L’attentato al buon senso

Il presidente incaricato Giuseppe Conte, dopo avere incontrato le forze politiche, ha voluto dare un particolare segno di attenzione ai risparmiatori vittime di fallimenti bancari, ricevendone una rappresentanza e garantendo loro concrete misure di risarcimento da parte del nascituro governo. Una mossa che, nel concitato clima politico, non ha trovato una grossa evidenza mediatica, anche se ne è emersa tutta la carica demagogica. Perché infatti tanta attenzione ai risparmiatori gabbati e non altrettanta ai lavoratori licenziati, ai giovani disoccupati, ai cittadini derubati, alle donne maltrattate e via discorrendo? Ma lasciamo perdere…Probabilmente questo particolare atteggiamento verso i risparmiatori rispecchiava la sensibilità di Conte e voleva essere un segno di allargamento della politica alla cosiddetta società civile.

Bene, a distanza di pochi giorni, il Presidente della Repubblica stoppa, per incompatibilità con la nostra adesione all’Europa, la nomina a ministro dell’economia di Paolo Savona, proposta dallo stesso Conte su indicazione dei partiti di governo, in particolare la Lega, e questo alt comporta il naufragio del tentativo di formare il governo. Il Capo dello Stato spiega direttamente la sua scelta con queste parole: «L’incertezza sulla nostra posizione nell’euro ha posto in allarme gli investitori e i risparmiatori, italiani e stranieri, che hanno investito nei nostri titoli di Stato e nelle nostre aziende. L’impennata dello spread, giorno dopo giorno, aumenta il nostro debito pubblico e riduce la possibilità di spesa dello Stato per nuovi investimenti sociali. Le perdite in borsa, giorno dopo giorno, bruciano risorse e risparmi delle nostre aziende e di chi ha investito. E configurano rischi concreti per i risparmi dei nostri concittadini e per le famiglie italiane. Occorre fare attenzione anche al pericolo di forti aumenti degli interessi per i mutui e per i finanziamenti alle aziende. In tanti ricordiamo quando – prima dell’Unione Monetaria Europea – gli interessi bancari sfioravano il 20 per cento. È mio dovere, nello svolgere il compito di nomina dei ministri – che mi affida la Costituzione – essere attento alla tutela dei risparmi degli italiani».

Ebbene, mentre i pentastellati si fanno belli con la difesa parolaia dei risparmiatori, Sergio Mattarella ha avuto il coraggio e la coerenza di tutelare il risparmio esercitando le sue prerogative costituzionali nell’ambito della formazione del governo. I primi stanno diventando il simbolo fasullo delle battaglie civili in difesa della gente. Il secondo rischia addirittura l’impeachment per il suo lineare e retto comportamento. L’articolo 90 della Costituzione italiana recita: «Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri».

Se qualcuno, il M5S e Fratelli d’Italia, ha l’ardire di ipotizzare la messa in stato d’accusa di Mattarella, vuol dire che vede nel suo comportamento un alto tradimento o un attentato alla Costituzione. Siamo alla demenza politico-istituzionale. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. La politica ridotta a rissa da porcile senza il minimo ritegno e rispetto verso le Istituzioni dello Stato. E questo sarebbe il cambiamento? Che Dio ce ne scampi e liberi! Alto tradimento? Sì, alla fiducia dei cittadini elettori! Un attentato? Sì: al buon senso comune del popolo italiano. Provo vergogna e ribrezzo per questi mistificatori e mestatori nel torbido.

I capo-classe della scuola degli asini

Mia madre acutamente ed ironicamente osservava, sferzando la rivoluzione avvenuta nei costumi di vita: «Il dònni i volon fär i òmmi e i òmmi i volon far il dònni: podral andär bén al mónd?». Non era una avanguardista, ma nemmeno una antifemminista, nemmeno una retrograda: voleva eticamente osservare come l’essenziale sarebbe che ognuno cercasse di svolgere al meglio il proprio ruolo, senza interferire pesantemente con quello altrui, anzi rispettandolo scrupolosamente pur esercitando il sacrosanto diritto di critica.

Nella nostra società sta succedendo esattamente l’opposto. I genitori vogliono “insegnare agli insegnanti” andando talora per le vie spicce; i figli vogliono dettare il comportamento ai genitori come se fossero semplicemente degli amici con cui giocare; in campo religioso spesso i laici sono più clericali dei preti; per dirla con una stupenda battuta ironica di un amico sacerdote, sono più le donne che vanno a preti dei preti che vanno a donne. Questa inversione di ruoli non ha nulla a che vedere con processi di emancipazione o con rivoluzioni culturali, ma discende dalla pochezza dell’io scaricata sugli altri.

Vengo all’occasione che mi ha sollecitato queste riflessioni: il vomitevole processo intentato da Luigi Di Maio e Matteo Salvini contro il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un analfabeta ed un bulletto della politica che, anziché incontrarsi per chiacchierare in un periferico e scalcinato bar sport, si danno appuntamento al Quirinale per insolentire e offendere il Capo dello Stato, reo soltanto di averli presi troppo sul serio, mentre avrebbero meritato di essere ignorati nonostante i voti raccolti e sbandierati.

Mio padre, esaminando i miei quaderni, con malcelata soddisfazione, lamentava i giudizi un po’ troppo severi della maestra, frutto del suo vecchio stile di insegnamento e del suo atteggiamento piuttosto severo. Sorridendo si riprometteva di andare a colloquio con la maestra stessa ed ipotizzava simpaticamente di indirizzarle questa bonaria critica: “Sa, signora maestra che lei è un po’ stitica”. Non vi dico le risate di tutta la famiglia, anche perché mio padre si premurava di aggiungere: “A t’ capirè se mi a m’ permetriss äd criticär ‘na méstra”. Come si permettono questi baluba della politica di censurare il comportamento ineccepibile del Presidente Mattarella, solo perché ha loro chiesto di cambiare un ministro, ritenuto, in base alla sua assoluta discrezionalità saggiamente prevista dalla Costituzione, inadatto a svolgere un ruolo di referente rispetto alle istituzioni europee. Cosa ne sa Di Maio dell’Europa, della sua storia, del contributo dell’Italia al processo di integrazione europeo?  Cosa può dire Salvini, un parlamentare europeo capitato per caso a Strasburgo, vista la sua vergognosa latitanza in questo ruolo? Cosa sanno questi signori di rispetto della Costituzione e fin dove può spingersi un programma di governo ? Cosa sanno dei tanti elementi di giudizio e valutazione raccolti da Mattarella in questi lunghi giorni di consultazioni? Ma il punto grave della situazione non sta tanto nella clamorosa e presuntuosa ignoranza di questi personaggi da avanspettacolo, ma nell’ascolto e nel seguito che ad essi concedono gli italiani e nell’appoggio alle loro stravaganti iniziative politico-istituzionali.

Solo una volta mio padre si prese la libertà di esprimere il suo dissenso rispetto al mio maestro di 4° e 5° elementare (persona che ricordo con tanto affetto e riconoscenza). Riferivo in famiglia, come sono soliti fare i bambini, che il maestro chiamava alla lavagna un alunno per segnare i nomi dei compagni buoni e cattivi – si diceva e si scriveva proprio così – per segnalare chi, magari durante la momentanea assenza del maestro, si comportava in modo più o meno indisciplinato. Era una prassi decisamente discutibile sul piano etico, educativo ed umano e mio padre, senza dirlo apertamente e, quindi, senza censurare direttamente la caduta di stile del maestro (peraltro bravo, aperto e moderno), mi consigliò, in modo pacato ma convincente, di opporre, nel caso mi fosse rivolto l’invito, il mio rifiuto a quella sciocca schedatura dei compagni di classe. Rispondi educatamente così: “Signor maestro Le chiedo di poter rimanere al mio posto e, se possibile, di non avere questo incarico”. Si trattava di una piccola, bella e buona, obiezione di coscienza, volta ad evitare confusione di ruoli, a rispettare la dignità degli altri ragazzi, a rifiutare ogni e qualsiasi tentazione per forme più o meno velate di delazione. Capii  abbastanza bene il suggerimento paterno e non mancai di metterlo in pratica alla prima occasione: il maestro, persona molta intelligente, girò  in positivo il rifiuto di fronte alla classe,  quasi sicuramente capì che non si trattava di farina del mio sacco, trovò subito chi era disposto a sostituirmi, assorbì, è il caso di dire in modo magistrale, il colpo che non gli bastò per interrompere una prassi piuttosto generale, ma non per questo meno sbagliata e insulsa, probabilmente rifletté sull’accaduto: il risultato era stato raggiunto. A Salvini e Di Maio farebbe molto comodo avere un padre come il mio: saprebbero stare degnamente al loro posto, non avrebbero la faccia tosta di sostituirsi a chi per ruolo, cultura, sensibilità, esperienza è loro maestro, eviterebbero di andare alla lavagna per iscrivere addirittura tra i cattivi Sergio Mattarella.

La mantide salviniana

Si era capito benissimo che in corso d’opera, o addirittura prima ancora di iniziare l’opera contrattuale, Matteo Salvini moriva dalla voglia di far saltare il tavolo per due motivi facilmente intuibili: la smania di incassare in fretta il dividendo elettorale emergente dai sondaggi, dalle consultazioni locali e dalla debolezza dei partner della coalizione di centro-destra; evitare il rischio di uno schiacciamento sul M5S protagonista principale del governo del cambiamento. Dal momento che la politica è diventata un fatto di mero impatto mediatico, l’acqua va colta mentre passa, non si può aspettare perché domani è un altro giorno e si vedrà.

Cosa ci azzecca infatti Paolo Savona con la Lega? Solo il pretesto per tirare la corda e buttare all’aria tutto facendo ricadere la colpa sulle intromissioni europee, sui poteri forti, sui mercati, sul Presidente della Repubblica, su quanti brigherebbero per impedire la formazione di un governo del cambiamento. Motivazioni infondate, pretestuose e fantasiose. La migliore dimostrazione sta nel fatto che la Lega ha sdegnosamente rifiutato l’assegnazione del ministero dell’economia al suo esponente di grido, Giancarlo Giorgetti: in quel caso sarebbe stata messa alla prova e tutti avrebbero potuto valutare la effettiva capacità di governo e di cambiamento degli urlatori. Troppo difficile, meglio mollare tutto senza rischiare sputtanamenti quasi sicuri.

Possibile che gli italiani cadano in queste trappole? Purtroppo sì. È in atto la gara fra chi meglio riesce ad interpretare o addirittura a cavalcare la montante onda protestataria fine a se stessa. In tal senso è scoppiato un odio-amore tra Lega e M5S e Matteo Salvini ha temuto di essere risucchiato e spompato nel letto matrimoniale grillino. Ha preso le distanze, proprio come si fa nei rapporti amorosi in crisi, ha chiesto una pausa di riflessione. Non si è fidato di un improvvisato garante, come Giuseppe Conte, visto e subito come puro portavoce grillino.  Forse per tornare ad amoreggiare col recalcitrante Silvio Berlusconi e/o con la penosa e volubile Giorgia Meloni. Probabilmente per mangiarli dopo l’accoppiamento.

Lo scenario politico italiano in vista delle prossime imminenti elezioni è alquanto incerto. Indubbiamente si stanno creando due poli sovranisti e populisti, ma non penso, come sostengono alcuni politologi, si tratti di uno schema duraturo. Sembra più una malattia passeggera della quale tuttavia bisogna temere gli effetti deleteri ed autoritari sul sistema democratico. Lo spazio residuo sarebbe disponibile per una formazione di centro-sinistra, europeista, liberista, moderata, ultrariformista: una copia più o meno conforme a “La République en Marche” di Emmanuel Macron. Questo disegno spiazzerebbe ulteriormente l’attuale partito democratico stretto nella morsa tra nostalgie ideologiche e fughe moderniste.

Potrà essere l’europeismo la nuova “ideologia” discriminante e rifondante della politica italiana? È un discorso idealmente affascinante e politicamente pregnante, ma pericoloso da riproporre in una fase storica complessa e convulsa come quella attuale. Non vorrei che, dopo la sorpresa Trump e la sorpresa Brexit, spuntasse la sorpresa grillo-salviniana. In Europa devono smetterla di provocare l’Italia: bene ha fatto Sergio Mattarella a respingere al mittente inaccettabili e grotteschi giudizi sull’Italia, apparsi su organi di stampa di un paese europeo. Oltre tutto stanno facendo il gioco di chi strumentalizza queste schermaglie per coltivare gli istinti nazionalisti pronti ad esplodere alla prima occasione. Resto convinto che il futuro italiano sia fortemente agganciato all’Europa non solo per motivi di convenienza economico-commerciale, ma per fedeltà a una visione dei rapporti internazionali solidale e collaborativa. Lo slogan coniato per la lista di Emma Bonino, “Più Europa”, potrebbe diventare il punto chiave della politica italiana.

Meglio il bario-spread oggi delle ulcere-default domani

Qualsiasi cittadino-elettore italiano, prima di effettuare un prestito ad un suo conoscente che glielo richiedesse, si informerebbe sulla serietà della persona in questione, sull’uso che farebbe di questi soldi presi a prestito, sulla garanzia di ottenerne la restituzione a tempo debito. Se poi verificasse che il potenziale debitore spende e spande, che non riesce a gestire la sua situazione economica, che intende cambiare casa, lavoro, famiglia, avrebbe seri dubbi sulla possibilità di concedere quel prestito, come minimo approfondirebbe la faccenda, prenderebbe tempo, si informerebbe ulteriormente, ne parlerebbe con i propri familiari, si consiglierebbe con persone di fiducia, andrebbe molto cauto nel prendere una decisione.

Gli elettori italiani hanno tutta l’aria di aver concesso con una certa leggerezza un voto-prestito a chi lo ha loro richiesto, prospettando una situazione favorevole che si sta rivelando piuttosto ingannevole o quanto meno problematica. Se una persona vuole rischiare, lo può fare, ma non può pretendere che rischino anche gli altri. Gli italiani non possono stupirsi e gridare allo scandalo se gli investitori non hanno fiducia nel nascituro governo Salvini-Di Maio, se gli altri Stati europei, interpretando gli umori delle loro pubbliche opinioni, esprimono dubbi e preoccupazioni, se le Istituzioni europee guardano con una certa ansia alla piega che sta prendendo la politica di uno Stato fondatore della Ue, di notevole importanza per storia, economia e demografia.

Questi atteggiamenti esterni vengono vissuti con un certo fastidio, sono considerati delle intromissioni, vengono respinti come autentiche gufate di chi vuole speculare sulle debolezze altrui. Io posso pretendere di comandare in casa mia, ma se poi ho bisogno dell’aiuto degli altri non posso fregarmene delle loro opinioni, se ho importantissimi affari in comune con loro non posso pretendere di cambiare le carte in tavola unilateralmente, se temo che approfittino delle mie difficoltà non posso nervosamente mandarli a quel paese. È vero che fare i conti in tasca agli altri è difficile e sgradevole, che i giudizi resi dall’esterno non riescono a cogliere obiettivamente tutti gli aspetti di una complessa e difficile situazione, ma è altrettanto vero che dall’esterno si riesce ad essere più distaccati e realisti, ci viene impietosamente buttata in faccia la triste realtà che si tende a nascondere per opportunismo o per vergogna. Lo spread, al di là dei tecnicismi e delle manovre speculative, significa che gli Stati, i mercati, le opinioni pubbliche, l’Europa non ci vedono chiaro. Speriamo che non succeda quel che capitò a mio padre.

«Non ci vedo chiaro!». Così diceva il radiologo mentre gli stava facendo una lastra allo stomaco. «A crèdd, rispose mio padre, a ghé scur cme la bòcca ‘dun lòvv!». Alla fine il responso fu che il mio genitore era sano come un pesce. Uscendo dall’ambulatorio, nella sala d’aspetto si imbatté di nuovo in una frenetica e grassa signora, che precedentemente gli aveva esternato tutta la sua insofferenza a bere un bicchierone di bario per illuminare lo stomaco in funzione radiologica. Con una punta di sadismo la salutò e le disse: «A proposito, me ne stavo dimenticando, il dottore mi ha detto di preavvertirla che lei di bicchieroni di bario ne dovrà bere due…». Sul momento, non conoscendo la vena ironica di mio padre, sbiancò in volto, poi scoppiarono entrambi in una liberatoria risata. Liberatoria non tanto, perché qualche mese dopo mio padre dovette farsi operare: aveva ben tre ulcere che stavano degenerando… L’oscurità dell’ambulatorio non aveva evidentemente aiutato il radiologo.

Don Contesciotte e Paolo Savonarola

Quando nell’aria si concentrano i fumi dell’equivoco e della contraddizione, prima o poi, più prima che poi, il tutto si scarica in occasione di eventi di facciata, magari emblematici, che nascondono la vera materia del contendere. Il nascituro governo, che ha due genitori naturali in Salvini e Di Maio ed un padre putativo in Giuseppe Conte, sta implodendo ancor prima di vedere la luce.

Cosa c’è in realtà dietro la stucchevole candidatura a ministro dell’economia di Paolo Savona? Tutto o niente, a seconda dei punti di osservazione. Partiamo dal tutto. L’illustre economista, per il suo curriculum, la sua storia, la sua esperienza, è la perfetta espressione del tanto vituperato establishment. I due partiti, che hanno da tempo dichiarato guerra al sistema, che rifiutano ogni e qualsiasi contatto con i cosiddetti poteri forti, che vogliono partire dalla gente e fregarsene della classe dirigente, quando devono affidarsi a qualcuno capace di governare, non trovano di meglio che ripiombare dentro l’establishment baciando il rospo e ingoiando la pillola.

Ebbene, improvvisamente un professore di ottantadue anni, una quarantina dei quali vissuti tra organismi istituzionali ed economici, diventa il simbolo del cambiamento e la scelta irrinunciabile di chi vuole avviarlo a tutti i costi. “Strana ingiunzion”, dice Falstaff a Ford, che si finge un semplice innamorato di Alice (in realtà ne è il marito), ma chiede a lui di conquistarla. E Ford così si giustifica: “Ma se voi l’espugnate, poi, posso anch’io sperar: da fallo nasce fallo e allor…che ve ne par?”. Paolo Savona sarebbe cioè il grimaldello per far saltare gli equilibri sistemici a livello nazionale, ma soprattutto a livello europeo? Dopo essere stato, se ben ricordo, ministro in un governo che pilotò l’ingresso dell’Italia nell’area Euro, ne è diventato un acerrimo nemico. Sono andato a curiosare nelle sue dichiarazioni rilasciate in tempi non sospetti e riporto tre dichiarazioni di alcuni anni fa. Da tempo sostiene che “l’euro senza un’effettiva unione politica tra gli Stati europei fa solo danni” (è un ragionamento molto radicale, ma di per sé non anti-europeo). Afferma che la Germania è “l’azionista di maggioranza di Eurolandia, che ha potuto contare su un marco svalutato per esportare e creare il suo enorme surplus” (può essere vero, ma allora?). Sul problema del debito pubblico propone di “cedere patrimonio pubblico e con gli introiti abbattere il debito. Abbattendo quindi gli oneri finanziari sul debito pubblico e creando spazi per la spesa. Il tutto senza fare ancora modifiche strutturali. È l’unica soluzione che io valuto possibile. Le altre restano avventuristiche: come ribassare le tasse senza preoccuparsi del disavanzo, nella speranza che l’elasticità della domanda superi il deficit pubblico che genera” (e allora della flat tax cosa ne facciamo?).

Mi pare che nel cervello, peraltro assai vivace, di Savona regni un po’ di confusione, ma soprattutto non vedo omogeneità con il “contratto di governo” di cui sarebbe diventato il fantomatico vessillo. Al di là del suo euroscetticismo o addirittura del suo antigermanesimo, regna uno scompiglio, che, a livello meramente culturale e scientifico, può essere anche uno stimolo, ma a livello governativo sarebbe deleterio e controproducente. Penso che Sergio Mattarella abbia queste perplessità e  non stia creando difficoltà al governo Conte, ma gliene stia cercando di scongiurare ed evitare. Lo dovrebbero ringraziare, perché diversamente inserirebbero nella compagine governativa un discreto “sporca per casa”. Ma il grido di battaglia fa perdere la bussola.

In realtà quindi dietro la finta guerra tra palazzo Chigi e il Quirinale su Paolo Savona non c’è proprio niente di importante, solo la necessità di tenere calde le truppe. Ho la netta impressione che Paolo Savona stia a questo combattimento istituzionale come Elena stava alla guerra di Troia. C’è in atto uno sforzo epico di tenere in piedi un governo che traballa ancor prima di prendere corpo.  Temo possa essere uno stile di comportamento che, suo malgrado, Giuseppe Conte dovrà tenere per coprire la guerra tra Salvini e di Maio con la battaglia contro i mulini a vento. Conte novello don Chisciotte, Savona riscoperto quale Savonarola dell’antipolitica.

Signori, è in scena la politica!

Se ben ricordo, in questi concitati giorni di trattative per la formazione del governo, ad un certo punto, pressato da ogni parte da telecamere e domande, Matteo Salvini ha invitato tutti alla calma, sottolineando di non essere una star dello spettacolo o dello sport. Molto peggio, è una star della (non) politica, finita nelle mani di operai specializzati della comunicazione, capaci di coprire il nulla della sostanza con il tutto della forma. Siamo alle prese con politici che, non avendo niente di interessante da dire e fare, esibiscono, come le attricette di scarso valore, le cosce, le tette, i culi, forse anche qualcosa di più. E tutti a rincorrerli, a prenderli sul serio e, cosa ancor più grave, a votarli.

Intendiamoci bene, non so se venga prima lo stomachevole uovo mediatico della spettacolarizzazione, a tutti i costi, della politica oppure la gallina della politica esibita dai protagonisti con il cattivo gusto del primadonnismo. Le porte del Quirinale sono diventate meglio di quelle cigolanti dei film gialli: la suspense creata ad arte nell’attesa di cosa diranno di sconvolgente Salvini e Di Maio. Siamo arrivati al punto che il colpo di teatro di un Berlusconi a corto di fiato, disertore delle telecamere dopo un triste colloquio col presidente del consiglio incaricato, ha tenuto banco per ore e ore sui canali tv alla ricerca di qualche risvolto dietrologico.

Politica e informazione, combinate insieme da comuni interessi di bottega, stanno facendo un pessimo servizio al nostro Paese, anche se purtroppo è vero che tutto il mondo è Paese. Non mi vengano a raccontare che si tratta di libertà di stampa, perché l’informazione ridotta ad avanspettacolo è l’esatto contrario. Non mi si dica che si tratta di trasparenza: sì, in effetti qualcosa traspare, vale a dire che dietro le cortine fumogene del cambiamento non c’è nulla, se non le “tette” di Salvini e Di Maio. In questo contesto il Presidente Mattarella sembra un inutile censore, un retrogrado attore che ha sbagliato palcoscenico. Cerca puntualmente e disperatamente di fare il suggeritore di un copione completamente diverso da quello interpretato sulla scena e rischia addirittura le lamentele della compagnia di giro e i fischi del pubblico che vuole solo divertirsi.

Il testo della commedia è piuttosto sgangherato, il capo-comico va in scena senza conoscerlo per filo e per segno, i registi sono due ed hanno due concezioni e visioni diverse  dell’opera teatrale, il sovrintendente si mette le mani nei capelli, ma ormai la rappresentazione è in cartellone e il pubblico l’aspetta con interesse e curiosità, la critica punta tutto sugli effetti speciali sperando che coprano le carenze drammaturgiche dello spettacolo e poi, costi quel che costi, non si può mancare questo appuntamento  pena l’emarginazione  da tutta la prossima stagione. Signori si va in scena, anzi siamo già in scena e da parecchio tempo.

Il loggione è tutto orecchie e apprezza la recitazione urlata, dai palchi viene qualche timido brusio lestamente zittito, la platea è perplessa ma non riesce a determinare l’andamento dello spettacolo.  “Com’è bello il teatro”, diceva mio padre con le lacrime agli occhi e non avrebbe mai più pensato che anche la politica finisse sul palcoscenico. Nell’ultimo atto dell’opera Falstaff, la vicenda si svolge in una foresta e Sir John dice espressamente “ecco la quercia” per identificare il luogo dell’appuntamento. “Mo indò éla?”, gridò mio padre dal loggione, dal momento che la scena non aveva neanche l’odore della quercia. Maleducato? Sì! Aveva ragione: almeno un po’, sì! Oggi il testo reciterebbe: «Ecco la politica!». E mio padre non cambierebbe la sua reazione: «Mo indò éla?». Anche se il discorso sarebbe molto lungo e complesso, valga comunque l’episodio ad evidenziare un messaggio che papà mi lanciava: stai sempre attento ai mistificatori della realtà, a chi te la vuole raccontare.

 

Adelante Conte, sed cum iudicio

La parola d’ordine è “cambiamento”. A parte il fatto che cambiare a volte non serve a nulla o addirittura significa peggiorare le situazioni, a parte il fatto che si può cambiare tutto per non cambiare niente, a parte il fatto che cambiare tanto per cambiare è solo un inganno, vediamo cosa effettivamente starebbe cambiando con la formazione del nuovo governo bicolore giallo-verde.

Innanzitutto si sarebbe partiti col piede giusto e cioè dal programma ridefinito “contratto”. Vorrei che mi si spiegasse quale governo non è partito dal programma. La mia memoria non mi aiuta: ho sempre sentito parlare, anche troppo, di programmi, poi magari regolarmente ridimensionati o disattesi, ma questo è un altro discorso, che solo il tempo rende noto. La novità quindi starebbe nel chiamarlo riduttivamente “contratto”?  Ma fatemi il piacere…

Altra novità sbandierata sarebbe quella di avere messo in primo piano i bisogni degli italiani e non gli interessi dei partiti. Ma cosa vuol dire? Cerchiamo di essere seri: la politica si serve dei partiti per interpretare e risolvere i problemi della gente. Dove sta la novità? Che gli interessi del M5S e della Lega coincidano con quelli del popolo italiano è tutto da dimostrare nei fatti, non basta proclamarlo a parole ed ancor meno non basta promettere l’impossibile. Quest’ultima sembra essere purtroppo la vera novità!

Poi ci sarebbe la novità del mandare a “cagare” l’Europa. E chi non vorrebbe mandare a quel paese il capo-ufficio che ti stressa, il vigile che ti multa, il coinquilino che disturba, l’insegnante che ti appioppa un quattro, persino il genitore che ti rimprovera continuamente. Solo che, se ci pensi un attimo, di tutti questi soggetti non puoi fare a meno e dal loro comportamento dipende anche il tuo. Ragion per cui bisogna impostare questi rapporti in positivo raccogliendone i frutti buoni, ricordando che di tutti questi soggetti si ha un gran bisogno.

Ulteriore grande novità consisterebbe nel non farsi condizionare dai conti della serva. In tutte le famiglie si discute, ognuno propone quel che più gli aggrada, ma poi bisogna fare i conti con le disponibilità e fissare, magari anche litigando, limiti, priorità, condizioni, patti. E chi non li osserva deve essere ripreso, senza che debba necessariamente minacciare di scappare di casa, sbattere l’uscio, gridare e imprecare alle regole. In questi giorni ho sentito rispondere in malo modo a chi si permetteva di chiedere dove si sarebbero trovati i fondi per finanziare le tante promesse. Ci sarebbero in ballo oltre cento miliardi. “Ma questi sono i conti della serva” si risponde piccatamente. Ma è la serva che fa la spesa e se non gli diamo i soldi sufficienti non ci può saltar fuori.

Dalle prime dichiarazioni del presidente del consiglio incaricato, Giuseppe Conte, si capiva chiaramente che il lungo iniziale colloquio col Presidente della Repubblica era stato improntato al tenere i piedi per terra, ad usare la diligenza del buon padre di famiglia, a non gettare via il bambino assieme all’acqua sporca, a non sfondare i bilanci, a non sottovalutare gli equilibri internazionali, a non mettere il carro davanti ai buoi. Qualcuno vaneggia e confonde le garanzie costituzionali esemplarmente interpretate da Mattarella con la difesa d’ufficio del sistema e dell’establishment. Sono le grida demenziali a cui purtroppo gli italiani stanno dando retta, confondendo capre e cavoli, novità e baggianate, fantasia e sogni, serietà e illusioni.

 

 

I conti di Conte e le pisciate ministeriali

Si dice che Il curriculum del presidente del consiglio incaricato, il professor Giuseppe Conte, sarebbe (il condizionale è più che d’obbligo) gonfiato con la partecipazione a fantomatici corsi universitari: in molti si sono scandalizzati, personalmente mi sono soltanto impietosito. Ammesso e non concesso che il nuovo premier abbia un tantino esagerato con le sue credenziali, da una parte la cosa fa tenerezza (roba da studentelli qualsiasi), dall’altra suscita la voglia di buttarla in ridere, o meglio di fare un po’ di sana ironia.

Vista la sua vena di prestigiatore/giocoliere forse avrebbe potuto sfogarla su un capitolo assai delicato e compromettente della sua futura azione governativa: avrebbe cioè dovuto inventare un particolare titolo di studio, la specializzazione nella quadratura del cerchio dei conti pubblici. Gli servirebbe molto più dei roboanti diplomi accumulati girovagando per le scuole e le università di mezzo mondo. Il programma che i suoi referenti politici gli stanno mettendo in mano è una patata bollente con la quale Conte rischia di scottarsi le dita: trovare oltre 100 miliardi di euro per coprire il libro dei sogni dell’imbambolamento degli italiani. Avrà a disposizione una coperta piuttosto corta con cui coprire i conti pubblici. Se la tirerà dalla parte dell’Europa, chiedendo ad essa deroghe e sforature, scoprirà i piedi degli italiani, che si troveranno impoveriti dall’andamento dei mercati finanziari; se la tirerà dalla parte del bilancio dello Stato, tagliando spese e promesse, scoprirà gli altarini dei suoi sponsor, che si troveranno costretti a rimangiarsi tutte le parole sparate alla viva il parroco.

Sembra ci sia pronto per lui un ministro che sa il fatto suo. Anche a lui non manca il curriculum, ma ha un piccolo difetto: non crede nell’Europa e soprattutto nell’Euro e ha un pessimo approccio con la Germania (roba a fronte della quale i geroglifici berlusconiani sul deretano di Angela Merkel sembrano languide carezze). Si chiama Paolo Savona: ha fatto di tutto un po’; se a Conte fa difetto l’esperienza politica, a lui manca la presentabilità europea. Come inizio non c’è male. All’esperto di storia nonché commentatore politico Paolo Mieli è stato chiesto: può l’Italia permettersi il lusso di inviare a Bruxelles un ministro dell’economia in rotta di collisione teorico/pratica con la Germania? La risposta, peraltro piuttosto scontata, è stata un secco e perentorio “no”. Io mi permetto di andare oltre: non vorrei che questi personaggi allo sbando finissero col rompere i coglioni anche a Mario Draghi, trascinandolo in una spaventosa deriva anti-italiana. Sarebbe la ciliegina sovranista sulla torta populista.

A proposito di Conte, qualcuno (Marco Travaglio per non fare nomi), barcamenandosi tra lo scandalismo sul curriculum e la comprensione verso il neofita, lo ha assimilato a Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi e Monti per dimostrare come anche costoro fossero dei novizi della politica. Mal comune mezzo gaudio. Travaglio sarebbe meglio che tornasse a fare il giornalista come gli ha insegnato Indro Montanelli, abbandonando la presunzione di essere un alto stratega della politica italiana. Ciampi era stato governatore della Banca d’Italia, Dini direttore dello stesso Istituto, Prodi presidente dell’Iri, Monti commissario europeo: carichette di seconda mano, stando all’analisi di Travaglio. Quanto a Berlusconi, lasciamo perdere…

Paolo Savona sarebbe il vero e choccante cambiamento del nuovo governo. Mi sovviene un episodio della fine degli anni sessanta. Anche nella Chiesa vi erano fermenti e venti di protesta. Nella mia parrocchia doveva venire in visita pastorale il vescovo e un velleitario   gruppo di giovani si poneva il problema di presentargli un segno provocatorio, una forte richiesta di innovazione, una spregiudicata manifestazione di novità. Il parroco, alquanto preoccupato della situazione, dopo avere ascoltato le deliranti idee di quei simpatici giovani, non seppe resistere e consigliò loro di fare una bella pisciata collettiva di fronte al vescovo. Più provocatoria di così! Ebbene, speriamo che a nessuno venga in mente di andare a pisciare ai summit europei e che Sergio Mattarella indossi il camice dell’urologo ed eviti simili eventualità.

 

Molti nemici, molto (dis)onore

Il regime fascista usava parecchi slogan per accalappiare il consenso popolare. Uno di questi diceva paradossalmente: “Molti nemici, molto onore”. Questa frase, che per la verità può essere interpretata in vario modo, per il fascismo voleva significare come la politica della fermezza, portata fino alle estreme conseguenze, paghi anche se rischia l’isolamento. Siamo all’opposto della coesistenza pacifica, una sorta di celodurismo e bullismo internazionali tornati molto di moda tramite il trumpismo, il putinismo, il sovranismo, il populismo e tutti gli ismi del genere, che altro non sono se non l’applicazione dell’egoismo a livello nazionale.

La nascita del nuovo governo Lega/M5S sta coltivando un atteggiamento conflittuale nei confronti dell’Europa, improntato al rivendicazionismo, al risentimento, alla messa in discussione dei patti. Logicamente queste prese di posizione, tradotte in modo equivoco nel programma di governo, suscitano irritazione e preoccupazione nei partner europei e negli organismi dell’Unione. I pronunciamenti in tal senso, a loro volta, suscitano piccate reazioni italiane che li bollano come inaccettabili intromissioni, accrescono momentaneamente ed orgogliosamente il consenso e scuotono strumentalmente la pubblica opinione, ma alla lunga allontanano dal nostro Paese l’opinione pubblica europea, portandolo ad uno sterile e insensato isolamento.

I rapporti con l’Unione Europea possono essere impostati e vissuti in due modi: mostrando i muscoli, peraltro piuttosto flaccidi, per strappare, a dispetto dei santi, un rafforzamento della posizione italiana oppure partecipando con pazienza e convinzione alla vita delle istituzioni europee e cercando di rinegoziare eventuali nuovi equilibri, che aiutino l’Italia a risolvere i suoi problemi in un contesto di integrazione e collaborazione. Dal momento che nessuno può ritenersi autosufficiente, men che meno l’Italia, la strada è obbligata salvo esercitarsi in un demagogico duello senza capo né coda. È questa la principale incognita che accompagna la nascita del nuovo governo, alla luce dello “stranoto” euroscetticismo leghista e dell’inquietante cerchiobottismo pentastellato. Il contratto di governo non può che rispecchiare queste contraddizioni ed a nulla serve tranquillizzare al buio i partner europei; si sa benissimo che, quando l’interlocutore è agitato ed inquieto, è perfettamente inutile e addirittura controproducente invitarlo alla calma.

Abbiamo motivazioni e ragioni per essere critici: basti pensare all’inerzia europea sul problema dell’immigrazione, basti fare riferimento al rigorismo fine e a se stesso dei Paesi nordeuropei, al sussiego transalpino, al carrozzone burocratico invadente e prevaricante. Non sono sufficienti però a giustificare pericolose prese di distanza. Non è serio scaricare provocatoriamente sui conti pubblici le impraticabili promesse elettorali. Se si comporteranno così, non so quanta credibilità avranno i futuri governanti italiani quando si siederanno ai tavoli europei, da non snobbare o aggredire perché è su di essi che si gioca gran parte del nostro avvenire.

La parola prevalente a livello europeo verso il futuro governo è “preoccupazione”, soprattutto per l’eventuale inosservanza degli impegni assunti in materia di riequilibrio dei conti pubblici. Non saranno tutti stupidi o in mala fede coloro che lanciano questi allarmi. Potrà esserci un po’ di spocchia, ma sarebbe meglio rispondere con modestia e umiltà. Facciamoci molti amici, ci serviranno nel momento del bisogno e Dio sa quanto bisogno abbia l’Italia di essere aiutata.  Non ci serve un governo altero e presuntuoso, ma dignitoso e modesto, capace di collocare i nostri interessi in ambito europeo.

 

 

 

Un governo a rischio pirandelliano

Una delle gratificazioni presenti nel mio lavoro era quella di poter combinare la preparazione tecnica e l’esperienza professionale con la sensibilità dal punto di vista sociale (la cooperazione) e con l’impegno di carattere politico seppure non a livello partitico ma a livello di un’organizzazione imprenditoriale al cui servizio mi onoravo di operare (da funzionario). Ricordo come, assieme ai colleghi delle altre province, ironizzavo, durante certe riunioni, sul diverso profilo tecnico e politico imposto dagli argomenti affrontati. “Ora interrompiamo brevemente la riunione, dicevo, usciamo un attimo, ci cambiamo l’abito e poi rientriamo e continuiamo la riunione”.

Il mix tecnico-politico, probabilmente la cifra caratteristica del nuovo governo, non mi scandalizza affatto. Il problema sta nel fatto che la “tecnicalità” del presidente del consiglio e di alcuni ministri non servirà ad irrobustire la politica, ma a coprirne le contraddizioni e le magagne. Mi viene in mente la barzelletta del colloquio tra un avvocato e il suo cliente durante il quale vengono passati in rassegna i vari punti della causa. Il legale di fiducia, quando affronta i punti forti della sua impostazione, dice con una certa enfasi: «Qui vinco alla grande!». Quando arriva a toccare i punti più deboli, afferma sconsolatamente rivolgendosi al cliente: «Qui lei la prende in quel posto!».    E l’attonito e perplesso cliente ribatte: «Com’è questa faccenda? Quando si vince il merito è suo…quando si perde la prendo nel …. io…». Forse succederà così nel nuovo governo tra politici e tecnici, anche se molto probabilmente a prenderla in quel posto saranno gli italiani.

Non si tratta di un governo di cambiamento, ma di equivoco comunicativo. Il programma cambia e cambierà in continuazione: niente di male, ma il programma è diventato un contratto, e quindi per cambiare un contratto occorrerebbe la comune volontà delle parti, mentre nel caso in questione saranno soprattutto le bypassate condizioni oggettive di vario ordine a imporre un accordo camaleontico. Quello che non sarà possibile fare sarà colpa dell’Europa, dei poteri forti, del sistema in oltranzistica difesa, della tecnica prevaricante sulla politica. Ciò che verrà mantenuto sarà invece tutto merito dei partiti di governo e della loro volontà di innovazione. Quello che si sarebbe definito confusione programmatica viene spacciato per attenzione ai contenuti ed ai bisogni dei cittadini, che vengono prima dei vincoli e dei limiti oggettivi. Quello che si sarebbe spregiativamente bollato come inciucio, come accordo di potere tra forze diverse e talora persino alternative, viene rivalutato a compromesso ai livelli più alti, mentre in realtà il tutto avviene tra chi sostiene tesi opposte e trova il collante non tanto nella spinta degli elettori, ma nella opportunità di sfruttare l’aria che tira. Mi si perdonerà la digressione pirandelliana: sarà il governo del così è se vi pare, dei ministri in cerca d’autore, del giuoco delle parti, della recita a soggetto e speriamo non si arrivi al governo che non è una cosa seria.

Lasciateci lavorare! Ma certo, e chi lo potrà mai vietare. Il Presidente della Repubblica non lascia giustamente trasparire le sue perplessità: sta prendendo tutte le precauzioni del caso, come si fa quando si inizia una terapia piuttosto invasiva e piena di controindicazioni. Intende mettere tutti di fronte alle proprie responsabilità, anche se mi sembra non possa andare molto oltre quel che faceva mio padre, quando saliva in un’auto guidata da una persona sconosciuta. Si fidava del prossimo con una giusta punta di scetticismo ed a chi gli forniva un “passaggio” in automobile, se si trattava di persona sconosciuta o che non gli ispirava troppa fiducia, era solito chiedere: “ Sit bon ad  guidar”. Naturalmente l’autista in questione rispondeva quasi risentito: “Mo scherzot?!”  E mio padre smorzava sul nascere l’ovvia rimostranza aggiungendo: “Al fag parchè se pò suceda quel, at pos dir dal bagolon”.