La fabbrica del freddo e della paura

Siamo effettivamente condizionati da un surplus informativo forse più alienante della carenza di notizie. È molto più comodo creare i fatti in modo artificioso, enfatizzando la normalità, che approfondire i fatti reali cercandone le cause. In questi giorni tutti i telegiornali aprono e si dilungano sul freddo intenso che ha colpito l’Italia: servizi giornalistici sulle nevicate, ansia da temperature polari, ghiaccio paralizzante su strade, aeroporti e ferrovie. Vorrei capire cosa c’è di strano che in gennaio faccia freddo, che il termometro scenda abbondantemente sotto lo zero, che il gelo stringa l’ambiente in una morsa, che nevichi abbondantemente. Sarebbe più strano e farebbe notizia che perdurasse l’insolito tepore a cui ci siamo abituati, dando la colpa al surriscaldamento atmosferico dovuto all’inquinamento. Invece è tornato il freddo e non possiamo farcene una ragione.

Ricordo negli anni della mia fanciullezza e giovinezza le temperature polari, i geloni ai piedi, la neve che imperversava da dicembre a marzo senza soluzione di continuità, il ghiaccio che consentiva il pattinaggio nel laghetto del giardino pubblico, ma che purtroppo provocava cadute e infortuni, la viabilità compromessa, le polemiche sullo sgombero della neve fra pubblico e privato, le malattie da raffreddamento che rendevano problematica la presenza a scuola e sul lavoro. Oltre tutto gli ambienti erano molto meno riscaldati di oggi, i mezzi tecnici per affrontare le emergenze erano assai più scarsi e inefficaci, non esistevano i vaccini anti-influenzali, il solo uscire di casa rappresentava un serio problema, certe attività lavorative soffrivano uno stop con ricadute in termini di redditualità. Si conviveva col freddo molto più intenso di quello odierno per il quale creiamo ansia e preoccupazione eccessive.

I casi sono due: o eravamo fatalisti e accettavamo i disagi stagionali con troppa filosofia o siamo diventati insofferenti a tutto, pretendendo addirittura di guidare e controllare gli andamenti stagionali. L’informazione ci mette in questa strana situazione e crea problemi laddove non esistono o, se esistono, rientrano nella normalità. Tutto quanto fa notizia, soprattutto quanto non è notizia. Sono stanco di questo andazzo, anche perché vedo i veri problemi, i veri fatti, tranquillamente bypassati dall’informazione civettuola e superficiale.

Faccio un esempio passando alla situazione finanziaria ed ai mercati borsistici: Wall Street crolla perché il mercato informatico di Apple si sta esaurendo. Ci voleva poco a capirlo: la gente è piena zeppa di telefonini, smartphone, computer, etc., non potrà mangiarseli per fare un piacere ai mercati del settore. Cosa c’è quindi di strano e catastrofico? Che prima o poi la borsa americana dovesse scontare le smargiassate di Donald Trump era più che prevedibile: stiamo bruciando non risorse economiche reali, ma miliardi di aria fritta. Niente di spaventoso, come vogliono farci credere i media da strapazzo. È molto più comodo cavalcare le tigri di carta che andare alla ricerca di quelle vere.

In questo bailamme informativo siamo tutti sommersi non solo da notizie false, ma da non-notizie, che pretendono di orientare le nostre scelte e i nostri comportamenti. È normale che in questo clima fasullo trionfino i ciarlatani di turno. Il fenomeno migratorio rientra perfettamente in questo clima ansiogeno creato dai seminatori di paura. Se abbiamo paura del freddo immaginiamoci dell’arrivo di migliaia di nostri simili che ci vengono a chiedere conto del nostro passato e ci presentano la lista degli errori commessi. Ma anche qui i dati sono fantasiosi, le notizie gonfiate, le situazioni enfatizzate. La paura fa novanta, forse addirittura novantuno. A quando recuperare il senso della realtà e la dimensione dei problemi? Viviamo di ansie, mentre dovremmo vivere di idee.

 

Una sassata nei vetri o nello stagno?

Ho l’impressione che il sindaco di Palermo Leoluca Orlando abbia tirato un “sassone” nella piccionaia legastellata. Egli infatti ha annunciato la sospensione, nella sua città, degli effetti del decreto sicurezza, soprattutto con riferimento all’impossibilità per gli immigrati di iscriversi all’anagrafe alla scadenza del permesso di soggiorno per motivi umanitari con la conseguente esclusione da una serie di diritti in campo sociale. Orlando ha avuto il coraggio di mettere il dito nella piaga dal punto di vista costituzionale, ma anche sul piano politico.

Non ho approfondito la materia giuridica per la quale non mi sento dotato di preparazione ed esperienza. Da quanto ho potuto capire il discorso riguarda il riconoscimento e il rispetto di diritti fondamentali previsti dalla nostra Costituzione per soggetti pur precariamente accolti ed inseriti nel nostro contesto economico e sociale. Se ben ricordo già il Presidente della Repubblica aveva espresso dubbi e riserve su un’opera legislativa delicatissima, impostata ed attuata con il garbo di un elefante in un negozio di cristalleria. Ora ci torna sopra con decisione il sindaco di una importante città a cui peraltro si sono aggiunti altri suoi colleghi, seppure con sfumature e convinzioni diverse, da Luigi de Magistris (sindaco di Napoli) a Giuseppe Falcomatà (primo cittadino di Reggio Calabria), da Federico Pizzarotti (sindaco di Parma) a Dario Nardella (sindaco di Firenze) e Alessio Pascucci (sindaco di Cerveteri). Si tratta di una levata di scudi istituzionale, motivata sul piano giuridico in difesa dei principi costituzionali.

La reazione governativa è per il momento quella del ministro degli Interni Matteo Salvini, l’ispiratore di questo provvedimento legislativo: il primo acconto pagato all’elettorato particolarmente sensibile al discorso del contenimento tout court dell’immigrazione. Il vicepremier, come suo solito, la butta in rissa, minimizzando la questione e dipingendola come un’iniziativa di qualche sindaco di sinistra per dar contro a Salvini e alla Lega,  sollevando brutalmente il discorso dell’obbligo di rispettare la legge con eventuali conseguenze personali sul piano legale, civile e penale,  evocando un eventuale verifica elettorale con i sindaci ed i loro cittadini, cavalcando lo stucchevole e pretestuoso motivo conduttore del “prima dobbiamo pensare ai milioni di italiani poveri e disoccupati, difendendoli dai troppi reati commessi da immigrati clandestini”, mettendo in discussione il diritto all’assistenza sanitaria gratuita per qualsiasi clandestino (sono testuali parole del ministro), nascondendosi dietro altre misure ad effetto contenute nello stesso decreto (lotta alla mafia e all’abusivismo, potenziamento delle forze dell’ordine, conferimento ai sindaci di poteri straordinari), finendo con la formula di rito (“Per scafisti, trafficanti di esseri umani e mafiosi è finita la pacchia. Forse qualcuno di questi sindaci rimpiange business miliardari”).

La mossa orlandiana, opportuna dal punto di vista etico ed istituzionale (non è un caso se avviene, con perfetto tempismo e omogenea intonazione, rispetto all’intervento in chiusura del 2018 del Presidente Mattarella), ha precisi significati ed effetti politici. Innanzitutto punta a ricollocare con chiarezza le forze politiche: a destra chi è di destra, a sinistra chi è di sinistra. Non è certo un caso che Forza Italia, impegnata in un attacco antigovernativo in materia di manovra economica, abbia immediatamente aggiustato il tiro, schierandosi in difesa del decreto sicurezza e facendo quadrato sulle misure in esso contenute. Il partito democratico, seppure con una certa timidezza e mettendo in evidenza un certo ritardo nei tempi ed un certo spiazzamento nella strategia, si è schierato dalla parte dei sindaci.

E il movimento cinque stelle? Il decreto sicurezza era già terreno di scontro interno: le espulsioni delle ultime ore sono legate soprattutto a questo provvedimento più subito che voluto dai pentastellati. I sindaci coinvolti nella polemica non sono lontani dall’elettorato grillino. Gli elettori di questo anomalo partito come reagiranno? Continueranno a berla da botte o cominceranno a porsi qualche domanda?

E il mondo cattolico, a cui peraltro Leoluca Orlando è legato da antica ma forte ispirazione e frequentazione, cosa dirà? I cattolici mi sembrano stretti nella morsa valoriale tra Mattarella e papa Francesco, sollecitati, seppure in modo piuttosto soft, dai nuovi vertici della Cei, messi in crisi di coscienza da un governo che si colloca sempre più lontano dai principi cristiani. Non c’è da illudersi: il richiamo della foresta securitaria è sempre molto forte, ma… Non so se la provocazione del sindaco di Palermo avrà solo l’effetto di una sassata contro i vetri governativi alquanto infrangibili oppure quello di una pietra gettata nello stagno, che smuove le acque delle coscienze dei cittadini e provoca onde concentriche sulla superficie della politica.

Le repubbliche degli ignoranti

L’ex candidato presidenziale repubblicano Mitt Romney ha lanciato un duro attacco al presidente americano Donald Trump, proponendosi come nuova voce critica del Grand Old Party dopo la morte di McCain e l’uscita di scena di alcuni senatori ‘dissidenti’. Romney sostiene che la condotta di Trump “negli ultimi due anni, in particolare le sue azioni in questo mese, sono la prova che il presidente non è stato all’altezza dell’incarico” e che la presidenza Trump è “caduta profondamente” in dicembre con “le partenze del capo del Pentagono Jim Mattis e del capo dello staff della Casa Bianca John Kelly, la nomina di alti dirigenti di minore esperienza, l’abbandono degli alleati che hanno combattuto accanto a noi”.

In Italia il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Walter Ricciardi, si è dimesso dal suo incarico con motivazioni inquietanti: “Questo governo ha posizioni antiscientifiche. Un vicepremier dice che per lui, da padre, i vaccini sono troppi e dannosi. Ma che vuol dire? Frasi insensate anche su termovalorizzatori e legami tra immigrazione e malattie”. Non mi interessa se effettivamente i motivi della rinuncia siano questi o rientrino in un gioco politico e in scontri polemici con pesanti accuse reciproche. Il punto sta nel fatto che le accuse di Ricciardi al governo sono oggettive e trovano ampio ed indiscutibile riscontro.

Due episodi che nella loro gravità ci stanno a dimostrare ulteriormente che, per quanto concerne Trump, il mondo è nelle mani di un personaggio culturalmente, prima che politicamente, inadeguato, mentre, per quanto riguardo l’Italia, l’attuale governo è, addirittura, scientificamente inaffidabile. Prima della politica dovrebbero venire la scienza, la cultura, la preparazione, l’esperienza: sono diventate un optional, non servirebbero a nulla, sarebbero un fastidioso orpello in mano ai poteri forti. Della serie meglio ignoranti che venduti al potere.

Mio padre mi ha insegnato che durante il periodo fascista il più ignorante e stupido personaggio, per il solo fatto di avere in tasca la tessera di partito, poteva essere tranquillamente collocato in importanti posizioni non solo politiche, ma anche culturali e scientifiche. Un male che purtroppo dal fascismo (e da tutti i regimi anti-democratici) è stato trasmesso al partitismo. Mentre però il partitismo è una degenerazione della democrazia, l’autoritarismo nega la democrazia nei suoi presupposti, fra cui ci dovrebbe essere il pieno riconoscimento dell’autonomia della scienza e della cultura. Stiamo cioè rischiando grosso, sovvertendo, in nome di un fantomatico potere popolare, l’impostazione delle regole democratiche (l’autonomia della cultura, l’indipendenza della scienza, la separazione dei poteri, il ruolo del Parlamento, il rispetto della professionalità dei quadri dirigenti).

C’è un filo nero che collega Trump, Putin, Erdogan, Bolsonaro, Duterte, Orban, Salvini e Di Maio: il sentirsi autorizzati, in base ad un mandato elettorale, talora assai discutibile nella quantità e qualità dei consensi, a rimettere in discussione le basi della vita di una società democratica. Passiamo dalle monarchie assolute alle repubbliche ignoranti: molto più pericolose le seconde rispetto alle prime.

Ricordo i rari colloqui tra i miei genitori in materia politica: tra mio padre antifascista a livello culturale prima e più che a livello politico e mia madre, donna pragmatica, generosa all’inverosimile, tollerante con tutti. «Al Duce, diceva mia madre con una certa simpatica superficialità, l’à fat anca dil cozi giusti…». «Lasemma stär, rispondeva mio padre dall’alto del suo antifascismo, quand la pianta l’é maläda in-t-il ravizi a ghé pòch da fär…». Poi si lasciava andare a sintetizzare la parabola storica di Benito Mussolini, usando questa colorita immagine: «L’ à pisè cóntra vént…». Non so quale sarà la parabola dei suddetti inquietanti personaggi, mi preoccupa molto cosa sarà di noi che stiamo perdendo il buon senso della democrazia.

 

Un premier di cartone

Ho seguito, seppure parzialmente, la conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio Giuseppe Conte: non riesco a definire compiutamente questa performance di stampo pirandelliano. Il premier italiano è un personaggio molto strano, che viaggia sul filo del rasoio della pseudologia fantastica o bugia patologica, vale a dire dell’elaborazione intenzionale e dimostrativa di esperienze ed eventi molto poco probabili e facilmente confutabili. Il suo parlare resta costantemente in bilico tra verità e bugie, quando non riesce ad essere clamorosamente sgusciante.

Ascoltandolo, si passa continuamente da un cauto giudizio di relativa abilità e capacità a una netta e inappellabile condanna per impreparazione politica e tecnica: non ha infatti le conoscenze e l’esperienza tecnica per supplire alle evidenti carenze di carattere politico. Il tutto viene condito con un certo savoir faire, col quale si sottrae alle polemiche stringenti ed alle critiche pesanti. È molto attento a non esporsi troppo in prima persona, ben consapevole dei condizionamenti partitici che lo stringono da ogni parte, nello stesso tempo è abilmente capace di smarcarsi dai tallonamenti grillini e leghisti ponendosi come mediatore tra queste forze politiche assai diverse e molto imprevedibili.

Non mi sentirei di definirlo un “bagolone” e nemmeno un “gabbiano”. È dotato di una certa abilità dialettica, con la quale riesce a districarsi nelle situazioni più ingarbugliate. Porta una certa moderazione di toni in un governo di urlatori, aggiunge un tocco di classe ad una compagine sgangherata, brutale e rozza. Tutto sommato si riesce ad ascoltarlo, ma, quando ha finito di parlare, ci si chiede cosa abbia detto.

Faccio qualche piccolo esempio. Gli viene imputato il fatto di aver fatto approvare la manovra economica a livello parlamentare con un drastico “prendere o lasciare”. Fortunatamente non nega l’evidenza, ma si giustifica con i tempi stretti imposti dalla faticosa trattativa con la Commissione europea e con la conseguente necessità di trovare i correttivi di bilancio per renderla digeribile in sede Ue. È stato necessario correre per evitare la procedura d’infrazione e trovare la quadratura del cerchio. Non è proprio così: si doveva partire per tempo col piede giusto invece di puntare ad un pericoloso tiro alla fune con le istituzioni europee. Quando si è capito di non poter esagerare e si è scesi a più miti consigli, i tempi stringevano e il Parlamento è andato a farsi benedire.

Gli viene contestato il fatto di avere trascurato punti importanti del programmo (contratto) di governo, come la lotta all’evasione, l’alleggerimento fiscale per il ceto medio, il sostegno alle imprese, ed altro: lui si sottrae alle critiche, chiedendo tempo e garantendo la durata istituzionale del suo governo. Non è proprio così: il problema è che tra il dire elettorale e il fare governativo c’è di mezzo il mare della finanza pubblica. Quando gli si fa presente come le forze che lo sostengono siano piuttosto litigiose e marchino nette differenze su punti programmatici assai rilevanti, lui si schermisce e si rifugia nel suo fantomatico carisma di “primus inter pares” e nella sua vacua capacità di mediare. Infatti, di carisma ne ha ben poco, di abilità mediatrice ancor meno, il tutto si risolve nella confusione o nel rinvio.

Devo ammettere di averlo inizialmente sottovalutato e successivamente snobbato. Ora che il suo profilo emerge con maggiore evidenza, confesso di essere perplesso e sfiduciato. Mia sorella, per certi versi più netta di me nei giudizi, direbbe, usando una gustosa espressione dialettale: “niént pighè in t’na cärta” oppure “da lù a niént da sén’na…”. Mio padre lo assolverebbe con un generoso “al n’é miga un stuppid”. Io rimango sulle mie, non mi sento di buttargli la croce addosso, ma nemmeno di dargli credito. È un uomo garbato, non è uno sbruffone, non è antipatico, sa stare al suo posto. Cosa riesca a combinare è tutto un altro discorso…

Vivamente presidente

Una lezione di stile. La classe non è acqua. Mi sento di commentare così, a caldo, l’intervento di fine anno del Presidente Mattarella. Mia madre dalle persone investite di alti incarichi pretendeva molto, esigeva persino ingenuamente “le physique du rôle”. I medici, ad esempio, li voleva alti, distinti, brizzolati e occhialuti; anche gli uomini di Chiesa: non concepiva un vescovo piccolo e dimesso. Ricordo una interpretazione televisiva del grande Sergio Fantoni, che impersonificava un neurochirurgo di grande fama, nel contesto di una storia struggente. Di fronte a tale figura sbottai bonariamente verso mia madre dicendo: “At tazrè! Al la sarà col lì un dotor!”.

Sergio Mattarella non ha una particolare prestanza fisica, ma possiede lo stile, molto più importante, che non è forma, ma sostanza, in cui mette una credibilità fatta di storia personale, di competenza professionale, di esperienza istituzionale e dotazione valoriale. È il Presidente! Mio padre diceva: «L’è al ton ca fa la musica». Il capo dello Stato lo ha dimostrato ancora una volta, riuscendo con grande rispetto e misura a dire il suo parere su tutto ciò che bolle in pentola nella vita del nostro Paese. Molti si affannano a chiosare il suo discorso, ad evidenziarne particolari passaggi, ad esprimere concordanze. Non c’è niente da aggiungere e da commentare: un tutt’uno da prendere o lasciare. Egli esprime un’idea di Paese comunitariamente unito, solidale, dialogante, collaborativo, aperto, responsabile, equilibrato. Se ho parecchie difficoltà a riconoscermi nella classe politica italiana, dopo aver ascoltato Mattarella, mi sento pienamente italiano.

Egli riesce a “intromettersi” nella politica con eccezionale sobrietà e non le manda a dire ai governanti, gliele dice tutte con rispetto dei ruoli e delle funzioni. Riesce a dialogare coi cittadini richiamandoli all’ordine con la serietà e la serenità necessarie. Dice, con sincerità abbinata a comprensione, tutto a tutti: ognuno può ritrovarsi dentro le sue parole e dentro la sua visione. Che Presidente! Attento, senza pietismi e demagogie, ai problemi della gente, mettendo in fila i valori: sì, perché è tutta questione di priorità nei principi. Se si sbaglia la scala si è perduti. Ed è quanto sta succedendo nelle attuali vicende e scelte governative.

Non posso esimermi dal sottolineare un passaggio del discorso di fine anno, un semplice aggettivo, probabilmente aggiunto rispetto al testo predisposto, detto col cuore: “vivamente”.  Lo ha speso quando ha invitato tutti, vivamente, a riconsiderare nel metodo e nel merito la manovra economica, la legge di bilancio. Qualcuno la chiama “moral suasion”, io preferisco chiamarla rimprovero costruttivo. Sergio Mattarella non fa che rimproverarci, ma lo sa fare così bene che non possiamo irritarci, anzi siamo costretti a ripensare quanto facciamo. Un parlamentare amico, già durante la scorsa legislatura, mi diceva: «Non hai idea di quanti siano, pur nella massima correttezza istituzionale e nei limiti rigorosamente rispettati, gli interventi sotto traccia del Presidente della Repubblica al fine di evitare errori, svarioni, inconvenienti…». Tutto senza prevaricare, senza debordare, senza pesare. La gente lo capisce e lo apprezza. Resta da chiedersi perché non lo capisca e non lo apprezzi quando entra nella cabina elettorale. Questo interrogativo non se lo pone Mattarella, il quale rispetta sempre e comunque la volontà degli elettori, me lo pongo io, ancor più dopo avere ascoltato il suo discorso augurale.

L’abito non fa la politica

Durante le animate ed approfondite discussioni con l’indimenticabile amico Walter Torelli, ex-partigiano e uomo di rara coerenza etica e politica, agli inizi degli anni novanta constatavamo che alla politica stava sfuggendo l’anima, se ne stavano andando i valori e rischiava di rimanerci solo la “bottega” ed al cittadino non restava che scegliere il “negozio” in cui acquistare il prodotto adatto alla propria “pancia”. Fummo facili profeti: dopo il craxismo, che aveva intaccato le radici etiche della democrazia, venne il berlusconismo a rivoltare il sistema creando un vero e proprio regime ed eccoci arrivati all’antipolitica che fa di ogni erba un fascio o, se vogliamo essere cattivi, che fa del fascio un’erba accattivante.

La politica ha perso identità, assieme all’acqua sporca dell’ideologia abbiamo buttato anche il bambino dei valori e nel giro di qualche decennio ci siamo trovati democraticamente nudi. In una pappagallesca gara al peggior offerente, tentiamo disperatamente di coprire le vergogne, inalberando cartelli e indossando magliette e gilet. Se i grillo-leghisti eccellono nella improvvisata e incoerente ostentazione di maglie (siamo tutti poliziotti, siamo tutti protettori civili), i forzisti, rimasti senza voti, senza piazza e senza dignità (un passo oltre la perdita dell’identità), fanno indossare ai deputati, durante il dibattito (?) alla Camera sulla manovra economica, pettorine azzurre con scritte di vario tipo: “Basta tasse”, “Giù le mani dalle pensioni”, “Giù le mani dal no-profit”.

Non ne faccio una questione di merito (la manovra di bilancio è in continua involuzione, di essa non si capisce niente, quel poco che emerge è senza dubbio censurabile), ma di metodo.  Un Parlamento, dove succedono tutte le cose suddette e forse anche di peggio, può essere tranquillamente ribattezzato “pirlamento”, come ho sentito dire a margine di una lucida e spietata analisi politica formulata da una simpatica anziana signora. Se finisce così, stiamo facendo un perfetto assist qualunquista alle forze dell’antipolitica. Berlusconi vorrebbe allargare la protesta portandola in piazza. Se può avere un senso la sua ansia di riportare il discorso sull’economia per recuperare il consenso delle forze intermedie imprenditoriali, deluse dall’inconcludenza e dalla contraddittorietà leghista, non ha alcun senso scopiazzare il compito in classe altrui, anche perché l’esperienza scolastica insegna che per copiare bisogna essere capaci, altrimenti si aggiunge la scorrettezza all’ incompetenza e all’impreparazione.

In piazza bisogna saperci stare e faccio fatica a vederci Berlusconi con i suoi azzimati e petulanti adepti. Un tempo la cavalcata delle piazze era una specialità della sinistra e dei sindacati dei lavoratori: fanno molta fatica anche loro a recuperare credibilità e consenso a questo livello. Rimane una stucchevole rincorsa alla protesta. La sinistra andava a nozze quando si trattava di essere sistematicamente “contro”: contro i padroni, contro i neo-fascisti, contro i clericali, contro la Nato, contro l’Europa, contro gli Usa, contro i democristiani, etc. etc. Il “contro” oggi è interpretato, in un mix tra destra e sinistra, dall’accozzaglia penta-leghista. Non basta adottarne il metodo per recuperare credibilità e consenso. Meglio cambiare tattica. Forse bisognerebbe soprattutto avere una strategia.

Maglie per tutte le occasioni

Insomma, questi autorevoli (?) vicepremier non ne azzeccano una. Un po’, effettivamente, esagerano a livello di esposizione mediatica, un po’ sono in continua e smaccata propaganda, un po’ non hanno l’equilibrio necessario a coprire certi incarichi, un po’ non sono mostri di coerenza, un po’ c’è chi non aspetta altro che beccarli con le dita nella marmellata. Luigi Di Maio è andato in visita ai luoghi etnei colpiti dal terremoto ed ha indossato la maglia della Protezione civile. L’ex capo di questo Dipartimento, Guido Bertolaso, in una lettera aperta gli ha chiesto di togliere quella maglia, indossata, a suo dire, per motivi propagandistici.

Nella missiva pubblicata dal Corriere della Sera, Bertolaso si è rivolto con toni non proprio “soft” al ministro del Lavoro: “Capisco che deve cercare di scimmiottare il suo collega che con la maglia della polizia si fa fotografare con avanzi di galera, ma quello almeno è coerente e ha inoltre la delega per quel settore. Lei, con i suoi colleghi e opinionisti, signor Di Maio, non ha mai esitato nel gettare fango su quell’istituzione della quale oggi si ammanta, ci ha insultati a L’Aquila, dove solo oggi si rende giustizia al nostro operato anche, ahimè, facendo paragoni dolorosi con le recenti tragedie. Se vuole indossarlo, quello stemma, caro Ministro, cominci con il rendere omaggio alle tre medaglie al merito civile che quella maglia si è guadagnata nei primi anni di questo millennio e chieda scusa per quell’abominevole tassa sul terzo settore dal quale provengono quegli splendidi volontari che non hanno mai avuto vergogna ad indossarla, quella maglia”.

Dalle parole di Bertolaso traspare tutta l’amarezza e la rivalsa per essere stato in passato messo brutalmente sul banco degli imputati con accuse riguardanti la sua gestione della Protezione civile. Come troppo spesso accade nel nostro Paese a livello giudiziario, a distanza di tempo è stato scagionato, quando ormai la frittata era fatta. Tuttavia se togliamo questo dente avvelenato, nelle sue dure parole troviamo una perfetta sintesi fotografica del modo di stare in politica di Luigi Di Maio e compagnia cantando.

Quando erano all’opposizione, in Parlamento e nelle piazze distruggevano sistematicamente e continuamente tutto ciò che passava loro dinnanzi: istituzioni, strutture, leggi, regolamenti, strumenti; tutto rientrava, a loro dire, nella pattumiera di regime dei cosiddetti poteri forti. Buttavano via precipitosamente e demagogicamente il bambino assieme all’acqua sporca; ora che si sono installati al governo, i bambini gettati tra i rifiuti organici tornano d’attualità e si trovano a doverli gestire e per forza di cose a doverli rivalutare e utilizzare. Non solo, ma addirittura, facendo buon viso a cattiva sorte, cavalcano quelle tigri che un tempo volevano abbattere, perpetuando una sorta di circo equestre della politica. A volte però sfugge loro di mano la situazione e si danno martellate sulle dita, attaccando e danneggiando proprio quelle cose su cui dovrebbero imbastire la tanto sbandierata loro azione rinnovatrice.

Ne sortisce l’effetto teorico e pratico di un polpettone populista, per ora gradito a molti cittadini, che presto diventerà stomachevole o addirittura vomitevole. Tanto va la gatta ala lardo che ci lascia lo zampino. Vale per i cinquestelle ed i leghisti, che non perdono occasione per “fanfaroneggiare”; vale per i cittadini che li hanno eletti, i quali si trovano improvvisamente, come sta succedendo per i pensionati, ad essere impallinati dalle armi degli amici. Nelle guerre si dice siano parecchie le vittime del fuoco amico e siccome questi signori hanno dichiarato guerra alla politica, tra gli applausi degli ingenui e degli arrabbiati, molti rimarranno sul campo a leccarsi le ferite lievi, a digrignare i denti per le ferite gravi, a morire per i colpi più brutali o più difficili da evitare. E guerra sia, con tanto di magliette indossate per l’occasione, cambiando idea così come si cambia una maglia.

La politica in pasticceria

Pietro Ferrero, un pasticcere piemontese, ha l’idea di creare una pasta dolce con nocciole, zucchero e il poco cacao disponibile subito dopo la seconda guerra mondiale. Le dà la forma di un panetto, in modo da poterla tagliare e gustare su una fetta di pane e la battezza “Gianduiot”. Siamo nel 1946. Questa deliziosa pasta nel 1951 viene trasformata in una crema spalmabile chiamata “Supercrema”: è l’antenata della famosa “Nutella”. Nel 1964 dopo prove ed esperimenti nasce la crema più famosa al mondo, battezzata appunto “Nutella”.

Non ce li vedo proprio Aldo Moro ed Enrico Berlinguer che si lasciano fotografare mentre fanno colazione con la “Nutella”. Lo ha fatto invece in questi giorni Matteo Salvini. Di prima mattina, il ministro dell’Interno si scatta il solito selfie gastronomico: «Il mio Santo Stefano comincia con pane e Nutella, il vostro?». La foto – nel giorno del terremoto a Catania ed a 24 ore dall’agguato al parente di un pentito di ndrangheta a Pesaro – va subito di traverso a parecchi. “Un selfie demenziale”. “Si deve dimettere”. Scoppia un interminabile putiferio polemico in cui Salvini guazza con la sua verve popolana, che tanto piace agli italiani (almeno così sembra).

I social possono diventare una macchina infernale con la quale si scherza su tutto e le sguaiate risate diventano consenso politico. Quanti si abbassano a polemizzare a questo infimo livello finiscono col fare il gioco di chi sta rendendo la politica un gioco.  D’altra parte mi sono imbattuto sulle reazioni social al terremoto in provincia di Catania: roba agghiacciante, da far accapponare la pelle, non per la drammaticità dell’evento, ma per la superficialità e l’esibizionismo con cui veniva affrontato e commentato. La Nutella viene spalmata su tutto e tutti: non si riesce a parlare seriamente. Tutto fa (avan)spettacolo.

Forse un tempo la politica era imbalsamata in una gelida ritualità. Oggi è svaccata in una bollente trivialità. Una volta era ovattata in un linguaggio ricercato e felpato; in questi tempi è ostentata in un lessico rimbombante e fragoroso. Se sotto le parole prima si nascondevano le frigide ideologie, attualmente si copre l’impetuoso e ardente nulla. Preferivo aristocraticamente delegare la politica a coloro che la sapevano interpretare piuttosto che farne populisticamente materia di un contendere grossolano e scherzoso.

La sera stessa Matteo Salvini torna a bomba: «Un pensiero ai politici ed ai giornalisti di sinistra, che vivono male anche durante le feste. Pensare che oggi per molti siti il problema era Salvini che fa colazione con pane e Nutella. Avete dei problemi. C’è gente che ha rubato e mangiava caviale e champagne». Come volevasi dimostrare. Tutto serve, tutto fa brodo. Bisognerebbe avere il coraggio di tacere e di seppellire col silenzio i buffoni di corte, perché, prima o dopo, come avvenne a Rigoletto, arriva un Monterone assai convincente con la sua maledizione, che però colpisce non solo i buffoni, ma anche i loro incolpevoli parenti e amici. E ciò mi preoccupa molto più della Nutella a colazione.

Torno all’excursus storico con cui ho iniziato: da Pietro Ferrero a Matteo Salvini. Nel 2018 la politica usa Nutella per addolcire il palato amaro degli elettori e la ricetta sembra funzionare. Qualcuno sostiene che la Ferrero non abbia mai sbagliato il lancio di un prodotto. Forse è il caso che la sinistra si faccia inventare una contro-nutella. La politica diventerà – la è già – il gioco delle torte in faccia.

L’insana Scala del calcio

Mi sembra di ricordare che negli stadi calcistici i tifosi nordisti abbiano ripetutamente invocato un’eruzione del Vesuvio per seppellire i colleghi sudisti. Chiedo scusa, ma bisogna      cinicamente ammettere che il grido è stato ascoltato: anziché il Vesuvio si è messa in moto l’Etna. Forse delusi e innervositi da questo svarione vulcanico, i tifosi di Inter e Napoli han tentato di farsi giustizia da soli, scatenando il putiferio prima della partita di calcio, che allo stadio San Siro vedeva di fronte le loro squadre: un morto, alcuni feriti, etc. etc. La rissa è avvenuta un’ora prima della partita, che si è però regolarmente giocata. Poi durante la sfida calcistica c’è stata la solita performance razzista, scatenata contro il nero giocatore del Napoli Koulibaly a suon di cori insultanti, a cui il giocatore ha risposto con un equivoco applauso di scherno (rivolto all’arbitro, che lo aveva nel frattempo ammonito per un intervento di gioco scorretto, o al pubblico o a tutti due?), che gli è costato l’espulsione dal campo.

Fuori e dentro lo stadio di San Siro è andata in scena l’ennesima tragicommedia del calcio italiano. Le cassandre del giorno dopo invocano squalifiche, penalizzazioni, chiusura delle curve, provvedimenti duri. Potevano essere adottati prima della partita e durante la stessa. L’incontro non si doveva giocare: il preludio di morti e feriti doveva imporre di chiudere drasticamente il sipario. Invece si è giocato e durante la partita i tifosi, non contenti dell’apericena di via Novara, hanno brindato nei calici razzisti. L’arbitro, i suoi collaboratori, i responsabili dell’ordine pubblico non sono intervenuti: la partita andava immediatamente sospesa, invece il direttore di gara se l’è presa con il giocatore oggetto dei cori e lo ha espulso, perché ha osato irridere, con un gesto innocuo (un applauso), un po’ tutti, chi lo ha insultato a lungo, chi ha permesso che ciò avvenisse, chi gli ha sventolato il cartellino prima giallo e poi rosso, non capendo la sua esasperazione (per arbitrare serve il regolamento, ma anche il buon senso e un po’ di umana comprensione).

Il sindaco di Milano chiede scusa a nome della città, il questore chiuderà la curva, le autorità federali disporranno la disputa di due partite a porte chiuse più una terza con l’ingresso vietato ai soli tifosi della curva.  Il comportamento arbitrale viene sostanzialmente difeso o almeno giustificato. Le diverse autorità chiamate in causa non nascondono una certa qual polemica fra di loro. Che razza di casino… E tutto per una partita di calcio! Si intuisce chiaramente che non si vuole disturbare più di tanto il circo calcistico: troppi interessi in gioco. Lo scandalo durerà qualche giorno, sì e no il tempo di seppellire i morti e curare i feriti. Poi tutto tornerà come prima: lo spettacolo deve continuare.

I tifosi violenti (quelli che la partita non la guardano nemmeno, urlano improperi agli avversari, si scatenano nei pre e post partita, dettano legge a giocatori, allenatori, presidenti, spadroneggiano gli stadi e le zone intorno agli stadi) sono vissuti come terroristi del pallone, che non devono condizionarci e cambiare le nostre abitudini. Sì, continuiamo a tenere aperti gli stadi, a giocare come se niente fosse, facciamo finta di indignarci, salvo mettere non poco sale mediatico sulle ferite dell’antagonismo, prendiamo qualche provvedimento di facciata e tutto finisce lì.

Il sindaco di Milano ha dato una spruzzata alla torta: «Chiedo scusa a Koulibaly, a nome mio e della Milano sana. L’Inter? A me piacerebbe che a Empoli Asamoah portasse fascia di capitano». Un velo di zucchero sulla ciambella senza buco. Siamo ben lontani dalla Milano che, pochi giorni or sono alla Scala, aveva tributato un interminabile applauso al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Occorrerebbe un interminabile fischio verso il mondo del calcio di cui Milano si considera la capitale. San Siro non è forse considerata la Scala del calcio? E allora coraggio!

Le volpi leghiste e i gatti piddini

Il Natale leghista, stando ai numeri di un recentissimo sondaggio, porterebbe consensi in crescita a livello generale (tra il 30% e il 40%), ma un netto calo, negli ultimi mesi, al nord-ovest (3% in meno) ed al nord-est del Paese (8%), da sempre culle del movimentismo separatista prima e sovranista ora. La diffusa imprenditoria di queste aree si starebbe stancando delle menate salviniane: il malcontento delle categorie economiche sarebbe dovuto alle risposte lacunose in materia di grandi opere (le incertezze sulla Tav) e alle misure contenute nel decreto “Dignità” (provvedimenti in materia fiscale e di lavoro), visto come il fumo negli occhi.

Mi sembra che i sondaggisti facciano un po’ la punta al lapis: la Lega naviga sulla cresta dell’onda ed è piuttosto pignolo farle le pulci al nord, quando sta sfondando dappertutto. Probabilmente nel settentrione le aspettative covavano da tanto tempo ed erano cresciute a dismisura e quindi un po’ di delusione è inevitabile. Tuttavia l’elettorato leghista del nord-Italia e piuttosto disincantato e non si lascerà impressionare dal Salvini pensiero e aspetterà al varco la nouvelle vague governativa. Mentre il consenso pentastellato raccoglie tutti gli scontenti dell’antipolitica, quello leghista si basa su precise aspettative in materia di immigrazione, ordine pubblico ed economia.

Voglio essere fin troppo pragmatico. Saluterei con soddisfazione il passaggio dell’adesione elettorale dalle motivazioni di una fantomatica maggior sicurezza alle aspettative dettate dagli interessi economici: sarebbe comunque un passo avanti, dalle chiacchiere al portafoglio. Se uno come il sottoscritto, incallito idealista a tutti i livelli, arriva a tanto minimalismo spicciolo, vuol proprio dire che stiamo messi molto male. Credo, sotto sotto, sia la speranza berlusconiana: ricatturare l’elettorato di centro-destra su un discorso di convenienza economica, abbandonando ai cinquestelle le sirene moraliste e pauperiste.

In effetti, così come l’anticomunismo viscerale faceva finta di basarsi sulla difesa della libertà per puntare in realtà alla intransigente difesa dei soldi nelle proprie tasche, il leghismo potrebbe nascondere dietro il paravento delle paure per immigrazione e delinquenza l’ansia per la difesa dei propri interessi economici. Matteo Salvini ha tolto ogni e qualsiasi legame ideologico (separatismo ed autonomismo) ai programmi del partito e lo ha farcito di demagogia sociale ed economica. Se sul sociale la demagogia può reggere anche a lungo, in materia economica le balle stanno in poco posto e i nodi vengono rapidamente al pettine. Sarà così? In effetti se così succederà, per la sinistra saranno tempi sempre più duri, in quanto verrà ulteriormente schiacciata fra lo pseudo-idealismo, cavalcato dal M5S e ridotto ad antipolitica e demagogia populista, e il subdolo pragmatismo del centro-destra, eventualmente ricompattato su basi liberiste spinte con venature di populismo riformatore. Per la sinistra urge conquistare spazi di manovra e segnare il proprio territorio. Come fanno i gatti. Lasciamo stare come lo fanno.