siamo partiti. Non c’è niente di ovvio, prendiamone atto e soprattutto finiamola con questo pedante “ovviamente”. Caso mai, torniamo al classico “vero…”. Da ovvio a vero: forse è ancora peggio. Beh, allora, lasciamo stare e parliamo come mangiamo e come dice il Vangelo: Sì, sì’, No, no. Il resto viene dal maligno!