Si Salvini chi può

Si sta fortunatamente dissolvendo la nebbia mediatica funzionale allo smarrimento elettorale del popolo italiano. Sono così clamorose le continue gaffe del nuovo governo da imporre un rigurgito di spirito critico ai commentatori politici fino ad ora piuttosto appiattiti nell’attesa del Godot governativo. I difensori d’ufficio, ben lontani dal gettare la spugna, la buttano sul pietismo filo dimaiano e salviniano nonché sul perbenismo filo contiano.

L’ondata critica infatti sarebbe frutto di pregiudizi antigrillini ed antileghisti, non concederebbe ai nuovi arrivati nemmeno il tempo di sedersi sulle poltrone appena conquistate, cadrebbe nella trappola nostalgica verso i precedenti governi. Tradotto in linguaggio da bar, chi osa parlar male della mamma grillo-leghista dovrebbe pulirsi la bocca; chi dimostra un’impazienza, giudicata impertinente e faziosa, viene tacitato con la comoda istanza del “lasciateli lavorare”; chi rivolge critiche alle prime scelte del governo viene tranquillizzato con un pressapochistico e qualunquistico “peggio di quanto hanno fatto i predecessori non potranno fare”.

Riprendo la similitudine ripetutamente adottata: se, dopo aver conferito in appalto la ristrutturazione di un fabbricato sulla base di un contratto un po’ confuso, il committente si accorge che l’esecutore delle opere rischia immediatamente di buttare all’aria tutto senza un minimo di costrutto e di lucidità progettuale, non lascerà andare tutto in malora, ma interverrà immediatamente per contestare la violazione del capitolato prima che sia troppo tardi. Al di là di alcune normali esagerazioni dialettiche, peraltro in perfetto stile populista, vale a dire usando lo stesso linguaggio che per anni i “signornò” hanno adottato nei confronti di chi governava e financo di chi capeggiava lo Stato (della serie “chi la fa l’aspetti”), mi sembra che la critica levata di scudi della stampa a livello internazionale e nazionale non possa essere liquidata come una reazione meramente strumentale al tentativo del cambiamento.

Stanno succedendo cose dell’altro mondo. Un ministro dell’interno che crea un incidente diplomatico al giorno, che spara a vanvera, che chiacchiera nei bar leghisti, che gira a vuoto come una trottola. Un ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico che promette tutto e il suo esatto contrario. Un Presidente del Consiglio che brancola nel buio del Parlamento prima e del G7 poi, facendo il pendolare fra Istituzioni e popolo, fra Usa e Ue, fra Occidente e Russia, fra promesse impossibili e rassicurazioni incredibili.

Di fronte a questa vergognosa dimostrazione di incapacità ed impreparazione bisognerebbe tacere e aspettare? Aspettare cosa? Che questi signori, in nome del popolo italiano, ci portino tutti alla rovina, tanto, peggio di così non può andare? L’Italia, pur tra errori, ritardi e inadempienze, ha progredito, è diventata un importante paese industriale, non è un paese sottosviluppato. Le scelte storiche di fondo le ha sapute fare e le ha azzeccato: la scelta dell’Occidente, della Nato, dell’Europa Unita, della promozione del benessere sociale, della conquista dei diritti civili, del decentramento regionale, della difesa delle autonomie locali, della fedeltà alla Costituzione, del rapporto solidale con le altre nazioni.  I governanti del cambiamento stanno attaccando alcune di queste fondamenta e non possiamo far finta di niente.

Mio padre era solito raccontare un episodio che gli era rimasto molto impresso. Un giocatore di calcio di fronte ad un arbitro, che ne stava combinando di tutti i colori, non protestò clamorosamente, ma gli si avvicinò porgendogli una paradossale domanda: «Scusi tanto, ma lei è venuto qui ad arbitrare mandato dalla federazione oppure di sua spontanea iniziativa?». Ebbe una squalifica molto pesante, ma si tolse una bella soddisfazione. Se fosse possibile, nei confronti del presidente Conte e dei ministri Di Maio e Salvini (mi limiterei a loro in quanto punte di diamante del nuovo governo giallo-verde), userei una simile domanda: «Chi vi ha messo al governo? Il presidente della Repubblica sulla scorta dei risultati elettorali o vi siete trovati vostro malgrado a passare davanti a Palazzo Chigi e vi hanno temerariamente ed ingenuamente fatto entrare?».  Sono vittima anch’io di pregiudizi? Può darsi, ma esistono anche i sani pregiudizi.

 

 

La cellulite giallo-verde

Abbiamo trascorso tre mesi di ossessionante incertezza politica post-elettorale. Archiviato questo periodo, fitto di continue e paradossali incoerenze e fuorviato da un’attenzione mediatica fine a se stessa o faziosamente indirizzata a legare l’asino dove vuole il nuovo padrone, è cominciata l’era del governo del cosiddetto cambiamento e, se il buon giorno si vede dal mattino, tutto sembra orientare il dibattito alle sirene dimaiane e salviniane più che all’attenta osservazione del governo di Giuseppe Conte.

Sarà opportuno mettersi la cera nelle orecchie bombardate da slogan e da clamori mediatici per giudicare seriamente e spietatamente un’azione di governo nata all’insegna delle balle a cui dobbiamo concedere il poco posto che meritano. Forse sarà inutile anche continuare a ripetere il ritornello delle coperture e compatibilità finanziarie, peraltro assai problematiche al limite dell’impossibile, per allargare il giudizio al merito dei provvedimenti che verranno adottati.

Faccio alcuni esempi. I cambiamenti alla legge Fornero vanno visti solo dal punto di vista finanziario oppure vanno anche valutati nella loro portata socio-economica? Il reddito di cittadinanza è una misura sfonda-bilancio o è anche e prima di tutto una cavolata assistenzialistica perfettamente in linea con le tanto vituperate politiche del passato per il meridione? Le scelte in materia di immigrazione vanno esaminate alla luce del risparmio finanziario e della paura del diverso o vanno inquadrate in un discorso di carattere etico e internazionale, inserite in un’analisi di costi-benefici, in un processo evolutivo che integra il necessario e non si limita a respingere il superfluo?

Anche l’azione dell’unica opposizione credibile ed agibile, vale a dire il Partito Democratico, guidato, coeso, motivato e allargato, penso debba non limitarsi alla giornaliera sparata polemica, ma puntare alla costruzione paziente e concreta di risposte ai problemi, in linea con l’azione governativa precedente, tutta da rivalutare e proseguire, ed alla proposizione di una politica di sinistra coniugata con la necessità di rispondere in modo serio alle ansie dei cittadini. Il partito democratico non deve lasciarsi imprigionare dall’ansia da prestazione con i sondaggi quotidiani alla mano, con l’impaziente volontà di riaccreditarsi come il buono che si contrappone ai cattivi e con la masochistica ammissione continuativa della sconfitta e degli errori passati.

Mantengo tutte le mie serie perplessità e i miei fortissimi dubbi sulla combinazione governativa uscita più da un ignobile connubio che dalle urne. Tuttavia non mi piace il clima politico e soprattutto mediatico da ultima spiaggia, che accompagna i primi vacillanti passi del governo Conte (tanto per cominciare chiamiamolo col suo nome e spegniamo i fari puntati sulle starlette dell’accordo giallo-verde): sarebbe un piacere immeritato fatto al nuovo governo che cerca la ribalta per mostrare le gambe e nascondere le rughe.

Opposizione accolta

Indipendentemente da tutto, chi ha a cuore gli interessi del Paese (la Patria la lasciamo a Fratelli d’Italia) dovrebbe preoccuparsi di un governo che governi e di un’opposizione che si opponga: il gioco democratico lo impone. Se quindi sono seriamente preoccupato per la tenuta democratico-istituzionale del governo di cambiamento, sono altrettanto ansioso di vedere profilarsi un’opposizione credibile che sappia offrire un’alternativa rispetto all’attuale, strana ma larga, maggioranza parlamentare.

L’unica possibilità al riguardo non la vedo certo nelle stizzose e nostalgiche reazioni di FdI o nelle stucchevoli e incoerenti amarezze berlusconiane: durante il dibattito sulla fiducia al governo Conte, Giorgia Meloni non ha saputo che propinare una puntuta lezioncina lessicale di sapore nazionalistico, mentre Mariastella Gelmini si è attaccata ad un evidente lapsus del presidente del consiglio, niente di più e niente di meno di un copione già scritto e peraltro mal recitato.

L’opposizione non può venire che dal Partito Democratico e lo ha dimostrato un nobile, deciso e serio intervento di Graziano Del Rio alla Camera dei Deputati: allo strisciante populismo dei partiti di maggioranza a cui Giuseppe Conte ha fatto l’eco governativa, l’esponente Pd ha contrapposto una visione democratica istituzionale, in quanto gli eletti  rappresentano il popolo operando all’interno delle Istituzioni e non bypassandole;  al pressapochismo del cambiamento improvvisato ha contrapposto una cultura di governo derivante dall’esperienza storica, fatta di errori ed omissioni, ma anche di conquiste civili e sociali; al confuso rimescolamento nella collocazione internazionale ha contrapposto la fedeltà ideale, fattiva e critica alle scelte occidentale ed europeista; alle promesse del “tutto e subito” di un rivoluzionarismo ingenuo e fuorviante ha contrapposto le prospettive di un paziente riformismo progressista.

Penso debba essere questo il taglio dell’opposizione, portata avanti da uomini credibili per la loro competenza e serietà. Il Pd esca dalla spasmodica ricerca di un nuovo leader a tutti i costi così come dalla colpevolizzazione della leadership uscente ed elettoralmente perdente. I leader non si improvvisano e se non emergono spontaneamente ci si deve affidare ad un lavoro costruttivo di gruppo: al Pd non mancano personaggi in grado di prender in mano la situazione e rilanciare il partito. Abbiano la pazienza e l’umiltà di procedere in tal senso, accantonando i protagonismi personali e le divisioni strumentali.

Il Partito Democratico abbandoni la sindrome del tradimento popolare e la smania di rianimare un’inesistente foresta con richiami anti-storici, riapra un dialogo con la gente e proponga soluzioni concrete sulla base dei valori che non mancano alla sinistra democratica e riformista. Si prenda tutto il tempo necessario, perché non sono credibili prospettive di ribaltamenti immediati ed emozionali dell’elettorato. Non si fermi alla polemica, anche se i motivi non mancherebbero; non si affidi alla piazza anche se la tentazione può essere forte; non giochi al tanto peggio tanto meglio, perché c’è già chi va paradossalmente in questa direzione da frettolose posizioni di potere; non cada nell’errore storico del purismo ideologico: non è certo il momento di spaccare il capello in quattro alla ricerca del tempo irrimediabilmente e colpevolmente perduto. Faccia l’opposizione e poi si vedrà…

 

 

Scarpe grosse, cervello fin…ito

Se devo essere sincero fino in fondo non ho capito l’umore dei miei connazionali che li ha portati ad esprimere un voto superficiale ed irrazionale, tale da comportare la nascita di un governo carico di incognite a tutti i livelli. Consiglierei a tutti di leggere i commenti della più altolocata stampa internazionale per rendersi conto in quale imbarazzo politico ci siamo ficcati: non saranno tutti servi dei mercati e paladini del capitalismo…Stiamo diventando il laboratorio della più insensata sperimentazione antipolitica.

Ho messo in parallelo le strampalate prime mosse del nuovo ministro dell’interno Matteo Salvini con le calibrate dichiarazioni rese dall’ex ministro dell’interno Marco Minniti e mi sono chiesto: possibile che gli italiani fra uno sbracato venditore ambulante ed un misurato negoziante preferiscano il primo, rischiando, una volta tornati a casa, di verificare che la merce comprata è taroccata e non serve a niente? Incredibile, ma vero!

Da una parte un personaggio, persino simpatico nella sua esibita ignoranza, con le scarpe grosse che lascerebbero immaginare un cervello fino (senonché poi ci si accorge in fretta che il cervello è ben più grosso delle scarpe), che recita a soggetto in una materia delicatissima dove l’errore comporta smisurate conseguenze a tutti i livelli, che considera il fenomeno migratorio come un lusso per i buonisti in vena di affarismo, che lo tratta come se fosse un problemuccio italiano da risolvere all’italiana; dall’altra parte un personaggio capace di inquadrare i problemi e di proporne graduali e pragmatiche soluzioni, discutibili ma credibili, che dimostra di avere almeno la consapevolezza del quadro complessivo entro cui operare (e non è poco), di possedere la capacità di tentare la coniugazione fra solidarietà e sicurezza, di calare il problema degli immigrati nel contesto mondiale da cui prende le mosse.

Non ne faccio un problema ideologico (anche se i confini col razzismo sono molto labili), non ne faccio un problema politico (anche se destra e sinistra si stanno rivelando categorie diverse e tutt’altro che superate), non mi rifaccio puramente al discorso etico (anche se l’attenzione e il rispetto per l’uomo dovrebbe essere il presupposto di ogni azione di governo), non entro nemmeno nel merito (troppo complesso, ci sarà tempo e modo di ritornarci sopra) e mi limito a mettere sul piatto della bilancia due modi intendere la politica così ben impersonificati da questi due  ministri a confronto (uno entrante ed uno uscente). Ebbene prendo atto a malincuore che gli italiani preferiscono buttare il prete nella merda piuttosto che ragionare col prete. In democrazia la maggioranza ha sempre ragione. Ne siamo proprio sicuri? E se, per caso, la maggioranza non ragiona…Nel dibattito sulla fiducia al governo in Senato è intervenuta Liliana Segre, recentemente nominata senatrice a vita. Consiglierei a tutti di leggere il testo del suo intervento, se fosse possibile ne renderei obbligatoria la lettura prima di ogni e qualsiasi discussione politica, soprattutto prima di recarsi alle urne: una sorta di preghiera laica mattutina. Forse potrebbe agevolare un ravvedimento operoso rispetto a quanto successo lo scorso quattro marzo. Non è mai troppo tardi.

 

Uno spartito problematico per un moderno battisolfa

Non mi aspettavo molto dal discorso di presentazione del governo alle Camere, tenuto dal Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, ero convinto che sarebbe emersa quella pochezza politica che piace molto alla maggioranza degli italiani, ma dal poco al niente ci passa una bella differenza. Giuseppe Conte si è limitato a svolgere la versione in prosa della poesia contrattuale creata da M5S e Lega o, se volete, a fare la parafrasi, peraltro assai poco brillante, del contenuto contrattuale.

Nel triste e lungo periodo della preparazione di questo governo, molti si sono sbizzarriti nel dare ripetizioni al Presidente Mattarella sui suoi compiti fissati dalla Costituzione: non ce n’era alcun bisogno vista la sensibilità, la preparazione, l’esperienza e l’equilibrio dell’attuale Capo dello Stato. Sarà bene che le premurose lezioni costituzionali vengano deviate sul Presidente del Consiglio, che sembra un pesce fuor d’acqua e non mi pare all’altezza del compito cui è stato chiamato.

L’articolo 95 della Costituzione recita: «Il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri». Se vogliamo fare una brillante similitudine, possiamo azzardare il paragone con la direzione di un’orchestra: come può dirigerla un maestro che non conosce la musica? Dal momento che l’orchestra è formata da “suonatori” raffazzonati, impreparati e scoordinati il ruolo del direttore diventa ancor più essenziale e difficile. Mi è capitato spesso di ascoltare dagli incompetenti battute del tipo: cosa vuoi che sia, basta lasciare andare l’orchestra dove vuole…Forse lo si può fare, peraltro relativamente, con orchestre di grande valore, compattezza ed omogeneità, non certo con l’attuale arlecchinata governativa.

Ricordo, durante la mia modesta ma interessante esperienza di componente della commissione teatrale del Regio di Parma, di avere assistito alla preparazione di tanti spettacoli e di avere capito come sia essenziale per la buona riuscita poter contare su una bacchetta di primordine e fortemente impegnata. Due episodi si scontrano in tal senso ed hanno avuto come protagonisti due direttori, di cui non faccio il nome per ovvi motivi. Un direttore routinier, che lasciava fare, che tirava sera, che fingeva di non sentire le stonature dei cantanti e le marachelle dell’orchestra, che dettava tempi assurdi: fu un disastro, un fiasco che passò alla storia. Un direttore, disponibile a sporcarsi le mani, che arrivò, prese atto dell’impreparazione degli orchestrali, si rimboccò le maniche e lavorò sodo con i vari settori dell’orchestra e con i cantanti: fu un bel successo, rammento ancora con simpatia la sua gioia alla fine della rappresentazione.

Ebbene, Giuseppe Conte non è né carne né pesce: non è certo un routinier che possa illudersi e illuderci di recuperare le situazioni con un colpo di bacchetta; non è nemmeno un direttore capace di prender in mano le situazioni e di indirizzarle al meglio. È, come si dice in gergo musicale, un “battisolfa di lusso”, ma sempre un battisolfa. Le sue prime mosse, senza voler infierire, lo dimostrano. Oltretutto ha intorno troppi violini di spalla, che interferiscono sulla sua direzione orchestrale anziché appoggiarla e assecondarla. Non pretendo che diriga senza spartito, ma la musica la deve conoscere e lui la conosce troppo poco. Auguri comunque!

Sopra il governo aleggia il dubbio del sottogoverno

Stupisce come i media, durante la defatigante trattativa per la formazione del governo post-elettorale, abbiano fortemente trascurato la dietrologica ma illuminante pista delle imminenti nomine del cosiddetto sottogoverno. Potrebbe essere stato l’argomento più convincente per indirizzare le due forze politiche a cercare un modus vivendi contrattuale (non si tratta infatti di un vero e proprio programma di governo per ammissione degli stessi contraenti) e, dopo un primo clamoroso fallimento, a fare una rapida e vergognosa retromarcia per riprendere frettolosamente in mano un accordo purchessia, in controtendenza rispetto ai “mai e poi mai” proclamati elettoralmente, ma soprattutto per cucinare un’autentica e sgradevole macedonia tra le visioni socio-economico-politiche di M5S e Lega.

Chissà perché il giornalismo (?), così strenuamente critico verso le stanze del potere, si è lasciato sfuggire l’occasione per fare un po’ di allarmismo sulla vena dorotea di coloro che postulano il loro governo quale svolta di cambiamento. Tutti gli osservatori più disincantati si saranno chiesti come mai nel giro di poche ore i due partiti, sdegnosamente recalcitranti di fronte ad una sacrosanta richiesta del Presidente Mattarella, abbiano mutato d’avviso trovando la quadra di un accordo che sembrava impossibile per un pretestuoso scontro aperto con il Capo dello Stato al limite delle vomitevoli e vigliacche ingiurie e della grottesca richiesta di messa in stato d’accusa. Sono state ipotizzate motivazioni di carattere tattico ed elettorale: probabilmente i due partiti, forse sarebbe meglio dire i due presunti leader Salvini e Di Maio, si erano spinti troppo avanti e rischiavano di cadere proprio sul più bello. Non era colpa di Mattarella era semmai tutta colpa del loro dilettantismo.

Potrebbe però aver giocato un ruolo importante la succulenta torta di nomine governative pronta sul tavolo di Palazzo Chigi, talmente invitante da portarli a più miti consigli. E cosa c’è in ballo di tanto importante? Ho fatto una rapida indagine e, salvo errori ed omissioni, riporto di seguito l’elenco delle nomine in questione: consiglio di amministrazione della Cassa Depositi e Prestiti (l’istituzione finanziaria che gestisce la cassaforte dello Stato), della Gse (la società per la gestione dei servizi energetici, della Sogei (la società generale d’informatica che gestisce le tecnologie dell’informazione e della comunicazione); di grandi aziende pubbliche quali Enel, Eni, Fincantieri, Poste, Leonardo, Enav, Mps, Terna, Snam, Italgas (350 incarichi tra consigli di amministrazione e collegi sindacali che potrebbero cambiare la geografia del potere economici del Paese); direttore generale e presidente della Rai;  responsabili dell’autorità dell’energia.

Non so sinceramente quante e quali di queste nomine avrebbero potuto essere fatte da un governo tecnico, ma comunque, con ogni probabilità, i grillini ed i leghisti non si saranno lasciati sfuggire l’occasione per fare man bassa di cariche assai rilevanti. Andare alle elezioni poteva comunque, al di là delle più rosee e sondaggistiche prospettive, rappresentare un’incognita o comunque una complicazione al riguardo. Incassiamo quel che possiamo, si saranno detti, poi si vedrà… Sia chiaro: non mi scandalizzo affatto. Un governo non governa solo con i ministri, ma con l’apparato pubblico alquanto articolato e complesso.  Mi infastidisce l’aria da ingenue donzellette di campagna sciorinata agli italiani in cerca di freddo per il letto e, soprattutto, la distrazione dei media impegnati a ricollocarsi, a mettere le mani avanti, a posizionarsi per salire sul carro del vincitore.

Per sottogoverno si intende, in chiave negativa, la forma di malcostume politico per cui le forze e gli uomini di governo, mediante l’occupazione di posti chiave nell’amministrazione pubblica e in vari enti economici e finanziari, sfruttano e consolidano la propria posizione e quella dei loro amici e sostenitori mediante favoritismi e corruttele. Quindi, quando certe forze politiche si occupavano di coprire le caselle del potere erano bollate come assatanati collezionisti di poltrone, seggiole e strapuntini; ora invece è normale che le cariche pubbliche facciano gola e gioco. Ne prendo atto. Ammetto di avere pensato male, nel senso di aver ipotizzato come la prospettiva delle imminenti nomine di sottogoverno abbia quadrato il cerchio della formazione del nuovo governo. Mi è venuto questo dubbio. Sono un inguaribile menagramo, un malizioso osservatore della politica, un diabolico conservatore (quasi reazionario) dello status quo. Può anche essere, ma, come dice il contestato aforisma andreottiano, “a pensar male si fa peccato, ma ci si indovina”.

Non vorrei che per il cambiamento sbandierato dai grillini (i leghisti al governo ci sono già stati parecchio, assieme a Berlusconi, con risultati…) potesse valere quanto successe all’apertura della stagione del centro-sinistra, vale a dire all’ingresso governativo dei socialisti. A commento di questa svolta storica riporto, a senso, lo scambio di battute fra Indro Montanelli e Fernando Santi (un vero socialista radicalmente contrario al centro-sinistra). «Ma perché, onorevole, chiese Montanelli, è così ostile a questo nuovo equilibrio politico-governativo?». «Lei non li conosce i miei compagni, rispose Santi, una volta entrati nelle stanze del potere sarà un finimondo…».

Invertendo l’ordine degli equivoci la politica non cambia

Il governo Conte (alias Salvini-Di Maio) nasce in mezzo agli equivoci e non poteva essere diversamente. Segna l’alleanza (?) fra due partiti disomogenei in quasi tutto meno che nel voler cavalcare la piazza. Non è né di destra né di sinistra, ma in realtà è dominato a livello di leadership e in senso politico dalla Lega, che lo connota inequivocabilmente a destra. È un governo di lotta e di protesta, ma è zeppo di doppiopettisti, che ne sfumano alquanto i toni barricadieri. Dovrebbe essere un governo politico, ma è infarcito di tecnici, a partire da chi lo presiede. Si presenta come un governo di “contratto”, il che lascerebbe pensare ad un programma preciso e stringato, mentre invece si basa su un autentico libro dei sogni e come tutti i sogni ha quindi una tessitura confusa, inconcludente e fuorviante.  Si propone come governo del cambiamento, ma è nato all’insegna della peggior logica compromissoria in mezzo a veti incrociati, ripicche, trasformismi e furbizie. Vorrebbe essere una risposta alle paure dei cittadini, mentre in realtà le aumenta, le alimenta e le strumentalizza. Punta, sul filo del rasoio dell’incostituzionalità, al filo diretto coi cittadini scavallando le istituzioni, ma poi finisce con l’essere di fatto un imbroglio comunicativo degno dei peggiori regimi autoritari. Si pone l’obiettivo di alzare il livello qualitativo della politica, ma invece offre un’immagine dilettantesca ed improvvisata nei programmi e nei protagonisti. Nasce nell’ideologia sovranista e populista, ma non ha il coraggio e la possibilità di andarvi fino in fondo e si rifugia nel tira e molla tra europeismo, antieuropeismo ed euroscetticismo.

Tuttavia l’equivoco più curioso consiste nel suo populismo, vale a dire nel puntare sul disamore verso la politica con parole d’ordine roboanti quali “onestà”, “sicurezza”, “lavoro”, “concretezza” e simili. È un governo che “pattona” l’Italia e la tratta da paese di serie B pur vagheggiando una promozione in serie A. Ebbene, quando i rimproveri, sostanzialmente identici ai propri, arrivano dall’esterno, vale a dire da autorevoli esponenti europei, vengono sdegnosamente rinviati al mittente. In fin dei conti cosa ci chiedono dall’Europa? Di essere più onesti, più impegnati, più seri, più razionali. Apriti cielo! Scatta l’orgoglio nazionale: come si permettono, si guardino allo specchio, si puliscano la bocca, si vergognino, etc. etc.

È pur vero che siamo tutti portati ad accettare con fatica i rimbrotti a livello familiare ed a respingere quelli che arrivano dagli estranei. Se posso permettermi di andare contro corrente, tutto sommato mi sento però di dare più ascolto alle bacchettate europee che non a quelle grillo-leghiste. Scandalosamente concedo maggiore attenzione alle disposizioni dell’amministratore del condominio che non a quelle dei miei finti parenti: dalle prime so almeno come difendermi, verso le seconde mi sento piuttosto disarmato e frastornato.  In poche parole la dico grossa: preferisco Juncker e Oettinger a Salvini e Di Maio.  Ho detto, clamorosamente e brevemente, tutto!

Ucci ucci sento odor di fascistucci

Durante il filo diretto con gli ascoltatori, che Radio Popolare 99 – un’emittente radiofonica parmigiana degli anni settanta riconducibile alla sinistra extra-parlamentare –  teneva per ore e ore in compagnia di Feffirino Ghirarduzzi, un simpatico personaggio espressione della nostrana cultura popolare ed anti-clericale, chi osava contestare le filippiche contro il capitalismo dello stato clerico-fascista veniva immediatamente e seccamente bollato come amico del giaguaro: «Ti ho riconosciuto, sei un/una fascista…». Non intendo quindi (s)cadere nel vizio, tipico di un certo culturame dell’estrema sinistra, di esorcizzare l’avversario politico quale espressione riveduta e corretta del fascismo.

Bisogna tuttavia riconoscere che il popolo italiano non ha sviluppato a dovere gli anticorpi derivanti dalla devastante malattia patita nel ventennio: i motivi sono di carattere psicologico (rimane in noi la tentazione di sfogare nel pubblico le frustrazioni private), di tipo storico (la vera resistenza fu un fenomeno d’élite, divenne un fatto di popolo solo durante la guerra), di livello esistenziale (i fascisti ebbero il modo di riciclarsi, mentre le nuove generazioni non riescono a comprendere il pericolo tuttora latente), di carattere culturale (il fascismo non è stato adeguatamente studiato nella sua portata, ma frettolosamente archiviato).

È quindi giusto affermare solennemente, come avviene nel testo della Costituzione, che la Repubblica italiana è nata dalla Resistenza, ma bisognerebbe aggiungere che la Resistenza non deve finire mai. La nostra democrazia, ben strutturata e corazzata a livello istituzionale, soffre una certa debolezza sul piano politico. Si fa un gran parlare di prima, seconda, terza repubblica. Anche se queste schematiche catalogazioni della nostra storia recente lasciano il tempo che trovano, effettivamente il periodo che va dal varo della Costituzione fino a tangentopoli ha una sua connotazione: la democrazia alimentata e protetta dall’ideologia cattolica e da quella comunista, con la classe dirigente proveniente da queste due scuole di pensiero e di azione. Questo è stato l’ombrello protettivo contro ogni e qualsiasi risorgente fascismo, si chiamasse brigatismo nero o rosso, stragismo di stato o mafioso, golpismo militare o nostalgico, anticomunismo viscerale o spionistico, etc. etc.

Quando il sistema catto-comunista ha traballato sotto i colpi della corruzione dilagante, il popolo italiano è andato in confusione e si è affidato, mani e piedi, al primo venditore ambulante che passava: mi riferisco a Silvio Berlusconi ed al suo ventennio, peraltro forse non ancora completamente terminato. Il virus latente del fascismo riprese vigore mutando, come avviene per quelli impossibili da estirpare, le sue caratteristiche ed i suoi effetti. Proseguendo in questa spannometrica analisi storica, temo che, sostanzialmente esaurita la carica anti-democratica berlusconiana, passate, frettolosamente e senza lasciare tracce indelebili, le speranzose parentesi prodiana e renziana, forse stiamo rischiando di scivolare ancora una volta nel gorgo fascista senza accorgercene. La risorgente malattia assume i toni del moderno (?) populismo, del sempre accattivante sovranismo, del camaleontico nazionalismo, dello strisciante razzismo, del clericalismo senza clero, delle paure del diverso, del disagio sociale e del conseguente qualunquismo, della criminalizzazione dell’avversario, della estremizzazione dei toni e del linguaggio, delle scorciatoie di una fantomatica democrazia diretta. Il tutto truccato con improbabili aperture sociali, con l’illusoria fornitura di sicurezze impossibili, con la riproposizione di steccati anti-storici, con la coltivazione di egoismi di varia natura.

Penso di non essere il solo a intravedere questi pericoli e a temere l’ammiccamento, quasi inconsapevole, verso moderne derive autoritarie ben condite a livello comunicativo. Il governo giallo-verde assomiglia molto a una grigia giubilazione delle istituzioni democratiche e ad una sorda interpretazione delle ansie popolari. Qualcuno dirà che si tratta di allarmismi maniacali, sarà…ma sento una puzza, che mi ricorda quanto mio padre mi raccontava. Io infatti non sono in grado di ricordare quel che non ho vissuto, ma la memoria è fatta anche di educazione ricevuta.

Il governo truccato

Il popolo italiano sta scherzando col fuoco: si è reso conto di abitare una casa piuttosto insoddisfacente, scomoda, difficile da utilizzare e allora, dopo aver provato a ristrutturarla con esiti incerti ma soprattutto con prospettive dai tempi troppo lunghi, ha deciso di “cambiare casa” affidandosi istintivamente a chi gli ha fatto credere che un nuovo appartamento fosse dietro l’angolo e bastasse poco per costruirlo. Niente manutenzione straordinaria, niente conservazione, niente ristrutturazione, si riparte da zero, distruggendo il vecchio per erigere il nuovo.

Così è andato al voto del 04 marzo scorso con l’incarico a due studi tecnici diversi che proponevano soluzioni diverse anche se per certi versi simili. Un’occhiata sommaria ai progetti di massima, una strizzata d’occhi, una decisione avventata: ci pensino loro, semmai cambieremo in corso d’opera. Prima di partire coi lavori il Presidente della Repubblica, chiamato costituzionalmente a sovrintendere, si accorge che i progettisti la pensano in modo troppo diverso, non trovano la quadra ed allora decide di soprassedere, di prendere tempo, incaricando qualche tecnico di collaudata esperienza per manutentare al meglio la casa, prima che gli italiani abbiano l’opportunità di riprendere in modo approfondito il discorso della nuova casa.

Ad un certo punto i due progettisti temono di perdere l’incarico e cercano disperatamente di trovare un accordo, ma arrivano soltanto alle modalità per distruggere il vecchio edificio, si limitano a improvvisare la demolizione. Il sovrintendente ne prende atto, ma ad un certo punto scopre che esiste un forte rischio di danneggiare gli edifici circostanti, di allargare un po’ troppo il discorso e pone un alt: l’edificio europeo non si tocca, non se ne è parlato, non si può procedere senza licenza, occorre cautela, limitiamoci a progettare il progettabile, poi si vedrà…

Niente da fare: o tutto o niente! Prendere o lasciare. O così o pomì! Dobbiamo battere il ferro intanto che è caldo. Diversamente torniamo dai committenti e chiediamo cosa ne dicono: siamo sicuri che ci daranno l’ok per allargare il progetto fino al punto da cambiare il quartiere residenziale in cui abitare. Il sovrintendente prende atto a malincuore e torna all’ipotesi del tecnico della manutenzione ordinaria. Resta il forte dubbio che i progettisti non avessero affatto le idee chiare sul come procedere, che avessero presentato in fretta e furia un progetto di massima e che si fossero resi conto immediatamente dell’inagibilità dello stesso pena la perdita dell’incarico. E allora con un pretesto piuttosto malizioso e capzioso hanno buttato “il prete nella merda”, cercando addirittura di buttare nella merda il sovrintendente reo di avere lucidamente scoperto le loro manchevolezze e incertezze.

Tutto a quel punto faceva pensare ad un ritorno più o meno precipitoso alle urne con l’apertura di un’altra campagna elettorale, ammesso e non concesso che fosse terminata quella precedente, con la richiesta agli elettori se fossero disposti persino ad uscire dall’Euro, sull’onda scriteriata di uno scontro istituzionale col presidente della repubblica, con il rischio  di  fare a brandelli la Costituzione, di inasprire i rapporti con i partner europei, di frastornare ulteriormente gli italiani con una gara a chi è capace di gridare più forte. Invece con un colpo di teatro chi si era scandalizzato per le osservazioni presidenziali le ha fatte proprie, ha aggiustato la compagine di governo rendendola almeno passabile, è tornato “canossianamente” al Quirinale per chiudere una vergognosa pantomima e varare un governo che peggio di così non poteva partire. Non resta che aspettare per verificare se il tanto enfatizzato cambiamento ci sarà e come sarà. In meglio o in peggio? Sinceramente non penso di essere mai stato tanto scettico come di fronte alla nascita del governo Conte.

E gli italiani? Avranno nel frattempo capito qualcosa in più o saranno ancor più frastornati? I contendenti usciti vincitori dalle urne del 04 marzo sapranno mantenere, almeno in parte, le promesse, troveranno un modus vivendi populista oppure, rendendosi conto dell’impossibilità di applicare un “contratto velleitario”, si rifugeranno alla svelta in un gioco al rialzo magari scontrandosi fra di loro. La loro alleanza sarà strategica o meramente tattica per poi lasciarsi e non incontrarsi mai più o faranno finta di lasciarsi per darsi appuntamento al governo di cambiamento bis. Gli altri partiti cosa faranno? Reagiranno a questo strano e suicida bipolarismo? E nel frattempo l’economia e la finanza avranno avuto la pazienza di aspettare i nostri ridicoli contorsionismi rivoluzionari? E l’Europa ci seppellirà sotto una risata? Chi sopravvivrà, probabilmente (non) vedrà!

 

 

La caciara di Cacciari

È ben nota la stucchevole vocazione degli italiani a svolgere il ruolo di commissario tecnico della nazionale di calcio; durante il recente caos politico post-elettorale e pre-governativo si sono scoperti (anche e addirittura) tutti presidenti della Repubblica in pectore rovesciando una valanga di ingiustificate e malevoli critiche su Sergio Mattarella, scantonanti talora nel vero e proprio reato di vilipendio nei confronti del Capo dello Stato su istigazione irresponsabile degli inqualificabili e squallidi protagonisti dell’attuale politica italiana, i cosiddetti vincitori delle ultime elezioni, ai quali va assegnata, come minimo, la palma dei perdenti sul piano del buongusto e della correttezza.

Mi ha sinceramente stupito che a questa paradossale gara di tiro a Mattarella partecipi gente culturalmente altolocata, come ad esempio il filosofo Massimo Cacciari, il quale, partecipando ad un dibattito televisivo, ha rivolto critiche al Presidente della Repubblica, per fortuna non sguaiate e triviali, ma ugualmente offensive per la loro superficialità e banalità. Cosa sostiene l’autorevole uomo di cultura, a cui consiglierei di rifugiarsi finalmente nel bunker universitario per un periodo di isolamento dalla politica parlata, evitando il rischio di passare alla storia per le cavolate politico-istituzionali sparate nei salotti televisivi piuttosto che per le apprezzabili e profonde analisi filosofiche. Massimo Cacciari, rispondendo alle domande dell’insipida ed opportunistica moderatrice Lilly Gruber, ha fatto, col senno di poi, la lezioncina a Mattarella: il Presidente avrebbe dovuto logorare i protagonisti della scena post-elettorale, dando, al buio, l’incarico di formare il governo prima a Salvini, quale leader della coalizione di centro-destra e poi a Di Maio quale rappresentante del maggior partito. Questi signori, privi di maggioranza a livello parlamentare, sarebbero andati a sbattere, dopo di che Mattarella avrebbe potuto giocare in modo vincente la carta del suo governo tecnico. Se, ascoltando Salvini, mi sento al volgare bar sport della politica, ascoltando Cacciari mi sono sentito all’insulso salotto istituzionale: forse, tutto sommato, è meglio il bar salviniano, almeno lì c’è gente che non ha la puzza sotto il naso.

Ma torniamo al merito dei ragionamenti (?) cacciariani, nei quali esiste un equivoco di fondo: Mattarella non è un capo-partito che intende fregare l’avversario politico, un libero pensatore con licenza di navigare intellettualmente a vista, un personaggio preoccupato di mettere in buca chi la pensa diversamente da lui, o, ancor peggio, un bluffante giocatore di poker. Mattarella è il Presidente della Repubblica: “rappresenta l’unità nazionale” e, non a caso, “prima di assumere le sue funzioni, presta giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione dinanzi al Parlamento in seduta comune”. Non può giocare al massacro post-elettorale, partendo dal presupposto che gli eletti dal popolo non valgano nulla (anche se purtroppo nel caso di queste elezioni, e non solo in queste, può essere vero) e quindi debbano essere portati al fallimento per poi costruire qualcosa sulle loro macerie. Che senso poteva avere incaricare Matteo Salvini di fare un governo di centro-destra dal momento che questa coalizione era lontanissima dall’avere una credibile maggioranza in Parlamento? Analogo discorso per il M5S ed il suo leader. Queste mosse avrebbero solo logorato i partiti e spento sul nascere ogni possibilità di formare un governo sulla base delle indicazioni elettorali: quella sì che sarebbe stata una surrettizia prevaricazione rispetto alla volontà popolare. Mattarella ha scelto la strada maestra, a rischio di sporcarsi le scarpe, ma ha fatto benissimo, perché non poteva permettersi il lusso di giocare a non fare il governo politico per scodellare poi il governo tecnico e farlo bere a tutti.

Solo dopo avere verificato pazientemente e correttamente la inesistenza di una maggioranza politica in Parlamento e la mancanza della volontà di formare una coalizione programmatica solida e credibile, ha ripiegato sul governo tecnico, pronto a riaprire il discorso politico qualora ne spuntassero i presupposti. Così è andata ed è venuto fuori il contratto del governo di cambiamento a cui il Presidente ha però posto un inevitabile alt a livello ministeriale, come previsto espressamente nei suoi poteri di scelta dei ministri e nei suoi doveri di garanzia costituzionale. Solo allora ha ripreso corpo l’ipotesi del governo tecnico, tenuto in sospeso per l’incertezza e l’incoerenza dei protagonisti a livello partitico fino al definitivo e strambo accordo raggiunto in zona Cesarini.

È ben curioso che un autorevole uomo di cultura, peraltro già impegnato in qualche modo nell’agone politico, critichi Mattarella per non aver snobbato la politica, logorandone i protagonisti con la settimana enigmistica alla mano: butto giù Salvini, poi elimino Di Maio e finalmente impongo nei fatti il governo tecnico.  Dio ci scampi e liberi da un presidente della repubblica che fa il bullo istituzionale, come vagheggia Massimo Cacciari. Di bulli ne abbiamo anche troppi e mi stupisce che Cacciari abbia contratto, seppure in forma ancora lieve, la malattia del bullismo: intanto che è ancora in tempo si curi, si autoricoveri all’università, faccia il suo mestiere, scriva libri di filosofia, impartisca lezioni ai suoi studenti e lasci stare la politica che, almeno per il momento, non fa per lui.