La piaga infetta dell’assenteismo

Le recenti retate sui dipendenti pubblici assenteisti, al di là del facile e sterile moralismo che possono innescare, inducono a riflettere seriamente. Innanzitutto è perfettamente inutile che ci scandalizziamo della corruzione dilagante in campo politico: mi pare che valga anche in questo caso l’espressione evangelica “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Il marciume nella nostra società è molto diffuso; è pur vero che il buon esempio dovrebbe venire dall’alto, ma è altrettanto vero che l’infezione può partire anche dalla periferia per arrivare al centro del corpo di una persona come del corpo sociale.

Viene soprattutto spontaneo riproporsi la verifica dello storico e problematico “assioma” secondo il quale ogni popolo avrebbe la classe politica che merita. Certamente, a livello di base, la mancanza di civismo, di cui il senso del dovere è il fondamento, è il presupposto per innescare un rapporto democratico debole all’interno del quale facilmente possono annidarsi l’affarismo e la corruzione. Allo stesso e invertito modo il rappresentante del popolo, che si comporta scorrettamente o commette addirittura dei reati nell’esercizio delle sue funzioni, rappresenta una “istigazione a delinquere” per i suoi rappresentati. Il rischio di questa triste corrispondenza biunivoca non deve però rappresentare il motivo di una sconfortata rassegnazione e di una retrocessione qualunquistica nel proprio guscio anti-sociale e anti-politico. Sarebbe il disastro annunciato per la democrazia e per una civile convivenza.

C’è un concetto a livello religioso molto interessante al riguardo: il peccato oltre a creare un danno spirituale e morale all’individuo che lo commette, reca una ferita mortale a tutta la comunità di cui quell’individuo è parte (per il catechismo cattolico, se non vado errato, alla Chiesa, cioè al corpo di cui i battezzati sono parte integrante).

È un discorso che può valere anche per il corpo della società civile. Se io non lavoro e quindi rubo lo stipendio, reco un danno che si ripercuote a catena su tutta la comunità: impoverisco le casse pubbliche, tolgo il lavoro ad un altro soggetto che lo potrebbe svolgere meglio, danneggio i cittadini ai quali dovrei recare un servizio, induco in tentazione i miei colleghi, avallo un’immagine contraffatta dell’apparato pubblico, in poche parole danneggio tutto e tutti.

Pensiamo all’ospedale napoletano risultato teatro di smaccato assenteismo (stando almeno ai risultati di una indagine dei carabinieri). Prendiamo un medico che si assenta dal lavoro facendosi timbrare il cartellino da un collega: sicuramente, come minimo dovrà restituire il “favore”; indebolirà la struttura a danno dei malati presenti in corsia; giustificherà analoghi comportamenti degli infermieri e del personale ausiliario e magari indurrà all’omertà i suoi superiori; alla lunga danneggerà il bilancio dell’ospedale che, in qualche modo, dovrà far fronte a queste sommerse lacune dell’organico; screditerà un intera categoria professionale; potrà addirittura spostare l’utenza sulle strutture private creando diseconomie e diffusa sfiducia verso il sistema sanitario pubblico. Uno dei tanti esempi che si possono fare, senza voler criminalizzare alcuna categoria.

Forse siamo troppo abituati a scaricare le colpe, per quanto non va nella nostra società, sulle strutture e sulle istituzioni: dobbiamo avere l’umiltà e la pazienza di guardare anche ai comportamenti individuali a tutti i livelli.

C’è però anche un’altra figura retorica da scomodare: se la radice è malata, tutte le parti della pianta ne soffrono fino a morirne. Rimanendo teoricamente nel campo sanitario, se il ministro della salute pubblica intasca tangenti dalle case farmaceutiche o dalle cliniche private, come può pretendere che gli operatori sanitari si comportino onestamente e correttamente, facendo il loro dovere.

I pazienti lettori di questi miei pistolotti giornalieri dovranno abituarsi ai miei frequenti richiami agli insegnamenti paterni, molti dei quali peraltro potranno essere letti nel libro contenuto nell’apposita sezione di questo sito.

Riporto di seguito   un episodio che la dice lunga sull’etica del lavoro. In un cantiere edile in cui lavorava, mio padre assistette alle continue, reiterate, pesanti rimostranze di due operai nei confronti del loro datore di lavoro, assente dalla scena ma non per questo meno osteggiato. Tra un improperio e l’altro i due lavoratori cercavano di preparare una tavola di legno da utilizzare non so come. Dopo un paio d’ore si accorsero di avere sbagliato tutto e che la tavola era inutilizzabile. Mio padre aveva una linguaccia che non poteva star ferma e li rimproverò di brutto dicendo: “Al vostor padrón al sarà gram, mo sarà dificcil ch’al s’ faga di gran sòld cól vostor lavór”. Questa, a casa mia, si chiama onestà intellettuale.   Era solito dire:“Primma äd tutt fa bén al to’ lavor e po’ a t’ pól fär tutti il batalj sindacäli ch’a t’ vól”. Anche il sindacato, non certamente esente da colpe nel difendere sempre tutti, anche i fannulloni, prenda, incarti e porti a casa.

Chiudo con un’altra citazione paterna sul tema della diffusa e radicata corruzione nella nostra società. Mio padre dava una interpretazione colorita e semplice delle situazioni aggrovigliate al limite della legalità. Diceva infatti con malcelato sarcasmo: «Bisogna butär tùtt in tazér parchè ris’cia ‘d mandär in galera dal comèss fin al sìndich, tùtti invisciè…». Se volete, una sorta di versione da osteria della visione affaristico-massonica della nostra società.

Qualcuno, volendo dissacrare il mitico detto “il lavoro nobilita l’uomo” gli fa la provocatoria aggiunta “e lo rende simile alla bestia”. Sarei d’accordo con una semplice correzione, a condizione cioè di inserire in mezzo “l’assenteismo”, in modo che l’espressione suoni così: “il lavoro nobilita l’uomo e l’assenteismo lo rende simile alla bestia”.

Il capitalismo ha le ingiustizie scontate

Chissà perché mi è venuto spontaneo accostare due notizie di questi giorni: l’indagine sullo sfruttamento del lavoro delle braccianti in Puglia e il tetto Rai ai compensi per i collaboratori artistici e i super giornalisti.

Da una parte c’è chi muore di fatica per due euro l’ora nelle campagne baresi, ingaggiato e oppresso dai moderni racket camuffati da agenzie interinali, dall’altra chi guadagna milioni di euro in televisione senza avere peraltro grandi doti e capacità e senza far fronte a gravi responsabilità.

Oltre alla palese e clamorosa ingiustizia, mi ha colpito la reazione a queste provocatorie disuguaglianze: l’indifferenza verso le poveracce oppresse e ricattate dal caporalato moderno (lo sostiene il procuratore di Trani); la preoccupazione di perdere i servigi di pochi fortunati costretti a guadagnare non più di 240 mila euro.

Dal momento che gli odierni veri sfruttati non hanno nemmeno la forza di protestare in piazza e di rompere qualche vetrina, nessuno sposa fino in fondo la loro causa, nemmeno i populisti sempre pronti a saltare sul carro delle varie ribellioni sociali, proprio quelli che contrastano l’arrivo degli immigrati che magari poi finiscono nel tremendo meccanismo del più bieco sfruttamento della mano d’opera.

È una vergogna che colpisce il nostro Paese, davanti alla quale sappiamo solo balbettare nuove leggi e propositi di controlli severi. Quanta apprensione invece per le nostre giornate televisive in Rai compromesse da un sacrosanto divieto allargato dai funzionari pubblici ai collaboratori della televisione di Stato. Ma chi se ne frega se le Tv private ingaggeranno questi personaggi rubandoli (?) alla Rai e quindi falseranno la concorrenza e l’audience!!! Vadano tutti a quel paese! Gente che per condurre un programma televisivo giornaliero guadagna intorno al milione e mezzo di euro…

Ricordo quando un mio cugino, persona semplice ma arguta, ipotizzava un’astronomica parcella per il chirurgo che doveva operare ad un ginocchio un miliardario divo del pallone. Diceva: «Se questo calciatore guadagna tanto, solo perché è capace di dare un calcio ad un pallone, cosa dovrebbe guadagnare un luminare della chirurgia capace di sistemargli il menisco…».

Siamo nel recinto capitalistico, laddove esplodono le maggiori incongruenze di un sistema, che, come titola un libro di Giorgio Ruffolo, avrà pure i secoli contati, che, come purtroppo insegna la storia, non ha alternative, vista la misera sorte avuta da esse e sulle cui macerie è risorto un capitalismo ancor più drastico e opprimente,   ma che deve essere corretto nei suoi meccanismi.

Quella di cui sopra sarebbe la vera sfida controcorrente per la sinistra politica dibattuta e combattuta in insulse diatribe identitarie, che non ha il coraggio (sic) di ipotizzare una Rai che faccia a meno di Carlo Conti, di mobilitare una task force che vada a snidare le vipere del vero sfruttamento   dei lavoratori in certe campagne e in certe fabbriche, smettendola di fare le pulci alla riforma dello statuto dei lavoratori e di coccolare e corteggiare il divismo annidato negli studi televisivi, pronto magari a fare da cassa di risonanza ai pruriti sinistrorsi ed alle personalistiche fratture di Tizio e Caio.

A proposito del libro sopra citato, è in bella mostra sugli scaffali della mia biblioteca: non ho il coraggio di leggerlo, perché temo di rivalutare i fantasmi anticapitalisti del passato e di ripiombare in certe tentazioni pericolose, con il vantaggio però di mandare affanculo gli odierni personaggi che giocano alla caccia al tesoro di chi è più nominalmente di sinistra.

 

 

La gallina dell’antipolitica

La politica è l’arte del possibile, l’antipolitica è l’azzardo dell’impossibile; la politica è scegliere e mediare fra i diversi interessi in campo, l’antipolitica è sposare indistintamente tutte le proteste e le rivendicazioni emergenti; la politica è governare nel rispetto delle competenze istituzionali, l’antipolitica va oltre le istituzioni viste come la gabbia conservatrice dell’establishment; la politica mostra tutti i suoi limiti ed i suoi difetti, l’antipolitica riesce a minimizzare i propri confrontandoli continuamente con quelli della politica; la politica è vocata alla gradualità delle soluzioni, l’antipolitica propone l’accattivante“tutto e subito”; alla politica non si perdona niente, all’antipolitica si perdona tutto; a Hillary Clinton non hanno perdonato niente, Donald Trump può dire e fare tutto quel che vuole e va bene lo stesso; a Fillon non perdonano lo scandalo del “tenere famiglia”, la Le Pen non fa una piega rispetto alle accuse di avere approfittato dei fondi europei; a Ignazio Marino non perdonavano nemmeno i parcheggi in sosta vietata, Virginia Raggi viene comunque continuamente assolta dalle incredibili “manchevolezze” emergenti dalla sua sindacatura; la legge elettorale varata nel periodo di governo renziano è stata letteralmente massacrata da tutti, nessuno ricorda la porcata di Calderoli, illustre collega di quel Salvini che si erge a interprete autentico del popolo. Potrei continuare all’infinito.

Mi si dirà: ma allora in politica le cose vanno bene? Purtroppo no. Infatti non si riesce a capire se nascano prima i difetti della politica o le intemperanze dell’antipolitica. È un po’ la solita questione dell’uovo e della gallina. Certo che quando uno è disperato tende ad affidarsi a chi gli fa qualsiasi promessa, quando uno sta affogando si attacca dove può. Bisogna però avere la freddezza di uscire da questi atteggiamenti puramente emozionali, per ritrovare la razionalità. So benissimo che si ragiona molto meglio a pancia piena: persino in campo religioso vale questa regola, tanto che papa Giovanni XXIII evidenziava l’assurdità del proporre le alte convinzioni esistenziali a chi muore di fame. Però bisogna stare attenti a chi si limita ad accarezzarci la pancia senza darci la possibilità di riempirla.

Quando la politica non trova il filo della matassa, anzi la aggroviglia sempre più, ha buon gioco chi supera la matassa e punta il dito verso la maglia già fatta. Non hanno tutti i torti i Grillini quando, di fronte a certi loro balbettamenti, puntano il dito contro i pulpiti screditati da cui vengono le prediche. Prendiamo la questione dello stadio di Roma: è indubbio che i pentastellati ci stiano facendo una figura di merda, ma tendono a rilanciare la cacca contro chi nel tempo ha speculato e cementificato a più non posso, a Roma e altrove.

Da questo dialettico giro vizioso occorrerebbe uscire in fretta, mentre invece ci stiamo impantanando sempre più. Prendete la vicenda della scissione del PD: è un perfetto assist all’antipolitica, l’inconcludenza della politica che apre le porte al populismo.

Proviamo a guardare, nel controluce di questi ragionamenti, al dubbio “atroce” delle elezioni subito o alla scadenza naturale: è meglio lasciare spazio alla necessità di governare i tanti problemi che ci angustiano o è meglio cercare in fretta una (ri)legittimazione popolare per poi meglio governare? Al riguardo l’antipolitica non ha dubbi, la politica ne ha troppi.

La sinistra ha certamente le maggiori responsabilità nel (com)battere antipolitica e populismo. Mi viene sempre spontanea una similitudine: se devo fare un sacrificio per trovare la quadra nel mio bilancio è più probabile che sia disposto ad ascoltare i richiami e i consigli di un mio parente stretto piuttosto che quelli dell’inquilino della porta accanto. Ma se il mio consanguineo tace o fa solo confusione o addirittura scappa, allora non do retta a lui e nemmeno all’inquilino, vado in strada e mi metto nelle mani del primo che passa e me la sa raccontare.

Forse sto facendo solo confusione: ce n’è già tanta. Mi fermo e chiedo umilmente scusa.

Obiezioni di comodo

Alcuni anni or sono, quando andavo a fare visita ad una mia carissima cugina, ricoverata all’ospedale maggiore di Parma in stato di coma vegetativo, mi capitava di imbattermi, all’entrata, in un gruppetto di donne che recitavano ostentatamente il rosario in riparazione dei peccati riconducibili all’aborto. Mi davano un senso di tristezza e di pochezza. Per non mancare loro di rispetto frenavo l’impulso di interrogarle provocatoriamente: «Ma voi cosa sareste disposte a fare per una donna sull’orlo dell’aborto? Avreste il coraggio di ospitarla in casa vostra? Avreste la generosità di sostenerla economicamente in modo continuativo? Avreste la forza di aiutarla umanamente ad una scelta così difficile rispettandone la sofferta decisione? Sareste disponibili a fare gratuitamente turni di assistenza a questa mia cugina, alleviando la pena di suo marito, costantemente presente al capezzale di una moglie inchiodata nel letto senza prospettive di ritorno ad un seppur minimo livello di funzioni vitali?». Diceva don Andrea Gallo (cito a senso): «Con una ragazza incinta, sola, magari una giovane prostituta, cerco di portare avanti il discorso del rispetto della vita, faccio tutto il possibile, ma se lei non se la sente, se non riesce ad accettare questa gravidanza, cosa devo fare?».

Provocatori interrogativi rimasti nella mia immaginazione. È comodo pregare per o addirittura contro… È facile mettere a posto la coscienza snocciolando una cinquantina di avemaria e…chi ha il problema si arrangi… Ricordo un vecchio frate cappuccino al quale, in confessionale, avevo accusato la colpa di non portare sufficiente pazienza nei rapporti con mia madre gravemente ammalata. Mi disse fuori dai denti: «Guardi, lei deve sforzarsi di assistere sua madre con il massimo della disponibilità. Diversamente, può recitare anche decine di rosari, ma non serviranno a nulla…».

Tutte cose che mi ritornano alla mente in questi giorni in cui sta facendo molto scalpore che la regione Lazio assuma ginecologi non obiettori, a rischio licenziamento nel caso in cui dovessero poi rifiutarsi di effettuare le interruzione di gravidanza.

Sì, perché i ginecologi sono quasi tutti obiettori di coscienza e la struttura pubblica non riesce a far fronte alle necessità, vale a dire non riesce, se non con enormi difficoltà, ad eseguire gli interventi abortivi in base alla legge 194.

Ho le mie idee in materia di obiezione di coscienza: credo che la scelta sia credibile se accompagnata dalla concreta disponibilità ad impegni alternativi. Gli obiettori verso il servizio militare, agli inizi rischiavano condanne penali o dovevano scegliere di trascorrere un tempo lungo nei paesi sottosviluppati; poi venne finalmente la legge che introduceva la possibilità di alternativa col servizio civile.

Il concetto è comunque quello di trasformare l’obiezione di comodo (può essere una comodità anche mettersi in pace con la propria coscienza) in obiezione reale.

Ma dico di più: sinceramente non comprendo come un ginecologo possa rifiutarsi di effettuare un aborto, quando questo intervento si profili come rispettoso della legge, delle sue procedure e della volontà della persona. Siamo certamente di fronte a questioni delicate e drammatiche, ma non aggiungiamo problema a problema.

L’obiezione è comunque legittima e la rispetto, ma quindi è altrettanto legittimo che l’ente pubblico assuma ginecologi non obiettori per far fronte all’emergenza.

L’aborto è certamente una scelta drammatica. Non mi sento però di criminalizzare la donna che, certamente in modo sofferto, decida in tal senso e di colpevolizzarla, né sul piano civile, né sul piano etico, né a livello religioso. Lei, sì, farà i conti con la sua coscienza e chissà quanta sofferenza ne ricaverà. Semmai bisognerebbe sforzarsi di essere più vicini alla donna in procinto di assumere decisioni così delicate.

Persino la Chiesa, a livello istituzionale sta assumendo qualche   atteggiamento di comprensione. Abbandoniamo quindi ogni velleità e rispettiamo la coscienza di tutti, anche quella dello Stato laico.

Mi risulta che durante un colloquio tra papa Giovanni Paolo II e monsignor Ilarion Capucci venne presa in considerazione la drammatica situazione di monache stuprate per le quali si sarebbe posta l’eventuale possibilità dell’aborto. Monsignor Cappucci era favorevole ad affrontare con grande flessibilità e realismo questi dolorosi casi. Il papa era drasticamente contrario ad ogni eccezione alla regola antiaborista. Ad un certo punto la tensione salì e il “trasgressivo” porporato chiese provocatoriamente al papa: «Ma Lei Santità crede di essere Dio?». Il papa, probabilmente preso alla sprovvista, non seppe rispondere altro che: «Preghiamo, preghiamo…».

Con tutto il rispetto per l’allora papa credo che pregare sia importante, ma non basti.

I taxi di combattimento

La sbornia liberista, se mai era cominciata, ora è finita. I taxisti, a loro modo, ne redigono il certificato di morte. Non vogliono concorrenti, pretendono la protezione delle loro licenze e del relativo avviamento. Sostituiscono al liberismo il corporativismo. Ci puzza di… Non è un caso che al loro fianco siano scesi concretamente i nostalgici del regime fascista e virtualmente gli odierni populisti. Non è un caso che la violenza stia caratterizzando le proteste: quando ci si mette in una certa logica conflittuale, si può arrivare anche alla violenza.

Le altre forme di trasporto pubblico non di linea vengono esorcizzate e criminalizzate, si chiamino Ncc (servizio di noleggio con conducente), car sharing (auto condivisa), uber (collegamento diretto passeggeri ed autisti): entriamo in un sistema di vero e proprio “protettorato tassinaro”. Bisogna sforzarsi di capire e di fare un quadro della situazione.

Il servizio di noleggio con conducente si rivolge all’utenza specifica che avanza, presso la rimessa, apposita richiesta per una determinata prestazione a tempo e/o viaggio. Lo stazionamento dei mezzi avviene generalmente presso rimesse o presso i pontili di attracco. La sede del vettore e la rimessa devono essere situate, in generale, nel territorio dell’ente che ha rilasciato l’autorizzazione. Nel servizio di noleggio con conducente esercitato a mezzo di autovetture è spesso vietata la sosta in posteggio di stazionamento su suolo pubblico negli ambiti territoriali ove sia esercito il servizio di taxi. A differenza dei taxi, che sostano su aree pubbliche specificatamente segnalate, si rivolgono ad un’utenza indifferenziata e non sono obbligati a svolgere la corsa all’interno del solo comprensorio, ma possono svolgere il servizio su tutto il territorio Nazionale ed Internazionale a livello Europeo. Il servizio pubblico non di linea, denominato “N.C.C.”, si basa propriamente su di un accordo cliente-fornitore, con cui vengono pattuiti le modalità di svolgimento del servizio, la data e l’orario, l’importo ecc. La prestazione del servizio, pertanto, non è obbligatoria, ma si basa sul raggiungimento, o meno, di un accordo in forma privata, mediante comunicazione a mezzo telefonico, cartaceo, postale od elettronico (internet, email, website, etc).

Il car sharing (dall’inglese auto condivisa o condivisione dell’automobile) è un servizio che permette di utilizzare un’automobile su prenotazione, prelevandola e riportandola in un parcheggio, e pagando in ragione dell’utilizzo fatto. Questo servizio viene utilizzato all’interno di politiche di mobilità sostenibile, per favorire il passaggio dal possesso del mezzo all’uso dello stesso (cioè all’accesso al servizio di mobilità), in modo da consentire di rinunciare all’automobile privata ma non alla flessibilità delle proprie esigenze di mobilità. L’auto, in questo modo, passa dall’ambito dei beni di consumo a quello dei servizi. Tipicamente si tratta di un servizio commerciale erogato da apposite aziende, spesso con l’appoggio di associazioni ambientaliste ed enti locali. Il car sharing si distingue dal car pooling: in quest’ultimo modello più persone viaggiano insieme nella stessa auto, che normalmente è di proprietà di uno dei viaggiatori, e dividono tra loro le spese di viaggio e manutenzione. Il car sharing, invece, può essere assimilato a un autonoleggio a ore con automobili parcheggiate in più punti della città. È inoltre emersa una ulteriore variante del car sharing: il “car sharing peer-to-peer“, che prevede l’uso di auto condivise non appartenenti ad una flotta dedicata (come nel car sharing tradizionale), ma appartenenti agli stessi membri della comunità iscritta al servizio; in quest’ultimo caso, quindi, il car sharing è assimilabile (non ad un noleggio a ore bensì) ad una multiproprietà del veicolo.

Si parla tanto di Uber:  è un’azienda con sede a San Francisco (USA) che fornisce un servizio di trasporto automobilistico privato attraverso un’applicazione software mobile (app) che mette in collegamento diretto passeggeri e autisti. La società è presente in decine di città in tutto il mondo. Le auto possono essere prenotate con l’invio di un messaggio di testo o usando l’applicazione mobile, tramite la quale i clienti possono inoltre tenere traccia in tempo reale della posizione dell’auto prenotata

C’è di mezzo la globalizzazione. Purtroppo ha voluto dire mettere anche i lavoratori in competizione fra di loro: alle dipendenze dei tanto odiati colossi aziendali stranieri lavorano persone che hanno i loro sacrosanti diritti. E poi ci sono anche i diritti degli utenti, dei potenziali passeggeri: avere un servizio alle migliori condizioni possibili, in un quadro tariffario equo e trasparente .

C’è di mezzo anche l’Europa che, fino ad ora, non ha condiviso, l’atteggiamento troppo tenero dell’Italia verso gli interessi dei taxisti e la rigidità verso l’Ncc. Il mondo è piccolo e non finisce a Roma laddove i tassinari hanno scatenato un putiferio.

Vorrei chiedere a Pierluigi Bersani, che si è messo in cattedra per farci la lezione su cosa significhi essere di sinistra, come la metterebbe con i taxisti, dopo essere stato parecchi anni or sono fautore della lenzuolata di liberalizzazioni. Vada lui a mediare con questi inviperiti soggetti, trovi lui una soluzione.

Bersanate a parte, il problema esiste. A chiacchiere è facile coniugare   diritti e mercato, in concreto è difficilissimo. È la sfida riformista. Questione di regole per tutti, su cui discutere, trattare, ricercare pazientemente accordi sindacali. I dilaganti e debordanti sinistrorsi tacciono, preferiscono guerreggiare con Matteo Renzi.

Il problema non sta tanto nelle bombe carta, nelle vetrine infrante, nei tafferugli con la polizia: roba condannabile senza alcuna esitazione.

Non è nemmeno riconducibile ad un mero rinvio (ha effettivamente un significato irritante ed è stato la causa contingente che ha scatenato la rabbia dei taxisti) effettuato per prendere tempo in funzione di trovare nuove e definitive regole.

Il punto politico è questo: hanno ragione i taxisti a pretendere un riconoscimento ante litteram dei loro spazi di attività? Bisogna rispondere. Domanda difficile a risposta articolata e complessa. Io ammetto di non averla. Non so se ce l’abbia l’attuale governo. Spero di sì. Certamente non ce l’ha chi cavalca la protesta o chi le strizza l’occhio e tanto meno i puritani dell’estrema sinistra. Buon lavoro!

 

 

 

 

 

 

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Vestivamo alla “piddina”

La spaccatura all’interno del PD, indipendentemente da come andrà a finire (una vera e propria scissione, una convivenza in camere separate, una riconciliazione dopo la scazzottata), si inserisce in modo sconvolgente nel vivo della storia politica collettiva, ma anche in quella individuale. Il dibattito, durante l’assemblea nazionale del 19 febbraio, ha toccato infatti i nervi scoperti delle esperienze passate: non è un caso se gli interventi più apprezzabili e calorosi sono stati proprio quelli dei testimoni più sinceri e credibili della storia che, volenti o nolenti, sta a monte di questo partito.

Ammetto di essermi commosso ascoltando Piero Fassino, Walter Veltroni e Franco Marini: epigoni di un modo “caldo” di fare politica, che non garantiva successi e risultati, ma la buona fede e il coraggio di battaglie fatte sulla scorta di valori e ideali.

Non è questione di nostalgia. È solo doveroso omaggio alla memoria storica da cui abbiamo ancora tanto da imparare. Voglio fare quindi un tuffo del tutto personale in questi ricordi, chiamandoli anche per nome e cognome.

Torno, a metà degli anni sessanta, sui banchi di scuola. Con un mio compagno di classe, Mario Tanzi, l’amicizia andava oltre il sano cameratismo scolastico per allargarsi al dialogo umano, culturale e politico. Io cattolico e democristiano, lui non cattolico e comunista: di fronte alla realtà incandescente di quegli anni riuscivamo, pur partendo da culture e sensibilità diverse, a trovare un fervido terreno d’incontro, un punto di convergenza in base ai valori che ci ispiravano (la giustizia sociale, l’attenzione alle classi popolari, la laicità della politica, etc.). Ci scambiavamo esperienze, idee, ansie, preoccupazioni, dubbi e certezze. Eravamo in anticipo di dieci anni rispetto al compromesso storico. Ci ritrovammo dopo alcuni anni, impegnati entrambi nel movimento cooperativo, lui quello di matrice socialista, io quello di ispirazione cristiana: il dialogo riprendeva con una immediatezza sorprendente e con affascinante fluidità. Poi arrivammo quasi a lavorare insieme a servizio delle cooperative, prescindendo dagli schemi, che, nel nostro piccolo, eravamo stati capaci di superare coraggiosamente e, oserei dire, pionieristicamente. Quando si costituì il partito democratico andai a quelle esperienze di quarant’anni prima e mi dissi: per me e Tanzi la fusione arrivava in ritardo, meglio tardi che mai!

Poi ci sono i ricordi più strettamente politici. Nella mia vita ho cercato di esprimere l’anelito alla vera politica, aderendo all’azione della sinistra cattolica all’interno della D. C., in un impegno nel territorio, nelle sezioni di partito, nel consiglio di quartiere, laddove il dialogo col PCI si faceva sui bisogni della gente, delle persone, laddove si condividevano modeste ma significative responsabilità di governo locale, laddove la discussione, partendo dalle grandi idealità, si calava a contatto con il popolo. Quante serate impiegate a redigere documenti comuni sulle problematiche vive (l’emarginazione, la scuola elementare, l’inquinamento, la viabilità), in un clima costruttivo (ci si credeva veramente), in un rapporto di reciproca fiducia (ci si guardava in faccia prescindendo dalle tessere di partito). Mi sia permessa una caustica riflessione: forse costruivamo dal basso, senza saperlo, il vero partito democratico, molto più di quanto abbiano fatto i leader nel 2007 e soprattutto molto più di quanto stiano facendo alcuni fra quelli attuali, che rischiano di buttare a mare anche la nostra storia, confondendo ancora una volta gli ideali con le ideologie e i valori con le proprie incallite posizioni.

Ho avuto l’onore di essere allora presidente del quartiere Molinetto (io democristiano sostenuto anche dai comunisti) in un’esperienza positiva, indimenticabile, autenticamente democratica. Ricordo con grande commozione il carissimo amico Walter Torelli, scomparso da diversi anni, comunista convinto, col quale collaborai in un rapporto esemplare, sfociato in un’amicizia, che partiva dall’istituzione (quartiere) per proseguire nel dibattito fra i partiti, per arrivare alla condivisione culturale ed ideale di obiettivi al servizio della gente.

Mi sento in dovere di ripensare con gratitudine a quando Torelli, a nome del Pci, mi dichiarò la sua totale disponibilità ad appoggiare la mia candidatura a presidente di quartiere: la cosa mi riempì di orgoglio e soddisfazione. Riuscimmo infatti a collaborare in modo molto costruttivo.

Tutta la mia militanza politica e partitica è stata caratterizzata da questa convinta e costante ricerca del dialogo, a volte tutt’altro che facile, a volte aspro e serrato, ma sempre rivolto al servizio della popolazione in nome dei valori condivisi.

Durante le animate ed approfondite discussioni con questi carissimi amici, uomini di rara coerenza etica e politica, agli inizi degli anni novanta si constatava come alla politica stesse sfuggendo l’anima, come se ne stessero andando i valori e rischiasse di rimanerci solo la “bottega” ed al cittadino non restasse che scegliere il “negozio” in cui acquistare il prodotto adatto alla propria “pancia”. Fummo facili profeti.

Non serve aggiungere altro. Penso di avere già chiarito a sufficienza il mio pensiero in ordine alla politica attuale ed al PD. Ho chiamato, mi piace farlo sempre, le persone con nome e cognome. Lo faccio anche per i protagonisti di questa penosa contingenza politica. Senza esagerare, credo che i D’Alema e i Bersani non solo stiano tradendo la loro eredità culturale e politica, ma stiano sottovalutando, con la loro insulsa presunzione, una piccola grande storia in cui mi sento personalmente coinvolto assieme ai citati amici. Non ho la tessera del PD, ma sappiano che qui è in gioco molto di più.

 

Il diavolo finisce per abituarsi all’acqua santa e viceversa

Un titolo de la Repubblica su un articolo di Vittorio Zucconi recitava nei giorni scorsi: “Ma per i grandi giornali che ‘svelano’ il Potere è una nuova primavera”. Il titolo, riferito alle vicende del dopo Trump, insospettisce non poco e lascia intendere che in America da parte della carta stampata   più che la verità si potrebbe cercare un ritorno di business: ben venga Trump coi suoi casini che ci fanno fare i soldini.

Oltre al solito rischio “del trumpismo dell’anitrumpismo”, un’aggressione continua contro il neopresidente può essere un boomerang: lui lo ha capito e sta al gioco trasformando le conferenze stampa in veri e propri match da consumarsi davanti al popolo.

Mi sembra in atto un accanimento in base al quale Trump, a seconda dei giorni, sarebbe un traditore in combutta col nemico, un bugiardo che dichiara A per poi fare B, un incapace che sbaglia tutte le mosse, un incoerente che cambia opinione ad ogni piè sospinto, un affarista in conflitto d’interessi, un clientelare a cominciare dallo spazio concesso ai suoi famigliari, un presidente spendaccione, costoso e lussuoso che batte di gran lunga tutti i predecessori i quali al suo confronto sono dei monaci francescani, un sovversivo rispetto agli equilibri mondiali, un razzista, che butta fuori tutti gli immigrati a suon di imponenti rastrellamenti, che chiude le frontiere vietando gli ingressi per decreto e alzando veri e propri muri di protezione, un populista che disprezza le istituzioni, un incantatore di serpenti che somministra falsità a tutto spiano, un machista che tratta le donne come giocattoli a sfondo sessuale,   un antieuropeista che se ne frega altamente dei suoi storici alleati, un menefreghista rispetto alle questioni ambientali affrontate col taglio del petroliere, un nazi-fascista nel cui pantheon trovano posto Julius Evola, Oswald Spengler, Gabriele D’Annunzio e Benito Mussolini, un nazionalista che pensa solo ed esclusivamente agli Usa, un protezionista che vuol mettere in ginocchio i rapporti commerciali fra le nazioni, un disfattista che vuole distruggere tutto quanto fatto dai suoi predecessori.

Sono convinto che purtroppo ci sia molta verità in questo scandaloso affresco emergente dal giornalismo di denuncia: probabilmente c’è in atto una vera e propria gara a scoprire gli altari trumpiani, da cui esce un assetto presidenziale tragicomico.

Portando alle estreme conseguenze il discorso, bisognerebbe immediatamente assoldare qualcuno per farlo fuori alla svelta, prima che, come teme l’attrice statunitense Meryl Streep, il suo catastrofico istinto di vendetta non ci porti a una guerra nucleare. Queste scorciatoie però funzionano sempre in senso inverso: vengono fatti fuori gli innovatori di segno opposto rispetto a quello di Trump, che avrà lunga vita e non avrà nulla da temere a livello di attentati o roba del genere (intendiamoci, meglio così).

Pare quasi che gran parte degli Americani si vogliano sgravare la coscienza dal grave peccato di averlo prima irriso, poi sottovalutato e poi, alla fine, votato. Sta diventando un esercizio retorico, un ritornello di comodo, un antifona laica che finirà col vittimizzarlo per poi rafforzarlo e radicarlo nella mentalità della gente.

Non credo ai giudici-giustizieri ed ai giornalist-salvatori della patria americana e del mondo intero. Certo, il terzo e quarto potere possono e devono bilanciare il primo e il secondo, già di per sé molto concentrati nelle mani di un uomo solo al comando, ancor più pericolosi se quell’uomo al comando non dà sufficienti garanzie di rispetto costituzionale e democratico.

Donald Trump può contare su una minoranza silenziosa che lo ha votato e che lo ammira: attenzione a non far aumentare il suo consenso, anche perché con le arie che tirano ci vuol poco a ricondurre ogni e qualsiasi contrarietà ad uno scontro epico tra il folle e paradossale nuovismo contro l’implacabile e velenosa autodifesa dell’establishment.

Poche, precise, circostanziate, documentate e gravi contestazioni: così può essere contrastato Trump a livello mediatico e davanti alla pubblica opinione. Politicamente parlando occorre che i democratici riprendano con grande pazienza e rinnovata credibilità il discorso, sfruttando gli spazi istituzionali non per fare una polemica distruttiva ed ostruzionistica, ma un’opposizione palpabile e complessiva. In campo culturale bisogna costruire un discorso alternativo che non snobbi, ma accetti le sfide: non è tempo di presuntuose primazìe di pensiero, ma di serie ed accessibili proposte costruttive.

Altrimenti succederà che con l’andare del tempo questo refrain dei grandi giornali perderà progressivamente forza, i servizi segreti torneranno sotto il pieno controllo della nuova presidenza, gli staff di governo e di gabinetto si assesteranno, il partito repubblicano chinerà il capo verso il nuovo estemporaneo leader, le istituzioni politiche si svuoteranno o si accoderanno, la magistratura verrà ricondotta alla ragion di stato, gli uomini e le donne di cultura si limiteranno a sfogare elitariamente le loro contrarietà intellettuali, le proteste di piazza si spegneranno, gli scandali si placheranno, la realpolitik internazionale prenderà il posto dei conflitti ideologici e geografici, il grande capitale si riposizionerà frettolosamente, gli ambienti economici legheranno l’asino dove vuole il padrone.

La storia dei regimi insegna che la partenza è generalmente avvenuta cavalcando lo scontento, la paura, la protesta generalizzata della gente. L’opposizione si è gradualmente divisa nella tattica e affievolita nei toni. I vari poteri si sono gradualmente adeguati. Il consenso è aumentato. Il mondo si è limitato a guardare. Gli intellettuali si sono massicciamente allineati. La politica e le sue istituzioni hanno perso mordente. I poteri economici hanno sfruttato l’onda, etc. etc.

È pur vero che le situazioni dovrebbero essere cambiate, ma non ne sono poi così sicuro…

Scissione a babbo morto

Nella diatriba in atto all’interno del partito democratico, per tempestiva iniziativa della magistratura, rischia di giocare un ruolo importante il padre di Matteo Renzi. Tutti i commentatori si esercitano nel definire la probabile scissione Pd: qualcuno la chiama “frattura di calendario” considerato che tutto sembra ruotare intorno alla data del congresso e delle elezioni politiche; altri “scontro di potere” perché non emergono motivazioni politiche di fondo ma solo preoccupazioni in vista soprattutto dei seggi parlamentari in palio alla prossima consultazione elettorale; altri ancora la considerano un duello personale tra leader o capi-corrente alla spasmodica ricerca di rivincite; quasi tutti una sciagurata esercitazione pseudo-identitaria alla faccia dei problemi del Paese. Adesso siamo arrivati alla iettatoria “scissione a babbo morto”.

Temo che il veleno nella coda ce lo abbia messo la magistratura “inventando” il reato di traffico di influenze ed appioppandolo addosso al “babbo”. C’é in atto, è inutile nasconderlo, un regolamento di conti fra una larga fetta di magistrati e Matteo Renzi, colpevole di avere varato o messo in cantiere alcune riforme piuttosto fastidiose per i giudici (riduzione ferie, responsabilità, pensionamenti abbreviati, etc.): punture di spillo che tuttavia li hanno irritati non poco. Era quindi prevedibile che, prima o dopo, gliela facessero pagare cara ed ecco spuntare l’occasione propizia. L’ex-premier, già indebolito dall’insuccesso referendario, dalla levata di scudi della sua minoranza interna, dai tanti che opportunisticamente hanno cominciato a prendere le distanze non appena intravista la possibilità di una sua caduta, può essere in odore di spallata decisiva verso il baratro della irrilevanza.

La giustizia, come si suol dire, farà il suo corso, ma intanto la sputtanata c’è tutta. Sembra quasi che alle critiche dell’ex-giudice (meglio sarebbe dire giudice prestato alla politica, dal momento che si è messo solo in aspettativa) Michele Emiliano, il più vivace fra gli oppositori dentro il Pd,   definito in modo pittoresco da Francesco Merlo su la Repubblica quale “mangiafuoco bulimico e demo-populista”,   faccia riscontro un filone di indagini sugli appalti pubblici Consip. Da una parte un importante esponente del partito che non esita vergognosamente a definire Renzi e i renziani come amici   dei petrolieri, dei banchieri, dei finanzieri, insomma dei poteri forti; dall’altra le inchieste giudiziarie che si avvicinano a Renzi, tramite Luca Lotti prima e il “babbo” poi, ipotizzando un suo coinvolgimento di sponda (?) nel fenomeno di commistione tra politica ed affari.

Così Renzi, oltre ad essere definito ironicamente (vado sempre a prestito dal Francesco Merlo) “furia di provincia, ambizione della modernità e del marketing, angelo della storia, rottamatore del pianto, promotore di sbadigli”, potrà aggiungere, nel suo cursus honorum, l’etichetta di “trafficante d’influenze per interposta persona”.

Un non-motivo in più per spaccare il Partito democratico. Che Renzi desse fastidio a molta gente, lo avevo capito. Che abbia tatticamente sbagliato a mettersi contro a troppa gente, dai sindacati ai massimalisti della sinistra, da certa intellighenzia alla magistratura, dagli insegnanti agli studenti, dai dipendenti pubblici ai giornalisti, è altrettanto innegabile. Che non abbia la pazienza del vero politico e l’abilità strategica del tessitore è ammissibile. Ha dato un bello scrollone alla pianta e dai rami è venuto giù di tutto, ma qualcosa di pesante (forse sarebbe meglio dire di pedante) gli è caduto sulla testa.

Guardando in Tv i suoi oppositori abbracciati, Michele Emiliano, Roberto Speranza, Enrico Rossi, che giocano a fare i leader alternativi senza averne, pur facendo la loro sommatoria, carisma e capacità, mi sono chiesto: questo sarebbe il nuovo Pd, la nuova sinistra che intende riprendere in mano il Paese dei maltrattati di sistema? Ma fatemi il piacere… Oppure, lasciamo stare queste candidature di seconda fila, di bandierina e andiamo alle eminenze grigie: saranno i Bersani e i D’Alema (per dirla con Francesco Merlo, “i vecchietti sdentati, arzilli e vincenti, evasi dalla casa di riposo”) a proiettare la sinistra italiana nel futuro? Ma fatemi il piacere…

All’inizio degli anni novanta (si sono celebrate proprio in questi giorni le nozze d’argento con la prima scrematura di tangentopoli) tanto andò la magistratura contro il lardo della corruzione che ci regalò Berlusconi.   Vuoi vedere che oggi tanto andrà contro Renzi che ci regalerà la torta di Luigi Di Maio o comunque ci metterà sopra la ciliegiona? Auguri!

Il torto e la ragione

Della diatriba sui conti pubblici italiani e del conseguente continuo tormentone nei rapporti con l’Unione Europea voglio cogliere l’essenza, ponendomi un quesito: ha ragione la Ue a tormentarci sul debito e sul deficit richiamandoci rigorosamente agli impegni assunti o ha ragione l’Italia a chiedere maggiore flessibilità al fine di crescere e così migliorare i propri conti.

Per rispondere a questa domanda vado a prestito da un episodio accadutomi durante la mia lunga esperienza professionale. Era stato fatto un pignoramento a carico di un artigiano-collaboratore di una cooperativa: era pieno di debiti e faticava a pagarli al punto che un creditore parti in quarta intendendo sequestrargli il compenso che percepiva. La cooperativa da me assistita si recò all’udienza davanti al pretore per sapere come si sarebbe dovuta comportare, esprimendo nell’occasione seria preoccupazione per il rapporto che rischiava di essere compromesso. Il giudice, dopo avere attentamente ascoltato le parti, si rivolse al legale che difendeva gli interessi dei creditori insoddisfatti e gli disse con molta franchezza: «Se questo artigiano, sequestrandogli tutto il compenso, non lo fate mangiare e non gli consentite di continuare la sua attività, sarà ben difficile che possa pagare i debiti. Quindi riformulatemi le vostre richieste nei limiti di una ragionevole parte degli emolumenti».

Che il debito pubblico italiano sia enorme è cosa indiscutibile. Gli esperti sostengono, guardando il grafico del suo andamento nel tempo, che sia esploso durante gli anni del consociativismo: i partiti chiedevano e i governi concedevano con eccessiva facilità. Penso non sia giusto giudicare così sbrigativamente quel periodo storico che consentì comunque alla società italiana di contrastare il terrorismo e di fare notevoli passi avanti. Tuttavia occorre riflettere sul dato dell’esplosione del debito pubblico anche e soprattutto per verificare se questo indebitamento sia servito a migliorare le condizioni di vita dei cittadini o se sia andato sprecato nel calderone di una spesa pubblica senza controllo. Ma non è questo il discorso attuale. Il debito quindi c’è, ma per pagarlo, o almeno riportarlo a livelli accettabili rispetto alla ricchezza prodotta nel Paese (il Pil), bisogna che l’Italia sia messa in grado di crescere nella sua economia altrimenti…

Né più né meno il discorso di buon senso del pretore di cui sopra. Anche lui, codice alla mano, avrebbe potuto consentire il pignoramento totale (tra l’altro il pignorato non era un lavoratore dipendente, ma un artigiano imprenditore), ma superò col ragionamento la regola. I parametri europei quindi non andrebbero applicati ragionieristicamente, ma politicamente calati in un contesto problematico ed in continua evoluzione (immigrazione, terremoti, contingenze varie).

Oltretutto sarebbe opportuno che chi fa la faccia feroce con gli Stati in difficoltà si ricordasse di rappresentare uno Stato che si è trovato in passato in gravissime difficoltà ed è stato aiutato: mi riferisco alla Germania nel secondo dopo-guerra e all’atto della riunificazione tra est e ovest. Se gli Stati Uniti e i Paesi vittoriosi della guerra si fossero comportati con la severità che oggi la Germania adotta verso i suoi attuali partner, probabilmente dopo oltre settant’anni i tedeschi starebbero ancora pagando i danni e i debiti relativi e forse della riunificazione non se ne sarebbe fatto nulla. Ma la memoria fa difetto, è corta…Come si ricorderà anche il Vangelo contiene una parabola al riguardo: quel tale che, dopo aver ottenuto con suppliche il condono dei suoi enormi debiti, incontra un suo piccolo debitore e lo vuol strozzare se non pagherà immediatamente.

Ciò non toglie che l’Italia debba mettere ordine nei propri conti con una gestione oculata a livello di entrate e di uscite. E qui viene il bello. Meno tasse o più tasse. Meno spese e più investimenti. Meno sprechi e più produttività. Sacrifici ed equità. Lacrime e sangue.

Il commento lo lascio fare a mio padre. Non era un economista, non era un sociologo, non era un uomo erudito e colto. Politicamente parlando aderiva al partito del buon senso, rifuggiva da ogni e qualsiasi faziosità, amava ragionare con la propria testa, sapeva ascoltare ma non rinunciava alle proprie profonde convinzioni mentre rispettava quelle altrui. Volete una estrema sintesi di tutto cio? Eccola! Anche oggi, riflettendo ad alta voce di fronte alle difficoltà economiche dello Stato italiano direbbe: «Se tutti i paghison e i fisson col c’lè giust, as podriss där d’al polastor ai gat…».

 

Dilettanti allo sbaraglio

Non ho mai avuto una considerazione ragguardevole per il dilettantismo, in nessun campo: sono un incallito perfezionista e da me stesso, prima che dagli altri, ho sempre preteso preparazione e professionalità. Atteggiamento che costa insoddisfazione al limite della frustrazione, ma che comporta anche una spinta a migliorarsi con studio, dedizione ed impegno.Delle caratteristiche negative del nuovo presidente americano Donald Trump (sono tante e pericolosissime), quella che più mi infastidisce e mi preoccupa è proprio il dilettantismo dell’approccio e il pressappochismo delle scelte. In meno di due mesi è già dovuto ripetutamente tornare sulle nomine a livello governativo e a livello del suo staff: nomine di primaria importanza, non certo l’ultimo usciere della Casa Bianca; dimissioni e sostituzioni, rassegnate ed effettuate per motivi gravi o gravissimi, non certo per malattia o motivi personali.Il precariato però non è limitato alla dirigenza, ma si estende anche alle linee di fondo della presidenza: da un giorno all’altro cambiano gli umori, i proclami si rincorrono, i voltafaccia non si contano, su argomenti di fondamentale importanza per gli USA e per il mondo intero. Sì, perché continuo a sentire troppe persone che sussurrano: «Gli americani l’hanno voluto, adesso se lo tengano e si arrangino». No, purtroppo ci arrangiamo tutti, perché, oggi più che mai, le decisioni di questo livello e tenore si ripercuotono sull’intero pianeta, sugli equilibri internazionali, sulle politiche di tutti i settori e di tutte le nazioni. Non illudiamoci sull’impostazione isolazionista e protezionista che, a stretto rigore, dovrebbe liberarci dalla morsa statunitense: sarà ancor peggio perché al danno si aggiungerà la beffa.Quando lo si vede in televisione si ha la sensazione di uno capitato lì per caso, che gioca a fare il presidente, che non si rende conto di quel che sta facendo, che spara cazzate a raffica, che dice tutto e il contrario di tutto. Con Trump la politica non è populistica, ma analfabetica. È la risposta altolocata, gratificante ed alienante alla presuntuosa e crassa ignoranza della gente.Ho sempre preferito avere a che fare con un soggetto cattivo ma intelligente e colto piuttosto che con un soggetto buono ma ignorante e stupido: col primo si riesce comunque a trovare un modus vivendi, con il secondo è una tragedia (Trump oltretutto faccio fatica a considerarlo un buono, ma il concetto penso sia comunque chiaro).In questi giorni mi è venuto spontaneo fare un azzardato e paradossale parallelo con la sindacatura di Virginia Raggi: stesso discorso. Ne ha combinate e ne sta combinando tali e tante da rimanere sbalorditi. Senza entrare nel merito, si resta basiti di fronte alle giravolte di persone e idee che si svolgono intorno a questa assurda pavoncella. Qualcuno dice che sia in balia dei poteri forti, ma, secondo me, più che in balia dell’establishment credo sia vittima di se stessa e della sua totale incapacità.I Romani l’hanno voluta e adesso se la tengano e si arrangino. No, siamo alle solite. Ce la teniamo tutti, perché non è l’amministratrice della bocciofila, ma la sindaca della capitale d’Italia. Qualcun altro, giocando al tanto peggio tanto meglio, si consola sperando che sia l’inizio del prematuro tramonto del grillismo (dell’uomo qualunque riveduto e (s)corretto). Ho i miei dubbi, perché può finire come a scuola, quando un allievo studioso viene interrogato assieme ad uno o più compagni impreparati: non fa bella figura, ma viene coinvolto in una sputtanata generale e soffre anche lui del nervosismo dell’insegnante, anche perché costretto ad un superlavoro in conseguenza delle domande irrisolte che gli si girano tutte addosso.I balordi creano solo disastri per tutti. Molti li assolvono o li giustificano guardando ai guasti creati prima di loro: ammesso e non concesso che sia così, anche questa finisce con l’essere un ben magra consolazione.Spesso ricorro agli aneddoti paterni per spiegarmi meglio. A mio padre piaceva molto questo: durante una partita di calcio un giocatore si avvicinò all’arbitro che stava facendone obiettivamente di tutti i colori. Gli chiese sommessamente e paradossalmente: «El gnu chi lù cme lù o ag la mandè la federassion (Lei è stato inviato ad arbitrare questa partita dalla Federazione o è venuto qui spontaneamente, di sua iniziativa?)». Si beccò due anni di squalifica.Dopo esserci chiesti chi ci abbia mandato questi assurdi personaggi, avremo come risposta una squalifica: ce la beccheremo tutti e temo per ben oltre due anni.